L’esperienza del comunismo combattente, comunque la si voglia considerare, obbliga necessariamente a una attenzione nuova alle forme politiche dello sviluppo capitalista. Una esperienza storica autentica che ha colto e contribuito a mettere in luce le determinazioni storiche particolari assunte dallo stato borghese contemporaneo.
Contrariamente a tutte le formazioni politiche della sinistra rivoluzionaria, che nel corso di questi ultimi 20 anni hanno “sorvolato” la fondamentale questione dello stato, relegandola nel terreno delle tensioni ideali, affidando di fatto la capacità politico-pratica di organizzare la lotta rivoluzionaria contro lo stato al moto spontaneo del movimento di classe, il comunismo combattente ha subito individuato il campo reale degli interessi politici generali tra le classi, imponendo contro lo stato le esigenze del proletariato, affermando con i mezzi adatti, in modo diretto e concreto, la “questione dello stato e della rivoluzione” in un paese a capitalismo maturo come il nostro. Non è questa la sede, né nostra intenzione, affrontare in modo esauriente un tema politico e storico di tali dimensioni. Ci limitiamo pertanto ad indicare alcune caratteristiche generali, in modo sommario e “necessariamente” schematico, ma altrettanto indicative dell’apporto delle BR alla storia e all’esperienza del movimento operaio contemporaneo.
Con lo sviluppo monopolistico sono venute meno le forme di mediazione e di espressione politica dello stato liberale. L’ordinamento politico-istituzionale si è ricostituito, in un certo senso “ripoliticizzato”, sui livelli più alti di centralizzazione del capitale imperialista, sviluppando complessi e articolati interventi in tutti i campi della vita nazionale.
Negli ultimi 60 anni c’è stato un proliferare di nuovi istituti statali – banche centrali, politiche monetarie ed economiche, istituti assistenziali e di previdenza, interventi nei conflitti di lavoro, ecc. – la cui funzione è diretta: da un lato a frenare gli squilibri economici insiti nel modo di produzione capitalista; dall’altro lato ad agire come una sorta di “ammortizzatori” delle tensioni sociali. Nella fase del capitalismo monopolista ha preso forma una gigantesca sovrastruttura che concentra la sua forza politica e ha modificato il terreno stesso della lotta tra le classi, in quanto, intervenendo decisamente sulle contraddizioni sociali, agisce direttamente sulla vita politica delle masse proletarie con maggior forza ed incisività che nel passato.
Se in economia gli interventi “disciplinatori” dello stato hanno come effetto a lunga scadenza di rendere ancora più caotico il modo di produzione e degli scambi, in campo sociale e politico stendono una specie di “rete protettiva” che avvolge le masse, cercando di paralizzare materialmente ed ideologicamente ogni rappresentanza politica indipendente. L’imperialismo senescente dei nostri giorni non si accontenta più dello “stato gendarme” che conduceva i suoi interventi repressivi dal di fuori, cerca ora di sviare ed immobilizzare il movimento di classe agendo dall’interno ed esercitando, per mezzo di forme dirette di intervento politico ed un uso più articolato della forza militare, una pressione continua e profonda per ostacolare e disorganizzare lo sviluppo rivoluzionario.
Come è noto, questa forma più elaborata del dominio della borghesia si è materializzata nel conflitto di classe degli ultimi 20 anni nella cosiddetta “strategia della tensione”. Dalle bombe di Piazza Fontana in poi, le stragi di stato hanno costituito, con la loro scia di sangue e orrore, l’atteggiamento politico costante e puntuale della classe dominante nei confronti delle richieste di cambiamento sociale avanzate dal proletariato. Parallelamente a questa dura offensiva militare, troppo nota per ripercorrerne qui le varie fasi, l’intervento statale si è snodato lungo un asse che mirava a diluire lo slancio rivendicativo e rivoluzionario delle masse in logiche politiche neocorporative, in schemi interclassisti, in patti sociali di “solidarietà nazionale”, ecc. Anche questi passaggi sono noti, come noto è stato il collaborazionismo dei vertici sindacali e del PCI. Ciò che ci interessa puntualizzare, isolandoli, sono questi due aspetti dell’intervento statale che riassumiamo sinteticamente nello stragismo e nel neocorporativismo. Entrambi caratterizzano e danno forma al nuovo rapporto qualitativo tra stato borghese e proletariato. Entrambi rivelano caratteristiche nuove fondamentali, peculiarità concrete che mettono a fuoco il compiuto passaggio del ruolo dello stato, da comitato di difesa degli interessi della classe dominante, secondo i compiti tradizionali del liberalismo, a quello di un ruolo nettamente e decisamente offensivo, che mira cioè non solo alla difesa o alla amministrazione degli affari della borghesia, ma a una gestione offensiva delle contraddizioni sociali.
