I dannati della terra, da Lotta continua ai Nap
Nel 1969 si sviluppa in Italia un vasto movimento, che trae la sua forza innovativa dal collegamento fra le lotte operaie e studentesche. In questo contesto nascono le prime organizzazioni della sinistra extraparlamentare, fra cui Lotta continua, che indirizza il proprio intervento verso soggetti e settori proletari – detenuti, disoccupati, militari di leva – fino ad allora esclusi dai percorsi di trasformazione sociale e politica. Dopo aver costituito nel 1970 una Commissione carceri, per sostenere le lotte dei proletari prigionieri, l’anno successivo il gruppo dedica a questi temi una rubrica del suo giornale, che intitola I dannati della terra, come la celebre opera di Frantz Fanon, in cui il sottoproletariato è considerato un soggetto determinante nel processo rivoluzionario per il superamento del modo di produzione capitalista. I sempre più frequenti arresti di militanti della sinistra extraparlamentare favoriscono la crescita di una coscienza fra i detenuti comuni, che porta alla formazione di numerose avanguardie di lotta e organizzazioni interne. Come le Pantere rosse nate nel carcere di Perugia, che guidano le proteste e le rivolte anche violente moltiplicatesi nelle carceri italiane dalla fine degli anni Sessanta. L’obiettivo principale è un miglioramento delle condizioni di vita, tramite una riforma che abolisca il Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena, firmato dal guardasigilli Alfredo Rocco nel 1931, fedele traduzione dell’ideologia fascista nel settore penitenziario.
Alla metà del 1972, l’iniziale attività di solidarietà ai detenuti promossa dal Collettivo teatrale La Comune, di cui erano animatori Dario Fo e Franca Rame, si trasforma in una vera e propria struttura nazionale, il Soccorso rosso militante, che riprende il nome di una storica organizzazione del movimento comunista e coordina gli «avvocati rivoluzionari», per fare fronte alle accresciute esigenze di sostegno legale ed economico determinate dagli arresti di militanti politici.
Mentre si sviluppano le iniziative di solidarietà nei confronti dei detenuti, e in molti vogliono mettere in pratica la parola d’ordine lanciata da Lotta continua con il libro pubblicato nel 1972, Liberare tutti i dannati della terra, l’anno successivo il gruppo sente sfuggire di mano la situazione. Scioglie la Commissione carceri e indirizza il proprio intervento verso obiettivi e contenuti che a molti militanti appaiono sfumati e insufficienti. Alcuni abbandonano l’organizzazione.
A Firenze nasce il Collettivo George Jackson mentre a Napoli, dove la mobilitazione si diffonde anche in seguito allo scoppio di una epidemia di colera, si realizza un incontro fra i proletari extralegali, strappati per la prima volta al controllo della destra, e gli studenti universitari, determinati a condurre una lotta contro il sistema. Da queste realtà nel 1974 nascono i Nuclei armati proletari (Nap), che si dotano di strutture clandestine. Pur operando anche al nord, intendono proseguire il lavoro con il proletariato prigioniero collegandolo allo slancio rivoluzionario dei soggetti sociali emarginati del Sud Italia.
Gli inizi: la propaganda armata
Il simbolo scelto dai Nuclei armati proletari è quello di una brigata partigiana. Falce e martello in una stella a cinque punte. Il martello poggia sull’impugnatura della falce, e la stella ha una punta più corta. Il timbro viene regalato a un militante da un tipografo milanese, ex partigiano. Un ideale passaggio di consegne.
La prima azione dimostrativa dei Nap, che apre la campagna Rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei esterni, è finanziata con il sequestro lampo di Antonio Gargiulo, figlio di un noto professionista napoletano. Viene effettuata fra la sera del 1 ottobre 1974 e la mattina del giorno successivo davanti a tre grandi carceri. Poggioreale a Napoli, Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano. Un messaggio registrato rivolto ai detenuti, diffuso tramite altoparlanti che si autodistruggono dopo la trasmissione, poi ripreso in un volantino di rivendicazione.
