- Si avvia ormai a conclusione il dibattimento di questo processo. Anch’esso, come del resto tutti i processi politici, è un piccolo capitolo della lotta tra le classi e come tale si inscrive nella dinamica politica generale che caratterizza oggi il nostro paese. La stessa natura antagonista della relazione esistente tra le due principali forze qui rappresentate (i comunisti combattenti da una parte, e lo Stato nel suo complesso dall’altra) non annulla certo la possibilità che ogni forza istituzionale interessata possa cercare di “giocarlo” in più direzioni per i propri fini politici contingenti, confidando ovviamente sulle innegabili e profonde divisioni esistenti tra gli “imputati” e, ancor più, sulla difficile situazione che oggi vive l’avanguardia combattente italiana.
Ciò è quanto è avvenuto, ad esempio, nel periodo che va dal gennaio ’89 sino all’apertura del dibattimento. Un periodo nel quale alcune forze hanno tentato di sfruttare l’“anomalia” di questo procedimento per rafforzare la propria posizione nella lotta “interborghese” che si svolge attorno alla rimodellazione delle funzioni e del peso specifico del parlamento, dell’esecutivo e della magistratura in tutte le sue componenti.
È questa a mio avviso la principale ragione per cui si è prodotta in quei mesi una bagarre giornalistica nella quale politologi, giuristi, uomini di partito e grandi firme “da un soldo la riga” sembravano gareggiare tra loro per un ipotetico trofeo del provincialismo italiano, non riuscendo ad elevarsi dall’assurda altalena tra le posizioni che temevano il riconoscimento del carattere politico dell’attività delle BR e quelle che rilevavano la possibilità di un doppio giudizio e una doppia condanna per gli imputati.
La banalità di simili posizioni, le quali solo momentaneamente sono costrette al silenzio, fa da cornice al loro contenuto anticomunista. La prima sembra non rendersi conto che la legittimità dell’attività teorica e politica dei comunisti deriva da un oggettivo processo di sviluppo economico e sociale entro il quale sono venuti maturando, assieme alle due classi fondamentali della società capitalistica, quei loro interessi universali e storici per affermare o difendere i quali sono portate inevitabilmente a combattersi con ogni mezzo a seconda delle fasi. Si vorrebbe così mistificare il fatto che il grado di consenso attivo e/o passivo che l’attività dei comunisti riscuote dalle masse è cosa certamente mutevole ma che non inficia assolutamente la necessità storica della loro consapevole presenza nella lotta politica tra le classi, neanche quando la trasposizione formale degli interessi storici del proletariato, il Partito, vive ancora allo stadio di progetto o di piccola organizzazione e non può obiettivamente essere riconosciuto dalle larghe masse come il loro più valido rappresentante e la loro guida migliore nella lotta contro lo Stato.
Ancor più grossolana è invece la mistificazione di chi sostiene l’altra posizione. Costoro, i quali amano definirsi di sinistra, oltre ad ammettere implicitamente la legittimità della “prima condanna”, fingono di ignorare le vere finalità di quelle particolari caratteristiche procedurali e sostanziali assunte dal “diritto” in Italia nel corso della lotta di classe degli ultimi 20 anni, anche grazie al loro contributo di servi sciocchi. Una tale ipocrisia non è però in grado di cancellare l’evidenza del fatto che l’ibrido mix di “premialità e durezza” applicato in campo giuridico e penitenziario ha concorso e concorre, insieme ad altri strumenti e metodi squisitamente politici ed ideologici, al permanente tentativo di isolare e reprimere i comunisti combattenti, di contenere l’estensione del movimento rivoluzionario ed in particolare della sua parte che si attesta sul terreno della lotta armata, e di prevenire al contempo l’affermazione nelle lotte di massa delle proposte politiche contingenti dei comunisti combattenti.
In contrasto con le due tesi reazionarie sopra esposte, abbiamo visto scendere in campo la Procura Generale con una altrettanto reazionaria difesa delle ragioni che presiedevano all’istruttoria e al rinvio a giudizio. Una difesa che, in verità, oltre a manifestare l’anticomunismo “strutturale” della Procura, è stata di basso profilo anche dal punto di vista borghese, al punto che non è riuscita neanche a focalizzare le reali motivazioni del conflitto istituzionale apertosi in questi ultimi anni tra l’esecutivo e la magistratura nel suo complesso, riducendosi in tal modo alla difesa di interessi prettamente corporativi di una sua parte.
Dal canto suo la Corte si è fatta sostanzialmente “conciliatrice” tra queste opposte tendenze in almeno due occasioni.
