Le minacce e i ricatti controrivoluzionari non intaccano la militanza dei prigionieri comunisti

Venerdì primo maggio mio fratello veniva fermato a Caserta da alcune auto. Invitato a scendere dalla propria macchina, con la quale stava facendo ritorno a casa dalla caserma dove sta facendo il servizio militare, veniva avvicinato da individui qualificatisi subito come esponenti del SISMI. I quali, in sintesi, gli facevano questo discorso: essendo io in carcere da alcuni anni e “senza prospettive”, lui avrebbe potuto “aiutarmi” mettendosi a loro disposizione. Il che significava informarli di quanto avviene in carcere e contattare ambiti di movimento (non precisati) per riferirne le attività. Al ricatto “soft” – evidentemente debole – (la prospettiva cioè di essere lui, con la sua decisione, ad “aprirmi o chiudermi la porta del carcere”) ne aggiungevano altri più espliciti: in caso di rifiuto avrebbe “passato un guaio”, cioè lo avrebbero fatto arrestare; e di ricordarsi di avere un fratello in prigione, dove loro avrebbero potuto intervenire a piacimento. E, senza mezzi termini, che se si fosse opposto alla loro “proposta” mi avrebbero “fatto la pelle”.

La decisione di rendere pubblico questo episodio si fonda sulla convinzione che esso vada al di là di un fatto che coinvolge me, direttamente o indirettamente (ché per questo la risposta sta semplicemente nella indisponibilità a subire la minaccia e il ricatto, mia come dei miei familiari). La convinzione che si tratti in sostanza di un ulteriore messaggio intimidatorio e deterrente rivolto al movimento di classe e rivoluzionario.

“Episodi” come questo sono del tutto interni al quadro che caratterizza la fase politica e lo scontro di classe in questo paese e, nelle modalità specifiche, evidenziano chiaramente i termini dell’iniziativa odierna dello Stato, in generale contro il movimento autonomo di classe e le sue avanguardie, e più specificamente contro la guerriglia.

È bene far chiarezza su questo, perché non si tratta affatto di residui delle “politiche d’emergenza”; e sarebbe a mio parere riduttivo vedere il loro raggio d’azione fermarsi ad attacchi episodici contro i comunisti e rivoluzionari prigionieri e le loro famiglie, o semplicemente ad atti intimidatori e provocatori contro l’attività di settori del movimento di resistenza di classe. Se ne coglierebbe “la parte, non il tutto”, e soprattutto diventerebbe inspiegabile la qualità e la pesantezza di tali operazioni.

Non basterebbe a cogliere, cioè, i dati di fondo che informano l’attività antiproletaria e controrivoluzionaria dello Stato in questa fase, in base al grado di approfondimento raggiunto dallo scontro, ai rapporti di forza materialmente conseguiti dallo Stato, e agli obiettivi politici generali perseguiti dalla borghesia. Dati che ben spiegano i mezzi che lo Stato sta mettendo in campo, a diversi livelli e su più piani, per incidere sulla qualità assunta dal processo rivoluzionario in Italia, per cui non è sufficiente “reprimere” il movimento di resistenza proletario, ma si tratta di attaccare e contrastare, in primo luogo, l’attività dell’avanguardia rivoluzionaria e la sua proposta politica alla classe: la strategia della lotta armata.

Negli ultimi anni assistiamo a particolari modalità di sviluppo dell’iniziativa statale contro il campo proletario e rivoluzionario. Un’iniziativa ad ampio raggio calibrata a seconda che ad essere attaccato sia il movimento autonomo, il movimento rivoluzionario o la guerriglia. Ma che comunque esprime un’unica sostanza: l’aggressione offensiva delle contraddizioni sociali e politiche.

