IMPERIALISMO E INTERNAZIONALISMO PROLETARIO
“Gli Stati Uniti hanno scelto di essere il nemico mortale di tutti i governi di popolo, di tutte le mobilitazioni della coscienza socialista scientifica ovunque nel mondo, di tutti i movimenti antimperialistici della terra. La loro storia negli ultimi 50 e più anni, le caratteristiche intrinseche delle loro strutture fondamentali, la loro dinamica politica, economica e militare fanno degli Stati Uniti il prototipo della controrivoluzione fascista internazionale.” (George L. Jackson)
Iniziamo questa relazione con una citazione del grande combattente afroamericano assassinato dai gorilla imperialisti nel carcere di San Quentin perché essa nella sua essenzialità coglie il cuore di una questione per noi fondamentale: la questione dell’imperialismo. I termini generali del problema li possiamo riassumere come segue. L’imperialismo è un sistema di dominio mondiale al cui centro stanno gli Stati Uniti, al centro dei quali stanno le grandi compagnie multinazionali ed i loro interessi. Questo sistema si è negli anni articolato e stratificato per aree funzionali di produzione e consumo che sono nello stesso tempo aree politiche e militari. I paesi del “Vecchio Continente” compongono una importante area economica, politica e militare dell’imperialismo. Questa area, da un punto di vista capitalistico sostanzialmente omogenea,in termini strategici viene definita “sistema democratico occidentale”. Negli ultimi tempi, dopo la lotta di liberazione vittoriosa del Vietnam e della Cambogia, dopo la crisi di Cipro e del Medio Oriente, questo “sistema”, insieme al Giappone è diventato il banco di prova dell’intero sistema imperialista. Ciò vuol dire che è in Europa principalmente che sempre più si giocherà la permanenza e lo stravolgimento degli equilibri mondiali sanciti dalla seconda guerra mondiale. L’unità economica, politica e militare sotto il segno atlantico di quest’area in altri termini è decisiva per gli Stati Uniti. E lo è a tal punto che non è affatto azzardato sostenere che dal punto di vista “amerikano” (che non è solo quello degli USA ma anche quello dei suoi alleati atlantici), il “sistema democratico occidentale” costituisce in questa congiuntura una totalità strategica (politica, economica, militare) che non ammette mutilazioni e che non tollera modifiche di sostanza. L’Italia, in quanto componente organica di questo sistema e dunque del sistema mondiale imperialista capeggiato dagli USA, si trova in una posizione estremamente importante perché:
– con la crisi di regime che la travaglia, costituisce un fattore di crisi dell’intero schieramento imperialista;
– per la grande influenza che ha il Pci costituisce un punto di forza dello schieramento social-imperialista e dopo i recenti fatti portoghesi ciò non va affatto trascurato;
– per la forza non trascurabile del movimento rivoluzionario può trasformarsi in un’area rivoluzionaria dirompente dell’Europa.
Questa situazione è oltremodo eccellente per le forze rivoluzionarie del nostro paese perché a livello mondiale l’imperialismo è scosso da violente convulsioni e tutto fa pensare che il peggio non è ancora venuto. La crisi che attraversa, senza dubbio è la più grave dopo la seconda guerra mondiale, è nello stesso tempo economica, politica e militare. Economica perché è crisi ciclica di sovraproduzione in presenza di un’inflazione galoppante e di un disordine finanziario e monetario mai registrato. Politica poiché scatena i fattori di instabilità di alcuni regimi subalterni e attivizza la lotta operaia, proletaria e rivoluzionaria delle classi oppresse tanto negli Usa che in Europa. Militare poiché determina uno scollamento crescente della Nato e la defezione di alcuni importanti paesi. Forza scatenante della crisi sono state le lotte dei popoli e delle classi che con determinazione rivoluzionaria hanno opposto una resistenza ideologica, politica e armata alle sue pretese egemoniche planetarie.
Più precisamente le contraddizioni che hanno costretto l’imperialismo alla “crisi”, alla difensiva e dunque ad entrare nella fase storica della sua dissoluzione sono tre:
– i paesi che lottano per la loro liberazione e per il comunismo;
– il social-imperialismo sovietico anch’esso interessato al controllo di aree strategiche, al rastrellamento di materie prime, a nuovi mercati e sbocchi per i suoi investimenti;
– le lotte operaie e il decollo di guerriglie proletarie nei suoi centri industriali e metropolitani.
È la complessa dialettica tra queste contraddizioni che spinge irreversibilmente verso una ridefinizione dei rapporti di forza tra imperialismo, social-imperialismo e forze rivoluzionarie e che dunque alimenta, nel mondo capitalista occidentale in generale, e in Italia in particolare, condizioni oggettivamente favorevoli alla crescita dell’iniziativa apertamente rivoluzionaria. Sta alle classi rivoluzionarie e alle loro avanguardie politiche e militari cogliere l’occasione. Sul teatro europeo l’imperialismo reagisce alla sua crisi rincorrendo tre obiettivi fondamentali:
– favorire un processo di controrivoluzione globale e aperta contro ogni forza a lui antagonista;
– ridimensionare all’interno di ogni paese la forza della classe operaia e ristabilire rapporti di forza favorevoli alle classi dirigenti locali “sicuramente atlantiche”;
– scoraggiare le velleità autonomistiche che si sono fatte strada in alcuni paesi per ricondurli sotto l’”ala americana”. Manovre economiche e servizi segreti lavorano assiduamente in questa prospettiva. L’uso della “crisi petrolifera” è solo l’ultimo esempio anche se alla prova dei fatti si è dimostrata un’arma a doppio taglio. Perché se da un lato l’inflazione selvaggia, la recessione produttiva e il pericolo di una vera e propria depressione hanno consentito il ricatto politico (“se volete colmare il disavanzo del deficit petrolifero e rimettere in sesto, almeno in parte, le bilance dei pagamenti coi nostri prestiti dovete liquidare senza incertezze le spinte “comuniste” che erodono alla base la stabilità dei regimi politici”); dall’altro hanno acutizzato tensioni di classe e così favorito le spinte rivoluzionarie. Appare chiaro tuttavia che “crisi dell’imperialismo” nell’immediato non vuol dire “crollo”, ma controrivoluzione globale imperialista e cioè:
- a) ristrutturazione dei modelli economici di base;
- b) ristrutturazione delle funzioni economiche entro una divisione internazionale del lavoro e dei mercati rigidamente pianificata;
- c) riadeguamento delle strutture istituzionali, statali e militari dei regimi meno stabili e più minacciati entro la cornice dell’ordine imperialista.
