Come militanti delle BR-Pcc e militanti comunisti rivoluzionari prigionieri la nostra presenza in questo processo è motivata solamente dalla volontà di rivendicare per intero l’attività delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente e in questo ribadire la validità della linea politica, del programma e della impostazione strategica costituita dalla proposta della lotta armata a tutta la classe, perché è a partire dall’attività rivoluzionaria delle BR, sviluppatasi in stretta dialettica con le espressioni più mature dell’autonomia politica di classe, che si è potuto affermare in Italia un processo rivoluzionario basato sullo sviluppo della guerra di classe di lunga durata, che pur nel suo andamento discontinuo fatto di avanzate e ritirate, costituisce l’alternativa rivoluzionaria necessaria e possibile per il proletariato del nostro paese.
La prassi rivoluzionaria delle BR è perciò la prospettiva strategica di potere della classe, e nello stesso tempo la concreta direzione e organizzazione sul terreno della lotta armata dell’autonomia di classe, al fine di sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato.
Detto questo, rivendichiamo ancora in questa sede la giustezza dell’azione fatta dalle BR contro la rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, colpendo uno dei suoi massimi artefici, il senatore Ruffilli, perché dimostra ancora una volta come sia possibile contrapporsi con una strategia offensiva ai progetti dello Stato, nello specifico quelli rivolti al rafforzamento dei poteri.
La celebrazione del processo cade nel momento più acuto della crisi politico-istituzionale che attraversa il paese, ma ciò che oggi si verifica altro non è che l’evoluzione obbligata delle contraddizioni sollevate dallo stesso processo di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, dovendo esso rispondere alla duplice esigenza di adeguare lo Stato ai livelli di crisi e sviluppo dell’attuale stadio economico del capitalismo e al governo del conflitto di classe. Lo Stato italiano risponde a questa crisi accelerando con forzature politiche e costituzionali i suoi processi di rifunzionalizzazione per far fronte anche ai crescenti impegni internazionali che la stessa crisi determina, nel tentativo di garantire stabilità a fronte dello scontro di classe che su queste scelte si produce. Il ritrovato bellicismo fa il paio con le rivendicazioni stragiste fatte dai massimi vertici dello Stato e della DC, rivendicazioni che non sono tese a chiudere un capitolo della storia passata ma sono fatte per pesare oggi sullo scontro di classe per determinare intorno alla continuità della centralità DC equilibri e schieramenti della nascente II Repubblica. Questa si caratterizza già sia nell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, come dato costitutivo, e nella sostanziale funzionalizzazione al suo operato delle sedi parlamentari e istituzionali, sia nella conflittuale ridefinizione degli stessi apparati dello Stato, sia nel confronto senza esclusione di colpi tra le forze politiche borghesi per raggiungere posizioni di forza negli assetti istituzionali che si stanno prefigurando. Un processo di rifunzionalizzazione che coinvolge tutti i partiti, che ne diventano soggetti attivi e promotori, dentro a modalità politiche di governo che premono per subordinare tutte le forze, politiche e sociali, a questa svolta profonda. Una svolta profonda che dovrebbe ratificare a livello istituzionale e costituzionale i rapporti di forza reali tra le classi così da agevolare rapidità e piena autonomia alle decisioni dell’esecutivo. Un processo niente affatto lineare e indolore perché è proceduto e procede all’interno di uno scontro tanto aspro quanto dinamico con una classe non pacificata la cui resistenza agli effetti politici e materiali di questo processo è ciò che non consente allo Stato di sancire fino in fondo questa svolta nei rapporti politici e di forza con la classe.
Un processo di rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato che fa tesoro degli strumenti della controrivoluzione preventiva maturati dalle democrazie rappresentative, consolidato da una pseudopposizione in cui assisteremo a una serie di staffette predeterminate alla guida del paese, ovviamente santificate dal voto popolare (un’innovazione democratica che, è bene ricordare, è stata ideata dal senatore Ruffilli), ma perché più sostanzialmente cercheranno di operare un maggior ingabbiamento e subordinazione del proletariato e della classe operaia agli interessi della borghesia imperialista attraverso “riforme” e legislazioni sia sul piano politico generale che sul piano delle relazioni industriali con la completa neocorporativizzazione dei sindacati, il tutto con il ricorso ormai usuale alla politica delle emergenze.
Questo è bene evidenziato nella gestione interna della partecipazione della borghesia imperialista italiana al massacro del popolo irakeno; basti pensare al ruolo che ha svolto il sindacato nel far opera di contenimento alla vasta e qualificata opposizione operaia alla guerra imperialista, e agli strappi che esso ha compiuto nella compartecipazione alla dottrina della “qualità totale” di Romiti e nella questione delle rappresentanze in fabbrica.
La cosiddetta guerra del Golfo, l’euforizzato ruolo internazionale dell’Italia non è altro che il prodotto della grave crisi in cui si dibatte la catena imperialista; non è certo segno di forza, ma di debolezza: in ultima istanza è la necessità imperialista di una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati capitalistici che spinge l’imperialismo a politiche guerrafondaie. L’aggressione al popolo irakeno, pianificata mesi e mesi prima delle deliberazioni in sede Onu, attraverso l’embargo mascherato e lo strangolamento finanziario, così da spingere l’Irak a trovare comunque uno sbocco, è stato il pretesto per cercare la “normalizzazione” imperialista del Medio Oriente, un’aggressione che, nelle intenzioni occidentali, dovrebbe produrre l’integrazione dell’area mediorientale nel sistema di sicurezza Nato, con l’entità sionista perno della strategia Usa, sulla quale far ruotare il sistema di sicurezza e stabilizzazione economica, subordinando a questo dato soluzioni politiche del conflitto sionista-palestinese ed arabo-sionista. Tutto ciò sotto la cappa dei rapporti di forza scaturiti dalla guerra e dall’esempio irakeno. Su queste direttrici politiche si è svolta l’operazione di “polizia internazionale” alla quale ha partecipato lo Stato italiano.
I progetti guerrafondai dell’imperialismo hanno trovato sulla loro strada una mobilitazione combattente che per quantità e qualità non ha precedenti; iniziative in ogni parte del mondo, espressione di un rinnovato internazionalismo proletario che hanno posto in primo piano e materialmente il terreno unitario e unificante tra i processi rivoluzionari della periferia e la guerra di classe diretta dalla guerriglia nelle metropoli imperialiste. Un terreno unitario posto con forza dalle iniziative combattenti che hanno sintetizzato al livello più alto l’opposizione di massa alla guerra imperialista.
In sintesi è anche da questo quadro politico interno e internazionale che la strategia e la linea politica delle BR mantiene la sua piena attualità. La guerriglia oggi più che mai è il terreno primario dell’organizzazione di classe, un terreno politico-militare che qualifica lo scontro sedimentato sul piano rivoluzionario, una condizione per esprimere adeguatamente gli interessi proletari di contro alla borghesia imperialista.
L’aggressione imperialista nella regione mediorientale e gli equilibri politico-militari che vi si vogliono instaurare, tesi a ristabilire più stretti rapporti di dipendenza, sono obiettivi immediati, ma non esauriscono il fine della guerra. Più sostanzialmente l’intervento dell’alleanza imperialista è teso a stabilire posizioni di forza per i suoi interessi strategici politico-militari. Obiettivi questi che fanno venire meno i termini per caratterizzare questo conflitto solo dentro la contraddizione Nord/Sud; limitarlo a questo significherebbe sottovalutarne la portata, non legarlo cioè al contesto più generale da cui è maturato, non comprendere quali ordini di contraddizioni sottointendono alla scelte guerrafondaie degli Usa in primo luogo e della catena imperialista nel suo insieme.