La storia degli anni ’70 ha messo a nudo, sotto gli occhi di tutti, le forme moderne della dittatura borghese, che proteggono la sua conservazione. Una combinazione di metodi politici che riaffermava la natura inconciliabile dell’antagonismo tra borghesia e proletariato e paralizzava nello stesso tempo i gruppi e i partiti della sinistra rivoluzionaria, incapaci di elaborare risposte globali in grado di sostenere la durezza e la complessità delle nuove condizioni della lotta di classe, di rilanciare la rivoluzione nel nuovo contesto dei rapporti tra le classi.
È in questo contesto che nacque l’opzione dell’unità del politico-militare, come necessità storicamente determinata dall’evoluzione dei rapporti politici tra le classi e delle istituzioni della società italiana. Una scelta nata dalle tendenze di fondo di quest’ultima e dalla necessità di interpretare l’aspirazione socialista delle masse nelle mutate condizioni del conflitto politico e sociale.
È evidente allora, anche sulla base di queste brevi affermazioni, che l’indicazione di trasportare l’“esperienza brigatista sul terreno aperto, politico e di massa” e dell’individuazione del terreno concreto di incontro tra questa esperienza e la “sinistra di classe” nella proposta dell’amnistia, equivale al tentativo di ridurre la lotta armata da nodo strategico della rivoluzione italiana a un problema di equilibrio politico all’interno di un ipotetico “blocco sociale anticapitalista”. Una manovra di trasformismo politico che cancella il “nocciolo razionale” dell’esperienza generale degli ultimi 20 anni di lotta rivoluzionaria; che sposta l’asse dell’intervento comunista dal terreno del rapporto politico generale fra le classi, dalla questione centrale del potere, a quello di presenza virtuale all’interno di un potenziale spazio a sinistra del PCI, una sorta di polo di aggregazione, di contenitore di bisogni e di malcontento senza possibilità concrete di trasformarli in una strategia politica.
La grande conquista dell’esperienza delle BR è quella di aver ridato alla prospettiva rivoluzionaria una dinamica storica effettiva. La questione del socialismo ha riacquistato corpo, uscendo dalla nebbia “ideale” in cui era stata confinata, si è attualizzata. Non certo come sinonimo di realizzazione immediata (come spesso è stata intesa in passato – la rivoluzione dietro l’angolo non c’è mai stata -) ma come rappresentazione storico dialettica. È innegabile che negli anni ’80 c’è stato un ridimensionamento importante delle conquiste di agibilità politica nel proletariato e del peso esercitato dall’avanguardia comunista. Ma nessuna prassi diretta al cambiamento dell’attuale stato di cose presenti può affermarsi se non valorizzando effettivamente l’esperienza da cui nasce in soluzione di continuità. E l’ottica trasformista, nei fatti, opera una svolta netta, radicale, che ne revisiona, annullandolo, il significato storico, politico/sociale.
È decisivo comprendere, soprattutto in questa congiuntura di debolezza del movimento rivoluzionario, che i termini del conflitto fra le classi vengono definiti dai livelli di “politicizzazione” dell’imperialismo. È il corso oggettivo storico del capitalismo, delle sue tendenze di fondo, che determinano e fanno emergere le caratteristiche delle forme e dei metodi della lotta comunista.
Bisogna considerare le tendenze strutturali, storiche e congiunturali che agiscono a livello economico e politico/istituzionale. Il capitalismo italiano è entrato, in questi anni, in una “nuova” fase, ha subito ed imposto “trasformazioni” profonde. Il nostro paese si è trasformato da paese importatore a paese esportatore di capitali. Una tendenza economica e politica di grandi dimensioni; nel 1988 i capitali italiani hanno assunto il controllo di ben 132 imprese estere, che si aggiungono alle 163 del periodo ’86/87. È interessante notare inoltre che questo nuovo orientamento è diretto alla conquista di mercati nei paesi a capitalismo avanzato e più precisamente di attività produttive ad alta e altissima composizione di capitali.
In sintesi, alla classica direttrice espansionista dell’imperialismo italiano, rivolta verso lo sfruttamento dei paesi sottosviluppati e/o in via di sviluppo dell’area mediterranea o a quello di più recente penetrazione in America Latina, si è aggiunta l’espansione, attraverso l’acquisizione di attività produttive e finanziarie, nell’area dell’Europa Occidentale, diventata il principale mercato per l’esportazione di capitali italiani.
Un autentico salto qualitativo che si è materializzato con la presenza, alla fine del ’87, di 326 imprese a partecipazione italiana nell’area CEE.
La grande importanza acquisita in questi anni dall’esportazione di capitali in confronto all’esportazione di merci, è uno dei principali contrassegni dello sviluppo delle tendenze imperialiste del capitale italiano.
