La mistificazione e deformazione dell’esperienza rivoluzionaria che ha preso avvio a cavallo degli anni ’60-70 è tra gli obiettivi tenacemente perseguiti dalla controrivoluzione: un intenso e articolato lavoro ideologico di smemorizzazione degli elementi più significativi, dirompenti e non integrabili espressi dalla soggettività rivoluzionaria, in primo luogo dalla guerriglia, che ha l’intento di impedire che essi vivano e si riproducano nel presente e nel futuro dello scontro di classe.
Le aule dei tribunali e i mass-media, con linguaggi assai simili, sono stati tra i luoghi di trasmissione di questo messaggio.
Il processo per insurrezione avrebbe dovuto essere un momento funzionale a questo disegno. La presenza attiva dei prigionieri comunisti in quest’aula ha di fatto impedito che ciò fosse possibile.
Ma è l’insieme di questa operazione ideologica controrivoluzionaria che è destinata a fallire. Ce lo dicono chiaramente le immagini che ogni giorno sono costretti a farci vedere, che neanche la censura può negare: le immagini degli shabab palestinesi, dei neri dell’Azania/Sud Africa, del Centro America, del Perù… le immagini dei movimenti che attraversano la metropoli imperialista, fino agli operai e agli studenti della Tien An Men e dell’Europa dell’Est, così difficilmente omologabili. Ce lo dice la realtà della guerriglia del Fronte Farabundo Martì, della guerriglia palestinese… dell’attacco, nel cuore dell’imperialismo, della Rote Armee Fraktion.
Non è possibile disinnescare il ciclo di lotte rivoluzionarie sviluppatosi a partire dalla fine degli anni ’60: quelle che fin da allora sono maturate nell’Occidente capitalistico, che hanno messo a tacere tutti coloro che si erano adoperati a dimostrare l’impossibilità e l’impraticabilità della rivoluzione nel centro dell’impero; quelle che hanno espresso le prime esperienze di guerriglia nella metropoli, la RAF e le Brigate Rosse. Quelle che hanno le loro radici nelle esperienze del Che, del Vietnam, dei primi Feddayn, che affermarono la possibilità di combattere e di vincere, con la guerriglia di popolo, il più feroce degli imperialismi, quello che si esercita contro le periferie dell’impero. Una lunga esplosione che ha messo a nudo la fragilità del sistema sociale capitalistico e ne ha reso trasparente (al di là di ogni sua apparente complessità ed opacità) la contraddizione: il processo di espropriazione e sovradeterminazione, la dinamica di proletarizzazione che investe, con sempre maggiore intensità ed estensione, strati sempre più ampi della società e l’insieme del territorio planetario. Un ciclo di lotte che ha comunicato ed interagito con le esperienze della Rivoluzione Culturale Cinese da un lato e della Rivoluzione Cubana dall’altro che hanno affermato, nei momenti più alti del loro percorso, la rivoluzione come processo ininterrotto ed un nuovo internazionalismo proletario, aprendo così all’esperienza comunista – sulla base di una critica rivoluzionaria al cosiddetto “socialismo reale” – nuovi orizzonti e possibilità.
Questo grande ciclo internazionale di lotte rivoluzionarie ha spostato in avanti tutte le contraddizioni e sedimentato nuovi livelli di coscienza e desiderabilità, a cui il rapporto di capitale non è in grado di dare risposta. Gli anni ’80, anni segnati da una violenta quanto articolata controrivoluzione, ne hanno fatto venire alla luce solo la resistenza tenace, ma già oggi è possibile… nelle fabbriche, nei quartieri, nelle università, nelle scuole… nel centro e nelle periferie dell’impero, come nei paesi del “socialismo reale”… cogliere un livello più elevato di contenuti che premono e si preparano alla lotta, ad un nuovo inizio. È nelle potenzialità che questa realtà di classe apre allo scontro rivoluzionario che collochiamo la nostra militanza comunista e che intendiamo sviluppare nuovi livelli di comunicazione e lotta rivoluzionaria.
Il rapporto che instauriamo con questo tribunale è dunque chiaro: non ne riconosciamo alcuna legittimità e lo combattiamo quale espressione di un disegno politico e ideologico controrivoluzionario.
- Le principali contraddizioni del sistema capitalistico che le lotte rivoluzionarie degli anni ’60-70 avevano impattato, con le armi della critica e la critica delle armi, si sono riprodotte nell’ultimo decennio con nuova intensità e in uno spazio ancora più esteso. Sono stati, questi ultimi, anni di “rivoluzione” per il modo di produzione capitalistico e di conseguenza per l’insieme della formazione sociale dominata dal rapporto di capitale. Ma in che cosa è consistita, che cosa ha prodotto questa “rivoluzione”? È nella natura stessa del capitale, nella sua dinamica strutturale, rivoluzionare continuamente se stesso. Si tratta di un processo di approfondimento ed estensione del rapporto di sfruttamento che storicamente si è manifestato attraverso alcune fasi di grandi trasformazioni nel modo di produzione e di riproduzione (dalla manifattura alla grande industria al fordismo… all’informatizzazione). In questi anni e a tutt’oggi siamo nel pieno di uno di questi grandi “passaggi”. Una fase di :
– approfondimento del processo di espropriazione “reale”: cioè della crescente separazione delle funzioni di direzione, di comando, di ideazione dalle funzioni esecutive (manuali o intellettuali che siano)… che a partire dai processi lavorativi, da un gigantesco salto di modellizzazione e formalizzazione delle forze produttive, si articola complessamente ai diversi livelli del sociale, col fine di un aumento della produttività del lavoro e di una razionalizzazione del sistema di produzione-riproduzione;
– estensione del rapporto di capitale a nuovi processi di lavoro e a nuovi strati sociali, nella metropoli e verso le periferie dell’impero.
L’impresa multinazionale globale è il soggetto storico capitalistico dominante che, a partire dalla fabbrica, cellula della società capitalistica, ha ridefinito produzione immediata, tempi di riproduzione economico-sociale, modi di riproduzione del rapporto sociale.
