La lotta rivoluzionaria risorse in Italia negli anni 1968-’69, sulla base della spinta politica impressa dalle vaste mobilitazioni operaie, proletarie e studentesche. Dopo anni di indiscussa egemonia revisionista sulla classe proletaria, dopo anni nei quali il movimento non si elevò punto al di sopra di una lotta tradunionista, di una lotta entro i limiti di una società borghese, ritornò di impetuosa attualità la parola d’ordine della conquista del potere politico e della dittatura del proletariato.
Sin dall’iniziale esplosione delle lotte di massa un problema risultò bensì centrale agli occhi delle vere avanguardie: come dare direzione politica al movimento di classe, quali fossero le forme dell’azione rivoluzionaria in grado di guidare i lavoratori alla presa del potere statale. Invero, ogni lotta di classe è una lotta politica e lo scopo di questa lotta, che inevitabilmente si trasforma in guerra civile, è il monopolio del potere politico. E proprio il prodursi degli eventi, contrassegnato in quel biennio dallo sviluppo impetuoso del movimento di massa nonché dalla reazione e dal contrattacco della borghesia, chiariva manifestamente la natura inconciliabile dell’antagonismo esistente tra capitale e lavoro, mostrava che in ultima istanza le classi combattono per conquistare il potere dello Stato. In breve, la storia di quegli anni pose al proletariato, alle sue avanguardie conseguenti, un compito pratico ed urgente: creare un partito di tipo nuovo, un partito realmente comunista, capace di combattere senza riserve per la dittatura del proletariato e di non farsi allettare dalle sirene della democrazia borghese.
Ma grande era il prestigio del P.C.I. tra le masse ed altrettanto grande si presentava perciò il danno provocato dalla sua involuzione revisionistica, dalla vergognosa politica pacifista che questo partito consumava quotidianamente nelle aule del parlamento borghese. Né tale tradimento poteva considerarsi casuale, né era ulteriormente procrastinabile un esame responsabile dell’evoluzione avvenuta nei rapporti di classe, negli istituti politici della società borghese e nelle esperienze compiute dai movimenti rivoluzionari. Si imponeva insomma la ricerca di vie nuove, di vie adatte a rilanciare la rivoluzione nelle mutate condizioni del secondo dopoguerra.
Chi individuò con precisione e puntualità questo problema, chi riuscì a rispondervi con conseguenza estrema in sede pratica, fu l’organizzazione delle Brigate Rosse e ciò in virtù della loro decisione di iniziare la lotta armata contro lo stato in maniera sistematica e continuata.
Costituitesi nel 1970, le Brigate Rosse dovettero inizialmente navigare controcorrente: non solo, infatti, si trovarono innanzi molti gruppuscoli pseudo rivoluzionari che, disposti a cavalcare le esplosioni violente della lotta di massa, si tiravano da parte quando si trattava di porsi alla testa del movimento in modo organizzato e conseguente, quando si trattava di svolgere una funzione politica e dirigersi sulla lotta spontanea del proletariato; ma, molto di più, esse rompevano scientemente con una mossa di pregiudizi consolidati negli ambienti rivoluzionari che volevano impossibile la lotta armata al di fuori di condizioni insurrezionali e che trovavano una immediata benché surrettizia giustificazione nella grande tradizione dell’Internazionale Comunista. Tuttavia proprio la giustezza della loro visione politica – iniziare la lotta armata costituendo così i primi punti di aggregazione per la fondazione del partito del proletariato – risultò alla base del fatto che le Brigate Rosse ebbero decisamente ragione di queste tendenze ritardanti ed opportuniste. Ben presto esse si stesero nelle principali città italiane, nei principali poli industriali, ben presto fu evidente il senso ed il significato della loro scelta soggettiva d’avanguardia e ben presto, con la loro giusta azione di lotta allo Stato, conquistarono alla lotta armata comunista un ruolo centrale nel panorama politico italiano; altri gruppi iniziarono a seguire il loro esempio.
