GUERRA ALLA GUERRA! GUERRA ALLA NATO!
Il giorno 10/01/94 i NUCLEI COMUNISTI COMBATTENTI hanno attaccato la sede del NATO DEFENCE COLLEGE (Collegio di Difesa della Nato) a Roma, struttura che si occupa della formazione di quadri politici e militari da inserire in ruoli dirigenti nella Nato o nelle amministrazioni nazionali ad essa collegate. Con questa iniziativa politico-militare gli N.C.C. hanno voluto colpire il ruolo svolto dalla Nato all’interno della strategia imperialista di “nuovo ordine mondiale” e in tal modo riproporre alle forze rivoluzionarie dell’area europeo-mediterraneo-mediorientale la costruzione ed il consolidamento del FRONTE COMBATTENTE ANTIMPERIALISTA che costituisce il passaggio politico più idoneo a sostenere lo scontro con l’imperialismo in questa fase. Il Fronte è l’organismo politico-militare più adeguato a colpire le politiche dell’imperialismo nella nostra area geopolitica, area in cui si concentrano tutti i fattori di crisi dell’imperialismo, sul piano classe-Stato, nord-sud, est-ovest, ricomponendo sul piano della soggettività rivoluzionaria l’oggettiva convergenza di interessi espressa dalle forze rivoluzionarie e dalle lotte proletarie nei paesi del centro imperialista con quelle della periferia col fine di favorire il più vasto schieramento combattente contro l’imperialismo, nemico comune. Una convergenza oggettiva data dall’inserimento di processi rivoluzionari distinti, per le diversità delle caratteristiche strutturali delle formazioni economico-sociali, in un processo storico concreto unitario di approfondimento; della crisi imperialista e di accelerazione della tendenza alla guerra da un lato e di inderogabile proposizione della guerra rivoluzionaria di classe o di popolo come alternativa alla crisi della borghesia dall’altro e dal confronto con un unico nemico che persegue precise politiche che si riversano in maniera differente sulle condizioni politiche e materiali del proletariato e delle forze rivoluzionarie del centro e sui popoli della periferia. Crisi della borghesia imperialista che ha la sua origine nella sovrapproduzione di capitali impossibilitati a impiegarsi nuovamente nella produzione secondo il livello di valorizzazione richiesto e che provocano recessione e depressione spingendo alla distruzione del capitale eccedente all’interno di una nuova definizione della divisione del lavoro e dei mercati. Di qui il carattere di necessità della guerra nel modo di produzione capitalistico e l’innescarsi di processi lungo i quali maturano le condizioni concrete per le scelte guerrafondaie.
Il nuovo contesto disegnato dalla rottura degli equilibri politici internazionali costituisce un complesso di condizioni favorevoli allo sviluppo della tendenza alla guerra, come dimostra l’intervento militare nel Golfo operato sotto il cappello Onu, la spinta data alla destabilizzazione e alla guerra in Yugoslavia con il riconoscimento di Slovenia e Croazia e all’esacerbazione dei fattori di instabilità nell’area balcanico-danubiana con il riconoscimento della Macedonia – forzature in cui si sono distinte la Germania e l’Italia – o ancora l’offensiva al popolo curdo per stabilizzare l’avamposto turco e la trattativa in Medioriente con cui gli Usa tentano di incidere sui rapporti di forza nel conflitto sionista-palestinese per riqualificare il ruolo di Israele nell’area mediorientale, centrale per il controllo della produzione petrolifera e delle rotte strategiche. Ma altresì, a fianco della tendenza alla guerra imperialista si sviluppa la tendenza alla rivoluzione nel centro quanto nella periferia ed è il portato di questa tendenza, processi rivoluzionari in corso, che vanno stretti sul piano soggettivo in un’alleanza che costruisca momenti di unità pratica intorno all’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo, attacco rivolto ad indebolire l’imperialismo, favorendo una condizione di ingovernabilità che consenta l’avanzamento dei processi rivoluzionari a livello dei singoli paesi. Con l’iniziativa politico-militare di attacco alla Nato i Nuclei Comunisti Combattenti danno corpo all’internazionalismo proletario che da sempre caratterizza la prassi dei comunisti.