Affermare che l’Italia è l’anello debole del “sistema democratico occidentale” vuol dunque anche dire che è il paese in cui la controrivoluzione si scatenerà più forte e l’intero sistema imperialista si assumerà la responsabilità di questo processo. Ciò significa che il proletariato italiano a misura in cui s’intensifica la guerra di classe nel paese, non si troverà a “fare i conti” solo col suo nemico interno, bensì con l’intera organizzazione economica, politica e militare dell’imperialismo. Si vuol dire, più in generale, che la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli europee è immediatamente anche guerra di liberazione anti-imperialista, perché l’emancipazione di un popolo in un contesto imperialista deve fare i conti con la repressione imperialista. Non esistono “vie nazionali” al comunismo, perché non esiste nella nostra epoca la possibilità di sottrarsi singolarmente al sistema di dominio imperialista. Di fronte alla richiesta di potere che sta alla base dei movimenti di forze comuniste che operano sul continente europeo, la controrivoluzione imperialista assume una specificità differente solo per forma e per intensità: non per qualità. Che differenza c’è tra la Cdu e la Dc? Strauss non è certo diverso da Fanfani! Per questo insieme di motivi l’internazionalismo proletario è la nostra prima bandiera di lotta; l’area continentale è lo scenario d’insieme entro il quale vanno studiate “le leggi della condotta della guerra che influiscono sulla situazione di insieme della guerra”; il territorio nazionale è il teatro operativo della nostra guerriglia; i poli di classe industriali e metropolitani i punti di forza e di irradiamento della guerra civile rivoluzionaria.
ASPETTI ECONOMICI DELLA CRISI DI REGIME
Premesso che la crisi è il risultato della contraddizione che ha opposto le forze produttive ai rapporti di produzione capitalistici e cioè dell’antagonismo espresso con continuità dalle lotte operaie degli ultimi sei anni, vediamone la specificità economica.
La crisi economica attuale presenta tre caratteri principali:
– È crisi di sovraproduzione o meglio di sottoconsumo: dopo la forte espansione degli anni 1950–1960 (miracolo economico) siamo entrati in una fase caratterizzata da un forte squilibrio tra quantità di merci prodotte o producibili e assorbimento del mercato. Questo è l’aspetto storico dell’attuale crisi.
– È crisi in presenza di un forte aumento dei costi delle materie prime, tra cui il petrolio. Questo ha come effetto che, nella misura in cui il prezzo del macchinario aumenta, in conseguenza dell’aumento di prezzo sia delle materie prime che lo compongono, sia delle materie ausiliarie al suo funzionamento, proporzionalmente diminuisce il saggio medio di profitto. L’aumento del costo delle materie prime produce inoltre la riduzione o l’arresto dell’intero processo di riproduzione del capitale, sia perché il ricavato della vendita delle merci è insufficiente a riprodurre tutti gli elementi costitutivi della merce stessa, sia perché viene resa impossibile la continuazione del processo riproduttivo su una scala corrispondente all’allargamento tecnico di esso.
– È crisi in presenza di una forte caduta di saggio medio di profitto. Questo è l’aspetto specifico della crisi economica attuale.
È importante analizzare le conseguenze che questa forte caduta di saggio medio di profitto ha prodotto e produrrà sulla struttura economica e politica del sistema. Se la caduta tendenziale del saggio medio di profitto è una caratteristica fondamentale del processo capitalistico (in quanto tende sempre più ad aumentare il capitale costante in rapporto al capitale variabile) in Italia in questo ultimo decennio (1966–1974) questa caduta tendenziale ha subito un notevole processo di accelerazione dovuto soprattutto al sorgere prepotente dell’industria chimica, come industria imperialista multinazionale (Montedison). L’industria chimica è caratterizzata infatti da un saggio di plusvalore elevato (cioè valori alti della produttività per ogni singolo operaio), ma da un saggio medio di profitto bassissimo. Questo porta a far sì che è sempre più difficile per il capitalista chimico reperire all’interno del processo di produzione stesso i capitali necessari alle ristrutturazioni tecnologiche e quindi deve ricorrere all’indebitamento. Ma data la grande quantità di capitale finanziario, diventa sempre più difficile rastrellare questi fondi all’interno del mercato finanziario privato (finanziarie private e azionariato) per cui deve ricorrere ai prestiti statali. In tal modo nasce per il capitalista chimico la necessità di stabilire buoni rapporti con l’apparato statale per ottenere questi prestiti alle condizioni più vantaggiose.
Di qui a trasformare l’apparato statale in una struttura strettamente funzionale alle sue esigenze di sviluppo, il passo è breve ed anzi assolutamente necessario. Lo Stato assume quindi, in campo economico, le funzioni di una grossa banca al servizio dei grandi gruppi imperialistici multinazionali.
Dal modo in cui lo Stato-banca rastrella “a livello sociale” questi capitali necessari (che non sono altro che plusvalore complessivo “assegnato” alle multinazionali) nasce il forte processo inflazionistico caratteristico dello sviluppo capitalistico attuale nella fase dominata dai grandi gruppi imperialisti multinazionali. È chiaro che il processo qui esemplificato per il settore chimico, vale per ogni altro settore in cui domina la struttura capitalistica multinazionale (cioè vale per la Montedison, come per la Fiat, come per la Pirelli) e vale per ogni funzione dello Stato (economia, politica, militare). Lo Stato diventa espressione diretta dei grandi gruppi imperialistici multinazionali, con polo nazionale. Lo Stato diventa cioè funzione specifica dello sviluppo capitalistico nella fase dell’imperialismo delle multinazionali; diventa: Stato Imperialista delle Multinazionali. Il capitalismo italiano quindi cerca di usare la crisi attuale per costruire lo Stato imperialista delle multinazionali. Cioè anche in Italia si tenta di percorrere il modello americano–tedesco.