Attenzione, state lontani, questa apparecchiatura e questo luogo sono minati ed esploderanno al minimo tentativo di interrompere questo messaggio. Compagni e compagne detenuti nel carcere, questo messaggio è rivolto a tutti voi dai Nuclei Armati Proletari che si sono costituiti in clandestinità all’esterno dei carceri per continuare la lotta dei detenuti contro i lager dello Stato borghese e la sua giustizia; il nostro è un appello alla ripresa delle lotte per il conseguimento degli obbiettivi espressi nelle piattaforme dal ’69 in poi. Una ripresa delle lotte nei carceri che ci vede uniti, ora come dal ’69 in poi, al proletariato; contro il capitalismo violento dei padroni, contro lo Stato dei padroni ed il suo governo. […] Compagni proletari detenuti, per i nostri diritti, contro la violenza di stato nelle carceri, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole e nelle caserme, contro il rafforzamento della repressione, rivolta generale nelle carceri. Rifiutiamo il modo di vivere impostoci dalla classe borghese con lo sfruttamento, la miseria e l’oppressione; rifiutiamo di continuare ad essere l’alibi delle struttu- re poliziesche ed antiproletarie dello Stato. Compagni, la repressione su di noi affianca e perfeziona il fascismo delle leggi di Stato, conferma che il potere calpesta il diritto del proletariato più debole preparandosi a calpestare la libertà di tutto il proletariato. Noi non abbiamo scelta: o ribellarsi e lottare o morire lentamente nei carceri, nei ghetti, nei manicomi dove ci costringe la società borghese e nei modi che la sua violenza ci impone. Contro lo Stato borghese, per il suo abbattimento, per la nostra autoliberazione di classe, per il nostro contributo al processo rivoluzionario del proletariato, per il comunismo: rivolta generale nei carceri e lotta armata dei nuclei all’esterno.
Gli obiettivi immediati dei Nap sono: abolizione dei manicomi giudiziari e dei riformatori minorili; amnistia generale e incondizionata, tranne che per i reati di mafia e per la «sbirraglia nera»; inchiesta da parte di una commissione «composta da compagni, avanguardie di lotta delle fabbriche e dei quartieri» sulle torture, gli abusi e gli omicidi nelle carceri; la verità sulla morte di Del Padrone, detenuto ucciso nel corso della rivolta alle Murate, a Firenze, e sulla strage che ha stroncato la rivolta di Alessandria. L’azione è riuscita.
I primi caduti
Ma non del tutto. I militanti fiorentini non ce l’hanno fatta a effettuare il volantinaggio davanti al quarto carcere previsto, le Murate. L’insuccesso brucia. Mentre il nucleo napoletano prosegue le azioni effettuando tra l’altro l’irruzione in una sede dell’Unione cristiana imprenditori dirigenti (Ucid), legata alla Democrazia cristiana, a Firenze viene organizzato in tutta fretta un esproprio in banca per acquistare una partita di armi. La preparazione è così approssimativa che il gruppo agisce il 29 ottobre 1974, giorno di sciopero. La filiale è chiusa e i cinque ripiegano sulla prima aperta. Mentre sono all’interno vengono intercettati dai carabinieri e alla loro uscita scoppia un conflitto a fuoco. I militanti, feriti, riescono a salire in macchina quando il ventottenne Luca Mantini, alla guida, si accorge che uno di loro è rimasto a piedi. La reazione è istintiva. Mette la retromarcia per tornare a prenderlo. Viene freddato da una raffica di mitra insieme al ventenne Giuseppe Romeo (nome di battaglia Sergio), ex detenuto napoletano. Pasquale Abatangelo e Pietro Sofia, feriti, sono arrestati, Nicola Pellecchia riesce a fuggire. Per l’organizzazione è un duro colpo. La rabbia è forte ma si va avanti.
A dicembre a Napoli viene sequestrato a scopo di finanziamento Giuseppe Moccia, imprenditore cementiero ed ex sindaco democristiano di Afragola. Un miliardo di lire di riscatto, e l’industriale viene liberato. I soldi – il cui successivo parziale ritrovamento da parte delle forze di polizia farà collegare il sequestro all’organizzazione – sono usati per aprire basi a Roma e acquistare armi ed esplosivi. Ma proprio quando la disponibilità economica permette una maggiore libertà d’azione, nei Nap nascono divergenze fra i militanti che vogliono continuare a concentrare l’iniziativa prevalentemente sull’antifascismo, le carceri e la repressione, e chi ritiene invece sia giunto di momento di iniziare l’attacco al cuore dello Stato. Fedele alla linea iniziale è soprattutto Fiorentino Conti, che forma un gruppo romano determinato ad agire in autonomia rispetto al resto dell’organizzazione.
