Questo contributo, traendo spunto dalla radicale contrapposizione al progetto di soluzione politica, è il frutto di un primo reale confronto fra compagne provenienti da diverse componenti politiche e inevitabilmente risente di tutti i limiti che ciò comporta.
Questo intervento vuole però essere un effettivo momento di confronto, dentro e fuori dal carcere, con tutte le esperienze rivoluzionarie e con tutti quei compagni che, al di fuori di ogni logica settaria e riduttiva, intendono portare avanti un processo rivoluzionario.
E così, in Italia esistono prigionieri politici.
Riconoscimento un po’ tardivo di un conflitto di classe – che si vorrebbe seppellire – la cui frattura radicale deve essere necessariamente riassorbita prima che qualche nuovo evento dalle sfumature incontrollabili ne ricucisca una continuità, anche solo ideale.
Magnanimo gesto, dallo stile vagamente militare, con cui si usa – fra galantuomini – offrire una dignità agli eserciti aggiogati e sconfitti. O meglio, ai loro capi.
Peccato che chi, come noi, ha sempre pensato all’organizzazione rivoluzionaria come ad un processo collettivo – senza personalismi né primedonne – non riuscirà mai a scambiare il carcere imperialista con la piazza di un mercato: non vuole svendere né essere venduto.
Liberazione degli anni ’70 in cambio di un ritorno alla «normalità democratica» di una società pacificata. Rientro – per «ambedue» le parti – nelle regole del gioco; accidentalmente accantonate per un duro ma indispensabile lasso di tempo.
Tra il combattente e il disertore, l’incorruttibile e il rinnegato, esiste quindi una terza via?
Sembra la fine di un’epoca. Un’epoca di speranze e di sogni di chi voleva «fare la rivoluzione». Ora siamo diventati grandi e con molto realismo politico dovremmo constatare che un’altra società è impossibile: il capitalismo è l’unica forma di società pensabile.
Altro che pura e semplice delegittimazione della guerriglia, quello che ci chiedono è di sostenere che il comunismo è impossibile!
Tricolore italiano e bandiera a stelle e strisce si allineano armonicamente – nell’ambito del più generale quadro di cooperazione e integrazione europea – nel sostituire l’accusa di terrorismo alla vecchia accusa di comunismo; terroristi sono coloro che combattono gli interessi strategici e i «valori» delle democrazie occidentali.
Originariamente nata per contenere e annientare la spinta dei popoli in lotta per la loro liberazione e autodeterminazione, la strategia imperialista della controguerriglia classica ha dovuto sottilmente evolversi per combattere chi, dall’interno dei paesi del suo centro, minava le fondamenta del suo dominio indiscusso. Combinare azioni militari ad operazioni politiche, economiche e psicologiche tese a costruire ogni possibile scenario di legittimazione del potere esistente. Prima la sconfitta militare, poi un’operazione politica che – intervenendo direttamente nel campo delle idee – frantumi ogni ricostruzione di progettualità radicale e convinca anche i più dubbiosi a servirsi tutt’al più delle armi della critica nell’ambito della più civile convivenza.
Non essendoci montagnards, come in Vietnam, si usa – con intelligenza – la crema, ben disponibile, dei prigionieri politici. Chi meglio di loro? L’altra faccia della medaglia di una strategia controrivoluzionaria ben conosciuta.
Annientamento, accerchiamento, isolamento dei rivoluzionari in tutti i continenti e cooptazione di tutte le possibili forze, da quelle socialdemocratiche a quelle – perché no? – ex-combattenti, in un progetto che crei presupposti per impedire a qualsiasi livello ogni possibile rottura politica a favore delle forze rivoluzionarie e spezzi sul nascere ogni tentativo di unificazione di una strategia politico-militare per la liberazione proletaria.
Proprio adesso che si cominciavano a riconoscere positivamente le prime forme di unità del processo rivoluzionario in Europa occidentale e le tematiche internazionaliste e antimperialiste recuperavano anche da noi una posizione centrale nella strategia rivoluzionaria!
Combinando i frutti della nostrana controrivoluzione preventiva – dispiegata dalla metà degli anni ’70 in poi – con la ricca esperienza controrivoluzionaria internazionale, gli ultimi esperti di un personale politico imperialista italiano hanno finemente elaborato questo splendido gioiello che porta il nome di soluzione politica. Progetto che sarà senz’altro oggetto di un rinnovato plauso da parte delle democrazie occidentali e frutterà notevoli vantaggi interni a chi se ne è fatto promotore.
Esempio di futura solida stabilità, basata sul sapiente dosaggio delle controparti e sull’oculata prevenzioni delle prossime contraddizioni.
Se non è possibile un pieno consenso che almeno si incanali il dissenso in binari ben definiti oltre i quali non è lecito andare. E si tolga definitivamente di mezzo ogni intralcio che potrebbe frapporsi al nuovo ciclo espansivo e di guerra degli anni ’90.
Come è naturale, pare persino stupido ricordarlo, questo ambizioso progetto rischierebbe di risultare scarsamente efficiente se non trovasse la piena e opportunistica partecipazione di tutti quei prigionieri, capi e gregari, che abbiano qualcosa da mercanteggiare.
Resisi inermi, i grandi cervelli della «passata e improponibile» rivoluzione usano ora la loro intelligenza per cercare di rendere plausibili – senza le armi – i loro passati progetti di trasformazione della società.