La prima quando ha rinunciato (per lo meno finora) all’uso strumentale di ingenue richieste di annullamento o di convocazione di “illustri” testimoni; richieste che, se accolte, avrebbero forse danneggiato i titolari dell’istruttoria, ma nello stesso tempo avrebbero permesso al “Potere Giudiziario” nel suo complesso di richiamare il ceto politico alla assunzione pubblica delle proprie responsabilità sul modo in cui è stata condotta negli ultimi anni la cosiddetta “lotta al terrorismo”, vale a dire l’attività controrivoluzionaria degli organi repressivi dello Stato. Esso avrebbe potuto così inficiare la tenuta di quella cornice ideologica del “superamento dell’emergenza” dietro la quale procede, per opera delle più reazionarie forze parlamentari/governative, il costante logoramento di alcune delle (altrettanto reazionarie) prerogative costituzionali della magistratura. Tanto più queste ingenuità erano strumentalizzabili nell’immediato, se solo si considera la diatriba interborghese che proprio in questi ultimi mesi vede le più importanti componenti della magistratura opporsi alla traduzione pratica di alcuni aspetti della legge di riforma della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Una disputa nella quale si è ormai arrivati a sancire formalmente, per la prima volta in 40 anni, un vero e proprio “conflitto di competenze” tra il Parlamento e l’esecutivo uniti da una parte, e la Corte dei Conti e quella Costituzionale dall’altra.
Certamente è vero che per un marxista le motivazioni di base delle varie richieste erano alquanto risibili, visto che in esse vi era una manifesta incomprensione del significato storico e politico obiettivamente assunto dalla lotta armata delle BR nei suoi primi 10 anni di vita, e, inoltre, vi si rappresentavano alcune sfere delle relazioni conflittuali tra gli uomini come un prodotto delle loro stesse leggi e dei loro codici. Ma è però anche vero che una Corte di Assise di uno Stato borghese non è strutturalmente idonea per valutare le istanze sotto questo profilo, limitandosi invece ad apprezzarne o meno l’utilità pratica che possono avere in quel momento se giocate come “strumento di pressione”, piccolo “ricatto”, “moneta di scambio” e così via.
Ed è questo in fondo il ragionamento che, sull’altro versante, ha guidato la Corte anche nella seconda occasione in cui si è fatta mediatrice fra opposte tendenze, ossia quando ha sfacciatamente ignorato persino quella sponda istituzionale offertale (con l’obiettivo di fare annullare o sospendere il processo) dalla falsa ingenuità con la quale Imposimato ha “svelato” pubblicamente alcune delle vere ragioni che presiedevano all’istruttoria.
Ma, ovviamente, anche la libertà di parola e di manovra delle varie posizioni borghesi ha un limite politico, ed esso ancora una volta è costituito dal pericolo che il loro frenetico sovrapporsi faciliti in definitiva sul piano “propagandistico” i comunisti combattenti, visto che a tutt’oggi sono ancora pochi e labili gli elementi sui quali poggia la speranza della borghesia che essi non sappiano ricercare e trovare la strada giusta per occupare di nuovo con intelligenza il centro dell’arena politica nazionale.
È questo in verità uno dei principali “timori” che oggi accomuna le forze istituzionali, tutte ormai abbastanza consapevoli delle ragioni che stanno alla base del ciclico riemergere di ampi movimenti di classe in opposizione ad alcuni elementi programmatici, di ordine interno o internazionale, di fondamentale importanza per i governi in carica e per la “tenuta generale” dell’imperialismo italiano nello scenario mondiale. Questo timore è quindi a tutti gli effetti il dato politico principale che ha posto un limite alla polemica pubblica interborghese sul processo “BR-insurrezione”.
Mi sembra perciò giusto riassumere queste osservazioni rilevando che il punto di equilibrio, finora stabilito tra le forze borghesi interessate al processo, consiste nel classico velo pietoso con il quale è stato pressoché coperta sul piano pubblico, e in una gestione particolarmente addomesticata dei vari traditori e dissociati, una gestione che lascia trasparire la volontà di una generale assoluzione. È il rispetto verso questo equilibrio che, almeno per il momento, “obbliga” i rappresentanti delle tendenze sopra esposte a non azzardarsi a menzionare il processo neanche in quelle occasioni in cui tutti assieme si ritrovano a discutere pubblicamente, davanti a milioni di persone e con insolita franchezza, sul modo migliore di usare in funzione “preventiva”, ovvero anticomunista, l’opportunismo di alcuni prigionieri politici.
