Le ragioni per garantire che il prigioniero rivoluzionario sia tenuto in un “regime di carcere duro” in cui possa essere, in astratto, “speso” nello scontro di classe in funzione deterrente e di disorientamento, col passare degli anni non scemano affatto, anzi si rafforzano.
Del resto come potrebbe essere altrimenti se – è sotto gli occhi di tutti e ancor di più lo sarà nei prossimi anni – dal 2007 ad oggi, tutte le promesse neoliberiste di eterna crescita economica e di miglioramento progressivo delle condizioni di reddito e sociali generali sono state clamorosamente smentite e purtroppo con drammatiche conseguenze per vasti strati sociali e numerosi popoli? È insieme a queste premesse che, forte degli esiti di processi controrivoluzionari, ha preso piede la negazione ideologica dello scontro tra le classi e addirittura l’esistenza stessa delle classi e delle ragioni storico-sociali e politiche dello scontro rivoluzionario considerato dalla borghesia e dai suoi pensatori incidente storico, prodotto ideologicamente arbitrario del secolo scorso.
Il riferimento ad una “crescita”, ovvero ad una riproduzione allargata del capitale senza soluzione di continuità, salvo aggiustamenti ciclici e strutturali specifici, è stato un elemento tipico del paradigma della progettualità politica della borghesia e dell’operato degli esecutivi dei paesi capitalistici di questi decenni, tanto quanto quello della massima ricattabilità e del crescente sfruttamento del lavoro salariato che avrebbero dovuto assicurarla e che a loro volta ne vengono giustificati. Le condizioni e i passaggi di rimodellamento economico, sociale, politico e giuridico costruiti negli ultimi trent’anni sono stati funzionali a favorire l’affermarsi di un sistema di produzione che, in una dinamica di crisi/sviluppo del capitale per la quale quanto più è elevato il grado di concentrazione e centralizzazione del capitale stesso tanto più esso volge verso l’approfondimento della sua crisi, punta a recuperare quote di plusvalore relativo ed anche assoluto a fronte della caduta tendenziale del saggio di profitto e, perciò convoglia quote di plusvalore sociale crescenti a sostegno dello sviluppo della formazione monopolistica ed al rafforzamento del suo ruolo dominante nell’accumulazione del capitale e in direzione di quei nuovi mercati che la ricerca dell’innovazione tecnologica continua e il movimento del capitale finanziario dovrebbero essere in grado di creare all’infinito. Condizioni costruite da quelle politiche e misure nel complesso denominate neoliberiste che, avviate dal polo statunitense e per il ruolo dominante che con il suo capitale monopolistico svolge nei mercati e nelle relazioni economiche internazionali, sono state adottate a diversi gradi, autonomamente o no, da ogni paese.
Esse, in funzione dei livelli di sfruttamento crescenti imposti da un modello di produzione che, subentrante al fordismo, ha la saturazione dei mercati come suo presupposto strutturale, hanno spinto verso la precarizzazione generalizzata del lavoro salariato e la riduzione dei salari sotto la soglia del valore storico della forza-lavoro ed hanno garantito la massima ricattabilità del lavoro salariato. Con i salari agganciati a “produttività” e “redditività” la forza-lavoro viene ridotta a variabile dipendente del capitale e della sua crisi mentre avanza l’attacco e l’erosione fino all’abbattimento, lì dove c’erano, di diritti del lavoro secolari, conquistati dal movimento operaio del novecento al prezzo di lotte durissime e sanguinose, e riconosciuti e istituiti a suo tempo, soprattutto nel continente europeo, anche come risposta politica della borghesia ad un pericolo rivoluzionario avvertito incombente. In questo quadro viene ad essere ridefinito anche il ruolo economico sociale dello Stato.
Con i processi di privatizzazione e liberalizzazione, in particolare con la privatizzazione e finanziarizzazione di sanità, previdenza, istruzione, ecc., lo Stato è andato e va ritraendosi da ambiti di produzione di beni e servizi sociali o dalla gestione di risorse naturali, aprendo queste attività all’intervento del capitale, dove più, dove meno, dove con vincoli, dove no, offertegli come nuovi mercati e per ciò stesso garanzia di efficienza… così che con la trasformazione di tali ambiti in campi di appropriazione privata di ulteriori risorse produttive, umane, naturali, in poche parole in occasioni di allargamento della riproduzione del rapporto di capitale, la fruizione di tali beni e servizi non va più a dipendere da scelte politiche e atti amministrativi, ma è stata sempre più sottomessa alle necessità di valorizzazione del capitale a scapito della loro funzione nella riproduzione sociale.