Nelle politiche dell’imperialismo continua ad essere centrale il ruolo giocato dalla Nato, l’organismo politico-militare costituito all’indomani della seconda guerra mondiale con funzione controrivoluzionaria interna ai paesi dell’alleanza e di affrontamento e accerchiamento del campo dei paesi socialisti, che nel nuovo quadro di equilibri politici internazionali vede esaltata la sua funzione di sede e strumento privilegiato del dominio della catena imperialista egemonizzata dagli Stati Uniti. E’attorno ad essa che nella strategia imperialista del “nuovo ordine mondiale” espressa nella dottrina della “presenza avanzata” viene articolata una complessa e flessibile architettura costituita da organismi politico-diplomatici e da organismi politico-militari deputati a operare i passaggi di realizzazione della strategia (Csce, Onu, Ueo, Naac). Il vertice Nato si colloca proprio nella congiuntura di definizione di tale architettura istituzionale nella quale occupa un posto importante il nodo dell’associazione dei paesi dell’est europeo alla Nato concepita secondo la formula della partnership che preclude l’automatismo dell’intervento Nato a difesa dei paesi che appartengano a questo livello di alleanza, ma rende possibile l’espletamento del ruolo di gendarmi dell’area da parte dei paesi aderenti supportati dall’Alleanza. Esso viene convocato a conclusione di un processo iniziato nel 1991 col vertice di Roma in cui fu enunciata la nuova dottrina di “presenza avanzata” assunta dall’Alleanza e sperimentata in precedenza nel massacro del popolo iracheno, momento storico che ha costituito la svolta nell’attivazione fuori area delle forze della Nato, nella tenuta dell’Alleanza e del vasto schieramento di forze armate e interessi politici mobilitati attraverso l’Onu, e proseguito con l’attivazione delle forze Ueo nel pattugliamento dell’Adriatico e delle forze Nato per il controllo dei cieli nel conflitto jugoslavo, con l’intervento Onu in Somalia e con esercitazioni congiunte in ambito Naac tra forze della Nato e dei paesi dell’est europeo. La ridefinizione della concezione strategica della Nato ed in particolare il vertice di Bruxelles del ’94 tendono a provare la capacità statunitense di rappresentare l’interesse generale imperialista a fronte della necessità dell’intera catena di garantirsi condizioni di dominio sul proletariato e sui popoli adeguate alle condizioni di crisi in cui versa il modo di produzione capitalistico che richiedono sempre più l’affrontamento in termini militari delle contraddizioni che esso fa sorgere. La crisi di sovrapproduzione di capitale per le caratteristiche di integrazione e interdipendenza, venutesi a determinare storicamente, della catena imperialista preme per la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro soprattutto lungo le linee di demarcazione est-ovest puntando alla distruzione del patrimonio produttivo dei paesi dell’ex-campo socialista. Se l’apertura di questi paesi ad economia pianificata all’economia di mercato ha già provocato la paralisi e l’abbandono di fette consistenti di attività produttive, l’impoverimento acuto della maggioranza della popolazione e l’imbarbarimento delle relazioni sociali, le peculiarità delle economie di transizione tanto più marcate quanto più profondi erano stati i processi rivoluzionari rendono problematica la trasformazione di tutti i paesi dell’est in aree di investimento proficuo per il capitale monopolistico al punto da contenere gli effetti perversi della caduta tendenziale del saggio di profitto e da riaprire un periodo di ripresa economica. Per queste ragioni strutturali si approfondisce la tendenza alla guerra che si alimenta dell’instabilità politica che le contraddizioni politiche e materiali producono.