MODIFICAZIONI SUL TESSUTO DI CLASSE
Vediamo le conseguenze che la caduta del saggio medio di profitto produce sulla struttura di classe. Nei settori dove il saggio di profitto ha valori estremamente bassi, si nota una diminuzione assoluta di forza lavoro utilizzata. Ad esempio per la Montedison, nel periodo 1966–1971, nel settore chimico, si hanno investimenti in impianti fissi per 600 miliardi, con un notevole aumento rispetto agli anni precedenti ed una diminuzione di forza lavoro da 70.761 a 70.661 unità. Questa tendenza è più che confermata anche negli ultimi 4 anni. D’altra parte il sistema capitalistico in quanto anche produttore di merce forza lavoro, produce un forte aumento della popolazione complessiva. Basti pensare che all’inizio del 1800 la popolazione della terra era calcolata intorno ad 1 miliardo di unità; con l’avvento del sistema capitalistico si ha in 150 anni una quadruplicazione della popolazione mondiale (attualmente siamo intorno ai 4 miliardi ).
Da tutto ciò si può trarre una generalizzazione: la caduta tendenziale del saggio medio di profitto produce una diminuzione della forza lavoro utilizzata in rapporto alla popolazione complessiva: cioè di fronte ad un aumento costante della popolazione complessiva non si ha proporzionalmente un aumento della forza lavoro utilizzata. Abbiamo detto in precedenza che l’aspetto specifico della crisi economica attuale è la forte caduta del saggio medio di profitto. Quindi si può sostenere che l’attuale crisi produrrà una notevole diminuzione della forza lavoro utilizzata in rapporto alla popolazione complessiva. Questo fenomeno avverrà in modo sempre più accelerato e sarà una caratteristica stabile del nostro sviluppo economico. Tutto ciò produce e produrrà sul tessuto di classe modificazioni stabili che si possono così schematizzare. Rispetto alla popolazione complessiva si avrà:
- a) una diminuzione continua di salariati con occupazione stabile;
- b) un aumento “dell’esercito di riserva” (serbatoio in cui attingere nei momenti di espansione), cioè dei salariati con occupazione instabile (vedi attualmente l’uso della cassa integrazione);
- c) un aumento di quella parte di popolazione che sarà espulsa in modo definitivo dal processo capitalista (gli emarginati). Quest’ultimo fenomeno finora non si era manifestato in termini acuti grazie all’emigrazione che ha significato per tutto un certo periodo lo sbocco alla sovraproduzione di forza lavoro. Attualmente, data la forte caduta a livello internazionale del saggio medio di profitto, questa valvola di sfogo non può più funzionare. Gli emigrati tornano a casa per ripopolare le fila dei disoccupati e dei sottoccupati e cioè, in definitiva, degli emarginati.
Rispetto ai comportamenti di classe si può così ipotizzare:
– Salariati con occupazione stabile. Una parte di questi riflette il livello di coscienza immediata che è di difesa della loro condizione di salariati (equo salario). Costoro formano la base materiale del riformismo. Un’altra parte, ed è lo strato più produttivo, quello in cui lo sfruttamento si accentua sempre più (l’operaio della catena), sviluppa una coscienza rivoluzionaria, cioè l’abolizione del lavoro salariato e la distruzione della società capitalistica.
– Emarginati. Gli emarginati sono un prodotto della società capitalistica nella sua attuale fase di sviluppo ed il loro numero è in continuo aumento. Sono utilizzati dalla società capitalistica, in quanto società dei consumi, come consumatori. Sono però consumatori senza salario. Da questa contraddizione nasce la “criminalità”. L’utilizzo “economico” della criminalità da parte del capitalismo sta nel fatto che essa contribuisce alla distruzione delle merci necessaria per continuare il ciclo. Per intenderci si potrebbero benissimo costruire automobili a prova di ladro, ma ciò va contro gli interessi della Fiat. Una parte degli emarginati riflette a livello immediato la coscienza borghese: estremo individualismo, aspirazione ad un sempre maggior “consumo”. Un’altra parte riflette la coscienza rivoluzionaria di abolizione della loro condizione di emarginati, da cui l’abolizione della società fondata sul lavoro salariato.
– Esercito di riserva. Per quanto riguarda l’esercito di riserva i livelli di coscienza sono dati dall’intreccio dei livelli di coscienza riscontrabili all’interno dei salariati con occupazione stabile e degli emarginati.
IL PROGETTO POLITICO DEMOCRISTIANO
Se gli anni 1970–1974 sono stati caratterizzati da forti contraddizioni all’interno della borghesia (per esemplificare scontro Montedison–FIAT ), contraddizioni che hanno spaccato verticalmente la struttura dello Stato, dei partiti, delle forze sindacali, il periodo attuale sembra caratterizzato da una raggiunta fase di “armistizio” fra i vari gruppi capitalistici italiani: cioè di fronte all’acutizzarsi della crisi, i vari gruppi capitalistici hanno serrato le fila. Armistizio non significa però fine delle contraddizioni all’interno del fronte borghese, significa semplicemente un congelamento momentaneo di queste contraddizioni, congelamento che si manifesta attraverso un raggiunto accordo (anch’esso di carattere momentaneo) sulla spartizione di potere fra i più forti gruppi borghesi. In questa chiave sono da interpretarsi l’accordo raggiunto al vertice della Confindustria nella primavera 1974 (Agnelli presidente e Cefis vicepresidente), l’unità stabilitasi intorno a Fanfani delle più forti correnti Dc (Fanfaniani, Dorotei, Andreottiani, ecc.), l’attuale composizione e funzione del governo Moro. Sarebbe comunque un errore pensare che le contraddizioni che dividono il fronte della borghesia siano contraddizioni di carattere antagonista. Esse sono semplicemente varianti tattiche dello stesso progetto: la costruzione dello Stato Imperialista delle Multinazionali. L’essenza del conflitto intercapitalistico sta semplicemente in questo: quale sarà il gruppo imperialista multinazionale che guidando il progetto di costruzione dello Stato Imperialista, si assicurerà la fetta più grossa di potere. Il progetto politico della Dc, che trova in questo momento il suo più autorevole interprete in Fanfani, mira a fare della Dc stessa l’asse portante di questo progetto dello Stato Imperialista. Ponendosi in ogni momento come gestore dell’ “armistizio” raggiunto, la Dc cerca di essere l’elemento di continua mediazione dialettica fra gli interessi dei vari gruppi capitalisti.
