La lotta di Melfi – Bozza di volantino

La lotta di Melfi ha riportato in superficie la condizione da “dannati del sottosuolo sociale” di buona parte della classe operaia. Melfi è il simbolo delle nuove fabbriche, frutto della frantumazione e dislocazione delle storiche concentrazioni industriali (la sua apertura coincise con la chiusura della Lancia di Chivasso), della nuova disposizione del ciclo produttivo su un territorio “totale” (dalle regioni meno industrializzate d’Italia ai continenti della nuova mondializzazione), simbolo della riduzione della grande fabbrica a segmento di montaggio finale con corrispettivo decentramento di crescenti parti della produzione componentistica. La stessa componentistica ha seguito questo movimento di frantumazione-dislocazione, con un’accelerata cadenza di rinnovamento e mobilità degli stabilimenti.

L’apertura delle nuove fabbriche ha sempre significato livelli intensificati di sfruttamento. Un’organizzazione del lavoro imperniata su macchinari e robotizzazione che incorporano cadenze altissime (ricordiamo che mentre nel gruppo FIAT la media del parametro-base della produttività si situava intorno alle 30 vetture all’anno per dipendente, Melfi apriva a partire da 60 e oggi ne è a 95!), la predisposizione di un terreno di sfruttamento ideale con la cogestione sindacale delle nuove “gabbie salariali” e di condizioni di lavoro e flessibilità pesanti, l’utilizzazione degli strumenti messi a disposizione dalle leggi anti-operaie degli anni ’90 (fino alla famigerata ultima legge del “compianto” Biagi) o dei classici strumenti del clientelismo; l’insieme di questi strumenti hanno caratterizzato l’apertura di fabbriche alla “giapponese”. È il loro sogno: fabbriche a ritmi infernali, lavoratori silenziosi e gettabili, partecipi all’ideologia d’impresa e alla guerra di concorrenza.

Così l’esplosione imprevista di questo bagno penale dello sfruttamento capitalistico – Melfi -, la trasformazione repentina di tanti operai “silenziosi e sottomessi” in lottatori determinati e uniti ha mandato in frantumi tante chiacchiere borghesi, tante falsità mediatiche, tante strategie di pacificazione concentrata.

Questa lotta ha fatto venire in superficie la drammatica realtà del sottosuolo sociale, della persistenza del rapporto di sfruttamento (particolarmente della classe operaia) come del pilastro su cui regge tutto l’edificio capitalistico. Cioè se è vero che la struttura economico/sociale si è complessificata, ricollocandosi differentemente sul territorio internazionale e se è certo che qui, nei paesi del centro imperialista, sono cresciuti settori terziari, anch’essi sfruttati ma meno brutalmente, ciò non toglie che le nuove e vecchie concentrazioni industriali restano il perno del sistema di sfruttamento su cui si rovescia tutta la brutalità del rapporto di oppressione capitalistica.

Questa lotta ha messo in evidenza non solo le chiacchiere borghesi sulla fine della classe operaia ma pure i limiti di ogni sistema di oppressione. Dov’è finito il bel giocattolo della produzione “a flusso teso”, “just in time”?! Ma come, gli scioperi non dovevano essere superati da questo bel sistema tecnologico, così preciso e così “pulito”?!

La lotta di Melfi ha rotto questo bel giocattolo. La fermata decisa di uno stabilimento ha scompaginato quasi tutto il ciclo produttivo del gruppo FIAT. Così come lo sciopero dei ferrotranvieri ha scompaginato il decorso del ciclo economico della metropoli.

Ecco la grande potenzialità della classe operaia!

Proprio per questo, ogni volta che si determina un tale momento di unità e determinazione operaia, assistiamo allo schieramento delle diverse forze politiche e istituzionali, allo svelarsi della loro vera natura di funzionari del capitale. In particolare si è ben visto da che parte stanno le direzioni sindacali. Si è ben visto come la loro più grande preoccupazione fosse la ripresa del lavoro, il ristabilimento dell’ordine dello sfruttamento, con quale compartecipazione alle ansie padronali abbiano vissuto lo scontro.

Storia arciconosciuta, le direzioni sindacali sono parte integrante della catena di dominio dello Stato borghese, loro funzione principale essendo quella di ingabbiare, recuperare, devitalizzare le spinte operai alla lotta e all’autonomia di classe. Ma non è storia conosciuta da tutti ed è con l’esperienza vissuta nelle lotte che nuovi strati proletari vi accedono.