Marxiste leniniste nel riferimento teorico, fortemente radicate nella classe operaia e negli strati più combattivi del proletariato urbano, le Brigate Rosse si affermano in quanto reparto d’avanguardia innanzitutto perché la loro proposta risultò essere la risposta politica più concreta ad una situazione storica concreta. Da un lato, infatti, risultava assolutamente chiara l’inutilizzabilità del parlamento ai fini dell’attività rivoluzionaria, dall’altro i comunisti rischiavano lor malgrado di trasformarsi in sterili propagandisti, estremisti nella lotta economica e connaturalmente incapaci di influire nell’andamento politico dei rapporti tra le classi. Ma gruppi che non sanno porre davanti alla società tutt’intera le esigenze politiche del proletariato, gruppi che non sanno contrapporsi coi mezzi adatti alle istituzioni borghesi per affermare questi interessi, che non operano al fine di conquistare condizioni generali più favorevoli allo sviluppo della rivoluzione, non sono certo gruppi comunisti, non svolgono certo una funzione dirigente nella lotta di classe.
I comunisti sono gli interpreti coscienti di un processo incosciente: tale è la tesi incontrovertibile del socialismo scientifico. E tramite l’iniziativa politico militare l’avanguardia recuperò spazio nella vita politico nazionale, si condusse appunto in qualità di rappresentante cosciente degli interessi del proletariato: si elevò al di sopra della lotta economica delle masse, al di sopra del pantano gruppista, e si contrappose chiaramente agli agenti della borghesia nel movimento operaio. Attraverso l’uso della lotta armata le Brigate Rosse ribadirono in modo chiaro e netto che obiettivo della classe operaia non è questa o quella riforma parziale, ma la presa violenta del potere politico, il rivoluzionamento generale dell’intera società; e con ciò, nei fatti, nell’azione concreta conforme alle peculiarità della nostra situazione storica, si ricollegarono al contenuto reale, alla sostanza immortale della tradizione comunista.
Fu chiaro infatti in pochi anni che il partito della Brigate Rosse costituiva l’avanguardia del proletariato italiano, la sua direzione politica rivoluzionaria. Sulla base di un’intensa attività combattente e di un costante lavoro di penetrazione nelle masse, nel 1978 le Brigate Rosse poterono legittimamente dichiarare chiuso il primo periodo della loro lotta politico militare: in seguito alla campagna di primavera di quell’anno, al sequestro e all’esecuzione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana e massimo fautore della politica cosiddetta del “compromesso storico” tra D.C. e P.C.I., la lotta armata si affermava definitivamente come punto di riferimento obbligatorio e discriminante per ogni rivoluzionario e, ad un tempo, come l’unica opposizione politica coerente al governo borghese ed alle manovre dei partiti di fronte alle più vaste masse. L’unità del politico e del militare nell’attacco al “cuore” dello Stato, l’iniziativa combattente del partito come direzione politica cosciente della lotta di classe verso la presa del potere politico, si presentava dunque come la conquista storica come il risultato essenziale di quel periodo.
Epperò la storia non procede in linea diritta. Essa ha certo una direzione, una direzione necessaria, ma questa direzione si presenta appunto come risultato di un percorso niente affatto facile, piano, diretto: è attraverso innumerevoli sacrifici ed anche errori, attraverso grandi offensive e ostiche ritirate, che una classe oppressa giunge a conoscere la strada della sua emancipazione.
Se è manifesto ed inconfutabile che le Brigate Rosse riguadagnarono al proletariato italiano la capacità politico-pratica di organizzare la lotta rivoluzionaria allo stato borghese (ed in ciò consiste il loro inestimabile valore storico), è pur vero che, nella loro azione, si basarono su di una concezione politico eclettica, che solo in stretta misura può definirsi marxista. La sovrapposizione di schemi rivoluzionari propri di paesi dipendenti alla situazione sociale di un paese imperialista, la sottovalutazione del ruolo specificamente politico dell’avanguardia comunista, le numerose commistioni tra il marxismo leninismo ed ideologie antimaterialiste di schietta derivazione piccolo borghese, sono solo i più marchiani fra i vari errori commessi sul piano teorico delle Brigate Rosse.