Nelle intenzioni della Dc si dovrà realizzare così, all’interno di un processo caratterizzato da contraddizioni nello schieramento borghese e da un forte scontro tra borghesia e proletariato, la costruzione “pezzo su pezzo” dello Stato Imperialista e alla fine di questo processo una completa integrazione tra Dc e Stato Imperialista. È chiaro che questo processo però non avverrà in modo certamente pacifico,ma andrà assumendo sempre più i caratteri della “guerra civile”. Questo anche, e soprattutto, per la profonda crisi di egemonia che costringe la borghesia, le sue rappresentanze politiche e le istituzioni dello Stato a risolvere sempre più le contraddizioni di classe per mezzo della forza, utilizzando cioè l’intero apparato di coercizione e solo quello. Più in particolare il progetto politico democristiano, apertamente sostenuto anche da Tanassi, da Sogno e da Almirante, si propone di costruire intorno al blocco integralista della Dc un più vasto e articolato “blocco storico” apertamente reazionario e controrivoluzionario, funzionale alla costruzione dello Stato Imperialista. Le elezioni amministrative di giugno e ancor più le prossime elezioni politiche sono giocate in questa prospettiva di lungo periodo. E così pure i “temi” dominanti della propaganda politica in queste sinistre campagne elettorali non hanno un carattere contingente come dimostrano di credere i revisionisti, ma sono anch’essi una tappa della costruzione “pezzo su pezzo” dello Stato Imperialista. Emblematica, al riguardo, è la questione dell’ “ordine pubblico” e della guerra alla “criminalità politica” che più che a guadagnare voti, punta alla militarizzazione preventiva del territorio e della lotta di classe ovvero è direttamente strumentale alla necessità di ricostruire un quadro di valori di massa che consentano la ristrutturazione e la concentrazione di tutti i poteri dello Stato nella prospettiva della guerra civile controrivoluzionaria. Perché questa è la strada, l’unica strada che la Democrazia Cristiana indica e percorre per far fronte alla crisi di Regime. Al di là delle apparenze “conciliari”, ciò che la Dc vuole è uno scontro aperto fra le forze rivoluzionarie e progressive ed il blocco storico controrivoluzionario. Essa cerca una spaccatura verticale che emargini ed annienti le forze ostili alla ristrutturazione imperialista dello Stato di Regime. Essa si propone di garantire ai padroni delle multinazionali imperialiste:
1) il rafforzamento delle strutture e dell’organico militari nei due sensi di una funzionalizzazione ai progetti Nato e della specializzazione antiguerriglia contro la sovversione interna;
2) La creazione di una “magistratura di regime” e l’irrigidimento dei provvedimenti penali su quei capitoli particolarmente inerenti alla guerra di classe, dalle norme sulla detenzione delle armi, a quella sulla carcerazione preventiva, al fermo di polizia, al confino, alle pene esemplari per i militari rivoluzionari;
3) L’adozione di misure “preventive” come la militarizzazione delle grandi città, delle istituzioni degli uomini più esposti del regime. E più in generale, proprio per realizzare questi obbiettivi col minor numero di contraddizioni essa punta ad una precisa riforma costituzionale, all’elezione diretta del Presidente della Repubblica e ad un decisivo aumento di potere dell’Esecutivo: in breve alla cosiddetta “Repubblica Presidenziale”. Ristrutturare lo Stato per battere il movimento operaio sul terreno della guerra civile: questa è l’essenza del progetto politico democristiano.
IL PATTO CORPORATIVO
Il tentativo di costruire legami corporativi tra la classe imprenditoriale del regime e le organizzazioni sindacali dei lavoratori è funzionale più di quanto si creda alla formazione dello Stato Imperialista. Agnelli, in quanto portavoce dell’intero padronato, lo aveva anticipato nel suo primo discorso da Presidente della Confindustria, quando sostenne la necessità di “addivenire ad un patto sociale che, a 30 anni dall’aprile ’45, ridefinisca gli obiettivi nazionali del popolo italiano in vista degli anni ’80 e ’90. Non si tratta però di un patto tra sindacati–imprenditori–governo”.