Le condizioni generali entro cui si colloca questa guerra vedono la maturazione critica di fattori oggettivi e soggettivi relativi allo stadio di sviluppo dell’imperialismo da un lato e all’evolvere del quadro storico-politico e militare uscito dalla II guerra mondiale dall’altro. La dinamica fondamentale che vi sta alla base e che muove necessariamente in direzione della guerra è determinata dal grado di profondità della crisi economica che sta travagliando gli Usa e in misura diversa tutti i paesi della catena; ma la possibilità di iniziare questo conflitto si è posta concretamente all’interno di significative modifiche negli equilibri Est/Ovest, ovvero nello sfruttamento del fattore generale più favorevole all’imperialismo. È quindi dentro ai mutamenti avvenuti su questa direttrice che è stato possibile iniziare la guerra di aggressione all’Irak ed è sempre questa direttrice che influenzerà le tappe dei possibili sviluppi. Un fatto questo ineluttabile perché dato dal concreto quadro storico in cui sono collocate le forze in campo; per questo motivo la contraddizione Est/Ovest dominante le relazioni internazionali e condizionante ogni ordine di conflitto da Yalta in poi, è quella che sovrasta anche questa guerra, a maggior ragione perché si è aperta una fase in cui sono andati ad accumularsi tutti i fattori che rendono necessaria all’imperialismo la rimessa in discussione complessiva di questo quadro storico, una fase in sintesi in cui possa essere imposto il “nuovo ordine mondiale“ auspicato dall’imperialismo Usa in testa.
Che l’“epoca della pace” si sia inaugurata con uno dei più grandi massacri della storia recente, e con l’occupazione di una vasta area geografica chiarisce la sostanza e l’indirizzo di questo nuovo ordine mondiale riportando tragicamente alla memoria l’analogia con quel nuovo ordine già vagheggiato dalle armate naziste.
La guerra del Golfo, l’occupazione di questa area di importanza strategica sia per il controllo delle rotte tra i continenti che per le risorse energetiche e finanziarie mondiali non è che l’ultimo atto di una sempre più aggressiva politica degli Usa e dell’Occidente imperialista nel suo complesso tesa ad assestare e riordinare equilibri politici, aree di influenza in tutto il mondo, così da modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza internazionali su tutte le direttrici delle contraddizioni economiche e politiche proprie di questa epoca storica: dal bipolarismo, vale a dire il carattere che devono assumere le relazioni Est/Ovest, ad una ricollocazione delle relazioni economiche tra Nord e Sud (ciò a partire dal ridimensionamento/annientamento delle legittime aspirazioni all’affrancamento dal giogo imperialista e a uno sviluppo economico sociale più consono agli interessi delle masse proletarie e contadine immiserite dalla relazione economica e dal modello di sviluppo negato, imposto dall’imperialismo), fino ad intervenire nella contraddizione proletariato/borghesia per legare il proletariato internazionale ai tassi di sfruttamento necessari all’odierno ciclo di crisi-sviluppo del modo di produzione capitalistico nella fase imperialista dominata dai monopoli multinazionali-multiproduttivi.
Per ragioni storiche, economiche, politiche e geografiche queste direttrici di contraddizioni trovano convergenza e si intersecano nell’area europea-mediterranea-mediorientale: le contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico relative all’Europa occidentale, la contraddizione Est/Ovest che su quest’area preme nella linea di confine tra i blocchi scaturita dalla II guerra mondiale, la contraddizione Nord/Sud in quanto area dove vengono a contatto i paesi dell’occidente capitalistico e i paesi dipendenti, nello specifico perché i conflitti che si producono nella regione mediterranea-mediorientale riguardano direttamente l’Europa in quanto questa è la sua naturale zona di influenza.
La regione mediorientale si presenta con confini altamente instabili tra i blocchi perché non definiti nel dopoguerra, oltre che per i motivi economici delle rotte e delle fonti energetiche, per i processi di decolonizzazione ed emancipazione nazionale in corso. Con l’imposizione della entità sionista che ha sancito l’espropriazione imperialista-sionista della terra palestinese, il mondo arabo diventa teatro della strategia imperialista tesa a pacificare anche “manu militari” l’area in questione, allo scopo di allargare e stabilizzare la propria orbita di influenza. In questo senso questa regione, di estremo interesse strategico, viene ad assumere tutte le condizioni perché vi si attui lo scontro preliminare sia politico che militare atto a preparare le migliori condizioni di partenza che possono preludere alla ridefinizione delle zone di influenza. In questo può caratterizzarsi come un “detonatore“ di un conflitto di ben più vaste dimensioni. Per tutti questi fattori e per le contraddizioni che vi convergono questa è l’area di massima crisi nel mondo.
In sintesi, l’intervento militare nella regione mediorientale non si esaurisce nei motivi storici, economici, politici e militari propri della regione, ma si intreccia indissolubilmente con gli avvenimenti e i processi economici e politici della catena imperialista che vedono l’Europa al centro della ridefinizione degli equilibri politici scaturiti dagli accordi di Yalta, questo perché l’intervento nel Golfo, oltre ad essere dettato da ragioni politiche di carattere strategico, è il portato degli scompensi dell’economia capitalistica; d’altronde un intervento sul rapporto Nord/Sud tale da svolgere la sua funzione riequilibratrice sulla caduta tendenziale del saggio di profitto medio (agendo sulle riserve di manodopera, sulle materie prime a basso costo e sull’allocazione di produzioni a bassa composizione organica) a questo stadio della crisi può avvenire solo all’interno di una più generale ridefinizione internazionale del lavoro e dei mercati la quale ha il suo centro nei paesi industrializzati e nella ridefinizione dei rapporti di forza tra Est e Ovest che dominano le relazioni internazionali. Per questo la guerra imperialista nella regione mediorientale è un ulteriore passaggio in avanti della tendenza alla guerra.
L’aggressione imperialista all’Irak per lo scenario in cui si è data e per la sua possibile evoluzione fa risaltare l’antimperialismo come contraddizione politicamente in primo piano, a partire dall’attività combattente delle forze rivoluzionarie della regione e dalla vasta resistenza delle masse arabe contro l’aggressione imperialista-sionista, rilanciando le legittime aspirazioni all’autodeterminazione dei popoli. Ciò che qualifica l’antimperialismo manifestato dalle masse arabe e in primo luogo dalle loro forze rivoluzionarie combattenti è il livello qualitativo prodotto dai precedenti passaggi effettuati dai processi di emancipazione popolare e nazionale ricchi di esperienze proprie del contesto storico-politico arabo. La rivoluzione algerina, il movimento nasseriano, fino al livello più avanzato espresso dalla resistenza dei popoli palestinese e libanese, sono fra i punti fermi più qualificanti di un percorso che ha maturato un elevato patrimonio di lotte, soprattutto a livello di guerra popolare di liberazione nazionale, che è il risultato del confronto costante con le complesse strategie imperialiste di carattere prettamente controrivoluzionario dispiegate nella regione in funzione di una sua normalizzazione e pacificazione, strategie che, attraverso continui tentativi di destabilizzazione dei paesi arabi che di volta in volta si oppongono ai progetti imperialisti, tendono anche ad ostacolare il coagularsi dell’unità araba.