E ad ogni errore teorico, nella lotta di classe, corrisponde un errore pratico: da una parte simili sbagli provocarono l’incapacità di sfruttare appieno le conquiste reali che l’esperienza medesima aveva consegnato ai comunisti, dall’altra condussero ad esaltare aspetti secondari, tutt’affatto estranei alla lotta armata in quanto politica rivoluzionaria. Le Brigate Rosse erano giunte a possedere un enorme prestigio politico, un prestigio ed una autorità da partito; erano riuscite a creare una macchina organizzativa assai forte, una macchina che costituiva uno dei più importanti fattori politici della società italiana, ma questa macchina era al suo interno politicamente debole, mancava la saldezza teorica ed un forte centro dirigente in grado di infondere compattezza ideologica e pratica nei diversi istituti dell’organizzazione. La sconfitta tattica dell’anno 1982, preceduta dall’altalena tra economismo e militarismo, da sintomatiche ed eloquenti scissioni, dalle prime defezioni e collaborazioni col nemico di classe, fu dunque il logico risultato di un accumularsi di contraddizioni che, per quanto visivamente collocabile nel periodo che segue il 1978, si originava senz’altro da ben più lontano.
Quella particolare visione teorica, l’indirizzo di pensiero e di azioni che accompagnò la nascita ed il primo sviluppo della lotta armata nel nostro paese ascrive cosi al proprio rendiconto alcuni errori sostanziali, alcune debolezze politiche di fondo. Ma si tratta di errori e debolezze, per così dire, necessari; di errori e debolezze che il movimento comunista, per farsi strada ed esperienza, non poteva non commettere; di errori e debolezze peraltro facilmente comprensibili, dato il quadro storico in cui la lotta armata è sorta come forma della politica rivoluzionaria ed in cui ha trovato i suoi primi riferimenti ideologici.
Se dunque non v’ha dubbio che nel nostro paese un periodo della lotta rivoluzionaria si è chiuso, è ancor più vero che quel che si è concluso è solamente il periodo della giovinezza della lotta armata, il periodo in cui l’imperativo consisteva innanzitutto nell’affermarla in quanto carattere fondante ed obbligatorio dell’attività di partito. Finalmente, nei quindici anni trascorsi la lotta di classe ha scoperto da sé la formula politica adatta a rilanciare nel nostro periodo storico l’attività comunista. Lo ha fatto tra molte contraddizioni, lo ha fatto per mezzo di ingenuità ed anche errori, ma pure lo ha fatto! Ciò è l’essenziale.
Tutto il periodo storico che va dal 1970 al 1982 è perciò straordinariamente istruttivo per la rivoluzione. Durante questi anni attraverso l’esperienza accumulata dalle Brigate Rosse, si è evidenziato nettamente che la lotta armata è il metodo decisivo della lotta politica comunista contemporanea, carattere fondamentale ed obbligatorio dell’azione di partito. Inoltre, ogni semplice lavoratore, gli elementi avanzanti del proletariato, i sinceri rivoluzionari ed i gruppi organizzati hanno conosciuto e visto in opera tutte le principali tendenze da sempre presenti nell’arena della lotta politica in quanto riflesso del movimento più generale delle classi; ne hanno valutato la portata, osservato la parabola teorica e pratica, esaminato il rapporto reciproco ed hanno imparato a discernere una linea realmente marxista, realmente rivoluzionaria, dalle sue artate contraffazioni. Tutto ciò costituisce in ogni caso un immenso patrimonio per il movimento comunista, un enorme contributo alla teoria ed alla pratica della rivoluzione proletaria non solo per il nostro paese, ma per tutta l’area del centro imperialista. Tutto ciò, soprattutto, rappresenta sicuramente la base reale per ogni ulteriore avanzamento.
Nello stesso tempo però l’esperienza del periodo trascorso ha provato fuori da ogni dubbio che senza una visione scientifica ed organica della nostra rivoluzione, senza un concetto marxista dei compiti e del ruolo del partito, anche le più grandi conquiste della lotta di classe rischiano di rimanere inoperose, persino i più grandi successi possono vanificarsi, inghiottiti tra le pieghe della storia.