Lo ha ribadito anche quest’anno: “La durezza della crisi economica, le sue complicazioni di ordine sociale e l’esigenza di un sollecito ritorno allo sviluppo, prospettano all’organizzazione industriale obbiettivi di carattere generale che sono in larga parte comuni alle organizzazioni dei lavoratori. Ritengo che sindacati e rappresentanza imprenditoriale si trovino davanti al medesimo problema: quello della costruzione di un quadro generale fatto di scelte e indirizzi che non favoriscano il consumo passivo, la rendita e l’accumulazione parassitaria, bensì l’iniziativa e la capacità”. Secondo Agnelli dunque le maggiori forze industriali multinazionali del Paese si dovrebbero assumere una responsabilità più diretta nella gestione del potere fissando una serie di principi politici e soluzioni tecniche per realizzare una gestione “concordata” della crisi oggi, e della ripresa domani con le Confederazioni sindacali e con il Governo. Ciò che ci interessa è che il “patto sociale” viene giustificato non in funzione “anticongiunturale”, dunque come accordo tattico, ma come esigenza avanzata e perciò come progetto di stabilizzazione per gli anni ’80! L’operazione di ingabbiamento che esso presuppone può essere definito: incorporazione organica della classe operaia dentro il capitale e dentro lo Stato. Essa segue la logica che la classe operaia per salvare se stessa, deve salvare il padrone; per salvare il padrone deve salvare lo Stato; per salvare lo Stato, deve assumersi i costi economici della riconversione produttiva ed i sacrifici della ristrutturazione imperialista. È una logica miserabile e vale la pena di tenerne conto solo perché essa è fatta propria dai vertici sindacali e da quelli del Partito Comunista. La falsità delle argomentazioni portate a giustificazione del “patto corporativo” sta in questo:
– si identifica l’interesse operaio con l’interesse di sviluppo del grande capitale multinazionale e l’interesse delle multinazionali con l’interesse nazionale;
– si contrabbanda per disposizione riformistica l’esigenza di riconversione produttiva del grande capitale.
Il “patto corporativo” riferito alla fabbrica vuole nascondere una realtà che da anni le avanguardie operaie chiamano “fascismo di fabbrica” e cioè una ristrutturazione del ciclo e dell’organizzazione del lavoro con i suoi risvolti di:
- a) Rottura della rigidità della forza–lavoro (mobilità: distruzione sistematica dei nuclei di avanguardia; maggior utilizzo degli impianti; intensificazione dello sfruttamento).
- b) Militarizzazione dell’apparato di dominio (corporativizzazione dei dirigenti, dei quadri, dei capi; sindacalismo giallo; utilizzo dei fascisti per i “lavori sporchi”; spionaggio). Rispetto alla lotta operaia una conseguenza decisiva del “patto” è dunque una più moderna concezione della repressione: sindacalista e poliziotto, spionaggio padronale e controllo sindacale si fondono in un unico disegno di annientamento dell’autonomia e dell’antagonismo. Un esempio è la tendenza, già dimostratasi in molte fabbriche dove la lotta autonoma è particolarmente incisiva,che vede gli esecutivi sindacali e le direzioni del personale impegnati a collaborare per l’identificazione dei “provocatori” con l’obiettivo specifico della loro eliminazione mediante licenziamento o denuncia alla magistratura. In sostanza, questa proposta corporativa è decisamente reazionaria. Essa prefigura una dittatura feroce nei confronti delle forze di classe rivoluzionarie, e a misura in cui essa si afferma in fabbrica, tende a proiettarsi sul terreno politico generale chiudendo ogni spazio alla guerra di classe rivoluzionaria.
IL “COMPROMESSO STORICO”
Nella sinistra ufficiale non vi è comprensione delle profonde trasformazioni strutturali e politiche che si stanno compiendo per opera della Dc e della Confindustria all’interno della controrivoluzione globale imperialista.
Soprattutto il Pci dimostra la sua incapacità ad indicare una strategia di classe alternativa. La linea ribadita al XIV Congresso ne è una dimostrazione definitiva. La “strategia” del Compromesso Storico affonda i suoi presupposti in due incomprensioni decisive: il carattere guerrafondaio dell’imperialismo, e il carattere reazionario e imperialista della Dc. Berlinguer, questo Kautskj in sedicesimo, indica come tendenza a livello mondiale e scorge perfino conferme dal comportamento degli Usa, la politica della “coesistenza” e della “cooperazione” giungendo a profetizzare “un sistema di cooperazione e integrazione così vasto da superare progressivamente la logica dell’imperialismo e del capitalismo e da comprendere i più vari aspetti dello sviluppo economico e civile dell’intera umanità”. Non c’è antagonismo per Berlinguer tra imperialismo, social–imperialismo e rivoluzione, ma contraddizioni in via di soluzione “pacifica” e “civile”. La realtà lo smentisce.
La tendenza generale oggi nel mondo è quella che indicano i compagni cinesi: è la rivoluzione. Imperialismo e social–imperialismo si trovano sempre più spesso in aperta contraddizione e le guerre di liberazione dei popoli conoscono nuove vittorie. Così è in Vietnam, in Cambogia o per altro verso in Portogallo. Anche per quel che riguarda l’Italia l’idillio filocapitalistico di Berlinguer non ha limiti di pudore. Con una operazione teorica assai lontana dal materialismo storico e dialettico, egli propone il “ compromesso con le masse popolari cattoliche” ovvero, fuor di perifrasi, con la Democrazia Cristiana di cui trascura o addirittura nega il carattere imperialista, antinazionale e antipopolare che da trent’anni fa di questo partito l’anima e il cervello di tutte le spinte più reazionarie e fasciste che si registrano con intensità sempre crescente nel Paese. A tal punto si diserta dal marxismo e dal leninismo, si sconfina dall’analisi di classe che la contraddizione principale viene ormai presentata come contraddizione tra “democratici” e “antidemocratici” dove i primi sono tutti coloro che agiscono nell’area costituzionale, e i secondi tutti gli altri, non importa se fascisti, rivoluzionari od operai che perseguono obiettivi di lotta “particolaristici” o “corporativi”.
La funzione che il Pci si assegna dunque è quella di recuperare all’interno del “sistema democratico” tutte le spinte antagoniste del proletariato stravolgendole in termini riformisti. Il “compromesso storico” infatti non presuppone un antagonismo strategico rispetto al programma di realizzazione dello Stato imperialista (nello Stato imperialista “democristiano” ci saranno un po’ più poliziotti; in quello del Pci un po’ meno, ma solo perché ognuno dovrà essere poliziotto di se stesso), ma si presenta semplicemente come diversa formula per la gestione del potere di quel potere. Il “compromesso storico” non corrispondente ad un bisogno politico di classe, ma più riduttivamente ad un tornaconto opportunista di uno strato di classe che dal rafforzamento del sistema imperialista, realizza alcuni miserabili vantaggi. Per questo il Pci si oppone ormai violentemente al movimento rivoluzionario e alle forze di classe da cui quest’ultimo trae forza ed alimento.