La centralità del rapporto sociale di produzione, quale motore della società capitalistica, è stata così riaffermata ed ha ridefinito il politico e l’ideologico: il fattore centrale del dominio, in barba a tutte le tesi soggettiviste sul predominio del politico e dell’ideologico nel capitalismo maturo, rimane situato nella divisione tecnica del lavoro, nella strutturazione dei processi lavorativi e delle forze produttive. «Il capitale crea la sua forma sociale»: dal cuore della produzione alla riproduzione (alle metropoli, allo Stato), l’impresa capitalistica riconquista in questi anni la sua egemonia politica e sociale a livello “locale” e… su scala planetaria. La divisione tecnica del lavoro, infatti, ha rideterminato quella sociale anche a livello internazionale, riproducendo a livello planetario gerarchie di ruoli e funzioni di direzione ed esecuzione (centro e periferia). Una divisione internazionale del lavoro, una struttura gerarchizzata determinata dal dominio mondiale del rapporto di produzione capitalistico, che si fonda su uno sviluppo polarizzato delle forze produttive mondiali. Una egemonia riacquisita attraverso l’intensa pressione politica, militare ed economica sulla classe (valga per tutti l’esempio dello scontro alla Fiat dell’80, come “punto di svolta” per quanto riguarda l’Italia) e sui paesi della periferia (debito estero, ricatto FMI-BM… fino all’accerchiamento, oltre che economico, politico e militare, dei popoli e dei giovani Stati nazionali in lotta per l’autodeterminazione. Una pressione che ha fatto esplodere anche le contraddizioni già di per sé maturate all’interno delle formazioni sociali del “socialismo reale”. Queste ultime, subordinando il proprio sviluppo sociale allo “sviluppo delle forze produttive”, riducendo socializzazione e “statalizzazione”, limitando l’appropriazione al solo aspetto formale-giuridico, hanno di fatto riprodotto aspetti sostanziali del modo materiale di produzione capitalistico… riproducendone alla fine funzioni, ruoli di classe e modi di esercizio del potere. Si è aperta così la via agli attuali processi “riformatori” che intendono affrontare la profonda crisi sociale di questi paesi abbandonando progressivamente la pianificazione centralizzata, forma di “connessione impropria” per una struttura produttiva di tipo capitalistico, per la graduale acquisizione di una “economia di mercato” e delle relative ideologie e forme politiche ad essa funzionali, tentando in particolare uno scambio democrazia formale-aumento dello sfruttamento e della produttività del sistema, che è destinato in realtà a riprodurre le forme di governo tecnocratico-funzionale proprie del capitalismo maturo.
Si apre così la prospettiva ad un inserimento subalterno nella divisione internazionale del lavoro, nel ciclo di produzione del capitale multinazionale, dell’Est europeo e, anche se in forme più mediate, dell’URSS. Un processo avviatosi da dieci anni nella Cina di Deng, in una forma particolarmente selvaggia e difficilmente generalizzabile, ma sicuramente indicativa del tipo di rapporto che il sistema imperialista occidentale intende instaurare con l’area del “socialismo reale”.
Sono processi questi, che vanno ridefinendo i rapporti di forza tra i capitali a livello internazionale in uno scontro concorrenziale ormai globale che sta innescando forme nuove di governo e di mediazione sovranazionale e disegnando “aree integrate” e nuove gerarchie; con USA, CEE e Giappone al centro, quali poli consolidati di un sistema imperialista globale, che instaura con le sue periferie rapporti di integrazione disciplinata e dipendente o, viceversa – per chi rifiuta questo tipo di rapporto e sceglie la via dell’autodeterminazione – di annientamento attraverso le guerre “a bassa intensità”.
Ma insieme al suo rapporto il capitale ha riprodotto anche le sue grandi contraddizioni:
– Innanzitutto quella insita nella riproduzione approfondita del rapporto di capitale, nel processo di espropriazione “reale”. Un processo che, con la sua intrinseca contraddizione antagonistica, dalla “fabbrica” si riproduce come modello in ogni settore dell’attività lavorativa sociale ed informa la razionalizzazione del sistema produzione-riproduzione (la metropoli) ed il rapporto centro-periferia.
Sono chiari l’aumento dello sfruttamento e l’intensificazione dei processi di alienazione dovuti all’accentuazione del dominio sul tempo di lavoro tramite le nuove tecnologie; i processi di informatizzazione che permettono l’ulteriore integrazione e concentrazione di direzione e del comando da un lato e flessibilità dell’esecuzione dall’altro. Un insieme complesso di figure proletarie ne è colpito: dai tecnici che subiscono la sottomissione reale del lavoro intellettuale nel “terziario avanzato”, nelle università, nei centri di ricerca, ai lavoratori dei servizi “razionalizzati”, alla forza-lavoro di più recente immigrazione deportata dal Sud del pianeta, ricattata dal lavoro nero legalizzato; dagli operai sottomessi ai ritmi e ai tempi delle grandi fabbriche automatizzate, alle lavoratrici supersfruttate nei reparti decentrati della fabbrica multinazionale, nel “Terzo Mondo”.
Sono chiare le conseguenze dei processi di rifunzionalizzazione e riorganizzazione spazio/temporale del territorio riproduttivo metropolitano nelle aree del centro: non vi è metropoli che in questi anni non abbia subito una profonda ristrutturazione e razionalizzazione che, oltre a processi di deportazione di intere fasce di popolazione proletaria (per fare posto ai nuovi centri direzionali, alle mega-infrastrutture di sistemi di comunicazione e trasporto, ai “parchi scientifici”)… ha imposto i tempi e la produttività, generati dall’ulteriore velocificazione del ciclo di rotazione del capitale, portando all’estremo la mercificazione delle relazioni sociali e del “tempo libero” e il coinvolgimento ideologico nel modello di consumo producendo atomizzazione, isolamento e nuove alienazioni. Così come saltano agli occhi le condizioni di mera sopravvivenza in cui vivono milioni di donne e uomini nelle sterminate bidonvilles ai margini delle mega-metropoli del “Terzo Mondo”, in modo da rendere disponibile un’immensa riserva di forza-lavoro, costretta ad accettare la flessibilità selvaggia del lavoro decentrato nella periferia ad emigrare al Nord seguendo i cicli e le esigenze del capitale imperialista.