Gli anni passati, anni di gigantesche sfide e di coraggiose scelte d’avanguardia ci consegnano la lotta armata come forma della politica rivoluzionaria. Oggi il punto principale è imparare a perfezionare questo insegnamento, imparare a far di più e meglio per spingere oltre i risultati raggiunti, affinché la linea rivoluzionaria possa esser portata avanti senza la minima esitazione.
Ma la situazione chiede scelte appropriate, scelte precise capaci di tradursi in pratica. Non soltanto, infatti, le Brigate Rosse si dimostrarono attualmente incapaci di progredire, nonché di elevarsi al livello politico richiesto dall’evoluzione delle cose stesse; ma già nei settori più inesperti e disgregati del movimento rivoluzionario si delinea chiaramente lo sviluppo di una tendenza revisionista, il cui contrassegno consiste nella teorizzazione (esplicita o sottintesa) dell’abbandono della lotta armata. La situazione di disorientamento attualmente esistente nel movimento di classe; l’incipiente pericolo di vanificare la più grande conquista degli ultimi quindici anni di lotta d’avanguardia; la necessità di battere definitivamente, nella teoria e nella pratica, le impostazioni soggettiviste che tanto danno arrecano alle potenzialità politiche della lotta armata; l’obbligo di difendere con intransigenza di fronte alla borghesia ed ai suoi lacchè la giustezza del cammino percorso dei comunisti negli ultimi anni e di trasmettere alle nuove generazioni rivoluzionarie l’esperienza cumulata; infine, l’evoluzione del quadro nazionale ed internazionale, che disegna l’avvicinarsi di battaglie decisive per il proletariato – tutte queste circostanze pongono chiaramente all’ordine del giorno, rendendolo anzi un dovere, il problema della costituzione di un nuovo gruppo politico, capace di basarsi sulla grande esperienza delle Brigate Rosse e sul marxismo leninismo per giungere ad una teoria ed una pratica rivoluzionarie realmente adeguate alla situazione italiana.
Sulla base di tali considerazioni, nonché sotto l’impulso e l’iniziativa di alcuni ex militanti delle Brigate Rosse fuoriusciti da questa organizzazione in seguito alla loro battaglia per l’adozione delle tesi politiche enunciate nella cosiddetta “seconda” posizione, nel mese di ottobre dell’anno 1985 si è costituita adottando le seguenti tesi, l’Unione dei Comunisti Combattenti.
- L’Unione dei Comunisti Combattenti è un’organizzazione marxista leninista. Come tale, essa assume a guida della propria azione la dottrina del materialismo storico-dialettico e riconosce come propri principi inderogabili la dittatura del proletariato ed il potere del Soviet, vale a dire la sostanza di tale dottrina. L’Unione dei Comunisti Combattenti non ha dunque interessi diversi dell’intero proletariato: essa se ne distingue poiché, possedendo una visone complessiva della strada storica che questa classe deve necessariamente percorrere, si sforza di difendere, in ogni svolta della lotta di classe, non gli interessi dei singoli gruppi o professionisti ma gli interessi della classe operaia nella sua totalità.
- L’Unione dei Comunisti Combattenti, avanguardia cosciente della classe operaia, opera per trasformare ogni lotta ridotta o parziale in una lotta generale per il rovesciamento dell’ordine capitalistico. Essa organizza e dirige la lotta del proletariato col fine preciso di guidarlo sino all’insurrezione armata contro lo stato borghese, sino allo scontro diretto per la conquista del potere politico.
Per potersi emancipare dalla schiavitù del lavoro salariato, per poter istituire la propria dittatura sulle altre classi sociali ed organizzare il socialismo – stadio inferiore del comunismo – la classe operaia deve innanzitutto conquistare il potere politico nel proprio paese e distruggere senza remore la macchina statale borghese. Dall’altra parte, attraverso il loro movimento spontaneo le masse proletarie non sono in grado di elevarsi alla coscienza compiuta dei propri interessi, alla coscienza dell’irriducibile antagonismo, che esiste tra loro e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo. E proprio in ciò consiste il ruolo dell’avanguardia comunista: rendere il proletariato capace di realizzare la sua grande missione storica, organizzarlo in partito politico autonomo – in reparto d’avanguardia contrapposto a tutti i partiti borghesi e principalmente allo Stato – per dirigere ogni manifestazione della lotta di classe verso il suo sbocco necessario, la dittatura del proletariato.