Da «biechi assassini terroristi» a soggetti politici della trasformazione «democratica». E se no, perché mai uno Stato che non è indietreggiato – non ha trattato – di fronte al dispiegarsi della giusta violenza comunista avrebbe ora la presunzione di arrivare alla conciliazione?
A che cosa servono questi incanutiti ex-combattenti?
Non certo a riempire la mancanza di una certa retorica resistenziale nelle osterie, né a trasferire alle nuove generazioni eroiche epopee ricche di abnegazione e di alti ideali. Più semplicemente, questa controparte deve assolvere a una funzione che le è specifica.
E quale sarebbe questa funzione se non quella di convincere le nuove generazioni che non hanno il diritto di battere la strada della lotta armata per il comunismo, se non quella di usare la testimonianza del proprio reinserimento sociale come garanzia che di più non si può tentare!
Ma oggi, svolgere una funzione di ammortizzatore delle prossime conflittualità sociali è compito estremamente oneroso, è da veri intelligenti riformisti! È avere la presunzione di riuscire là dove ha fatto buca il PCI con la sua politica disinvolta nel non tutelare neanche i restanti e risicati interessi di classe.
Ben gravoso compito e ben magro spazio si è ricavato chi aveva in mente la presa del potere!
Vista l’autorevolezza dei nomi, si potrebbe pensare ad un’improvvisa epidemia di demenza. Specie per alcuni, è sintomo di ben scarsa serietà dire una cosa oggi e il contrario l’indomani, di punto in bianco!
Purtroppo invece questa faccenda – che si vorrebbe a lieto fine – altro non è che una vecchia tara che ogni movimento rivoluzionario può trovarsi tra i piedi ogni qual volta la realtà mostra sensibilmente di scostarsi da vecchi schemini ormai incapaci di comprenderla per intero.
È lo sclerotismo di chi «per valorizzare» un’esperienza, la svende. L’arroganza di chi nega che una grossa esperienza rivoluzionaria per andare avanti deve rinnovarsi continuamente. La rinuncia a superare quei limiti di un impianto teorico-politico che ci permettano di ridefinire un’ipotesi di guerriglia in un paese del centro imperialista come il nostro.
Ecco quindi improvvisi voltafaccia, ecco spuntare noiose e stanche vie pacifiche al socialismo costrette a logoranti logiche di opposizione senza nessuna possibilità di sbocco reale se non il completo asservimento alle politiche imperialiste. Degenerazione di un vecchio modo di fare politica, non più riproponibile per una guerriglia in un paese del centro europeo.
Ma poiché questa ci sembra la tendenza ed è un progetto, serio, che ha delle buone gambe su cui marciare – al di là che avvenga o meno la liberazione fisica dei prigionieri – è bene giudicarlo in tutte le sue conseguenze, immediate e future.
Del resto, se vogliamo guardare la soluzione politica sotto un altro aspetto possiamo senz’altro rifarci alla storia. Può succedere infatti che in particolari momenti – carichi di forti tensioni internazionali e di pericolosi segnali che possono preludere ad improvvise trasformazioni sulla scena politica o a incontrollabili evoluzioni guerrafondaie – la confusione ideologica si faccia più intensa ed esiste la seria possibilità che forze fino a ieri rivoluzionarie decidano di archiviare la lotta armata e imbocchino la strada dell’opposizione politica legale, alleandosi con forze i cui programmi immediati convergano.
L’intento è solitamente quello di dividere il fronte borghese in nome della salvaguardia della pace, della democrazia e della tutela degli interessi di classe. La conseguenza più diretta è ovviamente l’abbandono di ogni linea politica rivoluzionaria – tattico o definitivo che sia – e la cancellazione più totale di ogni seria prospettiva antimperialista, fatto salvo il mantenimento di parole d’ordine del tutto ideologiche ed ininfluenti.
Il tutto, in passato, si è inserito in un clima fortemente nazionalista, sciovinista, quando non addirittura razzista – bianco, diremmo oggi -.
Può anche succedere che – in periodi di grosse trasformazioni gravide di incognite per il futuro ma rigonfie di compromessi e mistificanti mediazioni – scaturiscano tesi assurde ed utopistiche secondo le quali i caratteri stessi dell’imperialismo sono talmente mutati che i rapporti e gli scambi internazionali sarebbero improntati ad uno sviluppo economico e sociale equamente distribuito, in barba ad ogni legge dell’accumulazione capitalistica. Tesi che, come si è già verificato storicamente, giudicando il compromesso tra socialismo e capitalismo un accordo molto serio e affidabile, hanno portato niente altro che a un pacifismo radicale e a una totale rinuncia dell’ideologia rivoluzionaria.
Come è ovvio, l’improvvisa amnesia della sostanza stessa dell’imperialismo, di ogni legge fondamentale del modo di produzione capitalistico non può che fare equivalere lo sviluppo dell’economia e del progresso scientifico ad uno sviluppo sociale e quindi ad una rinnovata democrazia.
Alla democrazia si richiamano, a quanto pare -seppur sotto una moderna veste «riformista»- anche i nostri ex-compagni. Democrazia che, beninteso, sarà tale solo dopo la loro liberazione. Punto questo essenziale, per cui si prendono addirittura la briga di chiudere un ciclo storico; chiusura, sia ben chiaro, che non può che corrispondere alla loro personale liquidazione della strategia della lotta armata.