Ma se è giusto ed utile analizzare le posizioni, le contraddizioni e le manovre delle varie forze in campo anche in queste piccole battaglie che sono i processi, ponendosi così in condizione di valutare o addirittura “anticipare praticamente” le possibili mosse future dell’avversario di classe e dei suoi coscienti o incoscienti alleati, ciò che più conta è però ribadire per l’ennesima volta quel rifiuto della qualifica di “imputati” che per noi si esprime in termini molto semplici: la lotta di classe non si processa! Vale a dire che non si è mai data nella storia la possibilità di regolamentare gli obiettivi, gli strumenti e i metodi della lotta tra le classi e tra gli Stati su di un terreno prettamente giuridico.
Dacché si formarono le società classiste, sempre e dovunque le norme di ordine giuridico son dovute prima o poi “saltare” dinanzi al fatto che i modi in cui gli uomini producono e riproducono quotidianamente le condizioni della loro esistenza fisica e spirituale hanno creato la necessità, per le classi dominate, di ricercare e trovare nella stessa realtà sociale complessiva tutti gli elementi, pratici e teorici, sviluppando i quali si rende possibile la consapevole organizzazione e dislocazione delle forze nella lotta che ha per oggetto la conquista di una parte o di tutto il potere politico. Sono sempre stati gli esiti di queste lotte di classe a determinare il carattere del “diritto” da tutelare e mai è accaduto o potrà avvenire il contrario.
Nello stesso tempo questa semplice verità, oggi rilevabile ad occhio nudo da ogni persona di buon senso che abbia un minimo di conoscenza della storia, permette inoltre di capire come le stesse modifiche parziali, che periodicamente investono la procedura giuridica e/o la relazione tra reati e pena – “piegandole” in un senso o nell’altro ma senza per questo modificarne il carattere di fondo – siano anch’esse dovunque e sempre un riflesso attivo dello sviluppo economico e sociale e della lotta tra le classi e tra frazioni di classe che in esso si svolge.
Quest’ultima è la ragione per cui ogni forza politica non può considerarsi neutrale o indifferente davanti a queste pur limitate trasformazioni, ed è perciò oltremodo indispensabile che i comunisti si adoperino per comprenderle e per chiarire alle masse le loro reali cause congiunturali. Tanto più ciò è necessario quando esse risiedono in primo luogo non già nella mobilitazione popolare, bensì nel temporaneo acuirsi delle contraddizioni esistenti fra le tre componenti principali dell’organizzazione statale complessiva; componenti le quali – come dovrebbe esser noto a chi si professa rivoluzionario – nei paesi imperialisti hanno ormai tutte una natura antiproletaria e una funzione reazionaria.
Di conseguenza, soltanto criticando l’illusione di un’impossibile “neutralità” e condannando risolutamente la pratica dilettantesca dell’empirismo gruppettaro si può evitare, nelle piccole come nelle grandi battaglie, di farsi “portatori di acqua” al mulino di questa o quella componente reazionaria dell’apparato statale.
Ciò è quanto, ad esempio, è oggi necessario fare anche nel nostro paese, là dove già esistono a mio avviso le condizioni affinché sia possibile ai comunisti combattenti di:
– lottare contro il graduale ma costante processo di riforma istituzionale, ed in particolare contro i suoi aspetti più marcatamente antiproletari;
– contribuire all’elevazione della coscienza politica della classe anche attraverso la costante opera di demistificazione del “feticcio” della legge;
– educare le avanguardie rivoluzionarie e le masse lavoratrici nell’utilizzo consapevole di tutti i momentanei conflitti di ordine istituzionale che emergono nel campo nemico per avvantaggiare la propria lotta anticapitalistica, tanto nelle fasi di ascesa, quanto e soprattutto in quelle, inevitabili, di ripiegamento generale del movimento di classe e di riorganizzazione delle fila rivoluzionarie.
In questo lavoro di “educazione” è ovviamente necessario non farsi e non ingenerare illusioni di sorta, poiché è stato più volte dimostrato che le “aperture” derivanti da una lotta prevalentemente interborghese hanno sempre una impostazione “a doppio taglio” ed un carattere estremamente effimero. Non per caso, ad esempio, esse oggi acquistano obiettivamente anche la particolare funzione di “coprire” ideologicamente, sul piano propagandistico, le continue piccole ondate repressive contro alcune istanze del movimento rivoluzionario legale e la progressiva limitazione dei più importanti strumenti e metodi di lotta e di organizzazione legali delle masse, ovvero esse coprono due aspetti molto “concreti” dell’attività antiproletaria e controrivoluzionaria dello Stato.