L’offensiva generalizzata negli ultimi anni si esprime con attacchi alla classe e alle sue espressioni autonome, attraverso forzature politiche fino all’intervento direttamente “militare” nei punti caldi del conflitto sociale. Si esprime, ancora, con la criminalizzazione e l’intimidazione verso gli ambiti più maturi e combattivi dell’autonomia operaia e proletaria. In questo è evidente la continuità col processo di ridimensionamento e depotenziamento del peso politico della classe iniziato nei primi anni ’80. Un’offensiva che ha precisi caratteri per la necessità (a fronte dell’incombere di ineludibili scadenze interne e internazionali della borghesia imperialista) di piegare un proletariato mai pacificato completamente. Ma che ha al tempo stesso l’obiettivo, più propriamente controrivoluzionario, di incidere nel tessuto sociale, nell’ambito naturale di riproduzione delle avanguardie, di contrastare il loro potenziale collegamento col piano rivoluzionario. L’attacco è anche quindi più specificamente calibrato contro la proposta politica dell’avanguardia rivoluzionaria alla classe, per impedire che lo scontro si incanali sul piano offensivo, strategico, della lotta armata contro lo Stato, per il potere. Il solo piano che realmente può incidere nei rapporti di forza generali, ma soprattutto il solo che può dare risposta e prospettive alle aspirazioni politiche e sociali del proletariato, rappresentando la forma storicamente assunta dalla politica rivoluzionaria nei paesi a capitalismo maturo e, nello specifico contesto italiano, per un’alternativa proletaria e rivoluzionaria alla crisi della borghesia imperialista.

Lo Stato, al di là delle chiacchiere mistificatorie sul “superamento dell’emergenza”, di cui il ripiegamento del campo proletario e rivoluzionario avrebbe posto le condizioni, misura il suo piano controrivoluzionario sempre a partire dal livello raggiunto dalla dialettica rivoluzione/controrivoluzione. Così oggi fa pesare i rapporti di forza conseguiti per incalzare e incidere in questa dialettica, muovendo verso un ulteriore approfondimento della controrivoluzione preventiva, come parte integrante del modo in cui si predispone a modificare più complessivamente i termini di governo del conflitto. Che vuol dire poi ridefinire il modo in cui si esplica la sua funzione di mediazione politica tra le classi, che va a caratterizzarsi per il suo sostanziale irrigidimento. Questo è un dato strutturale nei paesi a capitalismo maturo, caratterizzando la forma-Stato atta a meglio garantire il dominio della borghesia imperialista in questa fase di crisi e sviluppo dell’imperialismo. Tale ridefinizione dei caratteri strutturali di gestione del conflitto, applicata al peculiare contesto italiano, è alla base del passaggio in corso verso una Seconda Repubblica, anticipandone i tratti marcatamente antiproletari e controrivoluzionari.

La qualità e modalità della politica antiproletaria e controrivoluzionaria sono dunque frutto, in ultima istanza, delle caratteristiche che sta assumendo il processo di ridefinizione dello Stato nel contesto del paese, che sta determinando una fase politica complessa e delicata, segnata da una accentuata instabilità.

– Da un lato la borghesia imperialista nostrana ha la necessità impellente (ancor più a ragione del livello raggiunto dalla crisi economica e dalle spinte che muovono l’imperialismo verso lo sbocco bellico, come unico mezzo per dare risoluzione alla propria crisi generale) di rimodernare e meglio funzionalizzare il proprio apparato istituzionale, per farlo rispondere alle attuali esigenze del grande capitale multinazionale e ai più generali interessi della catena imperialista, che richiedono una più forte coesione tra Stati e, tra l’altro, un maggior coinvolgimento dello Stato italiano nelle prospettive guerrafondaie imperialiste.

– Dall’altro, tale “ammodernamento” richiede, per parte borghese, un adeguamento del modo di esprimere il proprio dominio di classe. Un adattamento del modo in cui lo Stato opera la sua funzione di organo della dittatura borghese e mediazione del conflitto di classe, al livello richiesto. Ancor più perché le prospettive belliche impongono a ogni Stato di avere un territorio interno “pacificato”, un retroterra “stabile” da cui lanciare le proprie aggressioni contro altri paesi e popoli. Ed è qui che iniziano i problemi. Perché si tratta non di asettiche operazioni di ingegneria istituzionale studiate a tavolino e da applicare meccanicamente, ma di far passare le “riforme” necessarie su una materia sociale ben più viva: il proletariato.