In questo contesto di crisi generale è decisivo per l’imperialismo dotarsi della capacità di intervenire in ogni area di crisi con tempestività preservando il delicato equilibrio tra l’ordine nel proprio dominio e la destabilizzazione laddove questo non è esercitato, tra imposizione della forza e legittimazione. Per una capacità di intervento così dispiegata non è più sufficiente la sola attivazione delle forze statunitensi, ma è necessario attivare a seconda delle caratteristiche dell’intervento un complesso di forze mobilitabili sotto diverse sigle ma vincolate alla Nato e agli Stati Uniti dalla disparità di potenza e dal possesso da questi detenuto dell’infrastruttura logistica per operare a livello planetario. Di qui l’importanza della messa a punto e dell’operativizzazione della Ueo (come pilastro europeo della Nato) della partnership con i paesi dell’est, della riforma dell’Onu e della mobilitazione dei caschi blu. Questa complessa strategia in particolare in Europa, teatro in cui man mano che procede il mutamento del quadro geopolitico per la modifica dei rapporti di forza tra est e ovest si concentrano tutte le contraddizioni di quest’epoca storica, richiede la maturazione di processi complementari che apportino le trasformazioni necessarie a sostenere i compiti derivanti dalla dottrina della presenza avanzata, relativi sia alla sicurezza del territorio da cui partono le operazioni militari (retroterra logistico) sia all’attivizzazione esterna delle forze armate ai vari livelli di mobilitazione previsti. Un complesso di trasformazioni che investe gli assetti costituzionali, come quelli istituzionali dei vari paesi dell’Alleanza, la composizione delle forze armate e il loro stesso ruolo. La messa a punto di queste politiche ha un riflesso decisivo sulle dinamiche di sviluppo dell’opzione bellica, mentre su di esse influisce quel processo decennale seppur non lineare di coesione europea atto a creare un favorevole ambito alla concentrazione e centralizzazione capitalistica a livello continentale e che trova sintesi, man mano che la crisi spinge a scelte di tipo politico e militare, nelle politiche di difesa comune.
Il “Nuovo modello di difesa” risponde a queste esigenze e un processo di atti materiali, provvedimenti governativi e forzature politiche, ne hanno già radicato i presupposti e approvato la sostanza. Con le operazioni Forza Paris e Vespri Siciliani sono passati i principi della professionalizzazione delle forze armate, dell’uso dell’esercito in funzione di ordine pubblico, di rimilitarizzazione delle forze di polizia e del trasferimento progressivo delle funzioni investigative e repressive dalla magistratura all’esecutivo. I risultati ottenuti dall’invio dell’esercito in Sicilia giustificato in funzione antimafia, sono essenzialmente relativi al controllo preventivo della popolazione, ragione per cui sono stati valutati tanto soddisfacenti da far approvare un’estensione dell’intervento alla Calabria e al napoletano. Queste operazioni, peraltro non del tutto riuscite e non certo per l’opposizione dei “democratici” mentre rendono palese l’acutezza dello scontro di classe in corso nel paese, si prefiggono di mantenere ed estendere il capillare controllo del territorio per più ragioni: sia per la sicurezza del retroterra logistico nell’ambito del rafforzamento e dell’attivizzazione fuori area del fianco sud della Nato, sia per contenere e reprimere gli effetti degli attacchi alle condizioni di vita del proletariato con i quali il capitale cerca di recuperare i margini di profitto erosi dalla sua crisi, sia in funzione controrivoluzionaria.