Sono chiari gli effetti distruttivi della dinamica di modellizzazione e formalizzazione delle forze produttive in funzione della valorizzazione capitalistica, di messa a punto di nuovi strumenti per l’approfondimento del dominio sull’uomo e la natura, che hanno, nella scienza sottomessa al capitale, uno dei vettori fondamentali: dalle sperimentazioni chimiche, biologiche, nucleari che desertificano intere aree, allo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali che sconvolgono l’ecosistema; dalle catastrofi nucleari alle ricerche sulle nuove tecnologie manipolatorie (biotecnologie…). Dinamiche che hanno ricadute, per le loro dimensioni, non più confinabili in questo o quel continente, nel Sud o nel Nord del mondo, che interessano, immediatamente, l’intero pianeta.
È chiaro dunque il grande processo di proletarizzazione da un lato e di sfruttamento intensivo della natura dall’altro che ha caratterizzato questi anni e l’accelerazione di queste dinamiche che caratterizza il capitalismo maturo, portando agli estremi un processo intrinseco al modo di produzione capitalistico.
Con Marx: «La produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio».
– Le contraddizioni relative al processo di esecutivizzazione e centralizzazione che attraversa ogni livello di articolazione del politico, dagli organismi sindacali di base agli Stati, alle istituzioni del comando sovranazionale, che riproduce al più alto livello la separazione del politico propria del capitalismo, atta a rendere lo Stato pienamente funzionale tanto alle esigenze di connessione/mediazione economico-sociale, quanto a quelle connesse al suo ruolo di garante del dominio di classe.
Ogni velo è tolto ormai alla democrazia formale, puro rivestimento di una forma di governo tecnocratico-funzionale flessibile. Forma che necessita di una capacità di accentramento coercitivo e neo-autoritario da un lato e di una pratica articolata, produttrice di partecipazione attiva e di responsabilizzazione decentrata dall’altro, secondo una concezione di gestione e di governo che ha il modello informatico come riferimento. La democrazia della Trilaterale e di Kissinger che applaude alla strage di Tien An Men, del Venezuela, dell’Algeria, della Palestina… e fa sedere al medesimo tavolo Verdi e… Banca Mondiale! Che consiglia ai “riformisti” dell’Est di usare la mano pesante contro gli operai in sciopero, che mette ordine nelle City europee e nord-americane… e fa eleggere un sindaco nero a New York!
– Le contraddizioni relative ai processi di ristrutturazione e centralizzazione nella produzione di informazione e nell’industria culturale; processi che sono funzionali allo sviluppo di nuove forme di dominio ideologico sia a fini immediatamente economici di “produzione del consumatore”, sia quali strumenti di prevenzione e controllo sociale… che generano dinamiche di omologazione culturale, di manipolazione delle coscienze e meccanismi di esclusione. Processi all’origine di nuove forme di alienazione, di un vero e proprio processo di colonizzazione culturale, che investono il centro come la periferia dell’impero.
Queste grandi contraddizioni sul terreno dei rapporti (economico, politico, ideologico-culturale) capitalistici, sono all’origine di nuove esplosioni, di lotte che preparano nuovi scenari e possibilità rivoluzionarie, lotte che mostrano le crepe di questo rinnovato tentativo egemonico del modello capitalistico a livello mondiale. È difficile trovare un paese della periferia dell’impero che non si sia infiammato in questi anni, dalle rivolte nei quartieri proletari in Argentina alla vera e propria insurrezione venezuelana, al Perù, al Cile… al Centro America. Dall’insurrezione algerina alla Giordania… alla rivoluzione palestinese. Dall’Azania/Sud Africa alla Corea del Sud, dove grandi scioperi operai e studenteschi hanno messo in discussione i modi di sfruttamento del capitale multinazionale anche nelle periferie economicamente più sviluppate. Tutti momenti che, al di là delle loro specifiche rivendicazioni, hanno indirizzato la loro rabbia contro i maggiori organismi di governo sovranazionale del sistema imperialista, il FMI, la Banca Mondiale… trovando anche momenti importanti di convergenza e unificazione come a Berlino nel settembre1988. Dagli assalti alla Union Carbide per gli anniversari della strage chimica di Bhopal… alla resistenza delle popolazioni del Borneo, dell’Amazzonia contro la distruzione di immensi ambienti naturali e sociali da parte delle multinazionali… fino alle mobilitazioni di massa contro i processi di omologazione culturale, di sottomissione all’Occidente capitalistico e imperialista nel mondo arabo…
Ma anche nel centro imperialista vi è un proliferare di lotte di grande qualità critica: da quelle contro la strutturazione capitalistica della produzione di sapere nelle università, che ha avuto nel movimento “student/innen” tedesco dell’88 la sua punta più alta… a quelle sul “tempo flessibile” contro la nuova organizzazione del lavoro e la struttura gerarchizzata della fabbrica automatizzata, contro lo scambio ricattatorio salario/produttività… a quelle contro la razionalizzazione del sistema dei trasporti, dai portuali ai ferrovieri… a quelle contro le nuove forme di prevenzione e controllo, di razzismo e sessismo… fino alle lotte contro le produzioni nucleari e le ricerche biogenetiche. Infine, nonostante la natura del tutto particolare della situazione cinese, il movimento che ha riempito piazza Tien An Men ci dice cosa cova sotto le ceneri di un paese del “socialismo reale” sottoposto alle leggi dell’attuale divisione del lavoro capitalistica.
L’intensificazione dello sfruttamento e gli effetti della razionalizzazione economico-sociale che, anche se in forme meno selvagge, investiranno anche gli altri paesi dell’Est che hanno aperto le porte alle “joint-ventures” con le multinazionali occidentali, sono destinati a far saltare molte mediazioni proprie di quelle formazioni sociali; tanto più in un momento, come quello attuale, in cui le masse, in quei paesi, si fanno protagoniste: è difficile pensare che il capitalismo possa dare una risposta adeguata alle istanze liberatorie, per quanto confuse, che maturano nelle coscienze di chi oggi scende in piazza. Dietro lo scintillio della merce, del consumo… vi è pur sempre il lavoro, lo sfruttamento! E laddove la “normalità” delle leggi sociali capitalistiche non è ancora pienamente data, non ne è affatto scontata l’accettazione passiva… i giochi non sono fatti, anzi, anche all’Est, si stanno solo aprendo! - L’Europa è il luogo dove più intensamente si intrecciano le grandi contraddizioni dell’imperialismo odierno. Sia per i processi strutturali in atto al proprio interno, sia per il rapporto che essa va instaurando verso la “sua” periferia, il Sud Mediterraneo, sia per il ruolo che essa intende assumere nel processo di integrazione nella divisione internazionale del lavoro dei paesi dell’area del “socialismo reale”.