In altre parole si può dire che la capacità dei comunisti di giocare a tutto campo anche sulle spinose questioni del “diritto” (con tutte le sue implicazioni) è l’esatta negazione di quella politica del minimo sforzo che è tipica sia dell’empirismo del PCI e di D.P., sia di quello “estremista” dei vari gruppi di prigionieri che hanno affidato alla “cessazione della lotta armata” il loro pur comprensibile desiderio di uscire dalla galera. Non per caso sia gli uni che gli altri vengono regolarmente usati (in misura e con forme non raffrontabili poiché diverso è il loro peso politico generale) da questa o quella forza dirigente dell’apparato statale, e in cambio ne ricevono a loro volta più o meno l’identico sostegno che una corda fornisce a un impiccato, con tanti saluti alla “buona fede” di singoli soggetti.
Riassumendo si può affermare che il dato obiettivo da cui possono muovere i marxisti, anche in questa materia, consiste allora nel fatto che la situazione economica generale, e le lotte di classe che su di essa si sviluppano, fanno sì che tutte le espressioni istituzionali delle varie frazioni borghesi non possano assolutamente sottrarsi al coacervo di contraddizioni entro il quale devono oggi operare. Esse ad ogni passo finiscono così per facilitare, malgrado la loro intelligenza e “furbizia”, le possibilità affinché i comunisti combattenti approfittino della situazione per stabilire una linea di condotta adeguata ad indebolire l’egemonia politica e ideologica della borghesia sulle masse, accrescendo invece la propria influenza e la propria autorevolezza rivoluzionaria nella società.
Una “piccola tattica” specifica di ordine politico/militare, insomma, che sappia far valere con intelligenza gli interessi generali contingenti del proletariato anche su queste particolari questioni che possiedono un indubbio valore generale, rafforzando in tal modo quel filo ideale e politico/programmatico che unisce obiettivamente la giusta operazione compiuta dalle BR contro il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura (pochi giorni dopo l’approvazione definitiva della “Legge Cossiga”) a quelle compiute contro Gino Giugni e Roberto Ruffilli.
O non è forse vero, egregi rappresentanti di tutte le frazioni borghesi, che quelle operazioni possono a ragione definirsi come una delle manifestazioni più importanti della lotta condotta dai comunisti, nelle varie congiunture politiche, contro gli aspetti più marcatamente antiproletari e controrivoluzionari di quelle quattro materie che il vostro feticismo rappresenta come “fonti del diritto”?
- L’altra importante questione da rilevare in questa sede riguarda i reati contestati. È infatti noto che l’affannosa ricerca di un movente giuridicamente valido per tenere in galera i militanti comunisti ha spinto la Procura, con l’avallo di tutte le principali forze parlamentari, ad istruire un procedimento nel quale per la prima volta non ci vengono contestati gli aspetti specifici dell’attività organizzativa e combattente svolta come militanti delle BR.
Ciò per cui dovremmo sentirci “imputati” in questa occasione non sono perciò alcuni degli elementi attraverso i quali la strategia e le tattiche delle BR acquistavano una loro particolare fisionomia e un loro peso specifico, bensì è addirittura la nostra assunzione di alcuni principi fondamentali del marxismo. Vale a dire di quegli strumenti di guida, certo di per sé non sufficienti per svolgere una funzione di avanguardia, ma negando o svilendo i quali un’organizzazione comunista termina di essere tale e può tutt’al più operare come un’informe associazione di onesti rivoluzionari assolutamente inadeguata per dirigere il processo rivoluzionario nei paesi imperialisti.
Si è avuta insomma la presunzione di giudicare in un’aula di tribunale il fatto che il migliore frutto del proletariato italiano, la più importante esperienza comunista sorta nel nostro paese in quest’ultimo dopoguerra, abbia lavorato e continui a lavorare per organizzare, dislocare e dirigere le avanguardie rivoluzionarie e le masse lavoratrici verso la conquista del potere politico, la demolizione dell’organizzazione statale borghese e l’instaurazione della dittatura del proletariato, e cioè della forma più alta ed estesa che può assumere obiettivamente la democrazia in una società divisa in classi, l’unica nella quale la ricomposizione del potere legislativo ed esecutivo diverrà una caratteristica dell’“autogoverno dei produttori”.
L’accusa di insurrezione e guerra civile non sono forse riferite ai “passaggi” che la storia ha reso necessari per cogliere questi obiettivi, peraltro transitori rispetto ai fini dei comunisti?
Ebbene, con la stessa consapevolezza con la quale si riconosce l’impossibilità di regolamentare in una dimensione prettamente giuridica la lotta politica tra le classi, e lasciando quindi alla Corte il piacere di dondolarsi nella contraddizione tra lo spirito e la lettera dei codici, i comunisti devono oggi riconfermare dinanzi al proletariato di aver lavorato e di continuare a lavorare in quella direzione.