Lo Stato, il “soggetto pubblico” è andato quindi consumando il suo ruolo di regolatore sociale svolto su un parziale riequilibrio – tramite atti politici, assetti giuridici ed atti amministrativi – del rapporto capitale/lavoro, teso a frenare la crescita esponenziale delle diseguaglianze e la divaricazione incolmabile degli interessi antagonistici in seno alle formazioni economico-sociali capitalistiche. E dunque si è anche ritratto progressivamente da quei compiti di redistribuzione dei redditi la cui assunzione nella fase precedente, politicamente condizionata dagli equilibri generali tra proletariato internazionale e borghesia imperialista in senso meno favorevole a quest’ultima, era finalizzata a sostenere l’estensione della produzione accrescendo i consumi di massa.
Compiti che nei paesi capitalistici erano stati determinabili su quel terreno di mediazione materiale tra interessi sociali conflittuali che dava fondamento alle politiche di riformismo economico-sociale e alle evoluzioni delle forze che le hanno perseguite e, in generale, a una mediazione politica connotata dall’inclusione e dall’istituzionalizzazione del conflitto sociale nel quadro delle moderne democrazie rappresentative a contenuto politico più o meno corporativo e, se non altro, dal governo delle contraddizioni e disuguaglianze sociali tramite l’impiego delle risorse pubbliche nazionali.
Successivamente, invece, nel contesto strutturale e sovrastrutturale rimodellato dalle politiche neoliberiste, con i processi generalizzati di compressione salariale e di tagli alle tutele sociali e con le politiche monetarie espansive, la mediazione materiale tra interessi in conflitto si è trovata sempre più affidata al “mercato” dove sono venuti costruendosi dei legami concreti – la cosiddetta coesione sociale – tra interessi borghesi e interessi proletari particolari in parte propri a fasce di aristocrazia proletaria, con i secondi catapultati sul mercato spesso dalle “riforme” e naturalmente in posizione subordinata ai primi, mentre il lavoro salariato è rimasto sempre più schiacciato da una pressione ricattatoria potenziata anche dai debiti contratti per rispondere ai bisogni storicamente ordinari.
Specialmente nel polo dominante dove storicamente è massimo il potere e il peso della BI e viceversa marginalizzato sul piano storico il ruolo politico del proletariato, e in generale in relazione a come l’andamento dello scontro rivoluzione/controrivoluzione struttura o disperde termini di autonomia politica nello scontro di classe, la “coesione sociale” è arrivata anche ad intrappolare politicamente e sul lungo periodo la conflittualità di classe che corrispettivamente è stata vincolata da normative atte a limitarla e depotenziarla politicamente nel quadro di complessive strategie controrivoluzionarie sviluppate dalla soggettività politica della BI, andando a pesare sugli equilibri tra le classi a favore della progressiva realizzazione delle riforme strutturali e della trasformazione della rappresentanza e degli assetti politico-istituzionali delle democrazie borghesi nel senso dell’indiscutibile centralità degli interessi della BI negli indirizzi delle forze politiche e nei programmi degli esecutivi, del rafforzamento degli esecutivi stessi, e di una sempre maggiore riduzione in direzione dell’esclusione della rappresentanza politica delle classi subalterne.