L’uso di esplosivo e le morti accidentali
Mentre proseguono le azioni, ma anche gli arresti di alcuni militanti, l’organizzazione perde altri due membri, per incidenti collegati all’utilizzo di esplosivo, di cui i Nap fanno largo uso, a differenza delle Brigate rosse, contrarie a tecniche indiscriminate di intervento. L’11 marzo 1975 muore a Napoli Giuseppe Vitaliano Principe, per lo scoppio accidentale di un ordigno che sta confezionando, volto a colpire una divisione dei carabinieri, mentre resta gravemente ferito Alfredo Papale. Parte dell’organizzazione napoletana viene individuata.
Il 30 maggio perde la vita Giovanni Taras, appartenente al gruppo guidato da Conti, a causa dello scoppio anticipato della carica esplosiva, collegata a un registratore, che sta sistemando sul tetto del manicomio giudiziario di Aversa per diffondere un messaggio di solidarietà con gli internati. Nonostante il fallimento, l’azione, rivendicata dal Nucleo Sergio Romeo, fa salire l’attenzione su quello che da più parti è definito un lager sanitario, una fabbrica di tortura dove si vive in condizioni disperate e si muore per incuria.
Il sequestro del giudice
A Roma, il 6 maggio 1975, viene effettuata l’azione più clamorosa condotta dai Nap, il sequestro di Giuseppe Di Gennaro, consigliere di Cassazione e capo di un ufficio della Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena del Ministero di Grazia e giustizia. Di Gennaro è considerato un magistrato democratico, lavora alla riforma carceraria. Per i Nap è un «servo dello Stato» in funzione antiproletaria e repressiva, perché attraverso la riforma e la creazione di carceri più «umane», intende indebolire le lotte dei detenuti. In particolare, lo accusano di aver creato una schedatura elettronica e aver realizzato, con la collaborazione dell’architetto Sergio Lenci, ferito da Prima linea nel 1980, un testo sull’architettura penitenziaria e il nuovo carcere di Rebibbia. Ma Di Gennaro ha tanti nemici nei suoi ambienti e subisce un violento attacco mediatico.
Il 9 maggio nel carcere di Viterbo tre detenuti, Pietro Sofia, Giorgio Panizzari e Martino Zichittella, dopo aver tentato senza esito l’evasione, sequestrano alcuni agenti di custodia e rivendicano ai Nap il rapimento del giudice. Consegnano un comunicato, di cui chiedono la diffusione via radio, e la foto di Di Gennaro. Il sequestro ha anche lo scopo di evitare ritorsioni nei confronti dei detenuti in caso di fallimento dell’evasione. Di Gennaro viene rilasciato il 10 maggio in «libertà provvisoria», dopo che il comunicato è stato letto al giornale radio del mattino. Appena uscito riprende il suo lavoro. Per i Nap è comunque una vittoria politica. Hanno dimostrato di riuscire a entrare nei centri nevralgici del potere, mentre nelle carceri proseguono le evasioni.
In una riflessione sull’impostazione politica e organizzativa diffusa in forma di autointervista nel giugno 1975 si dice, tra l’altro: I Nap sono nati da precise esperienze di massa in vari settori, che hanno spinto alcuni compagni a porsi concretamente il problema della clandestinità. […] Noi vediamo la sigla Nap non come una firma che caratterizza un’organizzazione con un programma complessivo, ma come una sigla che caratterizza i caratteri propri della nostra esperienza. […] La nostra esperienza ha portato alla creazione di nuclei di compagni che agiscono in luoghi e situazioni diverse, in maniera totalmente autonoma e che conservano tra di loro un rapporto organizzativo e di confronto politico.
Il 26 luglio 1975 viene promulgata la legge n. 354/75, una riforma dell’ordinamento penitenziario che introduce elementari diritti di dignità umana. Nelle carceri si sviluppano proteste e rivolte per la sua applicazione, mentre i Nap si battono per mutamenti più radicali.