Nella lotta contro il sistema capitalistico, contro il modello sociale che il capitale europeo-occidentale intende imporre con l’integrazione del Sud e l’espansione verso l’Est, è possibile trovare una base unitaria di interessi strategici del proletariato dell’area. Unità del proletariato dell’Occidente europeo con quello emergente del Sud Mediterraneo e con quello dell’Est, le cui condizioni ed aspirazioni sono rese, dai processi attuali, a noi sempre più vicine.
È dunque più che mai urgente ed attuale il problema della rifondazione di una progettualità, in grado di aprire un fronte di lotta rivoluzionaria nel centro imperialista europeo-occidentale, di costruire l’autonomia e l’indipendenza del proletariato europeo sul piano dei contenuti e dell’organizzazione. Un fronte rivoluzionario in grado di esprimere una strategia unitaria che riesca a rapportarsi sia con il complesso scontro antimperialista e antisionista che si sta sviluppando nel Sud Mediterraneo, sia con le potenzialità insite negli attuali sconvolgenti movimenti di massa e nei momenti di base più avanzati dell’Est europeo. Un fronte che si sviluppi in stretto rapporto con le più avanzate espressioni ed esperienze rivoluzionarie a livello mondiale, che si collochi e si coordini cioè in un fronte internazionale di lotta e di combattimento con l’obiettivo unitario di disarticolazione del sistema imperialista e di costruzione di un campo della rivoluzione, di un contropotere sociale rivoluzionario che assuma una sua propria dimensione mondiale. Un fronte rivoluzionario che costruisca ed esprima la sua forza in un processo di lunga durata, entro cui si generi e maturi un dualismo di poteri capace di agire in senso rivoluzionario sulle grandi contraddizioni intrinseche al rapporto di capitale. Un processo internazionale di rivoluzione ininterrotta, in cui ciascun percorso si confronti con una dimensione mondiale della lotta, perché non può esserci rottura di un solo anello del sistema imperialista ma una dialettica di rotture, di processi di liberazione che interagiscono tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest del mondo, perché una lotta non può fare a meno dell’altra!
Un processo certamente non lineare, fatto anche di tappe qualitative, di punti di svolta e di accelerazione; un processo differenziato che, da area ad area, nel centro e nelle periferie, assume tempi e modi particolari, che tende al crollo del sistema imperialista, quale tappa decisiva nella transizione comunista.
Rivoluzione dunque, concepita non come evento, concentrato in un momento insurrezionale, ma come processo, un processo di costruzione e distruzione. Di disarticolazione rivoluzionaria dei principali rapporti ed apparati che sorreggono la formazione sociale capitalistica (ormai planetaria) e di costruzione dell’“uomo nuovo” e degli embrioni della “comunità reale”; di maturazione di rapporti sociali liberi dallo sfruttamento e dall’alienazione che si condensano nei luoghi delle lotte, nei modi di organizzazione di esse e nella coscienza critica rivoluzionaria: come lo è stato… nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, nelle strade delle metropoli dell’Occidente… nella giungla del Vietnam, nei campi palestinesi… fino al Salvador di oggi… nello scontro rivoluzionario che ha scosso e scuote il sistema imperialista dagli anni ’60 in poi. Un processo rivoluzionario il cui soggetto strategico è il proletariato internazionale fattosi “classe per sé”.
È l’attuale composizione oggettiva della classe, i processi di proletarizzazione che ne hanno ridisegnato la strutturazione interna e gli interessi, al centro come alla periferia, che rendono possibile pensare (differentemente dal periodo storico in cui la Terza Internazionale espresse una strategia politica “frontista” di alleanze interclassiste) alla costituzione del soggetto della transizione rivoluzionaria come ad un processo di ricomposizione di classe. Se nelle aree metropolitane del centro si tratta di una realtà pienamente affermatasi, nella periferia si può parlare di una tendenza in atto. Un processo in cui la classe inverte la propria frammentazione (sin dalle origini connaturata alle funzioni di forza-lavoro, ma fortemente accentuatasi nel capitalismo maturo) per ricomporsi in soggetto consapevole, per sé. Superando anche i limiti storici di una impostazione che ha relegato lo scontro diretto tra le classi, quello attorno al rapporto di capitale, ad una dimensione puramente economicistica, riducendo il terreno dello scontro politico alla sola critica degli apparati garanti della riproduzione del rapporto sociale e delegati alla connessione/mediazione economico-sociale (allo Stato). Intendendo invece il processo di ricomposizione di classe, a livello politico, come processo di acquisizione di consapevolezza e critica rivoluzionaria a partire dal cuore del rapporto di capitale, dalle dinamiche di espropriazione e sovradeterminazione ad esso connaturate. Un processo che non inizia certo oggi, che è vissuto in modo latente nei momenti alti dello scontro rivoluzionario sviluppatosi dagli anni ’60 in poi, ma che deve farsi pienamente consapevole, linea di condotta per la soggettività rivoluzionaria.
– Un processo che impatti anzitutto il cuore della dinamica capitalistica, il processo di valorizzazione e, dunque, di espropriazione “reale”. Un processo di appropriazione reale: di disarticolazione della sottomissione reale del lavoro al capitale, di lotta alla dinamica divaricante direzione/esecuzione in ogni processo di lavoro, di ricomposizione nella lotta di questa separazione. Un processo di critica e rivoluzionamento delle forze produttive, quali supporti materiali della continua riproduzione dei rapporti capitalistici di sfruttamento. Un processo di appropriazione come critica della fabbrica, intesa come rapporto sociale, cellula della forma sociale capitalistica. Un processo di appropriazione della metropoli come rivoluzionamento dello spazio/tempo strutturato e funzionale alla riproduzione del rapporto sociale capitalistico ed alla realizzazione, nel consumo, del plusvalore.
Un processo di appropriazione del sapere, contro il modello attuale di produzione del sapere; un sapere strumento di manipolazione e di potere sull’uomo e sulla natura.
Un processo di appropriazione come costruzione di un modello di sviluppo autocentrato e non più subordinato al processo di polarizzazione delle forze produttive, di rottura della gerarchia centro/periferia.