L’obiettivo del rafforzamento dello Stato a spese delle classi subalterne, d’altra parte, non implica una svolta “fascista”. Se pur siamo in presenza per molti aspetti di caratteri che configurano una vera e propria restaurazione operata in vari campi della vita sociale e politica, la dittatura fascista sarebbe una soluzione antistorica e inadatta, non esprimendo la forma-Stato più adeguata a garantire il potere politico della borghesia imperialista nei paesi a capitalismo maturo, quale invece si è mostrata la moderna democrazia rappresentativa (che, sia chiaro, per parte proletaria non è che una forma di dittatura borghese). Si sta cercando invece di adattare e approfondire la democrazia rappresentativa, omogeneizzandola alle caratteristiche di fondo comuni delle altre democrazie occidentali. L’obiettivo è quello di accentrare ulteriormente i poteri nell’esecutivo, svincolandone le decisioni dalle spinte sociali (“blindandolo”, cioè, da influenze esterne), e di imbrigliare la classe nei reticoli e canali sempre più rigidi della democrazia “formale”. Definire così un quadro di istituzionalizzazione del conflitto, che per la classe significa subire gabbie sempre più soffocanti, senza la minima possibilità di incidere e far valere i propri interessi.

Il fallimento, quello sì reale e storico, dei partiti revisionisti nell’occidente capitalistico mostra d’altronde tutta l’illusione di poter cambiare la situazione delle classi subalterne dentro le “regole democratiche” stabilite. A parte l’incomprensione di fondo delle forme assunte dal dominio borghese nell’Europa del dopoguerra, con la funzione venuta a svolgere dalla controrivoluzione preventiva come parte stabile integrante delle modalità di governo del conflitto, il fallimento è risaltato chiaramente e si è consumato velocemente, man mano che si restringevano i margini economici e politici di riassorbimento delle contraddizioni sociali, per effetto dell’approfondirsi della crisi, svelando, senza più margini di dubbio (per chi ne avesse), che non vi sono spazi per un affrancamento politico e sociale della classe nella democrazia rappresentativa, ma che gli unici spazi permessi sono quelli connessi al quadro di interessi e compatibilità della borghesia imperialista. Si tratta di dati strutturali, connessi alla funzionalità delle moderne democrazie rappresentative e non di una “involuzione autoritaria”, né di un “nuovo fascismo”.

Cosa rivela allora l’attuale affrontamento aggressivo delle contraddizioni sociali, il ricorso all’armamentario terroristico, intimidatorio contro la classe operaia e proletaria, le sue avanguardie politiche e rivoluzionarie? Emergono due dati. Che esprimono al contempo elementi di forza e debolezza della borghesia imperialista “nostrana” in questa fase.

Da un lato vi sono i rapporti di forza conseguiti dallo Stato con la “controrivoluzione degli anni ’80”(i cui caratteri persistono) fatti gravare pesantemente nello scontro. Dentro questo vi è, tra l’altro, una versione aggiornata della “strategia della tensione” cui fanno ricorso gli apparati di “sicurezza” dello Stato. Una strategia cui lo Stato è ricorso diverse volte per frenare le richieste politiche e di potere della classe, e favorire svolte e nuovi equilibri politici interborghesi più adeguati a stabilizzare la situazione interna. Rinnovare questo utilizzo terroristico degli apparati di “sicurezza” ha un senso preciso nella difficile fase attuale per gravare nello scontro, ed evidenzia, tra l’altro, il senso attuale che hanno avuto le rivendicazioni dell’attività stragista dello Stato, fatta dalle più alte cariche istituzionali e dalla DC, partito responsabile al più alto grado del sangue operaio e proletario versato nelle piazze, nelle strade e nelle stazioni ferroviarie di questo paese.