Forti dell’esperienza fino ad oggi compiuta dal movimento operaio internazionale va sostenuto, senza alcuna esitazione, che lo sciopero politico di massa, la guerra di guerriglia, l’insurrezione generale armata e la guerra civile dispiegata costituiscono altrettanti aspetti di quell’azione di massa che è stata e rimane su scala mondiale il più importante metodo di lotta del proletariato contro l’organizzazione statale borghese.
Rigettando tutte le visioni apologetiche dello sviluppo capitalistico, che sono uno dei presupposti ideologici delle forze revisioniste occidentali, va inoltre ribadito che ancora oggi gli aspetti suddetti sono nello stesso tempo fasi distinte del «sistema completo di azioni che si sviluppano e si inaspriscono» che dal 1871 caratterizza il processo storico unitario della rivoluzione proletaria e di quella anticolonialista e antimperialista. Un processo guidato da leggi generali di valore universale le quali trovano, necessariamente, delle modalità di affermazione peculiari a seconda delle condizioni economico/sociali e statuali che sono proprie di ogni area e di ogni paese.
Sono tali peculiarità, infine, a concorrere in misura decisiva (ancor più dell’attività dei comunisti e dei rivoluzionari, la cui importanza è comunque fuori discussione) ad imprimere un oggettivo ordine temporale a questi metodi di lotta delle masse e a determinare le forme delle loro necessarie combinazioni. Perù, Salvador, Filippine e Cile; Brasile, Messico, Corea del Sud, Venezuela e Tunisia; Sud Africa, Paesi Baschi, Irlanda, Palestina e Libano; Grecia, Turchia, Italia, Spagna, Francia, Germania Occidentale e Belgio: sono questi soltanto alcuni degli esempi concreti e contemporanei, di natura e con caratteristiche e forme di “combinazione” senz’altro diverse, che rendono ridicola tanto la loro rappresentazione come “effetti del malgoverno”, quanto lo svilimento opportunista di tali presunti “vecchi” concetti della scienza marxista.
Merito indiscusso della lotta armata condotta dalle BR nei primi anni di vita è stato appunto quello di intrecciarsi, di “fondersi fino a un certo punto” con l’azione di massa delle più importanti realtà operaie del Nord del paese.
Così operando esse dimostrarono, in una certa misura, che la possibilità di una “nuova” configurazione dell’attività comunista non era invenzione di qualche sistematico da tavolino ma risultava invece come “necessaria” e ormai inderogabile per chiunque non volesse “cancellare” alcuni elementi fondamentali del programma comunista (i principi). Ciò ha permesso alle migliori avanguardie rivoluzionarie di iniziare a guardare con fiducia oltre il muro del riformismo parlamentare e dell’insufficiente e avventurista opposizione dei gruppi extraparlamentari legali.
Si estese quindi in tal modo la coscienza della necessità di attrezzarsi adeguatamente per affrontare con successo il problema fondamentale di ogni processo rivoluzionario – la questione del potere politico – lavorando da subito alla costituzione del “partito armato del proletariato”, ovvero del solo organo che nei paesi imperialisti può essere al tempo stesso espressione e garanzia reale della riconquistata indipendenza politica del proletariato.
Questa iniziale opera di centralizzazione, unita alla maggior consapevolezza delle leggi oggettive che governano la lotta tra le classi in un paese imperialista investito dalla crisi economica e politico/militare di ordine internazionale, ha in seguito permesso alle BR di “occupare” progressivamente il centro dell’arena politica nazionale intervenendo sui più importanti terreni di lotta che vedevano contrapposti il proletariato e le frazioni dirigenti della borghesia.
Di conseguenza, divenendo una componente attiva del continuo mutamento dei rapporti di forza politici, l’attività politico/militare dei comunisti ha costituito e costituisce un’indispensabile forza propulsiva per quei movimenti di massa che ciclicamente, per lo meno dal 1967/68 – nel mentre riconfermano nei fatti che il centro di gravità della lotta proletaria è e non può che essere extraparlamentare – rimettono con ciò stesso in discussione alcuni tratti fondamentali dell’ordinamento politico del paese, evidenziandone la sostanziale inadeguatezza di fronte alle più importanti istanze generali di cui sono portatori.