Il processo di appropriazione reale è la base del processo disalienante, in quanto distrugge le condizioni oggettive dell’alienazione proletaria nel capitalismo, nel centro come nelle periferie. Un processo che ha come suo orizzonte, nel comunismo, la creazione di una “base materiale” che faccia del “regno della necessità” non più un regno di schiavitù, ma le fondamenta a partire dalle quali il genere umano possa edificare il “regno della libertà”.
– Un processo di autodeterminazione politica: come processo di attacco alla forma del politico nel capitalismo, alla “comunità illusoria”, alla democrazia formale, alla apparenza di democrazia come forma di separazione delle classi subalterne da qualsiasi ruolo politico reale, tesa ad affermare il pieno dominio di classe del capitale. Caratteri accentuati dagli attuali processi di esecutivizzazione e centralizzazione del comando da un lato e di partecipazione attiva dall’altro, dall’assunzione di forme di “democrazia” tecnocratico-funzionale che portano agli estremi l’essenza di questa forma del politico. Un processo di costruzione, nello scontro rivoluzionario, delle prime esperienze di democrazia diretta e sostanziale, il cui orizzonte è, nella società comunista, la “comunità reale”. Un processo di autodeterminazione politica di ogni popolo oppresso dalla dittatura dei centri di comando dell’imperialismo.
– Un processo di distruzione dei meccanismi di colonizzazione culturale e dominio ideologico che investono i proletari del centro come della periferia. Un processo di autodeterminazione ideologico-culturale. Contro i meccanismi di individualizzazione, atomizzazione, razzismo, sessismo… un processo di “rischiaramento delle coscienze”; di liberazione, nella lotta, dai processi manipolatori propri del capitalismo maturo; di costruzione di una coscienza e di una comunicazione sociale non alienata in cui, in una molteplicità e ricchezza di rapporti sociali e nella messa in comunicazione di differenze e pluralità, si possa realizzare il pieno sviluppo dell’individuo sociale. Un processo di distruzione del modello di socializzazione alienata fatta di identità sociali normate e svuotate dai linguaggi omologanti dei media e della merce, una socializzazione basata su meccanismi di esclusione e ghettizzazione.
Questa è anche la lotta dei popoli oppressi per l’affermazione della propria identità… non per un arcaico ritorno alle comunità chiuse e incomunicanti delle formazioni sociali precapitalistiche, ma per far giocare la propria differenza in un processo comunicativo ormai planetario, per un arricchimento reciproco; contro i processi di colonizzazione culturale, contro il tentativo di annientarli per sottoporli al dominio del modello di consumo e comunicazione funzionali alla riproduzione capitalistica, alla supremazia della cultura bianca occidentale. Sono contenuti che si esprimono in forme embrionali nei moderni nazionalismi anticapitalistici, nel territorio europeo ed ai suoi immediati confini (nel mondo arabo) così come nel cuore stesso degli Stati Uniti (dalle rivendicazioni del Black Panther Party degli anni ’60… al Movimento di Indipendenza Nuovo Africano degli anni ’80) e in forme ormai più esplicite in Asia, Africa, America Latina.
– Un processo che faccia vivere da oggi questi contenuti, nella pratica di un nuovo internazionalismo anticapitalistico, come contenuti universali di transizione. Per far sì che le lotte di oggi contro il comune nemico, il sistema imperialista, vadano verso la costruzione di una dimensione sociale senza steccati né frontiere, di una “comunità reale” planetaria.
Non si tratta della definizione di un utopico programma, ma di un processo rivoluzionario di lunga durata, concepito come processo di transizione in atto che deve trovare i modi ed i passaggi di una sua materializzazione. Deve saper materializzare i rapporti di forza raggiunti, imponendo con la lotta rivoluzionaria un limite politico ai progetti attraverso cui vive e si attualizza storicamente il rapporto di espropriazione o sovradeterminazione capitalistico, come esso si manifesta in ciascuna congiuntura e in ciascuna area.
Per noi ciò significa impattare l’Europa imperialista, in particolare la costruzione del “Blocco Europeo-Occidentale” che è il perno attorno a cui si articola, in questa area, il processo di ristrutturazione, di approfondimento ed estensione del rapporto di capitale, guidato dalle imprese multinazionali dominanti. Questa fase di transizione capitalistica sta generando, infatti, una strutturazione del sistema imperialista in aree integrate regionali. Aree che si sviluppano attorno ad alcuni poli centrali forti, che esercitano una influenza ed una egemonia diretta (politica, economica, militare) su insiemi di paesi dipendenti: dall’integrazione dell’area Canada-USA-Messico, a quella Giappone-area del Pacifico… alla CEE (con il capitale tedesco in posizione egemone) con le sue proiezioni verso il Sud Mediterraneo e l’Est europeo.
Un “passaggio” capitalistico che produce, sia a livello globale che su scala regionale (e quindi anche in Europa), nuovi momenti di connessione e mediazione in istituzioni di governo sovranazionale e grossi movimenti di concentrazioni e centralizzazioni di capitali a livello produttivo e finanziario. Si tratta di cogliere da parte rivoluzionaria i processi strutturali che sostanziano l’attuale transizione capitalistica in quest’area, a partire dai quali e contro i quali potrà innescarsi un processo di lotte disarticolanti, capaci di materializzare un tratto di strada nel processo di transizione rivoluzionaria.
Vediamone alcuni, i principali:
– la ristrutturazione, informatizzazione e flessibilizzazione del processo produttivo;
– la conseguente ristrutturazione del mercato del lavoro (la sua ulteriore segmentazione e il massiccio inserimento di forza-lavoro immigrata);
– la ristrutturazione del sistema di formazione (università e scuola);
– l’accentrazione dei processi di sottomissione reale e la razionalizzazione della produzione di sapere, della ricerca scientifico-tecnologica in particolare;
– la razionalizzazione dei processi di lavoro nei servizi, sul modello della fabbrica produttiva;
– la ristrutturazione delle aree metropolitane;
– la centralizzazione dei sistema dei media e più in generale dell’informazione e dell’industria culturale;
– la centralizzazione ed esecutivizzazione dell’apparato politico di dominio, a tutti i livelli, da quello di impresa a quello di governo della riproduzione sociale, a livello sovranazionale;
– l’integrazione a livello continentale degli apparati di difesa e della controrivoluzione (apparato giuridico-poliziesco, ecc.).