Una tendenza che, accelerata dalle contraddizioni aperte dalla crisi nella metà degli anni ’70, alimenta un clima già carico di tensioni autoritarie, favorendo il processo di verticalizzazione del potere politico. L’esportazione di capitali, infatti, rivolgendosi esclusivamente verso l’acquisizione di attività lavorative e finanziarie già esistenti, ha accelerato i processi di centralizzazione, attraverso nuove alleanze, fusioni, ecc.. Una dinamica che, imposta dalla saturazione dei mercati, dalla sovraproduzione di capitali, ha inasprito i processi di concentrazione monopolistica. L’espansione all’estero non ha comportato un processo di ampliamento “democratico” della classe dirigente, al contrario si è materializzata in un processo selettivo della stessa.
Olivetti, FIAT, Pirelli ed ENI controllano da soli circa l’80% del fatturato complessivo delle imprese estere a partecipazione italiana. Negli anni ’80 si sono sviluppate manovre finanziarie, politiche economiche e, soprattutto, interventi autoritari del governo nei conflitti di lavoro. La borghesia imperialista cammina a lunghi passi verso l’integrazione nella CEE e l’accresimento del suo ruolo di protagonista nello scenario internazionale.
Un’andatura che può mantenere solo a patto di comprimere i salari e la spesa pubblica, solo a patto di imporre una rigida disciplina sociale all’interno del paese.
Espansione all’estero e centralizzazione del potere politico all’interno è il binomio da cui si sviluppano i progetti centrali dell’offensiva statale contro il proletariato. Progetti che tendono a “ripoliticizzare” con un atteggiamento più favorevole alla frazione di borghesia “esportatrice di capitali” le relazioni tra i partiti e lo stato, tra istituzioni ed esecutivo. E nello stesso tempo, a “spoliticizzare” l’antagonismo proletario con l’attacco al diritto di sciopero, con nuove relazioni industriali e in generale con la criminalizzazione e delegittimazione delle lotte operaie.
Un programma complesso e articolato di rifunzionalizzazione dello stato, in una prospettiva antiproletaria, in cui confluisce, accanto alle tendenze conservatrici tradizionali, la tendenza allo “stato forte”, rappresentata da una classe dominante che si è formata sui termini politico/militari dello scontro degli anni ’70: sui grandi licenziamenti di massa, sulle trame costanti dello stragismo e dell’offensiva armata antiproletaria di questi anni.
In questo contesto, in cui la direzione dell’economia e della politica tende a centralizzarsi ulteriormente e più capillare e profondo diventa l’intervento dello stato sulla società, ogni ipotesi di trasformazione, ogni processo di aggregazione delle aspirazioni al cambio radicale, è strettamente legato alla capacità di condurre un lavoro deciso di orientazione teorica, politica e pratica, in grado di rilanciare in modo sistematico e continuo la lotta contro lo stato – espressione concreta della dominazione di una classe – e contro una gerarchia civile e militare, educata ad agire senza “remore legali”, formata e selezionata dalla lotta al socialismo di questi anni. Si comprende allora che “il ricatto emergenziale” che il governo fa pesare nei confronti dei movimenti di massa e rivendicativi è l’effetto concreto del decadimento della democrazia parlamentare borghese. È la necessità stessa di continuare a sviluppare le forze produttive ed a evitare che esse rompano l’equilibrio dei suoi ordinamenti, che spinge il capitale, pervenuto a questo stadio, a rinunciare ai metodi democratici, costringendolo a condurre processi di concentrazione sempre più spinti, tanto del suo dominio politico, quanto di uno stretto controllo della vita economica.
È un ricatto, per così dire, storico, che fa parte delle nuove discipline che la borghesia è costretta e tenta di imporre al proletariato.
Di fronte a ciò è veramente una “pia illusione” pensare di poter “disarmare” le politiche repressive dello stato contrapponendogli una “lotta per l’amnistia”, (nota 1) una lotta “in grado di far sorgere una visione e una tendenza di classe progressista, che sappia bloccare le tendenze alla criminalizzazione”.
Questa posizione, in realtà, disarma ideologicamente, politicamente, organizzativamente il proletariato e la sua avanguardia. Per il processo rivoluzionario in Italia, in effetti, non si pone più la necessità tattica di lottare per ricondurre il capitalismo alle forme liberali e democratiche, non è più possibile inserire la lotta per il socialismo nel campo della legalità istituzionale. La ragione di questo “oltrepassamento” risiede nel fatto che la conservazione e “l’incremento” del capitalismo monopolistico di stato si può attuare solo con la massima centralizzazione, con un accentramento dei poteri decisionali sempre più marcato. L’essenza della cosiddetta prassi emergenziale è legata a una fase e a uno sviluppo di classe determinato che non può semplicemente essere ricondotto a un inasprimento transitorio dei metodi politici, giuridici, legislativi, polizieschi, ecc., dal quale si possa ritornare al garantismo democratico.