Un patrimonio politico e rivoluzionario che nel contesto di quest’ultima aggressione imperialista sta maturando un ulteriore salto di qualità che può trarre forza anche dal legame tra un rinnovato nazionalismo arabo (espresso anche da settori di borghesia progressista) e le spinte più radicali e determinate delle masse popolari. Un legame in cui l’antimperialismo è il collante e che caratterizza la vasta opposizione espressa in tutta l’area mediorientale-nordafricana a partire dalla resistenza organizzata dalle forze rivoluzionarie col dispiegamento dell’attività combattente anche all’interno degli Stati arabi schierati con la coalizione occidentale, facendo così anche di questi paesi un territorio nemico per le truppe di invasione e rendendo perciò queste alleanze molto instabili.
Nello stesso tempo questa mobilitazione tende al superamento delle divisioni artificiosamente immesse dalle politiche imperialiste nella regione. Una resistenza e una contrapposizione che ha alla base profonde ragioni materiali relative alla necessità di affermare i propri diritti di autodeterminazione nazionale e emancipazione sociale soffocati dal colonialismo prima e dall’imperialismo poi. Tale resistenza inoltre in questa fase storica si sostanzia a partire da una accresciuta consapevolezza che rende insostenibile l’accettazione di un nuovo ordine imperialista che può imporsi solo nella distruzione massificata della regione e del popolo arabo.
Questo insieme di fattori politici è alla base della forte spinta e tensione che sottolinea le attuali mobilitazioni popolari e la resistenza delle proprie forze rivoluzionarie combattenti contro la presenza imperialista. In questo senso la contrapposizione ad essa è destinata a giocare un ruolo nella futura evoluzione dello scontro. Infatti l’imperialismo con la scelta di iniziare il conflitto ha aperto uno scontro i cui fattori in gioco non sono pianificabili nella pura logica militare poiché la guerra che si sta svolgendo nella regione ha in sé la possibilità di sviluppare la dinamica di uno scontro tra popoli che combattono per l’autodeterminazione e la logica di guerra imperialista: un piano di scontro questo che per l’imperialismo è strategicamente perdente. Per queste ragioni il conflitto è tutto da giocare nel lungo termine, indipendentemente dall’esito militare di quella che può considerarsi solo una prima battaglia.
La propaganda imperialista, in particolare del Pentagono e dell’amministrazione statunitense, sul futuro “ordine mondiale” già in marcia non nasconde, né può farlo, la natura economica che sta alla base degli avvenimenti politici di questi ultimi anni, caratterizzati da un crescente bellicismo. Infatti la grave crisi in cui si dibatte l’economia capitalistica è in ultima istanza la base del manifesto bellicismo imperialista.
Questo dimostra quanto l’opzione bellica sia una tendenza naturale e necessaria per dare ossigeno all’economia disastrata della catena, nonché come la potenza militare dell’Alleanza, per quanto distruttrice sia minata proprio nel cuore dell’imperialismo nel cuore dell’economia capitalistica.
La dinamica di sviluppo degli attuali termini di crisi-recessione ha implicazioni che richiamano nella sostanza a quelle che precedettero la II guerra mondiale, dinamiche di fondo che, presentandosi in un quadro storico mutato, seguono forme e modi di attuazione relativi alle concrete relazioni politiche e militari esistenti tra le forze in campo. Un contesto gravido di processi economici che tendono a riprodurre i passaggi chiave del processo di crisi-sviluppo dell’economia capitalistica nella sua fase monopolistica, con la differenza che in questa fase storica avvengono in un ambito economico di integrazione-interdipendenza dato dall’internazionalizzazione del capitale finanziario e industriale, a dominanza Usa; di conseguenza vi è 1’immediata interrelazione e concatenazione delle stesse contraddizioni prodotte dalla crisi, nonché delle controtendenze e scelte di politica economica. Allo stesso tempo la gerarchizzazione della catena fa sì che prevalgano le controtendenze e le scelte del paese dominante. Oggi come allora, da ben oltre un decennio, l’intero ambito dei paesi capitalistici è attraversato da una strisciante stasi produttiva che ha provocato un progressivo avanzare della recessione e stagnazione economica.
Su questo sfondo, aggravatosi criticamente negli ultimi anni, si stagliano i passaggi principali che, come nel precedente periodo storico, furono sintomo di un approfondimento della tendenza alla guerra, passaggi che in termini generali sono relativi a: il riarmo, il salto in avanti del capitale che matura oggettivamente nel contesto della crisi; la presenza dell’ambito di penetrazione adeguato per i capitali sovraprodotti. Oggi, in questa fase storica, queste dinamiche generali si presentano così: A) Il riarmo, come principale controtendenza alla crisi, adottato soprattutto da Usa e Gb, ma anche da altri paesi capitalistici, soprattutto europei, seppure con intensità diverse e in ambito Nato; B) Un ulteriore salto nel processo di internazionalizzazione dei capitali e della produzione che ha il suo perno nel mercato europeo; C) L’individuazione dell’ambito economico dei paesi dell’Est, per il grado di sviluppo della loro struttura economica, come quello adeguato e complementare per l’impiego dei capitali sovraprodotti e per il livello tecnologico raggiunto dalla produzione capitalistica.
A) Il riarmo è una politica economica di sostegno a cui lo Stato storicamente ricorre nel contesto della crisi generalizzata e di estesi processi recessivi a fronte di mercati capitalistici saturi e di una condizione generale matura per la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Elementi questi che sono tutti presenti nell’andamento dell’economia mondiale. Politica economica che si basa sull’immobilizzo dei capitali eccedenti nella produzione di armi storicamente legata alle tecnologie più avanzate ed implica l’armamento del paese che l’adotta essendo altra cosa dalla produzione bellica per il mercato. Infatti il riarmo non consente di rimettere in circolo i capitali immobilizzati e la sua adozione è fattore economico di accelerazione dello sbocco bellico racchiudendo in sé tutte le condizioni della bancarotta finanziaria per gli Stati che ne fanno ricorso. Nel quadro economico attuale il riarmo è diventato il terreno privilegiato di politica economica principalmente per Usa e Gb e, tendenzialmente allargato a tutta la catena; un terreno privilegiato anche perché la sua adozione comporta il controllo sull’alta tecnologia, quindi la leadership degli Usa in questo campo, campo su cui ruotano i termini della concorrenza monopolistica. Per altro verso Usa e Gb sono anche i paesi maggiormente gravati dalle contraddizioni economiche conseguenti a questa scelta; in questo senso per questi due paesi i fattori di crisi e la necessità di una loro soluzione adeguata premono fortemente sulle scelte politiche e militari, spingendo su questa direzione l’insieme della catena imperialista.
B) La crisi e la recessione generalizzata in cui versano i paesi della catena, pur esprimendo il massimo di debolezza, è anche la condizione in cui si matura il suo potenziale sviluppo, dentro alla dinamica di centralizzazione e concentrazione del capitale. Questo ha dato luogo ai processi di fusione e formazione di nuovi cartelli monopolistici che sono stati terreno privilegiato di investimento del capitale sovraprodotto, processi che ruotano principalmente nell’ambito del mercato capitalistico intereuropeo, con la Rft nella posizione economicamente dominante. Questa dinamica, scaturendo dalla integrazione economica già data, ha prodotto un ulteriore salto nell’internazionalizzazione dei capitali. Formazioni monopolistiche quindi a forte concentrazione di capitali che, a fronte del sostanziale restringimento della base produttiva, hanno approfondito i fattori di crisi relativi alla valorizzazione, tenendo anche conto della saturazione dei mercati capitalistici entro cui si dà la spartizione delle quote.