Le dinamiche della crisi dell’imperialismo e la nuova situazione internazionale determinatasi con la rottura degli equilibri postbellici impongono ad ogni Stato di manovrare per evitare di retrocedere o per migliorare la propria posizione nella gerarchia della catena imperialista. Catena che a partire dal secondo dopoguerra è andata configurandosi secondo linee di sempre maggiore integrazione, per cui la crisi si è ripercossa in ogni paese ed è stata affrontata negli anni 80 approfondendo ulteriormente l’integrazione monopolistica sotto la guida degli Stati Uniti che hanno adottato il riarmo come stimolo economico, mantenendo la propria egemonia nella ridefinizione della gerarchia della catena. La produzione ha subito un processo ulteriore di internazionalizzazione e globalizzazione nel quale persino i singoli comparti produttivi sono stati allocati internazionalmente secondo criteri di vantaggio competitivo. A tale processo ha corrisposto la politica neoliberista rivolta ad abbattere gli ostacoli alla massima libertà di movimento e di impiego dei capitali come insieme di misure per contenere gli effetti della crisi. In tale contesto l’Italia occupa un posto particolare determinato dalla debolezza strutturale storica del capitalismo interno e dal patrimonio di lotta proletaria e rivoluzionaria. Per queste ragioni essa è costretta ad assumere un ruolo sempre più aggressivo all’esterno facendosi carico degli interessi generali della catena pena la perdita di posizioni in essa e il conseguente accumularsi di fattori di crisi sociale all’interno, dall’altro lato deve forzare i termini della mediazione classe/Stato attorno a cui si articolata la prima Repubblica sia per dotarsi di quell’impianto politico-istituzionale adeguato al ruolo interventista, che per rastrellare risorse – in un difficile contesto recessivo – a sostegno del capitale monopolistico interno nella lotta di concorrenza intermonopolistica, che per creare quelle condizioni favorevoli all’investimento di capitali esteri nel paese in funzione di argine alla deindustrializzazione indotta dal restringimento della base produttiva implicato dalla crisi di sovrapproduzione di capitale e dall’esportazione di capitali in aree che offrono maggiori margini di profitto, che infine per garantirsi il governo delle contraddizioni antagonistiche capitalizzando gli effetti di un decennio di controrivoluzione. La riforma dello Stato come insieme di misure volte alla rifunzionalizzazione degli istituti e degli apparati statali secondo le linee di un’accentuata esecutivizzazione e verticalizzazione dei processi di formazione decisionale ha il suo cuore politico nella riforma elettorale ossia nella riforma delle procedure di legittimazione dell’assetto statuale-governativo ed è intorno ad essa che è maturata la crisi degli equilibri politici interni e dei partiti, per le implicazioni che la riforma in senso maggioritario e uninominale ha sulla rappresentanza politica. L’ingovernabilità derivatane è stata relativa per la sostanziale unanimità delle forze che hanno sostenuto il governo Ciampi sulle linee programmatiche relative al nodo del “risanamento economico” espresse nella finanziaria e nell’accordo del 3 luglio e in tutti quei provvedimenti che pur non avendo titolo per essere inseriti nel dibattito parlamentare sulla finanziaria sono stati ad essa furbescamente affiancati ed approvati (scuola, forze armate etc. ). Sostegno al governo che ha visto esaltato il ruolo del P. D. S. e dei sindacati confederali, impegnati nel confermare la loro piena disponibilità a farsi carico, degli interessi della borghesia imperialista, appoggiando e garantendo una veste di legittimità democratica ad uno dei più pesanti attacchi alle condizioni politiche e materiali del proletariato dal dopoguerra ad oggi.
In particolare l’accordo del 3 luglio ha formulato una vera e propria carta costituzionale delle “relazioni industriali” e ha costruito la cornice istituzionale della dialettica neocorporativa, cornice già indicata nell’accordo del 31 luglio precedente. L’accordo neocorporativo diventa la sede legittimata alla definizione delle politiche economiche costituendo un tassello nel processo di rifunzionalizzazione dello Stato. Questi accordi hanno costituito la base politica su cui sono avanzati i provvedimenti in materia di politica economica dei governi Amato e Ciampi, provvedimenti che con l’attacco ai salari, la destrutturazione dello stato sociale e l’intensificazione dello sfruttamento capitalistico, operato grazie alla precarizzazione e alla liberalizzazione dell’impiego della forza-lavoro, scaricano sul proletariato i costi della crisi capitalistica, tentando di rendere le condizioni della classe operaia una variabile totalmente dipendente dagli interessi di profitto del capitale.