L’astrazione dall’effettivo andamento del capitale multinazionale e dalle diverse contraddizioni che esso produce è evidente. E opportunistiche e mirate sono le loro letture della realtà, furbescamente mutilate delle grosse contraddizioni internazionali che vanno via via emergendo. Letture della realtà che prescindono completamente dalla sopravvivenza di interi popoli – ridotti ad «aree di mercato» – e dal loro diritto a vivere in una società autodeterminata.
Bisognerebbe magari chiedersi il perché di questa eurocentrica – o meglio italiota – dimenticanza e a chi, caso mai, potrebbe giovare. Quindi, per questi ex-rivoluzionari, il MPC si sarebbe rinnovato in modo così sostanziale da riuscire a coniugare efficacemente le richieste degli strati sociali più sfruttati e marginalizzati dalla riduzione della base produttiva con le contraddittorie ma ferree leggi dell’accumulazione capitalista, le esigenze della guerra imperialista, con quelle del proletariato internazionale. Superati a sinistra, in questa ottimistica visione, dalla stessa sinistra non socialdemocratica che hanno sempre snobbato; la quale, oltre ad essersi mobilitata per le navi nel Golfo Persico, si sta chiedendo quale democrazia possa mai vivere, quale equilibrio possa mai avere una società in cui un terzo dei suoi membri è escluso da ogni promozione sociale, marginalizzato e privato di un realistico futuro; quale governabilità possa garantire uno stato che è costretto a «sganciarsi» da una così grossa fetta di popolazione -con cui tuttavia deve «convivere» – facendone un soggetto da controllare, poiché gli si pone oggettivamente contro.
In realtà, non di chiusura di un ciclo storico si deve parlare ma di una grossa svolta avvenuta tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80; un passaggio che, nel tentativo di superare la crisi, apre una nuova fase di sviluppo capitalistico a cui si vorrebbe ora necessariamente coniugare un nuovo concetto di stato «efficiente». Una svolta alla luce della quale le laceranti contraddizioni emerse non appaiono come semplici intralci congiunturali, bensì come preoccupanti sintomi di una situazione fondamentalmente inedita e gravida di incontrollabili conseguenze. E quanto forte sia stato considerato l’urto delle lotte degli anni ’70, e quanto sia passato in eredità come fonte di preoccupazione costante da evitare in futuro, lo abbiamo ben potuto vedere negli ultimi anni di emergenza.
Fossimo davvero già in una società totalmente «trasformata», non ci sarebbero tutti questi problemi.
In realtà siamo ancora in un periodo di transizione, in cui operano vecchie forme all’interno di altre totalmente nuove, la cui evoluzione è peraltro tutt’altro che scontata. Bisognerebbe quindi ragionare su quali forme il capitale vada assumendo, quali mutamenti – anche istituzionali – debbano ancora intervenire e finalmente quali ostacoli gli si frappongono e quali siano in generale le contraddizioni che caratterizzano questa trasformazione. Discussione, questa, aperta a tutti i compagni, a cui vogliamo indicare solo i fenomeni più evidenti; pienamente convinte che l’attacco alla soluzione politica passa attraverso la ripresa di un confronto collettivo che sappia misurarsi con le attuali condizioni oggettive inscrivendole nella dimensione internazionale dello scontro di classe e nella riproposizione della strategia della lotta armata in continuità con i cardini fondamentali delle BR, ma su basi più mature e interne all’evolversi della guerriglia in Europa occidentale.
Tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 nel panorama socio-economico italiano – così come a livello internazionale – sono avvenuti profondi mutamenti, dovuti ai passaggi della crisi che ha investito tutto il mondo occidentale. Il tentativo di risolvere tale crisi ha imposto – sulla base della necessità dei capitali multinazionali più forti, USA in testa – la ridefinizione di tutti i fattori economici-politici e sociali indispensabili alla riproduzione del sistema capitalista stesso. Ridefinizione che è avvenuta attraverso un movimento di ristrutturazioni senza precedenti che doveva necessariamente coinvolgere e rendere interdipendente l’economia nel suo complesso, là dove all’esportazione di capitali si unisce direttamente l’esportazione e la necessaria riproduzione del MPC stesso. Imporre questa ristrutturazione significava per l’Italia rimanere nel novero dei paesi industrializzati. Una grossa posta in gioco a cui non si poteva certo rinunciare.
Questo comportava innanzitutto dispiegare una forte controrivoluzione preventiva con cui cercare di distruggere – con tutti i mezzi, anche con la tortura – le BR, allora all’offensiva, decapitando il movimento rivoluzionario. E contemporaneamente innescare una repressione generalizzata che è passata attraverso l’espulsione delle avanguardie più significative – cardine dell’organizzazione proletaria – nei poli industriali, con gli arresti di massa, fino alla militarizzazione dei territori metropolitani.
Con un clima di deterrenza generale si intendeva disorientare e isolare le avanguardie più combattive minando il tessuto sociale di tradizionale solidarietà proletaria e incrinando la stessa identità di classe, con l’intento di far passare – con o senza il consenso – il progetto della borghesia imperialista che prevedeva, insieme a migliaia di licenziamenti, la completa sconfitta politica della classe.