L’Unione dei Comunisti Combattenti, consapevole che è compito fondamentale dei comunisti quello di rimanere sempre nel più stretto contatto con ampi strati del proletariato, mantiene bensì la più ferma convinzione che i concetti di partito e massa debbono essere tenuti rigorosamente separati. Il partito è una parte della classe, ma distinto da essa; è il suo reparto d’avanguardia, cosciente ed organizzato. In ogni fase della lotta esso è, per sua natura alla testa della mobilitazione, alla guida degli elementi migliori e più devoti del proletariato: ad esso spetta la responsabilità di fare avanzare la rivoluzione, di affrettare la crisi delle classi dominanti e non già di attestarsi sul livello della massa.
Di conseguenza ogni svalutazione nella teoria e nella pratica del ruolo cosciente del partito, ogni concessione allo spontaneismo ed al tradeunionismo, conduce inevitabilmente (e segnatamente nei paesi imperialisti come il nostro) ad assumere posizioni revisioniste, snatura la funzione stessa del comunismo e va combattuta perciò come il peggiore dei nemici della causa proletaria.
- L’Unione dei Comunisti Combattenti adotta la lotta armata in quanto metodo decisivo della propria lotta politica comunista. Strutturata coerentemente come organizzazione armata e clandestina, che riunisce sin da subito nella propria azione generale, così come in quella di ogni singolo istituto e militante, il lato politico e quello militare dell’attività rivoluzionaria, essa avversa bensì tutte le concezioni che, proponendo una divisione di ruoli fra organismi militari e politici, minano alla base l’unità d’azione, la compattezza e la natura comunista dell’avanguardia contemporanea.
L’epoca rivoluzionaria esige dai comunisti l’uso di sistemi di lotta capaci di concentrare tutta l’energia del proletariato sino all’estrema, logica conseguenza: l’urto diretto, la guerra dichiarata con la macchina statale borghese. Da un lato, infatti, risulta assolutamente necessario che ogni semplice lavoratore abbia ben chiara la differenza che esiste tra le vere avanguardie comuniste, che lottano per conquistare il potere politico, ed i vecchi partiti ufficiali, che col loro pacifismo parlamentare hanno vergognosamente tradito la bandiera della classe operaia. Dall’altro è bensì evidente che nell’epoca attuale, contrassegnata nei nostri paesi dal massimo sviluppo e dal massimo consolidamento del contenuto reazionario della democrazia borghese, il centro di gravità della vita politica si è spostato in modo totale e definitivo oltre i confini del parlamento, che resta unicamente la maschera formale della dittatura della borghesia ed al contempo un efficace mezzo per inchiodare ai limiti dalla legalità capitalistica ogni reale spinta di opposizione proletaria. In tale contesto storico l’indipendenza politica del proletariato, la sua vocazione storica alla dittatura, si legano indissolubilmente al rifiuto dei vincoli istituzionali e dell’azione parlamentare. Il terreno della lotta d’avanguardia, della lotta dei comunisti, si sposta altrove: nella lotta armata, nell’azione autonoma ed energica di un partito combattente che, rappresentando realmente gli interessi generali della classe lavoratrice in opposizione allo stato borghese, sappia nondimeno incidere nell’andamento politico dei rapporti tra le classi, miri ad accentuare la crisi politica della borghesia contrastandone le mene reazionarie e realizzi al contempo una chiara indicazione rivoluzionaria di fronte alla più vaste masse.
L’Unione dei Comunisti Combattenti, istruita dall’esperienza pratica compiuta sin qui dal movimento rivoluzionario nazionale ed internazionale nonché dalla teoria del socialismo scientifico, difende ed afferma gli interessi generali del proletariato con il combattimento contro lo Stato e considera dunque l’uso attuale della lotta armata (la lotta armata d’avanguardia in condizioni non rivoluzionarie) come la principale e fondamentale discriminante politico pratica tra i veri e i falsi comunisti, tra le vere e le false avanguardie del proletariato.