C) Il processo di penetrazione economica nei paesi dell’Est, relativo agli investimenti finanziari e produttivi operati principalmente dai paesi europei, soprattutto dalla Rft, si è reso possibile a partire dalle “aperture“ economiche che questi paesi hanno offerto (nel contesto della maturazione di contraddizioni e problematiche proprie a questo campo) e nello stesso tempo per la spinta dei capitali sovraprodotti alla ricerca di sbocchi appetibili. Con queste premesse gli investimenti all’Est sono diventati un ambíto terreno per i trust finanziari e industriali che muovono alla conquista delle migliori posizioni. Uno sbocco che, al contrario delle aspettative, si è dimostrato un palliativo a causa dei limiti che ha la semplice espansione dell’ambito di penetrazione dei capitali in un contesto di sovrapproduzione dei capitali.
Questo rimanda al meccanismo della crisi capitalistica e al suo processo di risoluzione. Secondo l’analisi marxista-leninista la crisi di sovrapproduzione di capitali e mezzi di produzione che non possono operare come tali trova risoluzione solo dentro al movimento di distruzione/ridefinizione/espansione; la semplice espansione del mercato dei capitali ad uno stadio di approfondimento della crisi non può risolvere nel lungo periodo la crisi stessa, e cioè la questione della valorizzazione.
Per questa ragione nel contesto di recessione e di mercati capitalistici saturi storicamente il capitale ricorre alla guerra come mezzo per distruggere il sovrappiù di capitali prodotto, così da poter rilanciare su nuove basi l’accumulazione, ridefinire e allargare su nuove posizioni di forza i mercati capitalistici e l’assetto interno alla gerarchizzazione della catena, nonché le zone di influenza mondiali. In questo senso, dall’evolvere della crisi si può analizzare la tendenza alla guerra, come intrinseca alle caratteristiche del capitalismo.
L’ultima guerra mondiale è stata l’inevitabile sbocco della grande crisi del ’29 e ha disegnato l’attuale quadro mondiale dominato dall’imperialismo Usa e in cui la contraddizione dominante, prima interimperialistica, è ora la contraddizione Est/Ovest quale terreno di realizzazione della tendenza alla guerra. Per questo motivo, dato il grado raggiunto dalla crisi, un nuovo ciclo economico con il rilancio dell’accumulazione capitalistica su scala adeguata al livello di sviluppo dell’imperialismo può essere dato solo nel confronto con il piano storicamente stabilito dalle sfere di influenza, la necessaria divisione internazionale del lavoro e dei mercati può avvenire cioè solo a scapito della sfera contrapposta, in primo luogo perché i paesi dell’Est presentano un ambiente economico sufficientemente sviluppato per consentirlo, e inoltre solo all’interno di questa ridefinizione l’imperialismo può rimodellare i rapporti di dipendenza con i paesi periferici.
La radicalizzazione della crisi, col progressivo esaurirsi dell’effetto delle controtendenze, ha provocato un salto nella tendenza alla guerra; ma il passaggio dalla tendenza alla guerra alla guerra guerreggiata non ha niente di deterministico. La guerra in quanto atto politico oggettivo è il risultato né meccanico né predeterminato dell’intrecciarsi di più fattori: quando le contraddizioni date dalla crisi, per il loro livello critico, non trovano risoluzione sul terreno economico, esse premono sul piano politico portando a maturazione, in un processo di rotture nei rapporti politici e di forza tra i diversi soggetti in campo, le premesse dello sbocco bellico.
L’attuale situazione, in quanto si colloca dentro alle condizioni di crisi generalizzata del capitalismo, a fronte della profonda recessione e dell’avvitarsi sull’utilizzo del riarmo, nella impossibilità di valorizzare i capitali sovraprodotti, ha visto un rapido montare di salti e rotture culminate, come primo momento, nell’annessione della Ddr da parte della Rft, e nella guerra del Golfo Persico. Due eventi solo apparentemente scollegati, ma invece strettamente complementari l’uno all’altro, proprio perché prodotti dalla stessa dinamica, eventi che richiamano subito alle annessioni e invasioni che precedettero e caratterizzarono l’escalation verso lo scatenamento della II guerra mondiale.
Questo perché lo stadio raggiunto dalla crisi economica non può risolversi con il parziale allargamento della sfera di penetrazione dei capitali che avviene attraverso annessioni e aggressioni, perciò queste stesse diventano da un lato fattori di instabilità economica per l’imperialismo e dall’altro i primi fondamentali passaggi politici di rottura e accelerazione di un processo che può evolvere verso un conflitto allargato. Allo stesso modo i massicci interventi di finanziamento alla guerra del Golfo da parte di paesi non immediatamente belligeranti come il Giappone e la Rft (pur essendo quest’ultima parzialmente presente nel conflitto) rimandano, rispondendo alla stessa logica, ai ben noti “prestiti di guerra” americani che finanziarono il II conflitto mondiale, quale sbocco del surplus finanziario che proprio questi paesi presentano al più alto livello.
La situazione innescata dall’imperialismo con l’aggressione all’Irak, per gli equilibri politico-militari che ne risultano, è gravida di sviluppi che oggi più che mai aprono, nelle intenzioni dell’imperialismo, la prospettiva di un nuovo conflitto mondiale, le cui proporzioni non possono che superare, e di gran lunga, i costi che l’imperialismo ha già imposto nella sua storia. Una prospettiva che scaturisce prima ancora che dal potenziale distruttivo delle armi, dalla funzione della guerra imperialista, per la risoluzione delle contraddizioni accumulate e approfondite dalla crisi. In tale quadro, le modalità con cui è avvenuta l’aggressione all’Irak presentano fin da subito sotto molti aspetti i caratteri con cui può darsi questo sviluppo, e cioè: una guerra enormemente distruttiva, che ha coalizzato l’intera catena imperialista e che vede il coinvolgimento mondiale, per un verso o per l’altro, di tutti i paesi. Primo obiettivo è la conquista di una posizione che, sotto l’aspetto politico-militare, è di importanza strategica e che prelude all’escalation nel confronto con l’Est. Un’escalation che non va intesa necessariamente come un processo di allargamento a macchia d’ olio di episodi bellici o come processo lineare nel tempo, soprattutto in quanto si tratta di un confronto che già da tempo si gioca su molteplici piani, che procedono l’uno accanto all’altro interagendo sulla contraddizione Est/Ovest: da un lato il piano oggettivo dato dalla spinta della crisi economica dell’imperialismo e il piano che riguarda i passaggi concreti sul terreno politico e militare dell’alleanza imperialista; dall’altro l’indebolimento che attraversa nel suo insieme i paesi dell’Est, indebolimento da cui l’imperialismo cerca di trarre vantaggio anche attraverso tentativi di destabilizzazione.
Un quadro complesso, nel quale l’aggressione militare imperialista condotta in un’area di confine instabile quale il Medio Oriente costituisce l’aspetto attualmente più rilevante. Su questo insieme di fattori si stanno oggi stabilendo i reali rapporti di forza tra i due campi contrapposti nel senso favorevole all’imperialismo. Ciò non significa rafforzamento del campo imperialista in quanto tale, ma relativamente all’indebolimento del campo avverso.