Un’oggettiva funzione di “forza propulsiva” che sarebbe il caso di non sottovalutare mai, magari per amore di un malinteso senso della pur necessaria critica politica, visto che il combattimento su alcune importanti questioni generali ha avuto e ancora possiede un enorme valore politico pratico anche nei periodi più o meno lunghi di ripiegamento dei movimenti di massa generali e di riorganizzazione delle fila comuniste. Esso infatti contribuisce per lo meno a rallentare (se non proprio a fermare o addirittura invertire) quella disgregazione della avanguardie di lotta e delle istanze rivoluzionarie che si determina inevitabilmente in questi intervalli di tempo. Vale a dire quando non esistono, e non si possono inventare, le condizioni oggettive e/o soggettive che facilitano la generalizzazione delle parole d’ordine più “risolute” e delle forme di lotta e d’organizzazione proletarie più idonee al perseguimento degli obiettivi politici contingenti, da un lato, e il “rinfoltimento” e la stabilizzazione del variegato tessuto delle avanguardie di lotta e di quelle rivoluzionarie, dall’altro.
In definitiva credo si può serenamente affermare che, dall’iniziale stadio in cui essa operava oggettivamente come uno degli elementi interni e d’avanguardia del “sistema completo di azioni” che sempre caratterizza la lotta di massa, l’attività delle BR si è via via trasformata qualitativamente ed ha svolto, nei fatti, un ruolo di direzione politica su migliaia di avanguardie. Nello stesso tempo essa ha avuto, indirettamente, anche una funzione di orientamento generale, di “sostegno dall’alto” delle più importanti lotte proletarie, arrivando persino a sfidare con ottimi risultati l’egemonia del più forte partito revisionista dell’occidente.
Questa attività soggettiva si è posta quindi “storicamente all’avanguardia” nella costituzione del Partito, contribuendo anch’essa in una certa misura a riaprire e mantenere aperte – pur in assenza di condizioni generali rivoluzionarie – la via della partecipazione diretta delle masse lavoratrici alla lotta per il potere. Quella stessa strada che era stata chiusa vittoriosamente dalla borghesia dopo la fase oggettivamente rivoluzionaria che il nostro paese ha vissuto per almeno due anni a partire dal luglio del 1943.
Qualunque seria valutazione dell’esperienza fin qui accumulata (anche negli ultimi sette anni) nel costante tentativo di essere teoricamente, politicamente e militarmente all’altezza di questa funzione d’avanguardia, permette a mio avviso di qualificarla come un contributo insostituibile, in Italia e in alcuni paesi europei, per arrivare alla rigorosa definizione di una seria strategia sulla cui base unire i comunisti combattenti.
- Credo sia inoltre giusto rilevare come, in modo “trasversale”, si vorrebbero qui giudicare e ammonire anche i “propositi rivoluzionari” dei più seri gruppi e collettivi che possiedono una chiara natura proletaria e una netta collocazione “extraparlamentare”. Mi riferisco in particolare a quelli che, sebbene persistano nel grave errore di non saper riconoscere e apprezzare le caratteristiche del corso storico concreto della lotta di classe che hanno reso necessaria e possibile già oggi la lotta armata nei paesi imperialisti europei, dimostrano però in vario modo di non fare spallucce dinanzi alla necessità di impadronirsi della scienza marxista e lavorano quotidianamente in alcune realtà di classe del paese.
Anche queste avanguardie di lotta sono perciò idealmente e “strategicamente” chiamate in causa dalle “imputazioni” di questo processo. E per quanto grande sia la distanza tra loro e i comunisti combattenti su tutte le più importanti questioni teoriche e politico-pratiche, esse hanno oggi l’occasione per dimostrare la loro coerenza con quella posizione di principio che giustamente afferma: la lotta di classe non si processa!
Nelle particolari circostanze del nostro paese, dove processati per “insurrezione e guerra civile” sono e non per caso i comunisti combattenti, mi sembra lecito ritenere che la coerenza anzitutto consista nel riconoscere responsabilmente che l’attività ancora oggi svolta dalle BR e dai comunisti combattenti è, per lo meno, un tentativo “storicamente legittimo” di applicazione dei principi marxisti all’impianto teorico/strategico e alla pratica politica dei comunisti contemporanei.
Soltanto operando sulla via di questo pur timido riconoscimento esse potranno a mio avviso:
– rifiutare qualsivoglia banalizzazione della storia che è implicita nell’ovvia constatazione che “in Italia non vi è stata l’insurrezione e la guerra civile”, poiché non è questa la ragione politica per cui è stato istruito il processo e, soprattutto, non è con simili banalità che si può contribuire ad un serio bilancio di questi 19 anni di lotta armata che ci permetta di far tesoro dei suoi insegnamenti fondamentali;
– rifiutare l’errata posizione del “tanto peggio tanto meglio” sui problemi inerenti agli aspetti giuridico/repressivi della controrivoluzione, evitando al contempo di abbandonarsi a quelle sterili lamentele sulla “criminalizzazione preventiva di future insorgenze sociali”, che se possono forse tornare utili per denunciare pubblicamente alcune proposte di legge sulla tossicodipendenza, non si addicono però in questa circostanza a dei militanti che dovrebbero essere consapevoli della natura e delle caratteristiche di quello Stato che si propongono di “spezzare”.