- Per giungere alla rivoluzione, l’avanguardia comunista deve conquistare un’influenza predominante nelle masse proletarie, condizione per poterle guidare effettivamente alla presa del potere politico ed all’abbattimento dello stato borghese. È infatti dimostrato da tutta la storia della rivoluzione proletaria che, nella sua lotta per la dittatura, questa classe non otterrà la vittoria se non quando – entro precise condizioni oggettive – i suoi strati politicamente determinanti si saranno schierati a fianco del comunismo e disporranno di forze sufficienti per infrangere la resistenza della reazione borghese. Da ciò deriva l’incondizionata necessità di principio che, nella costante e continuata battaglia contro le deviazioni opportuniste ed economiste presenti nel proletariato, i comunisti rivoluzionari arrivino a conquistare la direzione politica delle masse e dei loro movimenti di lotta.
L’Unione dei Comunisti Combattenti – che afferma il proprio ruolo di combattente per il socialismo attraverso la lotta armata e conserva in ogni caso la propria autonomia politico-organizzativa qualunque direzione prendano gli avvenimenti e quali che siano le forme del movimento – sin dal primo giorno della sua costituzione si pone esplicitamente come scopo non già la creazione di una setta di propaganda, non già un’attività politico militare avulsa dalla reale dinamica e dal reale contesto della lotta tra le classi, ma proprio la partecipazione cosciente a tale conflitto, l’intervento d’avanguardia nella scena politica e la guida della lotta proletaria secondo una direttiva comunista. Suo obiettivo dichiarato è elevare, nel corso della lotta, il proletariato alla coscienza compiuta dei propri interessi; conquistarne la direzione politica per guidarlo alla presa del potere.
- L’Unione dei Comunisti Combattenti respinge categoricamente ogni concezione soggettivista che ritiene possibile la rivoluzione proletaria senza un’adeguata opera di conquista delle masse lavoratrici alla linea politica del comunismo. Ma proprio affinché questa opera sia efficace proprio per impedire la nefasta altalena tra estremismo ed economismo, proprio per combattere l’errata tendenza che vorrebbe immediata e senza ostacoli la conquista del sostegno di massa, è necessario stabilite un giusto rapporto tra l’avanguardia ed il movimento proletario nel suo insieme.
L’agitazione comunista verso le masse proletarie, la linea di massa dell’avanguardia, deve essere condotta in modo che i lavoratori in lotta siano portati a riconoscere dalla loro esperienza stessa che la nostra organizzazione è la guida energica e fedele del loro comune movimento. Per ottenere ciò è necessario innanzitutto che l’avanguardia intervenga con la sua azione combattente in sintonia ed in appoggio ai movimenti generali del proletariato, che li sostenga e li guidi indirizzandoli contro i governi e lo stato borghese, che sia capace di generalizzare con vigore le parole d’ordine politico-organizzative più avanzate scaturite da queste lotte e dalla situazione generale. D’altra parte in ognuna delle fasi della lotta politica ed economica, i comunisti debbono diffondere in mezzo al proletariato la consapevolezza che questi movimenti costituiscono solo una parte, una tappa nella più generale lotta di classe, che è una lotta per il potere politico dello Stato; giammai essi dovranno abdicare al loro ruolo specifico: affermare l’interesse generale proletario, spingere avanti la situazione politica.
È attraverso questo lavoro, assolutamente necessario, che un gruppo comunista può diventare l’avanguardia reale di milioni di proletari; guidando le masse lavoratrici nella costante lotta contro le sopraffazioni del capitale risulterà possibile, e sarà anzi doveroso, rendere comprensibile ed attuale il legame che esiste tra la vita quotidiana, tra il movimento di tutte le classi e di tutti i partiti politici, e la parola d’ordine della dittatura del proletariato.