Per questo i disegni revisionisti verranno certamente sconfitti. Non bisogna tuttavia sottovalutare la funzione ambivalente che nei tempi brevi la linea del “compromesso storico” svolge entro la crisi di regime:
– da un lato costituisce un potente fattore di crisi politica del regime; incute terrore ed accelera contraddizioni nei settori più conservatori e più reazionari;
– dall’altro evita che il Paese diventi ingovernabile, e cioè ostacola lo sviluppo della guerra di classe. Perché ciò significa che, mentre i settori conservatori o reazionari preoccupati dalla piega degli avvenimenti progettano e alimentano disegni di sopravvivenza apertamente controrivoluzionari, larghi settori del movimento operaio e popolare rimangono catturati nella trappola paralizzante della linea del “compromesso”. E questa linea, congelando le forze di classe ritarda ed ostacola la presa di coscienza a livello di massa della necessità della guerra, e questo proprio nel momento in cui la situazione è assai favorevole per le forze rivoluzionarie. Quando si dimentica che sono gli sfruttati che devono volere la guerra, si è scelto per la pace del padrone!
PORTARE L’ATTACCO AL CUORE DELLO STATO
La nostra linea, entro questo quadro generale di progetti e di contraddizioni resta quella di unificare e rovesciare ogni manifestazione parziale dell’antagonismo proletario in un attacco convergente al “cuore dello Stato”. Essa prende l’avvio della considerazione del tutto evidente che è lo Stato imperialista nel suo farsi a garantire ed imporre il progetto complessivo di ristrutturazione e dunque anche i progetti particolari, e che perciò al di fuori del rapporto classe operaia – Stato, non si dà, come del resto non è mai data, lotta rivoluzionaria. Obiettivo intermedio è il collasso e la crisi definitiva del regime democristiano, premessa necessaria per una “svolta storica” per il comunismo. Compito principale dell’azione rivoluzionaria in questa fase è dunque la massima disarticolazione politica possibile tanto del regime, che dello Stato. E cioè il massimo sviluppo possibile di contraddizioni tra le istituzioni e all’interno di ognuna di esse, tra i diversi progetti tattici di soluzione della crisi e all’interno di ciascuno di essi. Il passaggio ad una fase più avanzata di disarticolazione militare dello Stato e del Regime è prematuro e dunque sbagliato per due ordini di motivi:
1) La crisi politica del regime è molto avanzata, ma ancora non siamo vicini al “ punto di tracollo”.
2) L’accumulazione di forze rivoluzionarie sul terreno della lotta armata seppure ha visto negli ultimi due anni una grande accelerazione, ancora non è tale per espansione sul territorio e per maturità politica e militare da consentire il passaggio ad una nuova fase della guerra.
La distruzione del nemico e la mobilitazione politica e militare delle forze popolari non possono che andare di pari passo. Il rafforzamento del potere proletario è in altri termini condizione e premessa del passaggio alla fase più avanzata della disarticolazione militare del regime e dello Stato nemico.
LA GUERRIGLIA URBANA
La guerriglia urbana gioca un ruolo decisivo nell’azione di disarticolazione politica del Regime e dello Stato. Essa colpisce direttamente il nemico e spiana la strada al movimento di resistenza. È intorno alla guerriglia che si costruisce ed articola il movimento di resistenza e l’area dell’autonomia e non viceversa. Allargare quest’area vuol dire in primo luogo sviluppare l’organizzazione della guerriglia, la sua capacità politica e di fuoco.
Sono sbagliate tutte quelle posizioni che vedono la crescita della guerriglia come conseguenza dello sviluppo dell’area legale o semilegale della cosiddetta “autonomia”.
È bene far chiarezza su questo punto. Entro quella che viene definita “area dell’autonomia” si ammucchiano e stratificano posizioni diversissime. Alcuni, che definiscono la loro collocazione all’interno dello scontro di classe per via “soggettiva”, si riconoscono parte di questa area più per imporre al suo interno bisogni e problemi ad essa e cioè per “recuperarla sul terreno della politica” che a favorirne la progressiva definizione rivoluzionaria,strategica, tattica ed organizzativa. A nostro giudizio l’intera questione va affrontata a partire dallo strato di classe che più di ogni altro subisce l’intensificazione dello sfruttamento conseguente ai progetti di ristrutturazione capitalistica ed imperialistica. Teoria rivoluzionaria è teoria dei bisogni politici–militari, di “liberazione”, di questo strato di classe. Solo esso infatti esprime in potenza, se non ancora in coscienza (che vuol dire organizzazione), l’universalità degli interessi di classe. Solo intorno ai suoi bisogni possono essere organizzati e assunti i bisogni degli strati sociali emarginati dal processo di ristrutturazione e possono essere battuti i propositi revisionisti, riformisti o corporativi di quella parte di classe operaia che trova tornaconto, anche se miserabile, nel rafforzamento del sistema di dominio imperialista. Le “assemblee autonome” non sono l’avanguardia di questo strato di classe poiché esprimono, oggi, una interpretazione molto parziale e soprattutto settoriale dei suoi bisogni.
Al loro sorgere esse hanno costituito un fattore decisivo nel processo di superamento del “gruppismo”, ma oggi rischiano di finire esse stesse nel culo di sacco di quell’impostazione. Ciò che le predispone a questo pericolo è il “feticcio della legalità” e cioè l’incapacità di uscire dalla falsa contrapposizione tra “legalità” e “illegalità”. In altre parole le assemblee autonome non riescono a porre la questione della organizzazione a partire dai bisogni politici reali e così finiscono per delimitare questi ultimi entro il tipo di organizzazione legale che si sono date. Tagliando il piede per farlo entrare nella scarpa! Alcuni, maggiormente consapevoli della contraddizione in cui si dibattono, giungono ad ammettere un dualismo d’organizzazione e così a riproporre l’improponibile teoria del “braccio armato” nell’antica logica fallimentare terzinternazionalista. Ma, pena l’estinzione della loro funzione rivoluzionaria, esse in questa nuova situazione devono fare un salto dialettico se vogliono rimanere aderenti all’assunto fondamentale di organizzare sul terreno della guerra di classe l’antagonismo proprio dello strato “oggettivamente” rivoluzionario. Fuori di questa prospettiva non c’è che minoritarismo o subalternità al revisionismo.