Processi economici e politici maturati nel centro imperialista contemporaneamente alla crescente penetrazione del capitale monopolistico non solo nel sud del mondo ma, dagli anni ’90, anche nell’ex campo socialista che, con lo smantellamento delle economie pianificate, veniva integrato nel mercato capitalistico. Questo movimento e l’enorme depredamento che ha reso possibile – ha dato respiro al capitale in crisi, ha favorito la formazioni di capitali monopolistici autoctoni e di economie esportatrici il cui sviluppo a sua volta ha contribuito alla crescita delle attività economiche mondiali e il cui basso prezzo della forza-lavoro ha determinato una discesa dei prezzi dei beni di sussistenza importati dai paesi capitalistici, e infine ha dato luogo a livelli di integrazione e di interdipendenza economica internazionale assai superiori e più profondi che in passato, e al formarsi di equilibri finanziari peculiari connotati dalla separazione tra ruolo finanziario e monetario dominante da una parte, e accumulazione monetaria, dall’altra. In questo quadro, la crisi finanziaria avviata dal credito costruito soprattutto negli USA sulla garanzia fornita da una merce quale la forza-lavoro destinata al deprezzamento in una via strutturale nell’attuale modello di produzione, credito pertanto inesigibile per definizione, in virtù del ruolo dominante della finanza e moneta statunitensi, e in un ambito economico così integrato e interdipendente, si è propagata “in tempo reale” e contemporaneamente ovunque, trasformandosi in una crisi economica generale che, stante l’irresolubilità delle contraddizioni antagoniste insite nella natura stessa del capitale, riprodotte, estese ed approfondite dallo sviluppo del capitale stesso, imbriglia la capacità del polo dominante e della BI di governare la crisi accrescendo le quote di plusvalore sociale di cui si appropria ed impedendo così il precipitare dei paesi a capitalismo avanzato in una lunga e complessa fase di contrazione economica che, per altro, rischierebbe di spingere la classe operaia e il proletariato del centro imperialista nel baratro di un impoverimento e di un arretramento di condizioni complessive di lavoro e di vita di portata storica e di dare un duro colpo alla coesione sociale. Ovvero ciò che si dispiega è, in conclusione, l’enorme potenziale distruttivo per l’umana società maturato nel divario storicamente raggiunto tra livello di sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione capitalistici.
Pertanto ogni passo compiuto dalla soggettività politica della BI per governare la crisi finisce inevitabilmente per alimentare la spinta guerrafondaia dell’imperialismo, nonostante la sconfitta subita dalle strategie di guerra e controrivoluzione dell’amministrazione USA uscente e i consolidamenti limitati e incerti ottenuti nei teatri di guerra nei conflitti aperti dallo schieramento imperialista, essendo il piano bellico l’unico che può convogliare il potenziale distruttivo della crisi del capitale in direzione di eccessi di capacità produttiva delimitabili intorno ad interessi nazionali e paesi non assoggettati alla gerarchia della catena imperialista. Questo per un verso. Per l’altro verso la spinta bellica si traduce in ulteriori oneri per i bilanci pubblici dei paesi dello schieramento imperialista già alle prese con i buchi aperti dagli aiuti al sistema finanziario o con i vincoli UEM, rendendo ancor più critica sia la definizione di precise linee di politica economica, che la semplice tenuta di posizioni imperialiste nei teatri di guerra e nelle aree di crisi che, alle attuali condizioni politiche e militari siano senza sbocchi risolutivi.
Ho cercato sin qui di tratteggiare, davvero in estrema sintesi e senza riguardo per specificità e contingenze, i processi economici e politici di questi ultimi decenni, sotto il profilo dei nodi storici che il rapporto sociale dominante stesso pone all’umanità e, in essa, alla classe che ha la necessità di spezzarlo e di liberarsene, e il ruolo sociale e l’interesse per farsi carico di superarlo storicamente. E, naturalmente, è l’esperienza maturata dalla rivoluzione nello scontro con la controrivoluzione a mettere a disposizione del proletariato e delle sue avanguardie gli strumenti teorici, politici, di progettualità strategica, ecc. per scioglierli, per trasformare i rapporti di forza e politici per conquistare il potere politico, realizzare la socializzazione dei mezzi di produzione e di sussistenza e lavorare alla costruzione del comunismo. Ora, dal momento che è in rapporto a tali nodi storici che si qualifica una militanza rivoluzionaria, ho ritenuto essere il caso di ristabilire termini e dimensione della responsabilità politica da me assunta verso l’Organizzazione a cui appartengo, le BR PCC, e la classe che rappresentano.
La militante BR PCC
Nadia Lioce
Fonte: procedimento 2008/1433 SIUS , udienza del 09/12/2008
Un pensiero su “Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila – Comunicato di Nadia Lioce”