L’Unione dei Comunisti Combattenti, che in quanto organizzazione armata e clandestina non può non porre precisi ed invalicabili limiti al modo con cui svolge la propria attività verso le masse, riconosce in ogni caso pienamente l’importanza fondamentale che quest’opera riveste ai fine della rivoluzione. Guidare, allargare, approfondire, le attuali lotte generali del proletariato e, in conformità al corso del loro sviluppo e dell’esperienza pratica compiuta dalle masse medesime, trasformarle in lotte politiche finali è e resta insomma il criterio da seguire in tale lavoro. Ma ciò sarà infine possibile se L’Unione dei Comunisti Combattenti, autonoma ed in grado di combattere le istituzioni borghesi e le loro politiche in ogni circostanza della lotta di classe, saprà evitare tanto il settarismo quanto la mancanza di principi.
L’Unione dei Comunisti Combattenti si basa organizzativamente sul centralismo democratico, i cui principi essenziali sono: l’eleggibilità degli organi superiori da parte di quelli inferiori, il carattere assolutamente vincolante di tutte le direttive degli organi superiori, l’esistenza di un forte centro dirigente la cui autorità e le cui decisioni, negli intervalli tra i congressi, non possono essere messe in discussione da nessuno. Va da sé che, nelle condizioni di clandestinità in cui si sviluppa la lotta, il principio elettivo può subire delle limitazioni: gli organismi dirigenti hanno pertanto il diritto di cooptare nei proprio effettivi singoli militanti, qualora si presenti la necessità per l’organizzazione.
L’Unione dei Comunisti Combattenti riconosce come propria la causa della fondazione del Partito Comunista Combattente del proletariato italiano. Operando in tal senso, essa si sforza bensì di consolidare, irrobustire ed affermare la tendenza comunista rivoluzionaria contro tutte le deviazioni avventuriste e contro tutte le tentazioni liquidatorie – che si esprimono oggidì nel rifiuto dell’uso della lotta armata – e chiama risolutamente a raccolta, sotto le sue fila organizzative, i marxisti militanti del nostro paese.
Al momento presente, contrassegnato da uno stato di particolare disorientamento del movimento rivoluzionario, si presenta di fatti necessario un deciso lavoro di orientamento politico, teorico e pratico, teso a chiarire la natura della strategia, dei principi e della tattica del partito rivoluzionario, nonché l’arco delle forze interessate alla sua fondazione. L’Unione dei Comunisti Combattenti, che riconosce come propri interlocutori in primo luogo quelle forze e quei gruppi marxisti che oggi si pongono senza tentennamenti sul terreno della lotta armata, è animata in ogni caso dalla convinzione che l’unità dei comunisti di partito debba basarsi sulla chiarezza di vedute e che questa chiarezza, all’ora attuale, non possa che scaturire da un reale ed approfondito confronto intorno alle questioni principali che l’esperienza pratica della rivoluzione proletaria ha posto all’ordine del giorno nel nostro paese.
L’Unione dei Comunisti Combattenti, inoltre, sottolinea l’importanza fondamentale della battaglia antirevisionista. Deve essere infatti chiaro ad ogni rivoluzionario che non è possibile una preparazione anche solo preliminare del proletariato al rovesciamento della borghesia senza una inevitabile, sistematica, ampia ed aperta lotta contro i vecchi partiti ufficiali, ed in particolare contro il P.C.I., che detengono tutt’ora forti posizione nel movimento operaio e che col loro pacifismo parlamentare illudono le masse sulla reale natura della democrazia borghese.
L’Unione dei Comunisti Combattenti infine, si schiera con decisione al fianco della lotta comunista combattente esistente nei paesi capitalistici avanzati e delle lotte di liberazione nazionale che si sviluppano potentemente nei paesi dominati dall’imperialismo. Nella sua aspirazione a raggiungere la completa emancipazione della classe operaia e consapevole che la rivoluzione proletaria è per sua stessa natura internazionalista, essa non risparmia alcuno sforzo per contribuire all’unità dei comunisti e dei lavoratori di tutti i paesi.
Un pensiero su “Unione dei Comunisti Combattenti – Manifesto e tesi di fondazione – ottobre 1985”
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