Si tratta di un insieme di processi strutturali che accentuano le dinamiche di proletarizzazione ed omogeneizzano ancor più la composizione della classe nell’area metropolitana europea, creando le condizioni oggettive perché si sviluppi un ciclo di lotte, a livello continentale, di resistenza alle linee di fondo che sostanziano la costruzione del “blocco europeo-occidentale” ed i maxi-progetti in cui essa si articola.
La costruzione del “Blocco europeo-occidentale” significherà anche estensione del dominio del capitale multinazionale europeo e della sua influenza politica e militare (la costruzione di una politica estera e di una “difesa” comune sono, non a caso, tra gli obiettivi prioritari della CEE insieme all’integrazione economica) sui paesi del Sud Mediterraneo e verso l’Est europeo.
Si vedono già le prime conseguenze di questo intervento attivo nel Sud Mediterraneo: la costruzione delle tre aree di mercato e di produzione (Unione del Maghreb Arabo, Consiglio di Cooperazione del Golfo e Consiglio di Cooperazione Arabo) è di fatto direttamente funzionale alle esigenze del ciclo produttivo della fabbrica multinazionale, che potrà decentrarvi i reparti di maggior sfruttamento intensivo di forza-lavoro, oltre a costituire un promettente sbocco di mercato e un territorio aperto alla dilapidazione di materie prime. La costruzione, d’altra parte, delle condizioni sociali che permetteranno di utilizzare quest’area, ancor più che nel passato, come riserva di forza-lavoro da deportare in Europa, per inserirla nelle fasce più basse e flessibili del mercato del lavoro. La formazione quindi di Stati “consolidati“ che dietro demagogiche riforme “democratiche” (Giordania, Marocco, Algeria…) nascondono il più ferreo autoritarismo e la distruzione di qualsiasi autonomia culturale, oltre che politica ed economica. La stabilizzazione politica dell’area diventa urgente, in particolare le pressioni sulla Rivoluzione Palestinese e sulle realtà arabe antimperialiste ed il sostegno all’entità sionista, quale arma di ricatto per gli Stati arabi ancora instabili o non del tutto allineati alle politiche imperialiste.
L’Europa dell’Est è, nei sogni dei capitali multinazionali europei, la grande valvola di sfogo dei prossimi anni. La penetrazione delle imprese multinazionali ha qui come fine lo sfruttamento di una forza-lavoro a bassi salari ma, diversamente dal Sud, su un territorio già fortemente organizzato e industrializzato e con un proletariato storicamente strutturato e qualificato, adatto al tipo di tecnologie intermedie che il capitale intende decentrare in quei paesi. Se si realizzano i disegni del capitale occidentale, le conseguenze di questa penetrazione saranno: una radicale ristrutturazione della produzione con una intensificazione dello sfruttamento e del dominio sulle classi subalterne; il consolidamento della borghesia tecnocratica e manageriale e l’accentuazione dei dislivelli nella distribuzione; un tipo di riforme politico-istituzionali che, dietro l’apparenza di una maggiore libertà formale-astratta (democrazia rappresentativa e delegata), preparano regimi inevitabilmente autoritari, adatti ad imporre il necessario ridisciplinamento produttivo e sociale.
Questa duplice proiezione/estensione del sistema capitalistico, guidato dal capitale europeo-occidentale, produrrà effetti a livello sociale e nella soggettività rivoluzionaria, che sono ancora in gran parte imprevedibili, ma sicuramente enormi. Se ne intravedono oggi alcuni tratti, sia a livello dei movimenti sociali che dello sviluppo delle realtà rivoluzionarie: dai flussi di immigrazione che definiscono una nuova composizione internazionale della classe, condizione oggettiva per la circolazione delle lotte e delle esperienze rivoluzionarie tra il Nord e il Sud del Mediterraneo… alle rivolte spontanee nel mondo arabo contro i processi di “modernizzazione“ capitalistico-occidentali, fino alla costante iniziativa rivoluzionaria ed antimperialista del popolo e della guerriglia libanesi e palestinesi. D’altra parte, l’esplosione delle formazioni sociali dei paesi del cosiddetto “socialismo reale” sta producendo movimenti di massa e un proliferare di esperienze di base i cui esiti sono tutti aperti, ma che assai difficilmente potranno adattarsi alla dura realtà dei processi di ristrutturazione e di ridisciplinamento che il capitale sta loro preparando.
Le contraddizione che questa estensione dei rapporti economico-politico-ideologico-capitalistici produce, sono già all’origine di grandi movimenti sociali nell’area egemonizzata dal “Blocco europeo-occidentale”. Il loro sbocco dipenderà molto dalla capacità dei rivoluzionari euroccidentali di aprire un fronte che, dall’interno stesso, demolisca la “costruzione europea” imperialista e il sistema sociale di cui essa è espressione. Dalla capacità, allo stesso tempo, che essi avranno di sostenere attivamente, valorizzandoli, i punti più avanzati dello scontro di classe che si sviluppano nell’area. - Un processo rivoluzionario che deve trovare nuove forme organizzative e di azione, più complesse di quelle che hanno sorretto le esperienze rivoluzionarie antecedenti, in grado di esprimere l’attuale composizione di classe, la pluralità di figure proletarie che la costituiscono. In grado di esprimere un modo di organizzazione della classe, nella lotta rivoluzionaria, in cui inizi a materializzarsi il processo di transizione, come percorso disalienante di autodeterminazione e superamento della separazione del Politico e della forma comunicativa gerarchizzante, centralistica e manipolatoria, proprie del capitalismo. In grado infine di far fronte all’odierna struttura di potere dell’imperialismo sul terreno politico-militare-ideologico ed al livello raggiunto di strutturazione materiale delle forze produttive, alla fase di sviluppo economico ed articolazione sociale del capitalismo maturo. Un organismo complesso in grado di impattare il rapporto di capitale nell’epoca del pieno dispiegamento della sussunzione reale, in cui viene meno definitivamente la possibilità di fondare la strategia rivoluzionaria su eventi di tipo insurrezionale.