E infine, potranno così tentare di riaffermare con intelligenza il diritto/dovere, “la legittimità storico/politica” dei comunisti di elaborare e perseguire strategie e tattiche finalizzate non già all’acefala difesa dell’ordinamento repubblicano di un paese imperialista, ma alla conquista del potere e all’instaurazione della dittatura del proletariato: vale a dire i “presupposti” senza i quali parlare di Socialismo è soltanto un inganno verso i lavoratori.
Le forme più idonee per affermare almeno la loro “progressiva coerenza” con un così importante contenuto sono un problema la cui soluzione spetta ovviamente a queste avanguardie di lotta, ed è fuor di dubbio che una tale “ricerca” richiede un tempo di maturazione che va ben oltre la durata di questo processo. Ciò non è di per sé un fatto negativo poiché è noto che la faciloneria dell’apriorismo e/o la praticoneria spicciola non sono ostacoli rimuovibili dall’oggi al domani.
Ancor più difficile apparirà questo lavoro di “rimozione” se consideriamo che tali gruppi e collettivi, nella maggioranza dei casi, non sono affatto “arbitrari”. Le principali (ma non uniche) ragioni della loro riproduzione, più o meno estesa, risiedono, infatti, da un lato, nella particolare composizione e “mobilità” di ieri e di oggi del proletariato e della piccola borghesia urbana e rurale di questo paese, e, dall’altro, nelle specifiche modalità con le quali si è svolta in Italia la lotta teorica e politica interna al movimento comunista internazionale in tutto il secondo dopoguerra. Queste ragioni si “intrecciano” ovviamente anche con la lotta di classe di questi ultimi 20 anni; e se è vero che non devono essere assolutizzate, è però altrettanto vero che non si possono “ignorare” con mal celata sufficienza.
Quel che può invece essere utile ricordare per i militanti di questi gruppi e collettivi è che questa “piccola” faccenda del diritto/dovere, la quale viene in genere classificata dall’opportunismo di destra e di sinistra come prettamente “ideologistica” e ininfluente sul piano politico-pratico, ha rappresentato nella storia uno dei problemi più importanti nelle vicende del movimento operaio di tutti i paesi. Un vero e proprio “scoglio” sul quale, tanto per fare esempi a noi vicinissimi, si infransero dapprima il PCI e in seguito la maggioranza dei gruppi extraparlamentari legali, compresi quelli che avevano migliaia di militanti, decine di migliaia di simpatizzanti, i propri quotidiani, le riviste e persino l’entrismo organizzato nei giornali e partiti borghesi, nella magistratura, negli ambienti dell’arte, della cultura, ecc. ecc.
Del resto credo sia ormai pacifico per tutti i rivoluzionari maggiorenni che fu anche da questa incapacità di doppiare positivamente lo “scoglio”, o meglio di tirare tutte le dovute conseguenze da questo passaggio difficile ma necessario, che derivò in larga misura quella progressiva involuzione programmatica, teorico/strategica e politico/pratica che è ampiamente documentabile sotto ogni profilo. Una costante “svolta reazionaria” che portò le forze suddette, in tempi e con pesi e conseguenze senz’altro diversi, nelle fila “di sinistra” della borghesia, stabilendo in tal modo anch’esse una continuità con il trasformismo “di gruppo” e “molecolare” che sono aspetti fra i più squallidi della storia politica italiana da oltre un secolo.
Il “passaggio” di cui si parla è quindi inerente all’impianto generale adeguato a perseguire nei paesi imperialisti il programma comunista. Esso ha perciò ben poco a che vedere con l’espressione “radicale” del “desiderio soggettivo di rivolta”, ed ogni sua approfondita valutazione sotto il profilo logico e storico obbliga a mio avviso i comunisti ad assumere già da oggi la lotta armata come “necessaria”, e quindi ineludibile, per assolvere alla loro funzione di direzione in tutte le fasi del processo di organizzazione e dislocazione delle avanguardie rivoluzionarie e delle masse lavoratrici verso la conquista del potere.
Ma naturalmente per nessuno è lecito farsi illusioni.