La rottura della solidarietà rivoluzionaria è passata anche attraverso il fenomeno degli infami e dei dissociati in un’ottica di divisione dei prigionieri comunisti e di delegittimazione della guerriglia, con il reinserimento nell’ambito borghese degli ex-rivoluzionari. Progetto che raggiunge ora il suo apice con la proposta di soluzione politica. Da allora la controrivoluzione preventiva non solo non ha mai cessato di funzionare, ma l’intero apparato politico-militare è diventato molto più raffinato: non colpisce più nel mucchio, ma tende ad individuare, isolare e annientare quelle forze rivoluzionarie che possono fungere da polo intorno a cui si riorganizza il movimento antagonista. Nello stesso tempo ha operato una ridefinizione di tutti gli apparati che servono ora anche come controllo politico e prevenzione sul movimento. Da una parte repressione e annientamento e dall’altra infiltrazione ideologica finalizzata alla reintegrazione nell’ambito borghese dei contenuti e delle esperienze più avanzate del movimento rivoluzionario.
L’inizio del processo di ristrutturazione in Italia ha anche indirizzato la politica revisionista e sindacale sfociata poi nel patto sociale. Tale politica ha di fatto investito una parte della classe in un rapporto di delega al PCI e ai sindacati che si facevano direttamente garanti di un’«equa» contrattazione. Questa contrattazione – propagandata alla classe come necessario «riformismo» con cui limitare gli eccessi più direttamente antiproletari della ristrutturazione – poneva le basi per una sconfitta ideologica, oltre che politica, delle pratiche di lotta proletaria e di fatto sanciva la definitiva accettazione delle norme capestro su cui si reggeva la ristrutturazione: espulsione di forza lavoro, mobilità, flessibilità, premialità agganciata alla produzione, ecc. Venivano colpite, quindi, le conquiste di classe ottenute con le lotte del decennio precedente e si tentava di inglobare lo scontro con il proletariato all’interno di mediazioni politiche/istituzionali; in tal modo le lotte portate avanti dall’autonomia di classe perdevano a poco a poco non solo la storica combattività organizzata, ma scivolando di fatto su un terreno «sovversivo», venivano ricacciate sulla difensiva.
Segmentando e parcellizzando il ciclo produttivo -attraverso l’introduzione di alte e sofisticate tecnologie – si è segmentata e frammentata anche quella composizione del proletariato tipica della grande fabbrica tayloristica. Questo mutamento della composizione di classe ha portato l’avanguardia rivoluzionaria alla ricerca di un riadeguamento dell’impostazione politico-militare, essendo cambiato il referente di classe e più esteso lo scontro.
Nel frattempo la politica revisionista e il patto sociale si qualificavano come solido banco di prova per arrivare ad un possibile coinvolgimento della classe nella partecipazione alla ripresa economica e nello stesso tempo – là dove questo non risultava possibile – funzionavano come ammortizzatore sociale per dilazionare nel tempo il temuto inasprirsi dello scontro. Una gestione politica dello scontro di classe che si dimostrerà tanto più essenziale con la crisi del welfare state e con l’estendersi della ristrutturazione al terziario. La stessa DC, il PSI e lo Stato nel suo insieme sono infatti chiamati oggi ad intervenire sotto una moderna veste «efficientista» in relazione alle richieste e al malcontento di quei settori – non immediatamente legati al ciclo produttivo – che erano fino a ieri al riparo dai costi della ristrutturazione, cercando di mantenere il carattere corporativo di tali lotte come elemento di costante divisione della classe.
Alcuni effetti della ristrutturazione sono stati contenuti grazie al risorgere dell’imprenditoria del lavoro sommerso e precario che, scavalcando a piè pari lo statuto dei lavoratori, riassorbiva una parte di f-l espulsa dal ciclo produttivo; in questo modo non si è stabilito un notevole scompenso nella redistribuzione della ricchezza, ma si è però affermato un vuoto di tutela e di garanzia nell’occupazione.
L’effetto più devastante della ristrutturazione è però la massiccia disoccupazione che si è ormai affermata come carattere strutturale, decisamente non riassorbibile. Questione questa a cui, al di là delle belle parole, nessuno sa porre rimedio.
In quegli stessi anni, la politica estera italiana – nel suo classico indirizzo di mediazione improntato alla «cooperazione e allo sviluppo» – assumeva un protagonismo davvero insolito e riusciva ad agganciare, soprattutto con l’esportazione di media tecnologia, quei paesi alla ricerca di una via di sviluppo nazionale. Questo contribuiva a riportare i profitti a livelli competitivi e di conseguenza permetteva di ridefinire gli equilibri interni, tamponando le contraddizioni più laceranti che andavano via via emergendo. Praticamente, l’utilizzo del neo-colonialismo sui paesi della periferia per assorbire i conflitti interni in funzione di un maggior consenso e stabilità sociale.
Le esigenze del capitale multinazionale vengono fatte pagare sia ai paesi dipendenti sia al proletariato del centro. Questa è anche la funzione dello Stato imperialista italiano come «mediatore sociale». Infatti all’intensificazione del potenziale produttivo e all’innegabile progresso scientifico che se ne può prospettare non corrisponde – nelle finalità capitaliste – un conseguente sviluppo sociale e una migliore qualità della vita. Al contrario, uno dei motivi che determinerà gli eventi futuri sarà il tentativo a lungo termine da parte dei paesi a capitalismo avanzato, di mantenere la loro preminenza – proprio sulla base del possesso dell’alta tecnologia – nella produzione e nei mercati mondiali e questo non potrà che avvenire a spese dei paesi dominati e del proletariato.