In particolare per quanto riguarda la metropoli imperialista, i fattori che maggiormente, ormai da tempo, spingono ad una ridefinizione in questo senso delle strategie rivoluzionarie, si possono individuare principalmente:
– Nella capacità assunta dal capitale di controllo sulle crisi economiche, nei loro effetti più dirompenti. Il governo statale e sovranazionale delle crisi capitalistiche ne impedisce ormai da tempo di essere causa scatenante di rivolte di classe a carattere insurrezionale nel centro imperialista. (Diverso rimane il discorso nelle periferie, vere e proprie valvole di sfogo dei cicli del capitale multinazionale, su cui vengono scaricate maggiormente le conseguenze delle depressioni. Nonostante non manchino anche qui interventi degli istituti di governo imperialista in funzione di un “raffreddamento” delle esplosioni sociali, spesso ai limiti del livello di guardia).
– Nell’affinamento delle istituzioni di connessione/mediazione economico-sociale e dunque di gestione delle crisi, insieme allo sviluppo di una struttura del capitale dominante di tipo multinazionale, riduce le possibilità di guerra interimperialista (non certo della concorrenza tra capitali multinazionali e tra le aree centrali del capitalismo mondiale USA, CEE e Giappone che è più che mai vivace). E riduce, con l’attuale tendenza ad integrare nella divisione internazionale del lavoro capitalistica i paesi del “socialismo reale”, le possibilità di uno scontro tra le “superpotenze”, almeno per un periodo storico piuttosto lungo.
– Nello sviluppo delle istituzioni ed apparati di controllo sociale sulla classe, della strategia del consenso, prevalentemente di natura ideologica e politica, atti a prevenire lo sviluppo della conflittualità sociale in forme di antagonismo consapevole e aperto. Istituzioni per la prevenzione sociale, funzionali alla produzione di comportamenti normati… media, sviluppo del sistema educativo…
– Nella stessa conformazione strutturale materiale, raggiunta dal modo di produzione capitalistico, dall’attuale sviluppo delle forze produttive e delle forme di dominio in esse incorporate. Forme di dominio che si articolano in ogni processo lavorativo e nella divisione sociale del lavoro, fino alla configurazione attuale delle aree metropolitane, il cui spazio/tempo è strutturato materialmente anche a fini di controllo politico e militare.
Sono questi alcuni degli elementi che operano per impedire lo sviluppo di condizioni soggettive per la rivoluzione nelle forme in cui essa, prevalentemente, si era espressa sino all’ultimo dopoguerra, elementi che accentuano il ruolo della soggettività nella determinazione e nello sviluppo del processo rivoluzionario. La costruzione delle condizioni di maturazione della soggettività rivoluzionaria è legata, nell’epoca dell’imperialismo globale, nel centro imperialista (non diversamente che nella periferia), alla presenza attiva della guerriglia e, più precisamente, di un Fronte rivoluzionario di classe che abbia nella guerriglia la sua forza strategica. E’ innanzitutto il porsi nella prospettiva di una trasformazione rivoluzionaria ed il carattere immediatamente offensivo che assume la lotta rivoluzionaria che si colloca in questo orizzonte, che fa della guerriglia l’elemento strategico, dinamico, finalizzato, del processo rivoluzionario. Con essa la lotta di liberazione si fa strategia. Essa è il prodotto di una scelta cosciente e consapevole di trasformazione comunista. Questo è il presupposto necessario a qualsiasi discorso sulla guerriglia rivoluzionaria.
La guerriglia è forza, lotta armata e insieme lotta politica ed ideologica contro un potere che frappone allo sviluppo rivoluzionario il monopolio della violenza, della produzione di coscienza, del potere politico, in funzione della riproduzione ordinata del rapporto sociale capitalistico.
La guerriglia permette di affrontare il problema della forza, della pratica armata, al livello richiesto oggi dall’evoluzione del sistema di dominio e di potere del capitale e dello Stato, dei nuovi livelli di violenza che esso esprime. Nuovi livelli di violenza che hanno la caratteristica di manifestarsi non solo sul piano militare-repressivo dell’esercizio della forza, ma anche sul piano delle prevenzione ideologica e politica. La pratica armata guerrigliera assume dunque funzioni più complesse di quella classica, di disarticolazione dell’apparato militare del dominio, propria degli eserciti rivoluzionari. L’attacco militare ai centro del potere imperialista, alle strutture, agli apparati, alle personificazioni dei centri di sfruttamento e comando del sistema capitalistico, svolge un molteplice ruolo disarticolante, sul piano politico-militare-ideologico.
Contro la strategia del consenso-egemonia messa in atto dalle istituzioni del capitalismo maturo, l’iniziativa guerrigliera ha la forza di attivare la coscienza critica del proletariato attraverso un messaggio non mediabile e non integrabile; di creare una breccia nell’immagine mitica e totalizzante che il capitale dà di sé, una breccia nelle stesse coscienze proletarie che di tale immaginario sono il bersaglio.
In una realtà sociale strutturata secondo la logica coattiva ed ineluttabile della valorizzazione capitalistica, che vuole apparire come unica e naturale, l’azione guerrigliera apre al possibile!
Nella guerriglia, critica delle armi e armi della critica agiscono dunque insieme e si fanno prassi trasformatrice. Prassi generatrice di un processo di polarizzazione politica tra le classi, che sottrae egemonia e consenso al capitale. Prassi in grado di dar voce, parola, alle contraddizioni di classe, che fa esplodere la contraddizione antagonistica insita al rapporto di capitale. La guerriglia trasforma le linee di demarcazione, che la lotta di classe traccia nella quotidianità dello scontro tra proletariato e borghesia, in fronti aperti, in rottura cosciente. Essa, con la propria prassi, prefigura – nel processo di lunga durata – l’espressione della forza collettiva e sociale del proletariato; ne rappresenta fin da subito l’autonomia e indipendenza… l’alterità come classe per sé dal capitale e dalla sua forma sociale. La guerriglia è parte integrante di un complesso processo di disarticolazione sociale del sistema capitalistico. Essa è il piccolo motore, l’elemento dinamico, propulsore, che mette in moto il grande motore della rivoluzione: essa apre spazi al protagonismo diretto della classe. Il soggetto storico del processo rivoluzionario, del processo di appropriazione reale e di autodeterminazione politica ed ideologica, è la classe; la guerriglia non si sostituisce ad essa, la sua iniziativa è tesa a mobilitare ed organizzare la classe nello scontro rivoluzionario.