I Nuclei Comunisti Combattenti ben individuarono la centralità di questo nodo politico nello scontro di classe, collocando su questo terreno l’attacco alla sede della Confindustria a Roma il 18/10/’92. Infatti nel corso della ridefinizione della mediazione politica tra le classi attraverso il processo di rifunzionalizzazione dello Stato, per rendere quest’ultimo idoneo agli attuali livelli di sviluppo/crisi dell’imperialismo e ai corrispettivi termini di governo del conflitto di classe, un passaggio centrale è stato quello del trasferimento di alcuni aspetti del processo di formazione delle scelte politiche, in particolare riguardo alle politiche economiche, dalle sedi parlamentari a sedi esterne al rapporto tra poteri istituzionali e una di queste sedi è stata la trattativa neocorporativa governo-confindustria-sindacati. La dialettica istituzionale governo/parlamento maggioranza/opposizione, intorno a cui si formano le scelte politiche secondo l’assetto costituzionale della prima Repubblica è un percorso lento e contraddittorio (prescindendo dalle forzature operate in questi ultimi anni con il continuo ricorso alla decretazione d’urgenza e alla fiducia)
Le ragioni di questa contraddittorietà sono insite nei termini delle relazioni politiche tra le classi presenti in Italia. I rapporti di forza scaturiti dalla II guerra mondiale avevano infatti imposto l’assetto costituzionale della I Repubblica, dove la lentezza dell’iter legislativo era una forma di garanzia democratica che avrebbe dovuto consentire alle rappresentanze istituzionali della classe di sviluppare, riguardo alle scelte politiche, una mobilitazione di massa nel paese in modo da avere maggiori possibilità di condizionare l’azione del governo. Anche la contraddittorietà dei processi decisionali era legata alla permeabilità delle sedi parlamentari rispetto ai condizionamenti provenienti dallo scontro di classe. Questo perché le forze politiche, nonostante i “sistemi di potere” di cui si avvalgono, sono legate al rapporto con l’elettorato di riferimento, agli interessi che rappresentano, rapporto che crea condizionamenti e vincoli nel loro agire. L’approfondirsi della crisi capitalistica rende sempre più pressante per la borghesia imperialista la necessità di incidere sulla mediazione politica tra classe e Stato, per realizzare interventi drastici e rapidi, in particolare sulle materie di politica economica; in ragione di ciò si afferma l’esigenza della definizione di sedi, soggetti e procedure, che rendano tali interventi meno contraddittori perché più svincolati dai condizionamenti derivanti dall’andamento del conflitto di classe. E’ all’interno di questa logica che in Italia prendono corpo gli accordi neocorporativi nei quali i soggetti, le parti sociali, sono meno condizionabili dalle dinamiche dello scontro, rispetto ai partiti politici.
I sindacati confederali infatti sono un’organizzazione privata autorappresentativa, verticalizzata e centralizzata. La legittimità dei dirigenti sindacali a fare accordi validi per tutti i lavoratori nasce dal mandato conferitogli esclusivamente dagli iscritti al proprio sindacato e queste iscrizioni sono il frutto di una tradizione storica legata alla stagione del “sindacato conflittuale” e di un potere burocratico-amministrativo che i confederali si sono ritagliati avvalendosi del monopolio dell’azione sindacale riconosciutogli per legge. Nell’ambito del “processo di riforma dello Stato” caratterizzato dall’esecutivizzazione e dal sistema elettorale maggioritario avremo un quadro politico dove il parlamento svolge un ruolo di controllo e di ratifica dell’operato dell’esecutivo, un sistema quindi estremamente sbilanciato, dove gli accordi neocorporativi rimangono l’unica sede in cui l’esecutivo può tentare di comporre lo scontro di classe bilanciando i suoi interventi attraverso il confronto con i sindacati di regime. Una composizione che in realtà si articola proprio nell’interposizione di un complesso di relazioni e strutture formalizzate che radicandosi sul presupposto della compatibilità con gli interessi del capitale costituiscono un filtro politico attraverso cui selezionare le istanze di lotta che nascono nello scontro e delegittimare automaticamente ciò che non è in linea con questa compatibilità.
In questo contesto si riconferma la validità della strategia della lotta armata per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura del proletariato, come unica in grado di rappresentare l’autonomia di classe, nella capacità di incidere nel quadro politico dei rapporti di forza tra le classi in direzione di una soluzione proletaria alla crisi che attanaglia la borghesia imperialista. La guerra di lunga durata proposta dalle BR-PCC a tutta la classe, secondo il principio dell’unità del politico e del militare è l’unica progettualità in grado di affrontare e sostenere lo scontro politico nell’attuale fase dell’imperialismo.