Con la ridefinizione dei rapporti di forza nettamente a favore della borghesia imperialista, il ruolo di media potenza imperialista dell’Italia esige ora da una parte, la completa sconfitta di ogni ipotesi rivoluzionaria, dall’altra, una gestione politica del governo delle contraddizioni sociali improntata al contenimento delle spinte più antagoniste e al loro riassorbimento all’interno di un quadro di mediazioni politiche teso ad ottenere il massimo di pace sociale conseguibile e il massimo di divisione del fronte proletario. Mediazioni politiche che sono sostanzialmente operazioni di controllo politico e di cooptazione all’interno del sistema borghese. Di fatto, si fa in modo di rendere latente e frammentaria ogni opposizione antagonista mascherando con una nuova e moderna veste «riformista» quello che è ormai uno stabile e rafforzato neo-autoritarismo in senso nettamente antiproletario.
Fa certamente parte di tale gestione politica anche il progetto di soluzione politica. Progetto che può dare allo Stato imperialista italiano le possibilità di apparire ufficialmente «democratico» – in quanto dimostra di essere riuscito ad «armonizzare» anche le più laceranti contraddizioni di classe – e talmente «forte» da potersi permettere di liberare coloro che gli avevano dichiarato guerra.
La liberazione degli anni ’70 passa quindi attraverso la dichiarazione di sconfitta delle BR, la totale distruzione di ogni identità rivoluzionaria, l’annientamento di ogni possibile ipotesi di radicale trasformazione della società! Sia ben chiaro che la posta in gioco non è solo il passato, ma il presente e il futuro: mettendo un’ipoteca su una futura ipotesi rivoluzionaria che non potrà che essere collegata alla guerriglia in Europa occidentale.
A questo si prestano gli ex-rivoluzionari che propagandano qualsiasi tipo di soluzione politica: a creare le basi perché chiunque, d’ora in poi, prenda un’arma in mano in nome di una possibilità di liberazione proletaria venga crivellato di piombo con il loro legittimo consenso! Un innalzamento dello scontro di classe che coinvolgerà non solo le avanguardie combattenti ma tutto il movimento rivoluzionario, tutto il proletariato! Cosa del resto già riscontrabile ora: mentre si propaganda la soluzione politica avvengono decine di arresti nel movimento rivoluzionario!
L’attuale gestione dei rapporti di forza va infatti letta nel quadro più generale dell’evolversi della crisi – in cui già si preannuncia un’ondata recessiva – e delle tensioni internazionali che ne possono conseguire. Fattori, questi, che fanno presagire che in futuro sarà sempre meno possibile qualsiasi negoziazione, con il rischio di un inasprimento delle attuali conflittualità di classe e di una polarizzazione sempre maggiore tra stato e società.
La crisi iniziata nel ’73 era infatti crisi del modo di accumulazione, cioè crisi del fordismo. Fordismo inteso anche come modello di regolazione politico-economico-sociale, a cui corrispondeva lo stato sociale. Modello a cui faceva riscontro una visione di apparente emancipazione evolutiva del proletariato: otto ore di lavoro, aumento di un relativo benessere, servizi sanitari, scuola ed educazione ecc. Ma oggi, con l’imposizione della ristrutturazione, tale modello è andato in crisi lasciando il posto ad una concezione improntata alla flessibilità e all’individualizzazione. Caratteri, questi, che non riescono a fornire una visione promettente e convincente dell’attuale sistema di vita e che stridono fortemente con la passata identità collettiva improntata alla tradizionale solidarietà di classe. La particolarità italiana consiste tra l’altro nel fatto che il patto sociale è avvenuto quando il fordismo era già in piena crisi. Quindi la cooptazione del sindacato e del PCI si è verificata in un momento in cui lo Stato mirava già ad un forte ridimensionamento del peso politico di queste organizzazioni operaie. Questo è accaduto in tempi ravvicinati così che si sono sovrapposte due differenti concezioni, due modi di vita diversi, frutto dell’accavallarsi di contraddizioni vecchie e contraddizioni nuove, sovrapposizione che può avere tutti gli elementi per spingere alla ricerca di una nuova identità sociale. Una ricerca che potrebbe alimentare il rifiuto dell’oppressione e del nuovo tipo di sfruttamento e alienazione che questo sistema impone. E potrebbe anche raggiungere la piena coscienza dell’imposizione ideologica e culturale che si ripercuote sull’intera società e che ha svuotato di ogni significato il concetto di autodeterminazione del destino collettivo e quello di riappropriazione della ricchezza e del sapere.
Da una parte infatti la ridefinizione in senso imperialista della società è il carattere portante delle «democrazie occidentali» che si reggono sulla proprietà privata, sul carrierismo, il managerialismo e sull’individualismo rampante degli yuppies; dall’altra, avendo questo sistema ormai raggiunto l’apice della decadenza e della putrefazione, da questo periodo di transizione potrebbe scaturire la possibilità di una critica radicale alla società capitalistica che si regge sulla violenza di questo modo di produzione e funzionalizza alle leggi e alle esigenze capitaliste ogni struttura sociale. Critica radicale che porta con sé, come necessaria conseguenza, lo sviluppo di una coscienza organizzata per una totale liberazione dei vincoli imposti.
Le condizioni oggettive dunque esistono, sono le condizioni soggettive che stentano a maturare!
Ed è proprio approfittando di questo che lo Stato ha deciso di recidere profondamente – per mano dei suoi ex militanti – la memoria storica delle BR per sancirne definitivamente l’illegittimità e passare all’effettivo consolidamento dei rapporti di forza ottenuti. Si sta preparando infatti anche il riadeguamento istituzionale del nuovo ruolo assunto dallo Stato imperialista italiano all’interno del contesto internazionale. Tra breve giungerà il tempo di dare corpo al progetto della grande riforma: una vera e propria «democrazia» occidentale con un’agile e snella procedura decisionista che faccia velocemente passare le politiche antiproletarie e guerrafondaie che sono d’obbligo per uno Stato che intende pienamente assumersi le strategie di guerra nella direzione dell’imposizione di un nuovo ordine economico mondiale.