L’ascesa di questi gruppi e collettivi verso un’adeguata concezione della strategia e della tattica in un paese imperialista non dipende certo soltanto dalla loro “buona volontà”, ed è quindi necessario che i comunisti combattenti proseguano nella argomentata polemica teorica e politica contro di essi: vale a dire contro il prevalere nelle loro istanze dirigenti di quell’eclettismo che sempre scaturisce dalla cattiva assimilazione e applicazione dei principi marxisti, e che in molte, troppe occasioni ha una ricaduta politico-pratica che li colloca obiettivamente come piccole sponde di sinistra delle due forze revisioniste parlamentari, con evidente discapito per quell’autonomia di classe a cui pure formalmente si richiamano.
Oggi come ieri sarà il rigore di questa lunga e inevitabile battaglia che faciliterà, ad esempio, la messa al bando di quella tesi opportunista di stampo metafisico che vorrebbe far apparire come antagoniste le funzioni che svolge nel processo rivoluzionario l’azione di massa e quelle di direzione programmatica, strategica e tattica che l’attività dei comunisti combattenti può, deve e vuole esercitare sulle avanguardie rivoluzionarie e su quel “sistema completo di azioni” che è prodotto dalla lotta di massa ed è, ovviamente, una delle sedi “naturali” di lavoro quotidiano dei comunisti e dei rivoluzionari. Una tesi che è una vergognosa falsificazione di cui va lasciato l’onere ai più incapaci tra i dirigenti gruppettari di ieri e di oggi.
Sarà infine anche grazie a questa battaglia, la quale oggi come ieri nei suoi aspetti politici e programmatici è sostanzialmente una battaglia contro l’avventurismo, che si potrà rompere quello spirito da “cristiani per il socialismo” che predomina in questi gruppi e collettivi sulla “questione dei prigionieri politici”, e dietro il quale convivono tranquillamente tanto l’ingenuità e la buona fede quanto l’opportunismo individuale.
Si potrà così agevolare la formazione di nuovi militanti rivoluzionari, che siano in grado tra l’altro di affrontare il problema della “libertà per i comunisti” con le modalità e i tempi necessari, senza prestarsi al gioco di chi avanza la scellerata proposta di un compromesso che in questa fase storica nei paesi imperialisti è assolutamente inaccettabile, sia per le forze comuniste combattenti che per quei rivoluzionari realmente consapevoli della natura reazionaria dei processi in atto nel mondo capitalistico.
Deve essere quindi chiaro per tutti il fatto che, in questa fase storica, nei paesi imperialisti, rinunciare alla lotta armata condotta dai comunisti anche in condizioni generali che non sono quelle di “guerra tra le classi”, vuol dire né più né meno che abbandonare una delle più importanti e fondamentali conquiste ottenute negli ultimi 26 anni dal lavoro di riadeguamento generale della politica rivoluzionaria svolto dai comunisti di tutto il mondo.
Una rinuncia che è quindi inaccettabile poiché conduce ad una sicura, obbligata regressione di ordine teorico e programmatico che cancellerebbe via via anche solo il ricordo di quegli interessi universali e storici del proletariato. Ciò di cui abbiamo appunto tanti, troppi esempi anche nella storia italiana di questo secolo e che non può essere assolutamente attribuito all’“infedeltà” o alla “furbizia doppiogiochista” dei vari gruppi dirigenti del movimento operaio.
Ritengo sia infine doveroso classificare come un mix di ridicolo e di volgarità gruppettara le posizioni di quanti, in vario modo, si richiamano alla “ritirata strategica” per incorniciare le loro prosaiche scelte di “desistenza”.
Il dibattito e l’attività combattente di questi 7 anni attestano la falsità di costoro e dimostrano invece che la ritirata strategica fu la più responsabile tra le scelte all’epoca possibili: l’inizio di una lunga e complicata manovra di ripiegamento che permettesse ai comunisti combattenti di affrontare progressivamente tutti quei necessari passaggi di rettifica inerenti all’impianto generale che soli potevano permettere di difendere, consolidare e, in prospettiva, estendere la loro influenza nella classe e nell’intera società.
A mio avviso persistono tuttora le principali caratteristiche della situazione generale che la rese necessaria, soprattutto per quel che attiene allo stato dell’avanguardia comunista e del movimento rivoluzionario. L’indispensabile lavoro “preliminare” della ricostituzione delle fila dei comunisti combattenti, un lavoro per forza di cose “controcorrente”, rimarrà quindi a mio avviso ancora per anni il compito principale da assolvere. L’espressione teorica e politico/militare dei passi in avanti che i comunisti riusciranno a compiere nel corso di questo lavoro sarà ancora una volta la migliore risposta ai sogni di vittoria dello Stato.
Vittorio Antonini
Roma, 18 maggio 1989