D’altro lato si evince la situazione di difficoltà e debolezza reale entro cui la borghesia imperialista si muove, che risalta nel livello di crisi politico-istituzionale che la sta investendo. Questo perché l’esigenza e l’improrogabilità con cui deve mettere mano alle “riforme” dello Stato, si sono scontrate e si scontrano con un proletariato mai completamente pacificato dall’offensiva controrivoluzionaria a tutto campo degli anni ’80, mai “decapitato” del carattere antistituzionale, antistatuale e antimperialista delle sue espressioni più avanzate, che ne continua a rappresentare un dato costitutivo pur nelle condizioni di resistenza attuali. Resistenza che va a scontrarsi sul piano politico, principalmente, proprio con gli effetti suscitati dal processo di rifunzionalizzazione dello Stato, per la sua chiara impronta di classe; e sul piano capitale-lavoro contro le nuove relazioni industriali, di stampo neocorporativo, che dovrebbero ridimensionare il peso dell’organizzazione autonoma operaia e rendere il lavoro dipendente totalmente subalterno alle compatibilità capitalistiche. Ma non solo: soprattutto i progetti di “riforma” più avanzati hanno dovuto ripiegare per l’opposizione rivoluzionaria delle BR, la cui attività, innestandosi con le espressioni autonome più avanzate e combattive della classe, ha tra l’altro contribuito negli anni più duri a determinare il grado di tenuta del campo proletario e rivoluzionario.

Due piani, quelli che in sostanza informano i termini attuali della dialettica classe/Stato e rivoluzione/controrivoluzione, che esprimono nell’insieme la qualità politica raggiunta dallo scontro di classe e rivoluzionario in questo paese, cui la borghesia imperialista deve necessariamente riferirsi.

Così, è stata l’impossibilità di perseguire linearmente, “pacificamente” i progetti più graduali e articolati che, in via principale, ha determinato l’attuale livello di crisi politico-istituzionale, la situazione di stallo e l’acuirsi delle contraddizioni interborghesi.

Questa situazione ha imposto la necessità di abbandonare le velleità precedenti, e agire per “colpi di mano” sotto la diretta gestione dell’esecutivo, di gravare pesantemente nel vivo dello scontro, in mancanza di modifiche politico-istituzionali atte a mantenere la stabilità necessaria alle esigenze attuali della borghesia imperialista, per ottenere forzosamente quei momenti di relativa stabilità e gli equilibri politici possibili per avanzare verso la fase costituente del nuovo regime. “Colpi di mano” che si presentano oggi come la norma nella gestione delle contraddizioni sociali, prefigurando al tempo stesso i termini di governo del conflitto che ci riservano nella Seconda Repubblica.

Ecco dunque il contesto che muove, le origini e le finalità che vengono perseguite, nella fase attuale, con gli atti intimidatori e la criminalizzazione del movimento di classe; da che derivano e a che servono le mirate provocazioni e le misure deterrenti in funzione antiguerriglia, cosa nascondono le “campagne contro la criminalità”, copertura delle vere e proprie azioni criminali di Stato e dell’irrigidimento degli istituti e apparati preposti alla “sicurezza”, rivolti in ultima istanza contro il “nemico di classe interno”.

Dentro questo quadro, questa azione specifica si evidenzia per il perseguimento di alcuni obiettivi specifici. Nei fatti, oltre a veicolare, in generale, un messaggio deterrente, di forza e onnipotenza dello Stato, le minacce sono chiaramente dirette al movimento autonomo di classe, paventando infiltrazioni con lo scopo evidente di incuneare un clima di sospetto. Sono indirizzate quindi contro i militanti della guerriglia e rivoluzionari prigionieri, con l’obiettivo di fare pressione su di loro: non in quanto tali, ma perché hanno rifiutato e rifiutano di farsi strumento contro la lotta armata e il movimento rivoluzionario, non facendosi usare nei loro progetti di “soluzione politica”.