La coalizione dell’intero campo imperialista nell’occupazione del Medio Oriente è il risultato delle caratteristiche storiche della catena, che fanno sì che nessun paese possa non essere investito e sottrarsi ai fattori strutturali di crisi, pur permanendo ineliminabili contraddizioni e dislivelli e pur essendo gli Usa il paese che allo stato attuale ha il maggior bisogno di sbocco bellico. Uno schieramento attivo che risponde pienamente alle impellenze della frazione dominante di borghesia imperialista e che vede gli Usa stringere nei rapporti politici e militari intorno alle sue scelte tutti i paesi del campo imperialista in quanto scelte di interesse generale. Da qui l’immediato coinvolgimento di tutti i paesi della catena come non si era mai verificato nei precedenti eventi bellici. In questo senso risalta il significato politico della larga partecipazione, a prima vista oltre ogni logica militare, e, quale aspetto più significativo, la effettiva qualificazione dell’intervento delle potenze occidentali come Nato. A dimostrazione del fatto che i rapporti politico-militari istituzionalizzati nella Nato e in generale le relazioni politico-militari della catena hanno mantenuto costantemente nella loro sostanza la funzione per cui dopo la II guerra mondiale furono istituite e nel tempo potenziate; ciò perché un quadro storico, con le contraddizioni che lo caratterizzano, non può mutare linearmente e pacificamente.
La messa in campo della Nato nella sua complessità è un salto che non ha precedenti dalla sua fondazione. L’Alleanza atlantica, organismo politico-militare fondato alla fine della II guerra mondiale per la difesa degli interessi occidentali in funzione antisovietica all’esterno e di stabilizzazione controrivoluzionaria all’interno, ha svolto il suo compito relazionandosi alle necessità delle diverse congiunture internazionali, rafforzando nel contempo le prerogative per cui è stata creata, che si sintetizzano nelle dottrine politico-militari che, da difensive, si sono mutate in offensive, riflettendo fedelmente i fini dell’alleanza nell’organizzazione militare, nelle sue strutture operative e politiche.
Da questo punto di vista l’aggressione all’Irak ha rivestito anche la funzione di sperimentare sul campo il modello di operatività “interforce” e dei sistemi d’arma accumulati col riarmo, la sperimentazione, in sintesi, della conduzione della guerra, le cui modalità sono andate oltre al confronto militare con l’Irak, perché ha consentito da un lato la verifica del grado di coesione politica dei paesi imperialisti all’interno del ruolo loro assegnato nella disposizione gerarchica dell’Alleanza atlantica, che ha confermato l’allineamento sostanziale alla direzione Usa della guerra, dall’altro la verifica relativa della praticabilità o meno di modalità operative definite per un teatro di guerra ben più vasto. Una sperimentazione di queste modalità che, va detto, in gran parte sganciata dal modo concreto con cui è stata effettuata l’aggressione, la quale è proceduta attraverso l’utilizzo dei mezzi di distruzione di massa, ovvero una guerra basata in principal modo sul massacro della popolazione civile.
Nello stesso tempo ogni singolo Stato imperialista ha potuto verificare l’impatto che l’iniziale attivizzazione dello “stato di belligeranza” ha al proprio interno, a partire dai rapporti politici di classe in riferimento all’opposizione proletaria e rivoluzionaria contro la guerra, soprattutto perché la partecipazione alla guerra richiede interventi che, per caratteristiche e profondità, non possono essere considerati transitori.
In questo contesto l’Italia svolge a pieno titolo il ruolo assegnatole nel fianco-sud della Nato, al di là della sordina messa alla sua partecipazione nella guerra di aggressione all’Irak. Un ruolo di massima importanza strategica date le caratteristiche della regione mediorientale-mediterranea e soprattutto perché questa regione è teatro di questo conflitto. Un ruolo fino a ieri teso alla pacificazione-contenimento dei conflitti che si producevano nell’area attraverso un attivismo prevalentemente espresso sul piano politico-diplomatico per riuscire a ricucire e supportare gli strappi operati dalle precedenti forzature guerrafondaie Usa e oggi invece indirizzato al rafforzamento delle posizioni imperialiste da conseguire anche militarmente su tutti i piani di contraddizione che si intrecciano nell’area.
Salto di qualità dato dall’adeguarsi complessivo al nuovo livello di responsabilizzazione imposto da un quadro complessivamente mutato. Un ruolo che implica un farsi carico della funzione controrivoluzionaria perseguita attivamente dall’Italia contro i popoli della regione, e in primo luogo contro le loro forze rivoluzionarie; a questo fine mira il potenziamento dell’unità politico-operativa tra servizi segreti italiani e quelli degli altri Stati imperialisti, approfondendo i livelli di cooperazione e operatività degli stessi. Un aspetto, quello controrivoluzionario, del fianco sud della Nato, che, all’interno del conflitto in atto, non può che riflettersi nell’approfondimento del rapporto che si stabilisce tra imperialismo e antimperialismo, un rapporto su cui si misurano non solo le forze rivoluzionarie dei movimenti di liberazione e le guerriglie comuniste della regione, ma anche la guerriglia che agisce in Europa occidentale, questo per le implicazioni che subentrano nello scontro dalla stessa partecipazione dei paesi europei alla guerra, le quali si riflettono in primo luogo nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione.
Lo scontro di classe, in un contesto che evolve alla guerra, tende a subire un approfondimento inevitabile che rimanda alla dinamica propria della borghesia imperialista, la quale storicamente cerca di garantirsi la “pacificazione interna” per poter fare la guerra. Una costante che in questa fase storica assume una precisa configurazione che si richiama alle più generali caratteristiche assunte dalle forme di dominio della borghesia imperialista. Forma di dominio che in sintesi si esprime nella tipica mediazione politica che lo Stato instaura con la classe subalterna, che comporta l’uso di strumenti e degli organismi della democrazia rappresentativa, i soli legittimati a rappresentare la classe, dal piano capitale/lavoro al piano politico generale, al cui interno deve essere convogliato l’antagonismo di classe; un complesso reticolo che nella sua sostanza racchiude l’essenza della controrivoluzione preventiva, storicamente prodottasi nel rapporto di scontro tra le classi, un affinamento della funzione politica rispetto al governo del conflitto di classe che tutti gli Stati a capitalismo avanzato hanno maturato.
In questa fase che evolve verso la guerra, in particolare per lo Stato si tratta da un lato di potenziare al massimo i meccanismi di controrivoluzione preventiva, dall’altro di assicurarsi condizioni, nei rapporti di forza, che gli consentano il contenimento dello scontro approfondendo ulteriormente la funzione politica, in senso antiproletario e controrivoluzionario di tutte le istituzioni statali.
Le scelte belliciste dello Stato nel nostro paese si riversano nello scontro acutizzandone le contraddizioni e divaricando maggiormente gli interessi di classe. Una dinamica di schieramento che attraversa tutti gli ambiti sociali, determinata proprio dai chiari interessi che sono presenti con la guerra: gli interessi della frazione dominante della borghesia imperialista, che in tal modo cerca di risolvere la sua profonda crisi scaricandone i costi ancora una volta sul proletariato che, oltre a subire un’ulteriore compressione delle condizioni di vita politiche e materiali, ha davanti a sé anche la prospettiva di fare da “carne da cannone” nei progetti di guerra della borghesia imperialista.
Alle iniziative guerrafondaie dell’esecutivo si sono contrapposte le mobilitazioni di tutte le componenti proletarie che hanno espresso subito e nettamente l’indisponibilità a farsi coinvolgere nel massacro perpetrato dall’imperialismo, e che, a livello dell’attività spontanea, hanno manifestato la chiarezza dovuta alla propria posizione di classe sul significato della guerra e sul modo di opporvisi; tant’è che gli scioperi spontanei contro di essa e la richiesta legittima dello sciopero generale, con il forte significato politico che contengono, hanno avuto momenti di organizzazione ovunque, malgrado siano state oggetto di un capillare controllo e contenimento, a partire dalle concrete intimidazioni operate dall’esecutivo e con il contributo effettivo dei sindacati mobilitati con tutto il loro peso politico e organizzativo per assolvere al ruolo ormai collaudato di ammortizzamento delle istanze di classe politicamente più avanzate.