La forma della democrazia borghese ha esaurito la sua funzione politica e oggi non può essere altro che l’espressione concreta della reazione. Oggi più che mai, l’alternativa è rappresentata dal socialismo e il proletariato, protagonista del cambio radicale dell’ordinamento economico, politico, sociale, non può attuare questa opera di trasformazione con mezzi legali.
Nell’attuale fase imperialista, la tattica comunista non prevede più la creazione di fronti o “blocchi progressisti”. La prassi comunista non può escludere la possibilità di organizzare, insieme agli interessi della classe operaia, anche quelle aspirazioni progressiste che provengono da strati sociali piccolo borghesi o da frange in via di proletarizzazione. Ma ciò non significa ricadere in politiche “frontiste”; ciò che è necessario, indispensabile e nodo centrale dell’attività comunista, è l’esistenza di un forte e organizzato centro marxista, rappresentanza politica autorevole, che sia in grado di tirarsi dietro e dirigere la folla eterogenea dei soggetti antagonisti.
Il grandissimo valore storico della lotta comunista di questi anni è quello di avere “restituito” al proletariato la capacità politico-pratica di organizzare la lotta rivoluzionaria contro lo stato. E una parte dell’esperienza del comunismo combattente del periodo ’84/87 si sviluppò dalla necessità di salvaguardare questo valore storico e, nello stesso tempo, di battere definitivamente, nella teoria e nella pratica, le orientazioni soggettiviste che furono controproducenti alla potenzialità della lotta armata.
Ripercorrere la creazione di un “blocco sociale anticapitalista”, un “fronte del progresso” è, tra le altre cose, riproporre il volontarismo soggettivista, il profilo eclettico, il lato più debole e più criticabile dell’esperienza di questi anni e, al contempo, liquidare completamente tutte le sue conquiste e gli indiscutibili meriti storici.
La priorità, oggi, è quella di lavorare alla conservazione-costruzione dell’identità comunista, un lavoro di lunga lena, in cui è più che mai necessaria una ferma linea di autonomia e di tenuta, lontana tanto dal politicantismo, virtuale o reale, quanto dal facile ed inconcludente estremismo.
Siamo consapevoli che per fare la politica rivoluzionaria – l’attività cosciente e organizzata che guida il proletariato nel cammino verso la sua liberazione – non bastano le dichiarazioni di principio. E siamo coscienti delle peculiarità che contraddistinguono questa fase. Non siamo, per capirci, quelli che dicono: «Qui non è successo niente». L’arretramento della lotta comunista è un fatto reale, che ha toccato il punto di massimo riflusso a tutti i livelli in 20 anni di opposizione rivoluzionaria in Italia.
Una situazione certamente prodottasi a causa di una serie di circostanze oggettive, da un quadro economico e sociale di relativa stabilità ma anche e in maniera determinante da limiti soggettivi, debolezze politiche delle forze comuniste. È fuori di dubbio che si è chiuso un ciclo, la fase iniziale del processo rivoluzionario nel nostro paese. Un serio bilancio si impone, la sistematizzazione degli errori da correggere e degli elementi da valorizzare, su basi più solide e sviluppate, nel prosieguo dell’attività comunista.
C’è un “vuoto di rilievo” nella storia di questi anni, del quale si avvertì l’assenza, “prepotentemente”, già alla fine della Campagna di Primavera. C’è molto da dire a questo proposito ma la lezione fondamentale che si può tirare in senso rivoluzionario è che lo slancio ricostruttivo e unitario dei comunisti deve puntare a colmare questo vuoto, deve essere diretto alla definizione dell’organo politico legittimato a rappresentare e a dirigere l’insieme dell’opposizione di classe. Questo lavoro di ricostruzione porta con sé nuove esigenze, una nuova mentalità politica, imparando a muoversi in modo molto più “ampio” di quanto non sia stato fatto finora, per linee interne alla frazione più avanzata del proletariato, in effettiva continuità con l’esperienza rivoluzionaria fin qui compiuta.
Alessandra Di Pace, Gianfranca Lupi, Roberto Simoni, Francesco Tolino
Giugno 1989
Note
1 La questione dei prigionieri politici, aspetto peculiare dello scontro storico proletariato/borghesia, è sicuramente una questione che va affrontata con la massima concretezza e serietà; e la lotta per la loro liberazione e per le condizioni di vita nelle prigioni è sempre stata e sarà parte integrante del movimento comunista e rivoluzionario internazionale. Ma questo non può significare liquidare il patrimonio politico (base dell’esistenza dei prigionieri politici e da questi rappresentato) né compiere tatticismi trasformisti che, prima ancora che dalle valutazioni politiche, sono sconfitti dagli stessi equilibri in campo.