A questo scopo viene fatta pesare la condizione di ostaggi nelle mani dello Stato, secondo un copione noto, se pur adattato alla situazione e calibrato a specifiche finalità antiguerriglia. Va aggiunto che quanto più maturano tempi e condizioni politiche per l’apertura di una “fase costituente”, tanto più lo Stato aumenta la propria pressione sui prigionieri rivoluzionari per usarli contro l’avanguardia combattente in attività e l’intero movimento rivoluzionario, nell’illusione di poter inaugurare la Seconda Repubblica sotto il segno della “fine della lotta armata”, sancendo con una soluzione politica la fine di un “ciclo storico” e una ritrovata “pacificazione nazionale”.

Un’illusione questa rivelatasi tale già in passato non solo per l’indisponibilità tenace mostrata dalla classe a pagare i prezzi politici e materiali del processo di “riforma” dello Stato, come della crisi economica e delle scelte guerrafondaie dell’imperialismo. (Perché queste, crisi, guerra, supersfruttamento, sono le “soluzioni politiche” che si prospettano per il proletariato! Solo dentro le condizioni capestro dettate dalla borghesia imperialista sarà possibile ottenere “spazi politici” riconosciuti nel costituente regime!). Ma soprattutto per l’indisponibilità delle BR in attività di accettare la “resa”, rilanciando al contrario nello scontro la possibilità e la vitalità del processo rivoluzionario nel paese – di cui non una delle condizioni di fondo è venuta meno – e del ruolo strategico che in esso svolge la guerriglia, opzione offensiva e di potere della classe. Un ruolo risultato valorizzato, nonostante le campagne mistificatorie e al di là dei rapporti di forza del momento (che possono determinare ripiegamenti e stasi inevitabili in ogni processo rivoluzionario, e in particolare nello sviluppo fortemente discontinuo della guerra proletaria di lunga durata nelle metropoli). Avendo così sedimentato un solido e ineludibile patrimonio teorico-pratico, riferimento di ogni comunista e sincero proletario d’avanguardia, che voglia condurre al livello dovuto la lotta offensiva contro lo Stato e l’imperialismo.

Per concludere, è chiaro che i messaggi di deterrenza e forza lanciati dallo Stato sono frutto del livello di scontro e dei rapporti di forza dati; ma ne va svelata l’intrinseca debolezza, dovuta al quadro di crisi in cui si dibatte la borghesia imperialista e alle velleità che persegue. Perché non hanno di fronte, da piegare e annientare, la resistenza di singoli prigionieri, o di singole avanguardie politiche della classe, ma la ben più dura realtà dello scontro nel paese, la resistenza della classe e lo spessore politico, la maturità raggiunta dal processo rivoluzionario. Ed è questa realtà che, tra l’altro, rappresenta il pilastro più solido su cui si regge e si alimenta la difesa dell’identità politica dei comunisti in carcere.

Con questa convinzione di fondo, non ho, come dicevo, intenzione di fare considerazioni “personalistiche” del fatto (che ho raccontato) in sé.

Come militante comunista rivoluzionario ho solo da rivendicare la mia appartenenza al campo proletario e rivoluzionario, che lotta, in questo come in altri paesi, per il potere, in direzione del superamento della società divisa in classi, per l’affermazione degli interessi generali di rivoluzione sociale e progresso umano, di cui solo il proletariato rivoluzionario internazionale può farsi autentico portavoce in quest’epoca della storia umana.

Quindi ho da ribadire la mia collocazione specifica, come prigioniero, tra quei militanti rivoluzionari che sono indisponibili a farsi strumento contro la guerriglia e il movimento rivoluzionario, rifiutandosi di dialettizzarsi con i progetti di “soluzione politica” elaborati dall’antiguerriglia.

Infine intendo esprimere il pieno sostegno politico alle BR-PCC, all’impianto strategico e agli elementi di programma politico che ne caratterizzano l’attività nell’attuale fase.

 

Carcere di Carinola, 17 maggio 1992

 

Il militante rivoluzionario Stefano Scarabello

Un pensiero su “Le minacce e i ricatti controrivoluzionari non intaccano la militanza dei prigionieri comunisti”

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