La guerriglia urbana organizza il “nucleo strategico” del movimento di classe, non il braccio armato. Nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare ed agire militarmente e dare il primo posto alla politica. Essa svolge la sua iniziativa rivoluzionaria secondo una linea di massa politico – militare. Linea di massa per la guerriglia non vuol dire, come qualcuno fraintende “organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata”, o perlomeno non vuol dire questo in questo momento. Nell’immediato, l’aspetto fondamentale della questione rimane la costruzione del Partito Combattente come reale interprete dei bisogni politici e militari dello strato di classe “oggettivamente” rivoluzionario e l’articolazione di organismi di combattimento a livello di classe sui vari fronti della guerra rivoluzionaria. La differenza non è da poco e vale la pena di esplicitarla poiché essa nasconde una divergenza sulla questione dell’organizzazione che non è secondaria. La sostanza della divergenza sta nel fatto che la prima tesi appiattisce fino a dissolverla l’organizzazione nel “movimento”, che nello stesso tempo viene gonfiato fino a raggiungere dimensioni mitiche; la seconda concepisce organizzazione e movimento come realtà nettamente distinte e in perenne dialettica tra loro. Il Partito Combattente è partito di quadri combattenti. È dunque reparto avanzato e armato della classe operaia e perciò nello stesso tempo distinto e parte organica di essa. Il movimento è una realtà complessa e disomogenea in cui coesistono e si combattono molteplici livelli di coscienza. È impensabile, e soprattutto impossibile, “organizzare” questa molteplicità di livelli di coscienza “sul terreno della lotta armata”.Vuoi perché questo terreno, pur essendo strategico, non è ancora quello principale; vuoi perché il nucleo che costituisce il Partito Combattente, e cioè le Br, non ha certamente maturato le capacità politiche, militari e organizzative necessarie allo scopo. Non si tratta di “organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata”, ma di radicare l’organizzazione della lotta armata e la coscienza politica della sua necessità storica nel movimento di classe. Questo rimane il principale obbiettivo del Partito Combattente in costituzione in questa fase. Per l’insieme di motivi che abbiamo discusso il livello di scontro adeguato a questa fase resta quello della propaganda armata.
Gli obiettivi principali dell’azione di propaganda armata sono tre:
– creare il maggior numero possibile di contraddizioni politiche all’interno dello schieramento nemico e cioè disarticolarlo, disfunzionarlo;
– battere la pista al movimento di resistenza praticando terreni di scontro spesso sconosciuti ma non per questo meno essenziali;
– organizzare lo strato di classe avanzato nel Partito e in organismi di combattimento a livello di classe sui vari fronti della guerra.
La propaganda armata realizzata attraverso l’azione di guerriglia indica una fase della guerra di classe e non come qualcuno ritiene una “forma di lotta”. A questa fase segue quella della “guerra civile guerreggiata”, in cui compito principale dell’avanguardia armata, sarà quello di disarticolare, anche militarmente, la macchina burocratica e militare dello Stato e spezzarla. L’assalto al carcere di Casale per la liberazione di un compagno chiarisce il concetto nel senso che questa azione di propaganda armata:
– ha prodotto una disarticolazione profonda dello Stato: ribaltamento della campagna di propaganda con cui tentava di darci per “spaccati”; vanificazione dei progetti democristiani di un “processo esemplare” sotto le elezioni; accentuazioni delle contraddizioni tra magistratura e CC, tra magistratura di Milano e di Torino, tra alti gradi e bassi gradi della magistratura; tra Dc e altre forze politiche e via elencando;
– ha battuto la pista al movimento di resistenza nei due sensi di aver realizzato una parola di ordine del programma rivoluzionario (liberazione dei prigionieri politici) e perciò aver creato un clima di fiducia nella massa dei prigionieri politici oltre che tra le avanguardie rivoluzionarie; aver esplorato un nuovo terreno di scontro ed aver tratto indicazioni ed esperienza che nei prossimi tempi risulteranno decisivi;
– ha creato le premesse reali per organizzare l’avanguardia rivoluzionaria rinchiusa nelle carceri del regime su un programma rivoluzionario di attacco allo Stato.
Ora evidentemente tocca al Partito combattente dentro e fuori dalle carceri trasformare le premesse in strutture, le potenzialità rivoluzionarie liberate in potere proletario armato. Su quale terreno deve svilupparsi la nostra iniziativa tattica? Essi sono definiti in tre parole d’ordine fondamentali:
1) Spezzare i legami corporativi tra la classe dirigente industriale e le organizzazioni dei lavoratori.
2) Battere la Dc centro politico e organizzativo della reazione e del terrorismo.
3) Colpire lo Stato nei suoi anelli più deboli.
Spezzare i legami corporativi tra la classe dirigente industriale e le organizzazioni dei lavoratori.
Sul terreno della lotta operaia il nodo da sciogliere, e dunque anche il punto centrale del programma di lotta, è il “patto corporativo”: il rapporto Confindustria Confederazioni Governo come asse portante della ristrutturazione capitalistica e come elemento fondamentale dello Stato corporativo imperialista delle multinazionali. È molto importante, ma non è sufficiente in questa prospettiva, intensificare i movimenti autonomi di lotta contro ogni aspetto della ristrutturazione così come ci appare “immediatamente” con la Cassa integrazione, la mobilità del lavoro, i licenziamenti e l’intensificazione forsennata dello sfruttamento. Questi livelli di scontro vanno nella direzione giusta e assumono un carattere offensivo nella misura in cui riescono a rompere la “gabbia” sindacale e a mettere in scacco, cioè a minare, la capacità di controllo delle Confederazioni. Ma l’attacco deve essere esteso soprattutto alla struttura politico – militare del comando; perché la Confindustria riformata è il maggior centro dell’iniziativa padronale; perché essa si serve delle organizzazioni “sindacali” dei dirigenti, dei quadri, dei capetti e degli operai con la testa da padrone come cinghie di trasmissione della nuova ideologia e come centri di organizzazione corporativa.