L’uccisione di Annamaria Mantini e le azioni con le Br
Fra il 1974 e la primavera del 1975 i Nap effettuano azioni anche contro associazioni di imprenditori, sedi e uomini di partiti, in particolare il Msi-Dn e la Dc, individuata come responsabile della trasformazione dell’Italia in una provincia dell’impero americano. L’attenzione è concentrata su Andreotti e i suoi uomini di fiducia. Ma i contrasti interni alla Dc sono così forti, che quando i Nap tentano di colpire Filippo de Jorio, nonostante i volantini di rivendicazione in molti pensano sia un regolamento di conti interno al partito.
Nell’estate del 1975 vengono scoperte varie basi e arrestati numerosi militanti. L’8 luglio, a Roma, una squadra dell’antiterrorismo si apposta nell’appartamento di Annamaria Mantini che, al suo rientro, viene uccisa a freddo. Il Nucleo 29 ottobre ne vendica la morte ferendo a Roma, il 9 febbraio 1976, Antonino Tuzzolino, il vicebrigadiere che ha sparato ad Annamaria ed è stato prosciolto dai giudici. Il successivo 5 maggio stessa sorte tocca al magistrato Paolino Dell’Anno, accusato di avere nascosto la vera dinamica dell’esecuzione. Il 14 dicembre viene ferito il capo dei Servizi di Sicurezza di Lazio e Abruzzo, Alfonso Noce. Nell’azione muoiono un agente di scorta e un nappista, Martino Zichittella, colpito da un suo compagno per un errore risultatogli fatale.
Tra la fine del 1975 e i primi mesi del 1976 i Nap intensificano le azioni contro il personale di custodia delle carceri e dirigenti e sedi del Ministero di Grazia e giustizia. Nell’ambito di questa campagna, che mira a colpire le carceri e la controrivoluzione, realizzano una alleanza operativa con le Brigate rosse, nonostante le profonde differenze fra le due organizzazioni. Le Br hanno infatti un impianto marxista-leninista fondato sulla centralità operaia, una precisa strategia di attacco al cuore dello Stato, una struttura centralizzata e un metodo rigoroso. Nella notte del 1 marzo 1976 vengono attaccate in contemporanea caserme a Torino, Milano, Genova, Firenze, Pisa, Roma, Napoli. Il volantino di rivendicazione congiunto si conclude così: Di fronte al nemico comune, unità delle forze combattenti! Tutto il potere al popolo armato!
Una seconda azione comune viene effettuata il 22 aprile, contro l’Ispettorato degli Istituti di prevenzione e pena di Milano.
L’organizzazione alla sbarra
Nel novembre 1976 inizia il grande processo contro i Nap, in cui i militanti dell’organizzazione adottano le tecniche del processo guerriglia – un processo di rottura che non riconosce lo Stato borghese – già sperimentate in un procedimento per la tentata evasione di alcuni nappisti dal carcere di Poggioreale.
Pochi giorni prima dell’udienza, circa quindici militanti vicini ai Nap irrompono a Napoli nel Circolo della stampa in appoggio ai compagni detenuti, che possono contare sulla solidarietà di vasti settori di proletariato urbano e della sinistra rivoluzionaria napoletana. A difenderli, ci sono gli avvocati del Soccorso rosso, tra i migliori legali della sinistra. Ma i nappisti revocano i difensori e minacciano quelli d’ufficio. Solo gli imputati minori, non presenti in aula, accettano il giudizio dichiarandosi estranei all’organizzazione. Nel processo, che si svolge in un ex convento blindato per l’occasione, i nappisti scelgono un comportamento che mira a ribaltare le parti. Sotto accusa deve essere lo stato delle multinazionali [che] pretende di processare i militanti comunisti delle organizzazioni combattenti.
Durante le udienze i detenuti leggono comunicati, cantano Bandiera rossa e L’Internazionale, battono le manette sulla gabbia di legno. Il pubblico presente in aula applaude, esibisce striscioni e grida slogan, mentre gli avvocati del Soccorso rosso – rimasti a difendere gli imputati minori – presentano numerose eccezioni di incostituzionalità e richiami alla difesa dei diritti umani. Ci sono frequenti interventi dei carabinieri, scontri fisici, sospensioni delle udienze. Un corteo in appoggio ai compagni processati viene caricato e si conclude con l’arresto di tre partecipanti. Lo Stato appare impreparato e incapace di gestire la situazione. La sentenza arriva a febbraio del 1977. Tra le ventidue condanne, le più pesanti vanno dai 20 ai 22 anni.