E quale migliore presentazione per la «rifondazione» di tale Stato che mandare la sua marina militare nel Golfo Persico?
Un passo avanti in concreto con il vecchio continente che si prepara necessariamente per il 2000, fermamente deciso a salvaguardare la sua ripresa economica, assumendosi un ruolo di punta all’interno del sistema imperialista occidentale.
L’incertezza e l’indecisione di un anno fa, quando gli USA bombardarono Tripoli e Bengasi, hanno lasciato il passo alla necessità, anche per l’Italia, di prendere parte insieme a tutto il «mondo libero» occidentale alla gestione diretta del controllo politico-militare di un’area in cui si giocano interessi vitali per l’imperialismo.
Scavalcato l’ONU – organismo ormai inadeguato alle attuali mire aggressive imperialiste – non poteva che essere ridimensionata anche quella diplomatica politica estera italiana, troppo spesso accusata di essere filo-araba, mediterranea, «terzomondista».
Una politica finora essenziale per l’Italia, ben vista anche dagli USA, in quanto era stata usata per arrivare là dove la Casa Bianca non poteva spingersi senza compromettere con la sua ingerenza il delicato equilibrio tra il sostegno agli immediati interessi di Israele e la formazione di blocchi regionali filo-imperialisti che avevano il compito di scardinare la Lega Araba.
Una politica di mediazione che, per quanto ben disposta alla trattativa, non aveva mai vantato grandi successi nelle ipotesi negoziali di pace: sono più di 40 anni che il popolo palestinese chiede una patria ed ha avuto in cambio solo infami massacri!
E dove erano i nostri abili diplomatici quando – nell’82 – l’imperialismo sionista faceva 25000 morti in Libano? Oggi si dimostra quanto la «nostra volontà di pace» debba passare attraverso la pressione e il ricatto delle armi per arrivare a definire «nuove ipotesi negoziali» che collimino con gli interessi dell’Occidente imperialista!
E su quest’ultimo punto – è ormai fuori dubbio – tutti convergono, lasciando intravedere nel gran polverone sollevato fra falchi e colombe governative, soltanto interessi funzionali alla logica di partito.
E da Taranto e da Augusta la flotta è partita, il maggiore dispiegamento operativo di forze della Marina dalla II Guerra Mondiale.
Nel mentre si sancisce il principio di un coinvolgimento attivo dell’Italia in una situazione bellica, si prende sempre più il largo dai tradizionali confini della NATO, contribuendo a ridisegnare nel Mediterraneo una grande via di comunicazione fra la base di Norfolk, nell’Atlantico e quella di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano. E intanto si modifica l’attuale assetto del Mediterraneo facendo emergere la qualità di pilastro europeo della NATO nell’assumersi in pieno una politica strategica militare che è necessaria al sistema imperialista. Strategia che fu nettamente accelerata e potenziata – dagli USA – dopo la caduta dell’amico Scià e la vittoria della rivoluzione iraniana e che ha dovuto subire un altro veloce e brusco riadeguamento quando, con l’assalto alla caserma dei marines di Beirut, gli americani presero doppiamente coscienza di quanto forte e dilagante fosse la determinazione a combatterli.
Da allora in poi il «terrorismo» venne considerato vera e propria minaccia militare rivolta innanzitutto contro gli USA – depositari dei «valori» delle «democrazie» occidentali – e, come tale, da combattere innanzitutto con la forza della distruzione militare. Da qui, i primi attacchi ai cosiddetti «santuari del terrorismo» e l’indiretto e minaccioso avvertimento a chi non li perseguita in quanto tali. In pratica: dar fiato alla ripresa economica occidentale imponendo ovunque il modello di sviluppo capitalistico con una politica di pressioni e ricatti a quei paesi che non si sottomettono e nel contempo cercare di ridimensionare l’URSS in una regione chiave per gli interessi imperialistici.
O meglio, per dirla con le parole di Reagan: «recuperare l’Iran – ad ogni costo – al campo occidentale» con il dispiegamento militare di ben 90 unità navali! E con il rischio – concreto – di innescare un’escalation le cui dinamiche incontrollabili potrebbero essere risolte in termini di rapporti di forza a livello mondiale. Ma sono dinamiche, queste, che sembrano non interessare i nostri politici: celebrato in fretta e furia l’ultimo anniversario della morte di Filippo Montesi – mandato a morire in Libano – hanno subito arruolato nuovi giovani eroi con cui tenere alte le bandiere del nostro mondo occidentale.
Mille dollari al mese possono forse rimediare al 70% del malcontento fra i marinai, ma come spiegare – a livello pubblico – questo irrazionale scontro fra le grandi potenze tecnologiche marittime occidentali e i barchini urlanti di «fanatici infedeli»?
Interrogativo questo, a cui nessuno – volendo cercare nella direzione giusta – sembra trovare una ragionevole risposta: non certo la DC, che schiacciata fra due poli, sembra obbedire a una volontà superiore. Non certo il PSI che, dall’alto del suo neo-nazionalismo-laico, allude chiaramente ad una politica militare europea, del resto… è in perfetta linea con Sigonella: le navi italiane nel Golfo… sono lì per controllare le due super-potenze!