Concepire la rivoluzione nel capitalismo maturo non come evento insurrezionale, ma come processo di lunga durata, vuol dire porsi da subito anche l’obiettivo di sviluppare contropotere sociale dal basso. Un contropotere cioè in grado, da un lato, di affrontare la complessità delle strutture della formazione sociale del capitalismo maturo, la critica all’attuale articolazione del dominio capitalistico in ogni rapporto sociale, a partire da quello di produzione, e, dall’altro, in grado di esprimere la molteplicità di istanze poste dall’attuale composizione di classe. Un processo di erosione, disarticolazione e accerchiamento del sistema imperialista, in cui una lunga marcia dal basso, dai luoghi di lavoro e di vita, un percorso di lotte per il rivoluzionamento dei rapporti sociali capitalistici e delle dinamiche di espropriazione e sovradeterminazione che li informano, si intreccia e valorizza con l’attacco guerrigliero alle strutture, agli apparati e alle personificazioni del capitale, al cuore del sistema delle multinazionali e degli Stati imperialisti. Un processo che mette in campo la ricchezza di un organismo e di forme di espressione dell’autonomia di classe articolati e complessi, uniti dalla medesima determinazione militante rivoluzionaria.
Nella dialettica tra attacco ai centri del potere imperialista e affermazione dei contenuti della trasformazione rivoluzionaria, si sviluppa la linea di massa della guerriglia. Essa si articola nelle campagne di lotta per la materializzazione degli obiettivi strategici di appropriazione reale ed autodeterminazione. Campagne in cui può, nello sviluppo del processo rivoluzionario, concretizzarsi un rapporto dialettico tra cambiamenti immediati e trasformazione generale del sistema capitalistico, tra distruzione dello stato di cose presenti e costruzione/imposizione dei contenuti della trasformazione, di coscienza e organizzazione rivoluzionaria; dove può maturare l’incontro della guerriglia con la classe e con le altre istanze del movimento rivoluzionario organizzato, in un unico fronte di lotta.
Oltre il rapporto diretto che la guerriglia instaura con la classe, essa deve divenire dunque cellula di un organismo complesso, un Fronte strategicamente composto dall’unità della guerriglia con il movimento rivoluzionario organizzato. Quest’ultimo assume infatti, nella costruzione e sviluppo di un contropotere sociale dal basso, un ruolo immediatamente politico e strategico.
Il rapporto tra le diverse espressioni rivoluzionarie di organizzazione della classe, nel Fronte, si fa organico e sistemico: non solo guerriglia, movimento rivoluzionario organizzato e processo di costruzione del contropotere sociale non possono fare a meno l’uno dell’altro, ma le loro diverse funzioni interagiscono strettamente e si pongono su un terreno strategicamente comune.
Un salto importante nel modo di pensarsi della guerriglia e di concepire il suo rapporto con il movimento rivoluzionario organizzato, in cui anche quest’ultimo diviene soggetto della strategia rivoluzionaria; non più solo “organismo di massa”, legato in qualche modo prevalentemente agli interessi immediati (concepiti in modo economicistico) del proletariato, che delega la strategia ad altre istanze rivoluzionarie, ma parte dell’organismo autonomo della classe, del Fronte.
Queste le indicazioni che ci vengono dai momenti più alti dello scontro rivoluzionario nel centro imperialista ed in Europa occidentale in particolare: dalla esperienza rivoluzionaria che si è sviluppata in Italia nel corso di tutti gli anni ’70 alle più recenti esperienze del movimento rivoluzionario e della guerriglia in Germania, dalle campagne della guerriglia europea nel corso degli anni ’80 fino alla campagna del settembre ’88 contro il congresso del FMI-Banca Mondiale a Berlino, dove in forma embrionale è vissuto questo incontro, nella pratica e sui contenuti, tra guerriglia e movimento rivoluzionario organizzato.
Ma queste sono anche le indicazioni che ci vengono dai punti più avanzati dello scontro tra proletariato internazionale e borghesia imperialista nel Centro America e nel Medio Oriente, dove è nell’unità della guerriglia con le istanze del contropotere dal basso che si è costruita la forza per affrontare l’imperialismo più feroce: nella «saldatura obiettiva tra il fuoco della guerra rivoluzionaria e l’esplosione della bomba sociale» come affermano i compagni salvadoregni del Farabundo Martì; «con il fucile che apre la strada alle pietre e le pietre al fucile» come ci dicono i compagni del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina… È questo il messaggio che noi vogliamo raccogliere! - All’interno dell’esperienza guerrigliera delle Brigate Rosse che, con la Rote Armee Fraktion, nel corso dello scontro di classe internazionale sviluppatosi dalla fine degli anni ’60 in poi, ha affermato la possibilità di una prospettiva rivoluzionaria in Europa, in una delle aree dunque del centro del sistema imperialista, si colloca l’attività della colonna “Walter Alasia” e la nostra militanza in essa. Una esperienza, quella della “Walter Alasia”, che fu in particolare un tentativo di rilanciare l’offensiva rivoluzionaria a partire dall’interno, dal cuore della grande fabbrica. Un tentativo di trasformare la resistenza operaia alla controffensiva capitalistica dei primi anni ’80 in uno scontro di potere. Un contributo alla costruzione di una linea di massa della guerriglia, in quel momento particolarmente decisivo dello scontro di classe.
La riflessione politica sui limiti che, d’altra parte, caratterizzarono quell’esperienza e le condizioni oggettive e soggettive maturate nello scontro rivoluzionario in Italia e a livello internazionale, ci hanno fatto ricercare una complessificazione e riqualificazione dell’impianto che orientò la nostra prassi nella “Walter Alasia”.
La nostra militanza si colloca oggi nel dibattito e nella pratica della guerriglia e della costruzione del Fronte rivoluzionario in Europa occidentale.
A questo obiettivo strategico, ed a questo nuovo livello dello scontro rivoluzionario, intendiamo contribuire con la nostra esperienza e prassi militante.
Per la rifondazione della guerriglia rivoluzionaria e del movimento rivoluzionario organizzato!
Per la costruzione del Fronte rivoluzionario in Europa occidentale!
Lottare insieme!
I militanti comunisti – Aurora Betti, Nicola De Maria
Roma, Dicembre 1989