Percorso di conoscenza e di coscienza che si pone ancor più all’interno dell’attuale tessuto di classe attraversato profondamente dai tanti processi di ristrutturazione che hanno portato alla riduzione e/o rilocalizzazione dei grandi stabilimenti, all’emergere di un fitto tessuto di piccola impresa, alla diffusione di precarietà e fragilità normativa.

Abbiamo il problema di come organizzare le diverse realtà del lavoro precario di trovare percorsi di ricomposizione che permettano di nuovo di stravolgere il territorio dello sfruttamento in luoghi di lotta, vita, organizzazione. Andando a toccare l’insieme delle condizioni di vita e di lavoro sempre più compresse dal ritmo globale di una macchina capitalistica tirannica.

Per esempio, quante malattie professionali, quanti cancri causati da questi livelli di sfruttamento selvaggio? Quante esistenze rovinate, quante vite distrutte? Quanti incidenti e morti sono causati direttamente dal taglio ai costi di manutenzione e sicurezza? Quanti dall’eccessiva mobilità e pressione sui ritmi, con conseguente esposizione a rischi non conosciuti? A cosa si riduce la vita proletaria con il prolungamento degli anni lavorativi e la demolizione delle strutture sociali?

Le lotte come quelle di Melfi e dei ferrotranvieri toccano alcune di queste questioni e arrivano a sconvolgere un vasto ciclo produttivo, l’area metropolitana, a dare voce a una rabbia diffusa e sotterranea. Senza essere ancora forme di avanguardia di massa, possono aiutare altri strati proletari a emergere, lottare, unirsi, trovare i modi e le possibilità per ribellarsi. E questo soprattutto nel tessuto del precariato e della fabbrica diffusa. Ma è evidente che ciò non basta.

Non basta perché Stato e Capitale hanno portato lo scontro ad un livello più alto, dove i margini di mediazione sono strettissimi e dove le armi classiche di pressione e ricatto sconfinano in tendenza alla militarizzazione dei rapporti sociali. Non si può non tenere in conto tutta l’involuzione sociale-istituzionale del dopo-11 settembre… stravolgimento dello “stato di diritto”, sospensione di garanzie storiche giuridiche (arresto arbitrario, senza mandato – segregazione in carceri speciali – tribunali militari, ecc…), leggi speciali che estendono la connotazione terrorista a fasce intere di “delitti sociali”, mirando esplicitamente a criminalizzare i movimenti di classe…

Questi aspetti costitutivi del nuovo contesto sociale innervano profondamente la realtà del mondo del lavoro, del proletariato. Repressione delle manifestazioni di autonomia di classe e organizzazione neo-corporativa sono il tentativo borghese di impedire la tendenza rivoluzionaria, deviando nello stesso tempo la crescente rivoluta di massa verso il sostegno alle imprese imperialiste nel mondo. La repressione acquista sempre più i caratteri di un’autentica “guerra del fronte interno”, versante interno dello stato di guerra “indefinita”, decretata all’esterno.

Ecco un fatto secondo noi determinante: ogni dinamica di lotta e organizzazione di classe deve saper affrontare questa connessione “guerra interna guerra esterna dell’imperialismo”, della guerra come forma attuale della società capitalista, della guerra come prolungamento dello sfruttamento, come “continuazione dello sfruttamento con altri mezzi”.

Il tutto fondato alla radice del sistema stesso, nella storica e ineluttabile crisi generale da sovraproduzione di capitale, alla quale non esiste altra soluzione che la guerra inter-imperialista come distruzione in grande scala, regolamento di conti tra concorrenti e, in seguito, rilancio di un nuovo ciclo sulla base di una nuova spartizione del mondo.

Loro vorrebbero intrupparci nello spirito di concorrenza e conquista dei mercati (mobilitazione reazionarie attraverso i movimenti identitari, razzisti, sciovinisti), fino alla guerra come sua logica conseguenza.

A questo noi abbiamo una sola risposta: PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITI!!

Dall’alto di un armamento che non ha eguali nella storia, gli imperialisti predicano “pacifismo e buoni sentimenti” per impedire agli oppressi del mondo l’unico sbocco necessario:

ARMARSI IDEOLOGICAMENTE, POLITICAMENTE, MILITARMENTE, PER LA RIVOLUZIONE!

UNIRSI ALLA RESISTENZA – SVILUPPARE L’AUTONOMIA DI CLASSE!

GUERRA ALL’IMPERIALISMO!

COSTITUIRE IL PARTITO!

 

Per il Partito Comunista Politico-Militare

 

Autunno 2004

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