E in quanto al PCI, sembra un po’ confuso dall’incorreggibile enfasi ecclesiastica che gli ha rubato le piazze riempiendo le sagrestie. Cavour e la Crimea, nazionalismo garibaldino e insane nostalgie tripoline; anche l’interventista stampa borghese – goffamente intrappolata fra una mina Valsella e un elmetto Zanone – non sa più cosa tirar fuori ad agguerrita difesa di un sistema bianco, ricco, capitalista e violento!
Tutta la «nuova Italia» irrefrenabilmente invasata da una folle sindrome occidentale sputa un razzismo così astioso e uno sciovinismo così viscerale che sembra davvero aver paura di quella forza – la Rivoluzione iraniana – per niente affievolita in 7 anni di guerra e il cui rischio più immediato non sta nell’alta tecnologia militare bensì nel dilagante contagio che può sprigionare. Spinta propulsiva che potrebbe trascinare popoli interi, rischiosa – per gli occidentali – perché dall’interno di una lontana ideologia – non etichettabile né comprensibile secondo i canoni della nostra «civiltà» – fa esplodere quei caratteri rivoluzionari che immediatamente si trasformano in una rivolta contro l’Occidente e il suo sistema di aggressione e di dominio.
Rivolta verso la quale il segno di un benché minimo cedimento da parte occidentale può diventare una vittoria che può dar fuoco a tutta la regione, nella speranza di una possibile e totale liberazione dall’ipoteca imposta da un sistema incivile, basato sullo sfruttamento, sulla violenza e sull’espropriazione di ogni carattere di cultura e civiltà tradizionali.
Una lotta, che se dovesse risultare vincente, ribalterebbe i cardini di una ripresa dell’economia occidentale, facendo paurosamente barcollare quei rapporti di forza che l’imperialismo si è faticosamente consolidato in quest’ultimo decennio. Una vittoria che si rifletterebbe immediatamente sul proletariato – e sulle forze rivoluzionarie – dei paesi del centro europeo accelerando l’esplosione delle contraddizioni di classe e rivitalizzando la speranza di una possibile liberazione proletaria. Una vittoria che l’imperialismo occidentale non intende certo permettere e i cui tentativi indomiti devono essere prontamente ridimensionati tramite questo dispiegamento delle forze navali militari nel Golfo Persico e attraverso l’attivo e ormai dichiaratamente aggressivo ruolo delle potenze europee a fianco degli USA.
E i soluzionisti, nel loro individualismo opportunista, ci vorrebbero far credere che lo Stato italiano si è trasformato e, in un naturale adattamento evolutivo «riformista», ha risolto ogni contraddizione in maniera signorilmente illuminata! Sì, lo Stato italiano si è trasformato – in quest’ultimo decennio – ma in senso attivamente imperialista! Ma senz’altro non se ne possono opportunisticamente accorgere coloro che – in cambio della loro liberazione dalla patrie galere – si offrono alla Stato come nuova classe politica che sostituisca l’ormai screditata sinistra socialdemocratica.
È vero che la lotta armata ha visto la sua nascita e il suo sviluppo in condizioni molto diverse, ma oggi che – a differenza di due decenni fa – siamo saliti di grado nella gerarchia imperialista, il nostro compito è proprio quello di ricollocare la strategia della lotta armata all’interno delle condizioni oggettive e soggettive che in questo momento stanno maturando. Questo significa anche saper dare il giusto peso a quelle tensioni che, vivendo ancora nella loro potenzialità, travalicano i classici confini tra capitale e lavoro – così come venivano intesi negli anni ’70 – e si manifestano con larghi gruppi interclassisti, a grossa componente proletaria, le cui richieste mettono definitivamente in discussione le scelte che la borghesia imperialista deve mettere in atto per sostenere il suo assetto.
Tensioni che esprimono contenuti che si oppongono alla guerra imperialista, al riarmo, al nucleare, alla politica di riadeguamento sociale, per una nuova e diversa qualità della vita. Contro l’urbanizzazione selvaggia per la ricerca di nuovi spazi sociali, contro un confuso senso di alienazione capitalista per un’identificazione collettiva che sconfigga l’«individualismo di massa», contro le potenze militari nel Golfo Persico a fianco degli USA, per un più significativo e reale internazionalismo proletario. Sul proletariato e sulle avanguardie europee pesa l’impegno rispetto a quale esistenza si vogliono far portatori nei confronti dei restanti tre quarti del mondo: scelta che non può avvenire se non nella ricerca di una nuova identità rivoluzionaria organizzata.
Al di là di questo esiste solo la realtà già vissuta per oltre due secoli: essere il braccio aggressore verso altri proletari e carne da cannone nella difesa della «pace» della borghesia imperialista! Il movimento «per la pace» ha già verificato la sua impotenza ad incidere concretamente nelle scelte riarmiste: non solo la vendita di armi è uno dei più grossi affari su cui si regge la borghesia imperialista ma i progetti Eureka e SDI sono in piena fase operativa.
L’irrompere della guerriglia europea in questo quadro ha impresso una nuova svolta ad una situazione che sembrava destinata ad esaurirsi e ad un movimento che sembrava potesse essere condizionato alle esigenze dei partiti socialdemocratici: orientando correttamente l’asse strategico dell’intervento rivoluzionario non verso la «lotta per la pace» ma contro la guerra imperialista, contro l’aggressività del blocco occidentale e i suoi effettivi preparativi bellici! È da questi contenuti e dalla loro possibilità di aggregazione intorno ad una lotta che sia critica radicale alla società capitalista, che ci sembra possibile uno sviluppo ed una crescita di un’identità rivoluzionaria che sia in grado di forgiare il suo futuro.