Questo dentro a un clima politico in cui l’esecutivo tende ad imporre alla classe la più profonda “normalizzazione” a partire dalla classe operaia, nel tentativo di ridimensionare ulteriormente il peso politico espresso nel rapporto di scontro, a cominciare dalle espressioni più avanzate rappresentate dalla sua autonomia politica.
Un clima politico che riflette i mutamenti avvenuti nel contesto generale del paese in cui sono maturati, soprattutto negli ultimi anni, i passaggi che evolvono ad una seconda repubblica dentro a equilibri politici e nei rapporti di forza tra le classi a favore della borghesia imperialista, e dentro a modifiche profonde negli assetti del potere statale relativi in primo luogo ad un forte accentramento dei poteri nell’esecutivo, e in particolare nella Presidenza del Consiglio. Poteri ulteriormente accresciuti dalle particolari funzioni di cui è investito l’esecutivo con la partecipazione alla guerra.
Di fatto, con la guerra, si è reso quanto mai evidente il divario tra scontro reale nel paese e suo governo formale nelle sedi politico-istituzionali, nella necessità di svincolare il governo delle contraddizioni che si attua in quelle sedi dal reale portato dello scontro. Nell’ambito parlamentare e istituzionale, in sintesi, si esprime l’unanimismo delle forze politiche alle scelte guerrafondaie dell’esecutivo, un allineamento sostanziale espressione degli interessi della borghesia imperialista, che sta alla base della possibilità di soprassedere senza eccessive scosse sul piano istituzionale e parlamentare alle norme che regolano la partecipazione alla guerra per poi procedere su tutto l’arco delle necessità che riguardano il governo del paese e le urgenti misure programmatiche per far fronte alla crisi economica. Questo terreno è anche l’unico spazio politico possibile su cui sono chiamate a dialettizzarsi le rappresentanze istituzionali della classe e su cui il neonato Pds non ha esitato a relazionarsi, anche in vista di una verifica per la futura collocazione che potrebbe avere nel quadro della “Riforma istituzionale” in gestazione.
L’impossibilità per il proletariato di contare politicamente e di pesare sui rapporti di forza con gli strumenti consentiti dalla democrazia rappresentativa borghese, con questa operazione bellica è ancor più in evidenza, nell’impossibilità di far valere i suoi interessi di classe e, in questi, la sua irriducibile opposizione alla guerra voluta dalla borghesia imperialista e dal suo Stato.
Una condizione di scontro che ripropone tutte intere le ragioni per cui si è affermata la strategia della lotta armata nel nostro paese e in generale la lotta armata nel centro imperialista, riconferma la giustezza della attività svolta sul piano rivoluzionario dalle Brigate Rosse e rilancia con la forza dei fatti la propositività della sua linea politica e degli obiettivi programmatici.
Ciò che lo scontro chiama in causa è in primo luogo l’azione e il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria, l’azione e il ruolo della guerriglia nel nostro paese, come del resto negli Stati imperialisti, proprio a partire dalla forza di rottura data dalla sua impostazione offensiva verso il sistema di potere della borghesia imperialista.
L’esperienza accumulata dalla guerriglia, nello specifico europeo, ha in sé tutte le possibilità di confrontarsi con il piano controrivoluzionario che lo Stato e l’imperialismo nel suo insieme rovesciano nello scontro, perché la guerriglia ha fatto proprie, dentro alla prassi messa in campo, le leggi fondamentali dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata, nonché le modalità politiche e militari basilari entro cui si sviluppa. Ciò che la realtà storica pone in evidenza è che nei centri imperialisti lo sviluppo della guerra di classe, e in essa dell’esercito proletario in formazione, diretto dalla sua avanguardia politico-militare, rappresenta storicamente per il campo proletario il livello più avanzato della scienza rivoluzionaria di trasformazione della società in senso socialista, ovvero un avanzamento del marxismo-leninismo sul terreno rivoluzionario. Per questo la sua potenzialità di rottura è un fattore di dimensioni storiche che dà alla guerriglia un ruolo di assoluta preminenza in senso strategico nel confronto con lo Stato e l’imperialismo.
Soprattutto dalla fine del secondo conflitto mondiale, nello specifico del centro imperialista, il processo rivoluzionario si dà come costruzione della guerra di classe necessariamente di lunga durata. La guerriglia, avanguardia e motore di questo processo, si è posta alla testa dello scontro di classe rompendo con l’inadeguatezza dell’impostazione terzinternazionalista, incapace di conseguire la conquista del potere politico nei paesi a capitalismo maturo. E questo per i mutamenti avvenuti sul piano storico-politico ed economico-sociale con lo sviluppo dell’imperialismo, mutamenti entro cui si è definito l’affinamento delle forme di dominio della borghesia imperialista; un affinamento che contiene la controrivoluzione preventiva quale politica costante verso le istanze antagoniste del proletariato. Ciò non consente di accumulare forza politica nel tempo da riversare sul piano militare nel momento finale dello scontro, anche per il venir meno della cosiddetta “situazione eccezionale“. Per questo la guerriglia si esprime nell’unità del politico e del militare come il dato nuovo e più avanzato della guerra di classe nelle metropoli imperialiste. Un principio che unifica nell’azione della guerriglia il piano politico dello scontro con il piano della guerra, un piano quest’ultimo che pure vive nello scontro di classe, ma che deve essere affrontato contemporaneamente all’aspetto politico che resta comunque dominante.
Uno scontro i cui caratteri eminentemente politici derivano dalle modalità di governo del conflitto di classe sviluppato dalla borghesia imperialista dentro al tipo di mediazione politica tra le classi propria delle democrazie rappresentative contemporanee. Queste peculiarità si riflettono dentro alle leggi generali dello scontro rivoluzione/controrivoluzione caratterizzando la guerra di classe come una guerra senza fronti che vive nel cuore stesso del nemico di classe e nella impossibilità di usufruire di basi rosse liberate. Uno scontro che, per i caratteri politici detti, vive un andamento fortemente discontinuo, caratteri che pure influiscono sulla condizione immanente dell’accerchiamento strategico. L’accerchiamento strategico è determinato dal fatto che il potere è nelle mani del nemico completamente fino al suo rovesciamento; i rapporti di forza, intesi in termini generali, sono dunque sempre favorevoli al nemico di classe; la rottura nei rapporti di forza a favore del campo proletario che l’avanguardia rivoluzionaria opera è quindi sempre relativa. Contemporaneamente vige il principio che la guerra di classe è strategicamente vincente, infatti la borghesia vi interviene per mantenere il potere, ma non può “distruggere” il proletariato, chiave di volta del modo di produzione capitalistico, in quanto creatore di plusvalore. Il proletariato rivoluzionario al contrario combatte per il potere, e in questo processo vive e si sviluppa come classe rivoluzionaria.
Dentro a questi dati generali sui quali si è affermata la lotta armata in Europa, vive l’apporto qualitativo delle BR, acquisito in venti anni di prassi rivoluzionaria, con la maturazione del patrimonio teorico, politico e organizzativo che costituisce fondamento dello sviluppo rivoluzionario nel nostro paese.