Le evasioni
La storia dei Nap è accompagnata da tentativi, riusciti o falliti, di evasione. La liberazione dei detenuti è un obiettivo prioritario dell’organizzazione, che insieme alla capacità di mediazione nei confronti delle direzioni, dà ai suoi militanti prestigio e credibilità nelle carceri. Il 20 agosto 1976 dal carcere di Lecce evadono venti detenuti, tra cui Martino Zichittella, Giuseppe Sofia e il bandito Graziano Mesina.
Ma la fuga più eclatante, la prima in Italia in un carcere femminile, avviene nel gennaio 1977. Mentre a Napoli è in corso il processo, due imputate, Franca Salerno e Maria Pia Vianale evadono dal carcere di Pozzuoli. Il direttore viene sospeso. Nel processo viene letto un comunicato. Sabato 22 gennaio, alle ore 4, l’organizzazione comunista combattente Nap ha attaccato il carcere lager di Pozzuoli. L’azione tendente alla liberazione delle compagne Pia e Franca, militanti dell’Organizzazione, si è sviluppata con un attacco coordinato interno-esterno ed ha raggiunto in pieno l’obiettivo fissato. […] È solo sulla parola d’ordine portare l’attacco al cuore dello stato che si supera la parzialità delle esperienze di lotta armata e si ricompone l’unità della classe delle sue avanguardie armate nel partito combattente.
L’epilogo
Per lo Stato l’evasione è un forte smacco, e si scatena la caccia alle due nappiste. Il 22 marzo 1977 su un autobus, a Roma, l’agente di polizia Claudio Graziosi riconosce Maria Pia Vianale. Antonio Lo Muscio lo colpisce a morte, per impedire l’arresto della sua compagna. Nella ricerca dei due nappisti i poliziotti uccidono per errore una guardia zoofila, unitasi alle ricerche.
La sera del 1 luglio 1977 a Roma, sulla scalinata di San Pietro in Vincoli, una pattuglia di carabinieri individua tre militanti dei Nap. Maria Pia Vianale e Franca Salerno, incinta, sono percosse a sangue e arrestate. Antonio Lo Muscio, ferito da raffiche di mitra mentre tenta di aprire una via di fuga, viene finito con un colpo di pistola.
Il bilancio
Si conclude così la breve e intensa storia dei Nap. Pagata con un alto tributo di morti e feriti. Alcuni prigionieri confluiscono nelle Brigate rosse, i restanti scontano la pena senza aderire a altre organizzazioni. Per i Nap sono state inquisite 65 persone.
Nel maggio 1977, con un decreto interministeriale (Difesa, Interno, Grazia e giustizia), vengono istituite le carceri speciali, riservate ai militanti della lotta armata e ai detenuti comuni più pericolosi. Il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, a cui viene affidato il coordinamento della sicurezza interna ed esterna degli istituti penitenziari, individua e predispone in gran segreto le strutture destinate a diventare di massima sicurezza. Durante il mese di luglio centinaia e centinaia di detenuti vengono prelevati dalle diverse carceri italiane e trasferiti nelle sezioni speciali, situate spesso in luoghi scomodi da raggiungere (come l’isola dell’Asinara), o comunque distanti dalla zona di residenza delle famiglie. Per i prigionieri politici sottoposti a trattamento differenziato, il carcere diviene un fronte di lotta in cui si realizza l’incontro fra detenuti dei Nap e delle Br. Nascono le Brigate di campo, i Comitati di lotta. Proteste e rivolte proseguono negli anni successivi. Il 20 dicembre 1980, a Napoli, Alberto Buonoconto, militante dei Nap, si impicca nella casa dei genitori. Torturato dopo l’arresto, nel 1975, per anni aveva subito un pesante trattamento carcerario e ripetuti trasferimenti. Durante il sequestro Moro nella trattativa viene proposto il suo nome, ma la liberazione non è accettata dai giudici. È scarcerato, per motivi umanitari, quando le sue condizioni sono ormai gravi. Un anno dopo muore suicida.
Scheda tratta da: Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, Roma, DeriveApprodi 2015.
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