Sono queste, ci sembra, le più grosse diversità con gli anni ’70, diversità che non possono essere appiattite solo perché non vivono ancora caratteri dirompenti, né liquidate in nome di una presunta e presuntuosa mancanza di ricezione della nostra «memoria storica» che dovremmo far acquisire noi, una volta fuori di galera…
La nostra memoria storica non è fossilizzabile nelle condizioni oggettive e soggettive degli anni ’70, ma passa attraverso la presa di coscienza di una rottura radicale con lo Stato: la guerriglia. Il nostro patrimonio storico, per essere acquisito, deve maturare all’interno di lotte diverse che diventano un’unica lotta grazie al loro fine comune. Lotte che possono e devono essere organizzate politicamente e ricollegate a quelle che si esprimono negli altri paesi del centro europeo.
La riproponibilità delle linee fondamentali della nostra esperienza passa attraverso la ricostruzione di un processo rivoluzionario che nel quadro di un reale internazionalismo proletario diventi pratica unificante e concreta e combatta in un fronte antimperialista contro il nemico comune del proletariato del centro e della periferia: l’imperialismo occidentale!
Diversamente, pensare di rinchiudere e di isolare la lotta di classe all’interno dei confini nazionali, significa non capire – tanto più in un clima di tendenza alla guerra – che un’identità nazionale nella metropoli è possibile solo in quanto sciovinista, bianca, razzista. È possibile solo in quanto identificazione con l’imperialismo! La caratteristica della guerriglia nella metropoli è stata proprio quella di connotarsi fin da subito come scontro diretto tra forze rivoluzionarie e Stato.
E non è possibile – oggi – affrontare la questione dello Stato senza affrontare – nella pratica! – i livelli di integrazione politica, economica e militare sovranazionali e le istituzioni in cui si sedimentano. Quegli organismi cioè in cui vengono decise e coordinate le politiche economiche antiproletarie, le strategie controrivoluzionarie e gli apparati politico-militari di guerra che hanno la loro massima sintesi nella NATO!
Tanto meno oggi, con l’arrogante ed aggressiva esibizione intimidatoria delle potenze navali europee a fianco degli USA nel Golfo Persico.
Ed è questa la dimostrazione tangibile di come qualsiasi conflitto di interessi – in materia monetaria, economica o in politica estera – venga direttamente superato, al livello militare più alto, quando sono in gioco interessi ben più grossi, vitali per la sopravvivenza e la riproduzione stessa del sistema imperialista. Condizione, questa, che pone sotto ben diversa luce la possibilità di staccare un anello dalla catena imperialista, per quanto «debole» esso sia e per quanto il massimo di condizioni oggettive si coniughi con il massimo di capacità soggettive dei combattenti comunisti che dirigono un forte scontro di classe.
Data la forte integrazione e interdipendenza politica, economica e militare, pare infatti inverosimile che possa essere tollerata qualsiasi tendenza centrifuga dal sistema di interessi e di divisione internazionale del lavoro dettato dall’imperialismo senza che essa venga contrastata o recuperata con ogni possibile pressione politica o con la forza militare. È chiaro quindi che – secondo noi – affrontare correttamente e concretamente i nodi di fondo di una strategia politico-militare che possa risultare vincente nel nostro paese, significa affrontare correttamente e concretamente la crescita e lo sviluppo di un fronte antimperialista. Fronte antimperialista inteso non come momento tattico o mera affermazione di solidarietà del tutto ideologica, ma come condizione strategica, unica prospettiva di vittoria contro il nemico comune: l’imperialismo occidentale.
Solo così le forze rivoluzionarie e il proletariato nelle metropoli – pur nella specificità di ciascun paese e nel rispetto delle caratteristiche peculiari di ciascun processo rivoluzionario – possono portare avanti la loro lotta.
Solo così si può arrivare ad un definitivo ribaltamento dei rapporti di forza a favore del proletariato per una radicale trasformazione della società.
L’Europa infatti in quanto centro imperialista, non solo concentra le contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico che oppongono il proletariato alla borghesia, lo Stato alla società, ma è un punto nodale in cui si intersecano le linee di demarcazione Nord/Sud – Est/Ovest.
È da qui che deve venire la forza politica, economica e militare per risolvere i conflitti interni ed esercitare pressioni, ricatti e aggressioni contro quei paesi che non si sottomettono al modello di sviluppo capitalistico. Dipende quindi in modo decisivo dalle forze rivoluzionarie dell’ Europa Occidentale, da un’effettiva guerra di lunga durata nel nostro paese, se l’imperialismo non potrà trovare un entroterra pacificato da cui far partire i suoi progetti di guerra e di rapina, i suoi attacchi alle condizioni di esistenza, di lavoro, di vita, contro tutto il proletariato.
Con questo si deve misurare la ripresa della guerriglia nel nostro paese!
Con questo si deve misurare ogni comunista, ogni sincero rivoluzionario che intenda contribuire ad una radicale trasformazione della società.
Laura Braghetti, Fernanda Ferrari, Caterina Francioli, Inge Kitzler, Patrizia Sotgiu
Carcere di Voghera, settembre 1987