Disarticolare a fondo questa “cinghia” esplicitandone struttura, modo, funzionamento e legami con i centri di potere politico e col disegno generale, è una esigenza immediata della lotta rivoluzionaria. Finora abbiamo condotto l’epurazione a livello della produzione. Da oggi in avanti si rende necessario investire anche livelli amministrativi, dirigenziali o direttamente padronali più ampi. Disarticolare questa trama vuol dire farne saltare la funzione politica e militare. Infatti la tendenza corporativa nel suo farsi, porta con sé l’esigenza e l’organizzazione della repressione violenta dell’antagonismo di classe e cioè di chi non accetta il suicidio revisionista. Di conseguenza la funzione del comando va sempre più specializzandosi anche in questa direzione. La raccolta di informazioni sui nuclei di avanguardia operaia, lo spionaggio politico, l’infiltrazione, la provocazione e ogni altro genere di lavoro controrivoluzionario vengono portati a nuovi livelli di efficienza. Si tratta di non lasciarli funzionare, di anticiparli, neutralizzarli e punire con la durezza opportuna chiunque si assuma la responsabilità del loro funzionamento.
BATTERE LA DC CENTRO POLITICO E ORGANIZZATIVO DELLA REAZIONE E DEL TERRORISMO
Sul terreno politico è la Dc che va combattuta e battuta perché essa è il vettore principale del progetto di ristrutturazione imperialista dello Stato e il punto di unificazione del fascio di forze reazionarie e controrivoluzionarie che unisce Fanfani a Tanassi, a Sogno, a Pacciardi, ad Almirante, ai gruppi terroristici. La Dc è il nemico principale.
Essa è il partito organico della borghesia, della classe dominante e dell’imperialismo. È il centro politico e organizzativo della reazione e del terrorismo. È il motore della controrivoluzione globale e la forma portante del fascismo moderno: il fascismo imperialista. Non ci si deve lasciar ingannare dalle professioni di fede “democratica e antifascista” che talvolta vengono da taluni dirigenti di questo partito, perché esse rispondono al bisogno tattico di mantenere aperta la finta dialettica tra “fascismo” e “antifascismo” che consente alla Dc di rastrellare voti facendo credere che contro il pericolo “fascista” sia meglio la “democrazia riformata”,e cioè la Stato imperialista. Il problema delle avanguardie rivoluzionarie è quello di fare chiarezza sull’intero gioco colpendo collegamenti, connivenze e progetti. La Dc non è solo un partito ma l’anima nera di un regime che da 30 anni opprime le masse operaie popolari del Paese. Non ha senso comune dichiarare la necessità di battere il regime e proporre nei fatti un “compromesso storico” con la Dc. Ne ha ancora meno chiacchierare su come “riformarla”. La Democrazia Cristiana va liquidata, battuta e dispersa. La disfatta del regime deve trascinare con sé anche questo immondo partito e l’insieme dei suoi dirigenti. Com’è avvenuto nel ’45 per il regime fascista e per il partito di Mussolini. Liquidare la Dc e il suo regime è la premessa indispensabile per giungere ad un’effettiva “svolta storica” nel nostro paese.
Questo è il compito principale del momento!
COLPIRE LO STATO NEI SUOI ANELLI PIU’ DEBOLI
La questione dello Stato è quella che più ci differenzia dalle forze revisioniste e pararevisioniste che lavorano a perfezionare questa macchina antiproletaria.
Con Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao anche noi diciamo che: “Spezzare la macchina burocratica e militare dello Stato è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione proletaria”.
La lotta contro il corporativismo, il fascismo e il regime non può essere disgiunta dall’azione diretta contro le istituzioni dello Stato e rivolta, in questa fase, alla loro massima disarticolazione politica.
“Disarticolazione politica” e non “erosione propagandistica della credibilità democratica” perché questo Stato in via di ristrutturazione è già lo Stato della guerra civile. Per questo è necessario conseguire risultati sul terreno della liberazione dei compagni detenuti politici; della rappresaglia contro la struttura militare delle carceri, contro l’antiguerriglia in tutte le sue articolazioni; contro la magistratura di regime, contro quei settori del giornalismo che si distinguono nella “guerra psicologica”.
L’attualità di questa prospettiva è più che dimostrata dai livelli raggiunti dall’azione controrivoluzionaria nei nostri confronti e nei confronti di tutte quelle forze che si sono mobilitate sul terreno della guerra di classe, e dagli eccellenti risultati politici che sono seguiti all’operazione Sossi (peraltro non conclusa) e all’assalto al carcere di Casale Monferrato.
A queste linee si uniformerà la nostra presenza nel movimento rivoluzionario e la nostra iniziativa di guerriglia e di costruzione del potere proletario. Ma un’ultima cosa è importante aggiungere: è necessario superare ogni tensione particolaristica e ogni spirito di setta. Noi crediamo nella necessità di “unirsi al popolo per unire il popolo” nella guerra di classe per il comunismo. E in questa prospettiva combattiamo e lottiamo per l’unità del movimento rivoluzionario.
Lotta armata per il comunismo.
Leggi, fai circolare, passa all’azione con le Brigate Rosse.
Brigate Rosse
Aprile 1975
Fonte: Progetto Memoria, Le Parole Scritte, Sensibili alle Foglie, Roma 1996.
Un pensiero su “Risoluzione della Direzione Strategica, aprile 1975”