Nel momento in cui la DC riconquistava la presidenza del Consiglio dei ministri, impegnandovi direttamente il suo segretario De Mita, le Brigate Rosse hanno espresso la loro netta opposizione al programma del nuovo governo giustiziando il senatore Roberto Ruffilli, responsabile del dipartimento affari istituzionali della DC.
La natura antipopolare e imperialista degli intenti programmatici di questo governo in materia di politica interna e internazionale, implicitamente ammessa ed esaltata nei giorni scorsi dalla stessa stampa borghese, rivela la ferma volontà dei gruppi dominanti italiani di spingersi ormai ben oltre il già odioso governo presieduto da Craxi. Del resto ciò è inevitabile e si spiega con il semplice fatto che Craxi assunse la presidenza del Consiglio nel periodo finale della più lunga, estesa e profonda recessione che l’economia internazionale abbia mai conosciuto nel secondo dopoguerra, mentre l’attuale governo si trova invece a dover sostenere l’accumulazione capitalistica proprio alla vigilia di un’ormai sicura stagnazione della crescita relativa nei più importanti settori dell’economia internazionale, la quale assumerà ben presto i tratti tipici di una vera e propria recessione generalizzata.
Dinanzi a una tale prospettiva, la possibilità di proseguire nell’opera di rilancio dell’economia nazionale – ossia il perenne tentativo di superare i suoi antichi limiti strutturali e infrastrutturali onde facilitarne l’indispensabile ammodernamento generale, ponendola così nelle condizioni idonee per consolidare ed estendere le proprie posizioni nel mercato mondiale e nei giganteschi processi di concentrazione che tagliano trasversalmente l’industria e la finanza internazionali – ha come presupposto ineludibile l’applicazione di un complesso di provvedimenti di ordine ristrutturativo, salariale, fiscale, monetario e di spesa pubblica che avrà come effetto immediato l’ulteriore aggravio generale delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia, delle larghe masse lavoratrici, dei giovani e dei pensionati.
Nondimeno, le stesse prospettive della congiuntura economica lasciano supporre che, nel campo delle relazioni internazionali, la politica del nuovo governo – la quale sostanzialmente corrisponde anch’essa agli interessi dei gruppi dominanti italiani – non muterà il suo corso e non si farà scrupoli di sorta nel continuare ad esprimersi anche nella forma di una presenza militare diretta in alcune aree di conflitto armato, dell’appoggio diretto o della copertura alle imprese di guerra dei paesi suoi alleati, della cooperazione ai progetti di ammodernamento degli strumenti e delle tecniche di guerra; e ancora, nella forma di proposte “capestro” che negano o sviliscono le giuste aspirazioni dei popoli che lottano per l’indipendenza o per un nuovo assetto istituzionale, e offrono obiettivamente una sorta di copertura politica e diplomatica alla repressione a cui questi vengono sottoposti.
Applicare un programma notevolmente ambizioso in una situazione internazionale e nazionale notevolmente difficile: a questo aspira il governo De Mita; e a questo governo le Brigate Rosse hanno dato il benvenuto nel momento in cui si apprestava a muovere i suoi primi passi.
Muovendo dal presupposto che i grandi mutamenti intervenuti nella struttura produttiva mondiale e la relativa modifica nella composizione delle classi sociali sono stati nello stesso tempo cause ed effetti di una trasformazione degli obiettivi, degli strumenti e delle modalità della lotta tra le classi e tra gli Stati, a me pare che si evidenzia chiaramente anche l’importanza del terreno politico sul quale le BR hanno collocato la loro iniziativa. Oggi nessun paese imperialista, e ancor meno l’Italia, può permettersi il lusso di affrontare l’arena internazionale senza riformare la sua organizzazione statale complessiva con misure che siano “all’altezza dei tempi” e degli obiettivi perseguiti; di conseguenza nessuna forza marxista può evitare di misurarsi seriamente, sul piano teorico, programmatico e politico-pratico, con il novero dei problemi che tale processo riformatore pone a tutte le classi, ed in particolare al proletariato.
In verità sono ormai trascorsi molti anni da quando, nel 1975, il cumularsi dei problemi economici ereditati dal primo “shock petrolifero”, l’ormai sicura vittoria delle lotte di liberazione nazionale in alcune aree del mondo e il relativo mutamento dei rapporti tra le singole potenze imperialiste e nei sistemi di alleanza, oltre alla progressiva polarizzazione della lotta di classe nei paesi capitalistici più progrediti, spinsero le borghesie dei paesi occidentali a definire la comune terapia necessaria per avviare a soluzione la crisi di “governabilità” delle loro democrazie.
La linea di fondo elaborata all’epoca dalla Commissione Trilaterale era tanto semplice quanto gravida di conseguenze: «potare le domande sociali in eccesso, ripristinando per questa via sistemi di governo capaci di esercitare autorità», ossia ridimensionare settorialmente la forza contrattuale della classe operaia e delle larghe masse lavoratrici, per limitare il grado del loro condizionamento generale sull’attività del sistema istituzionale e in primo luogo sul potere legislativo.
Nelle peculiari condizioni del nostro paese, una simile manovra era realizzabile soltanto liquidando progressivamente quella fase di “estensione orizzontale” delle istituzioni repubblicane che era stata una delle risultanti della lotta tra le classi nel periodo ’68-’75. Fu così che anche la necessità di tornare ad una nuova e più matura fase di organizzazione e gestione verticistica e accentratrice del nostro sistema politico, che lo ponesse all’altezza delle esigenze generali interne ed internazionali dei gruppi dominanti in Italia, contribuì in notevole misura a spingere la classe politica italiana verso quelle particolari esperienze di “consociazione” degli anni ’75-’79, le quali guidarono l’attività degli organismi istituzionali centrali e periferici all’insegna dell’emergenza economica e della “politica dei sacrifici”. Un’emergenza e una politica che ben presto si estesero in ogni ambito delle relazioni sociali, ma trovarono sempre dinanzi a loro i coraggiosi tentativi di resistenza di ampie fasce del proletariato, tra cui vi erano anche quelle che in passato avevano visto con favore l’approssimarsi del PCI all’area di governo.
Furono quelli gli anni in cui la lotta armata – la quale si era potuta estendere inizialmente anche in virtù delle particolari forme assunte fin dal ’70 dal sistema politico-istituzionale nel suo complesso – divenne pian piano il punto di riferimento “obbligato” per migliaia di avanguardie di classe, e l’organizzazione delle BR risultò nei fatti la forza politica rivoluzionaria più coerente nell’opporsi ai programmi e alle linee politiche delle forze che cooperavano alla riforma dello stato ed in particolare al “partito guida” democristiano.
I primi anni ’80, ed in particolare il periodo della repressione internazionale, portano con sé un’accelerazione del processo riformatore dovuta al fatto che proprio in quel periodo mutano sostanzialmente i rapporti di forza tra le classi e ciò facilita la maturazione delle “nuove” tendenze che in materia istituzionale guidano ancora oggi le forze politiche borghesi.
Per grandi linee possiamo così riassumere i due tratti principali che in questo particolare momento sono il punto di coagulo di quasi tutte le forze parlamentari: da una parte si procede verso la ridefinizione del peso specifico e delle funzioni di ognuno dei tre poteri formalmente autonomi dell’ordinamento costituzionale, con un progressivo accentramento nelle mani dell’esecutivo delle facoltà legislative sulle più importanti materie di ordine interno e internazionale e per questa via ci si propone di avviare finalmente a soluzione le secolari contraddizioni tra la classe politica e l’alta amministrazione civile e militare, oltre a quelle con tutto l’apparato politico-amministrativo periferico sviluppatosi negli ultimi 20 anni e che ha gran peso nella lotta tra i partiti e tra le loro varie correnti.
Contemporaneamente si persegue l’obiettivo di limitare l’uso dei più importanti strumenti e metodi di lotta e di organizzazione legali, che possono facilitare l’unificazione delle lotte operaie e proletarie sui vari terreni, ripromettendosi in tal modo di spingere verso l’unico sbocco di un pronunciamento formale che non impegni né i partiti e i sindacati, né tantomeno gli organi legislativi e l’esecutivo.
E ancora una volta, seppur ridimensionata sul piano elettorale e nel potere effettivo, è la DC che guiderà nell’immediato futuro questo progetto riformatore di chiara natura antiproletaria.
Ben si comprende quindi anche la validità politica dell’obiettivo scelto dalle BR (il responsabile dell’ufficio affari istituzionali della DC) e il tipo di reazione delle forze politiche parlamentari. La realtà è che gli attuali passaggi istituzionali – i quali preparano il terreno ad una riforma complessiva dell’ordinamento costituzionale – non possono tollerare la presenza sulla scena politica di un’opposizione realmente comunista che sappia misurarsi apertamente con l’intero arco di problemi che tale processo pone sul tappeto. Un’opposizione marxista che operi avendo come riferimento essenziale la difesa intransigente e l’affermazione degli interessi generali – sia contingenti che storici – delle masse lavoratrici, evitando nel contempo di cadere in quella particolare forma di empirismo estremista che dinanzi alle difficoltà di un siffatto lavoro teorico, programmatico e politico-pratico non trova di meglio che “riverniciare” quei vecchi postulati berlingueriani che non poco hanno contribuito all’arretramento generale del movimento di classe in questi ultimi 13 anni. Una tale presenza, infine, non è certo cosa di poco conto in un periodo in cui sta maturando una ripresa della mobilitazione operaia e della lotta antinucleare e antimperialista, ed assistiamo al concorrere di circostanze che danno rilevanza nazionale e imprimono un oggettivo – anche se temporaneo – carattere politico ad alcune mobilitazioni settoriali o di categoria.
A me sembra allora che si evidenzi, ancora una volta, la funzione propulsiva che la lotta armata condotta dai comunisti può e deve svolgere nella lotta politica tra le classi, avendo come punto di riferimento gli interessi generali del proletariato e le concrete manifestazioni della lotta di massa.
Anche in questo senso l’esperienza delle BR – lungi dall’essere “orfana” sul piano storico – si riconferma come un oggettivo contributo di fondamentale importanza in questa che possiamo ancora definire la “seconda fase” della ricerca teorico/pratica mirante al riadeguamento generale dell’attività rivoluzionaria, che i marxisti iniziarono già nella prima metà degli anni ’30 ed ebbe il suo primo e più importante punto di approdo nella giusta lotta – condotta in prima persona dai comunisti cinesi agli inizi degli anni ’60 – contro la nuova classe dirigente russa e coloro i quali, con Togliatti in testa, lavoravano per elevare la “coesistenza pacifica” al rango di principio generale della strategia rivoluzionaria.
Non è d’altronde per caso che i quasi vent’anni trascorsi dalla fondazione delle BR dimostrino chiaramente che i tratti specificamente nazionali di questa esperienza non hanno certo negato la possibilità di applicare con profitto alcuni dei suoi insegnamenti fondamentali, perlomeno nella maggioranza dei paesi dell’Europa occidentale. E se questo dato non è certo di per sé sufficiente per delineare ipotesi di unità sul piano della strategia, nondimeno è uno dei presupposti più importanti per lavorare in questa direzione.
Sono i fatti stessi che emergono dall’andamento concreto della lotta politica tra le classi ad incaricarsi di riconfermare quanto la lotta armata sia ancora oggi indispensabile per rappresentare adeguatamente – sul piano contingente e su quello storico – gli interessi generali del proletariato di contro ai programmi e alle linee politiche dei gruppi di potere dominanti e all’organizzazione dello stato nel suo complesso. Essa conserva quindi il suo carattere di necessità ineludibile per ogni organizzazione comunista che non voglia cadere nell’avventurismo politico, come purtroppo in Occidente capita spesso ai gruppi marxisti legali quando si provano ad affrontare le grandi questioni di ordine interno o internazionale.
Si può quindi rilevare, senza inutili trionfalismi ma con ragionato ottimismo, il fatto che nel suo complesso l’operazione condotta contro il governo De Mita e i suoi propositi di riforma istituzionale è il sintomo di un’elevata maturità politica e programmatica, e lascia indovinare la possibilità di superare progressivamente i limiti e le incertezze contenuti negli impianti generali delle forze comuniste anche nel recente passato.
Altrettanta consapevolezza ritengo debba essere dimostrata da tutti i marxisti che considerano necessaria la lotta armata, relazionandosi nei giusti termini teorici, politici e programmatici con quel nuovo livello di maturità oggi espresso dalle BR con questa operazione. Consapevoli, insomma, che per quanto “spigoloso” possa essere il confronto tra comunisti, esso non ha alternative, per la semplice ragione che nella storia non sono mai esistititi – né potranno mai determinarsi – degli “incontaminati” punti di partenza nel lavoro necessario per la costituzione del Partito.
Un’ultima annotazione, infine, verso quei prigionieri che si sono fatti portavoce della proposta di un compromesso, di uno “scambio politico” tra la rinuncia all’uso della lotta armata e la liberazione dei prigionieri stessi.
A me sembra evidente che – sul piano teorico – tutto il complesso di posizioni che vanno in questa direzione rappresentino il classico “minestrone eclettico da accattoni” contro il quale il marxismo si è sempre battuto. Nello stesso tempo – sul piano politico pratico – la manovra in atto si configura come un tentativo di riconvertire sul piano para-istituzionale la grande esperienza della lotta armata italiana, e va perciò condannata senza mezzi termini, poiché si oppone obiettivamente ad ogni seria ipotesi rivoluzionaria che si proponga la conquista del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato.
A costoro è allora lecito rispondere con le chiare considerazioni espresse dai dirigenti del PC d’I del 1923 – nel bel mezzo di quella “grande riforma” fascista che non poco è costata al proletariato italiano – dinanzi al Tribunale di Roma:
«Al presente governo preme presentare alla pubblica opinione l’exploit dell’eliminazione di ogni attività politica rivoluzionaria. A questo si oppone la resistenza del Partito Comunista, che può essere malmenato e malridotto ma non prenderà mai le vie dell’adattamento e della prudente dissimulazione, necessarie a farsi tollerare dai potenti…
Non si tratta di appoggiare su astrazioni di un vuoto liberalismo un nostro diritto ad essere risparmiati: a noi basta dire senza spavalderia che, liberi oggi o più tardi, continueremo a lavorare per cambiare quei rapporti di forza effettivi ora a noi sfavorevoli e per invertirli un giorno».
Come si può vedere, la lotta per respingere i più svariati tentativi di deleggittimare l’attività dei comunisti ha un solido retroterra storico-politico. Esso è stato creato dalle lotte della classe operaia, gli appartiene e nessun trasformismo potrà mai cancellarlo.
Onore ai compagni Umberto Catabiani, Antonio Gustini e Wilma Monaco caduti nella lotta in questi difficili anni ’80 per mantenere aperta la strada verso la costituzione del Partito.
Vittorio Antonini
Roma, 26 aprile 1988