I Nuclei Comunisti Combattenti riconoscono la centralità delle BR all’interno del percorso rivoluzionario del proletariato e la validità del loro impianto politico assumendolo come proprio. Esso a partire dalla centralità della questione dello Stato e dalla concezione leninista di esso e misurando la prassi rivoluzionaria con quelli che sono stati i cambiamenti nelle forme di dominio della borghesia imperialista, si articola secondo i principi che consentono alla Guerriglia di affrontare lo scontro con lo Stato in una guerra di lunga durata. L’attività di combattimento è volta alla disarticolazione degli equilibri politici per causare una relativa crisi del quadro politico ed acquisire forza politica da usare nel lavoro di costruzione delle forze che si dialettizzano con la linea politica dell’organizzazione. Sul piano organizzativo-operativo la guerra di classe di lunga durata richiede l’adozione dei principi di clandestinità e compartimentazione nella strutturazione per cellule delle forze, di centralizzazione nel movimento delle forze e di unità del politico e del militare nell’agire della Guerriglia. Sul piano programmatico l’iniziativa rivoluzionaria si articola intorno a due assi strategici, quello dell’attacco al cuore dello Stato e quello alle politiche centrali dell’imperialismo secondo i criteri di centralità selezione e calibramento. Ed è su questo terreno che la Guerriglia, operando secondo il criterio dell’agire da Partito per costruire il Partito, in stretta dialettica con le istanze dell’autonomia di classe lavora alla costruzione del Partito Comunista Combattente.
Su queste direttrici si è dimostrata la massima capacità per una forza rivoluzionaria di incidere sul piano politico e far avanzare il processo rivoluzionario.
All’interno dell’attuale fase di Ritirata Strategica che connota la situazione delle forze rivoluzionarie nello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione, che è tesa a un prevalente ripiegamento per rilanciare la capacità offensiva, i Nuclei Comunisti Combattenti collocano la propria offensiva antimperialista nel quadro della complessa ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria e del più generale processo di ricostruzione delle forze, un quadro su cui influiscono i termini dello scontro politico generale tra classe e Stato, scontro sul quale gli N.C.C. si prefiggono di far gravare la rappresentanza dell’autonomia di classe espressa dall’opzione rivoluzionaria immettendovi la propria prassi offensiva.
Nel processo di ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria e di ricostruzione delle forze rivendichiamo l’offensiva condotta il 3 settembre 1993 contro la base Usa di Aviano e procediamo con la massima determinazione sul cammino iniziato venti anni fa dalle Brigate Rosse consapevoli che la non linearità del processo rivoluzionario può solo provocare l’illusione tra le fila della borghesia che il “nuovo” e le “nuove” forze politiche che si candidano ad esercitare il suo dominio saranno capaci di contenere e sopprimere l’istanza rivoluzionaria che sorge dalle lotte proletarie, quando questa ha la propria ragione oggettiva nel sistema di sfruttamento e di dominio praticato dalla borghesia e in esso trova il suo alimento.
Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di riforma dello Stato che evolve verso la II Repubblica!
Organizzare i termini politico-militari per ricostruire i livelli necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata!
Attaccare le politiche centrali dell’imperialismo, dalla linea di coesione europea ai progetti di guerra diretti dalla Nato, che si dispiegano in questo momento lungo l’asse dei paesi dell’est Europa e sulla regione mediterranea-mediorentale!
Lavorare alle alleanze necessarie alla costruzione del fronte combattente antimperialista!
Guerra alla guerra, guerra alla Nato!
Trasformare la guerra imperialista in guerra di classe rivoluzionaria!
Onore alla compagna Barbara Kistler rivoluzionaria antimperialista caduta in combattimento nel febbraio del ’93!
Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti!
Nuclei Comunisti Combattenti per la costruzione del Partito Comunista Combattente.
Pubblicato in «Controinformazione internazionale» n. 12.