Le BR si qualificano fin dalla loro nascita per la proposta della strategia della lotta armata fatta a tutta la classe, un’impostazione strategica su cui si organizzano e si dispongono fin da subito le avanguardie più coscienti sul terreno della lotta armata, calibrandone la disposizione alla fase di scontro e ai rapporti di forza generali, e su cui è indirizzato dall’inizio alla fine lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata. Una strategia che è tale in riferimento alle specificità dello scontro di classe determinatosi storicamente in Italia per le caratteristiche qualitative dell’autonomia di classe sostanzialmente antistituzionale, antistatuale e antirevisionista. Il proletariato metropolitano a dominanza operaia è perciò la base sociale di riferimento della lotta armata, la base sociale da cui sono nate le BR e in cui costantemente si riproducono, la base sociale di cui rappresentano gli interessi generali di contro al potere della borghesia imperialista sul terreno rivoluzionario; per questo uno dei principi fondamentali della nostra organizzazione è quello di sviluppare la lotta armata a partire dai poli industriali del nostro paese.
Le BR hanno potuto verificare le importantissime implicazioni che vivono operando nell’unità del politico e del militare che agendo come una matrice condiziona tutto il modo in cui si sviluppa la guerra di classe: dai meccanismi che consentono a una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi rivoluzionaria, al processo rivoluzionario nel suo complesso. In altre parole, per le BR nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare e agire militarmente e dare il primo posto alla politica, esse svolgono la loro iniziativa rivoluzionaria secondo una linea di massa politico-militare. All’interno di questo principio condizionante, la questione del partito nella guerra di classe non è risolvibile con un atto di fondazione, ma si dà come processo di costruzione-fabbricazione in relazione alla costruzione delle condizioni politico-militari della guerra di classe. Nella sua più precisa definizione e progettualità si maturano le condizioni per il salto al partito, per il salto da organizzatori di ristrette avanguardie alla direzione di interi settori di classe organizzati nella guerra di classe. Le BR in questo processo si pongono come nucleo fondante il partito operando la funzione di avanguardia, “agendo da partito per costruire il partito”, per questo le BR rappresentano fin dalla loro nascita l’organizzazione del reparto più avanzato della classe operaia, nucleo strategico di direzione dell’esercito proletario in formazione nella prospettiva di sviluppo della guerra di classe di lunga durata. In questo senso le BR sono una formazione di guerriglia modellata sul principio di funzionamento di un esercito rivoluzionario il cui modello politico e organizzativo si fonda sui principi della clandestinità e compartimentazione, principi che consentono di esplicitare il carattere offensivo della guerriglia. Un’organizzazione di quadri politico-militari strutturata in istanze superiori e inferiori regolate dal centralismo democratico.
La pratica combattente della guerriglia urbana, con la sua impostazione offensiva, ha permesso e permette alle BR di incidere nello scontro, individuando con chiarezza il nodo politico centrale che oppone la classe proletaria allo Stato nelle politiche dominanti della congiuntura; ovvero il fatto di colpire con precisione il cuore dello Stato ha permesso e permette alle BR di spostare volta per volta sia pure in termini relativi i rapporti di forza a favore della classe, trasformando il momentaneo vantaggio raggiunto in organizzazione di classe sul terreno della lotta armata. Questa dialettica che dall’attacco, attraverso la costruzione di nuove forze e la loro disposizione sul terreno rivoluzionario, permette di ritornare all’attacco sempre al più alto livello qualitativo, calibrato alle condizioni dello scontro, è la direttrice nella quale si sviluppa la guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico.
Nello sviluppo dell’attività rivoluzionaria dentro ai nodi centrali di scontro tra classe e Stato che si sono succeduti nel nostro paese, le BR hanno costituito e costituiscono l’alternativa rivoluzionaria in grado di contrapporsi al dominio della borghesia imperialista e del suo Stato, di concretizzare nell’azione offensiva della guerriglia la sola possibilità di far inceppare e arretrare i progetti centrali dello Stato, in particolar modo quelli tesi al suo rafforzamento, un processo di scontro che ha innescato necessariamente la risposta controrivoluzionaria dello Stato al radicamento della prospettiva rivoluzionaria. Molto concretamente è questa la dinamica complessiva in cui è inserito l’attacco al progetto demitiano di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato. Un’iniziativa politico-militare che, intervenendo al punto più alto dello scontro tra le classi, ha contribuito a far arretrare sostanzialmente il progetto più organico della borghesia imperialista per affrontare i gravi problemi posti dall’approfondimento capitalistico e dall’acutizzazione della sua crisi e nel contempo per fornirsi degli strumenti di governo adeguati a svincolarsi dal conflitto di classe e dal suo portato rivoluzionario. Un attacco che ha dimostrato ancora una volta come la disarticolazione del progetto dominante che oppone classe e Stato nella congiuntura, a partire dall’indebolimento relativo che si determina per il nemico di classe, consente di acquisire i termini più favorevoli sul terreno della costruzione-organizzazione. La portata offensiva dell’attacco portato dalle BR è il punto più alto dell’attività rivoluzionaria complessiva che esprime la qualità del riadeguamento intrapreso dalle BR dall’apertura della Ritirata strategica, nel contesto di un forte scontro caratterizzato dal relativo ripiegamento del campo proletario, dall’approfondimento dei termini controrivoluzionari dello Stato, mentre per parte rivoluzionaria vive la fase di Ricostruzione, che è nello stesso tempo un obiettivo programmatico a livello dell’organizzazione di classe sulla lotta armata. Un’attività complessiva che si relaziona alla condotta della guerra informata dalla fase generale di Ritirata strategica, ovvero una condotta tesa “a un ripiegamento delle forze mantenendo e rilanciando nel contempo la capacità offensiva della guerriglia”.
Fase di Ricostruzione che si presenta problematica e difficile nel contesto controrivoluzionario che si è imposto nel paese e si svolge dentro a un movimento avanzate-ritirate. Per questo l’agire rivoluzionario deve operare sul duplice piano di lavoro costruzione-formazione, teso a ricostruire nel tessuto di classe i livelli di organizzazione politico-militare delle forze rivoluzionarie e proletarie in modo da attrezzarle, strutturarle e disporle adeguatamente nello scontro contro lo Stato, e teso alla formazione dei rivoluzionari stessi perché acquisiscano la dimensione dello scontro rivoluzionario oggi a partire dalla ricca esperienza accumulata dalle BR in questi venti anni. La fase di Ricostruzione è quindi un termine prioritario per il mutamento dei rapporti di forza tra campo proletario e Stato, costituendo altresì un elemento fondamentale di avanzamento della guerra di classe di lunga durata.
In unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato per le BR è prioritario condurre l’attacco all’imperialismo, un piano di combattimento questo da sempre patrimonio storico della nostra organizzazione. Infatti il processo rivoluzionario condotto in Italia dalle BR è sin da subito caratterizzato come processo rivoluzionario internazionalista e antimperialista; le BR conducono il processo di guerra di classe di lunga durata facendo vivere nella dialettica tra guerriglia e autonomia di classe i contenuti dell’internazionalismo e dell’antimperialismo per tutto il corso del processo rivoluzionario, consapevolmente fin dall’inizio. Un’impostazione che poggia sulle stesse ragioni oggettive e soggettive per cui si è sviluppata la guerriglia e che ha comportato l’attualizzazione dell’internazionalismo proletario alle concrete condizioni storiche. Un’impostazione che, attraverso la pratica politico-militare, ha raggiunto un nuovo livello di qualità nella promozione e nel contributo al rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista, come il passaggio politico più avanzato per collocare l’antimperialismo al livello dello scontro imperialismo/antimperialismo in questa condizione storica. In altre parole la necessità di praticare una politica di Fronte si misura con i livelli di integrazione economica, politica e militare maturati storicamente dalla catena, che rendono necessario l’indebolimento e la destabilizzazione dell’imperialismo affinché sia possibile la rottura rivoluzionaria in un singolo paese. Una condizione che nella nostra area geopolitica è resa più complessa dalle politiche imperialiste che si riversano, seppure in modo diverso, sia contro le condizioni del proletariato metropolitano e l’attività della sua avanguardia rivoluzionaria, la guerriglia, sia contro i popoli della regione che combattono per 1’autodeterminazione. Un contesto che fa dell’imperialismo il nemico comune tracciando l’unità oggettiva tra questi due differenti piani di scontro rivoluzionario. Da qui la necessità di unificare soggettivamente nell’attacco all’imperialismo, alle sue politiche centrali, non solo la guerriglia che opera nel cuore dell’Europa occidentale, ma anche le forze rivoluzionarie di liberazione nazionale che operano nell’area, a maggior ragione tenendo conto dei processi di coesione politica dell’Europa occidentale interni al rafforzamento della catena e al materializzarsi della tendenza alla guerra proprio in quest’area, nonché dell’attività controrivoluzionaria dell’imperialismo.
Fattori che pongono il Fronte come l’organismo politico-militare adeguato per impattare l’attività imperialista nell’area così da provocarne il relativo indebolimento. Attività di Fronte che per le BR si concretizza in una politica di alleanze tra le forze rivoluzionarie presenti nell’area geopolitica per raggiungere l’unità di attacco contro il nemico comune in riferimento alle politiche di coesione sul piano economico-politico-militare-controrivoluzionario dell’Europa occidentale e del suo intervento sul piano politico-diplomatico-militare inserito nelle più generali iniziative dell’imperialismo per “normalizzare” la regione mediorientale-mediterranea.
Criteri di alleanza che non devono essere condizionati dalle differenze che caratterizzano ogni forza rivoluzionaria e che non significano fusione in una unica organizzazione né fanno dell’attività di Fronte la sola attività praticata, ma sulla base dell’attacco al nemico comune si costruiscono di volta in volta i diversi momenti di unità e i livelli di cooperazione raggiungibili. Un’unità possibile e necessaria pur tenendo conto del diverso portato dei processi rivoluzionari che si sviluppano nel centro imperialista dai processi di liberazione nazionale della periferia; differenze oggettive che possono condurre a un arricchimento qualitativo nella politica di alleanza e di conseguenza nella incisività dell’attacco all’imperialismo.
L’analisi delle BR sugli specifici caratteri dell’area geopolitica europea-mediorientale-mediterranea consente di comprendere appieno la portata dei processi di guerra innescati dall’imperialismo nel Golfo Persico e di collocare altresì la portata politica dell’antimperialismo che da questo contesto si sviluppa. Le azioni delle forze rivoluzionarie nella regione, la vasta mobilitazione delle masse arabe, le iniziative di combattimento della guerriglia nel centro imperialista e le mobilitazioni spontanee dell’autonomia di classe hanno affermato l’unità di intenti che esiste tra proletariato del centro e popoli della periferia contro la crisi del’imperialismo e i suoi risvolti guerrafondai.
Nel quadro dell’attività antimperialista rivendichiamo il contributo fattivo alla promozione e costruzione del Fronte Combattente Antimperialista da parte delle BR con le azioni Dozier, Hunt, Conti e l’approdo al testo comune RAF-BR dell’88 concretizzatosi con l’azione Tietmeyer. Una prassi antimperialista che segna un percorso pratico in dialettica con le altre forze rivoluzionarie nella proposta-contributo del Fronte Combattente Antimperialista. Sosteniamo infine le iniziative politico militari della RAF, fino alle più recenti contro l’ambasciata Usa a Bonn e contro Rohwedder.
Il lungo percorso pratico di assunzione soggettiva della convergenza di interessi della lotta contro l’imperialismo, e dunque della costruzione e consolidamento del Fronte, non è un processo lineare, ma ha i suoi passaggi di qualità, poiché si è svolto e si svolge nel confronto continuo con la controrivoluzione, e con lo sviluppo delle lotte rivoluzionarie nel fuoco concreto della storia.
Dentro ai principali assi programmatici dell’attacco allo Stato e all’imperialismo la nostra Organizzazione, nella dialettica con le istanze più mature dell’autonomia politica di classe, ha costruito e costruisce i termini dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata. Obiettivi programmatici e impostazione strategica su cui molto concretamente ruota l’unità dei comunisti e su cui si dà avanzamento alla costruzione del partito comunista combattente.
Il portato e la dimensione dell’attività delle BR risalta chiaramente non solo per il fallimento dei progetti politici più antiproletari e controrivoluzionari dello Stato e nel contributo dato alla tenuta e riorganizzazione del campo proletario anche di fronte agli attacchi più duri portati dalla borghesia e dal padronato, ma risalta in quei significativi passaggi politici che le BR hanno effettuato nel riadeguamento dell’attività di direzione-organizzazione nel combattimento contro lo Stato, avvenuto nel vivo dello scontro, nelle difficili condizioni degli anni ottanta. Passaggi politici tali da dare oggi una maggiore maturità alla stessa proposta rivoluzionaria, alle modalità di sviluppo, organizzazione e movimento della guerra di classe di lunga durata in un paese del centro imperialista. Ed è proprio questo dato politico qualitativo, il rapporto tra l’attività di avanguardia delle BR e il contesto dello scontro di classe in Italia, che ha contribuito a determinare uno spessore politico a questo stesso scontro non facilmente riconducibile agli obiettivi di “pacificazione” pianificati dalla borghesia imperialista e perseguiti con rinnovata impellenza soprattutto in questa fase di scontro. In altre parole, seppure lo scontro rivoluzionario procede tra avanzate e ritirate dentro al suo andamento discontinuo, la stessa esperienza delle BR ha verificato come gli avanzamenti che di volta in volta si producono e le conoscenze acquisite sulla conduzione stessa della guerra di classe determinano un peso politico che permane nei caratteri dello scontro rivoluzionario, da cui non è possibile prescindere. All’interno di questa dinamica anche il prevedibile approfondimento del piano controrivoluzionario nello scontro per parte dello Stato e dell’imperialismo, soprattutto come portato dell’accelerazione della tendenza alla guerra, non cade su una condizione di classe priva di strumenti per contrapporvisi e misurarsi adeguatamente, a partire proprio dall’esistenza della guerriglia e della sua valenza strategica.
Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente e militanti rivoluzionari prigionieri non riconosciamo alcuna legittimità a questo tribunale e allo Stato che rappresenta. Dei nostri atti politici rispondiamo solo alla nostra organizzazione, e con essa al proletariato di cui è l’avanguardia rivoluzionaria. Ribadiamo che il processo qui celebrato non è che un momento del rapporto tra guerriglia e Stato. Lo scontro nella sua complessità politica e rivoluzionaria si gioca fuori da queste aule; per questo per noi e meglio di noi parla la guerriglia in attività.
– Attaccare e disarticolare i progetti controrivoluzionari e antiproletari di rifunzionalizzazione dello Stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare i progetti imperialisti della coesione politica europea e di “normalizzazione” della regione mediorientale.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area.
– Trasformare la guerra imperialista in guerra di classe rivoluzionaria.
– Onore ai compagni e combattenti antimperialisti caduti.
I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini
Bologna, aprile 1991
Un pensiero su “Tribunale di Bologna. Documento allegato agli atti dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini”