Stiamo assistendo da qualche tempo al rumoroso manifestarsi di iniziative e prese di posizione di vario genere ancora una volta centrate sul carcere e sulle aree di comunisti prigionieri.
Il fatto che questo frenetico agitarsi di partiti e mass-media abbia come epicentro il carcere di Rebibbia e il processo «Moro-ter» non è certo un caso: quale migliore occasione della chiusura della stagione dei processi alle Brigate Rosse per portare a fondo l’attacco all’esperienza rivoluzionaria e guerrigliera italiana?
Lo scopo di questa iniziativa è molto chiaro: chiudere definitivamente il ciclo di scontro rivoluzionario sviluppatosi dagli anni ’70 ad oggi, porre fine alla lotta armata come prospettiva rivoluzionaria e di liberazione del proletariato metropolitano.
La necessità di intervenire nel merito di questa questione nasce soprattutto dai contenuti che si cercano di affermare, rispetto ai quali ogni rivoluzionario non può evitare di esprimersi, anche a fronte dell’intreccio di prese di posizione che provengono dalle forze e soggetti più disparati.
Come prigionieri in particolare, e perciò toccati direttamente da questo problema, riteniamo che nessuno oggi possa arrogarsi il diritto di parlare a nome di «tutti i prigionieri» e in nome di un’esperienza rivoluzionaria che appartiene a tutto il proletariato.
In questo intervento, quindi, vogliamo esprimere il nostro punto di vista rivolgendoci al movimento rivoluzionario e alle situazioni di classe.
Non siamo ancora di fronte ad un progetto politico preciso e definito, ma l’obiettivo di «pacificazione sociale» e di «soluzione politica del problema della lotta armata» ha già dei riferimenti molto solidi e un arco di forze politiche istituzionali ben determinate a realizzarlo.
Il dato che abbiamo davanti è il carattere marcatamente politico della questione e il suo svilupparsi dentro la complessità dello scontro di classe in questa fase.
Il progetto che si sta delineando infatti non è circoscritto e limitato alla ennesima operazione di svendita del patrimonio della guerriglia e «al rientro nella società» di qualche gruppo di prigionieri, ma è più ambizioso e di ben più vasta portata.
La borghesia oggi si propone di «ricomporre e sanare la frattura fra stato e movimento di classe» determinatasi negli ultimi vent’anni: questa operazione passa per la liquidazione della lotta armata e della prospettiva rivoluzionaria che le OCC hanno affermato anche contro il riformismo, il revisionismo e il pacifismo, che ingabbiavano la lotta di classe in Italia togliendole respiro strategico.
In questo modo, la borghesia tenta di delegittimare la prospettiva rivoluzionaria aperta dalle forze guerrigliere come possibilità e necessità di distruzione e trasformazione dei rapporti sociali esistenti, ricacciando indietro il movimento di classe, distruggendone le conquiste e il sapere accumulato in tanti anni di lotta, con il fine di ricondurre in un quadro compatibile e «democratico» lo scontro di classe.
Non a caso questa strategia viene a concretizzarsi in una fase molto delicata ed importante per il movimento rivoluzionario, in cui pur perdurando uno stato di grossa debolezza, cominciano a manifestarsi nuovi segnali di ripresa dell’antagonismo di classe e dell’iniziativa guerrigliera.
La posta in gioco è estremamente alta e trova già una convergenza di interessi in un vasto arco di forze politiche istituzionali, Democrazia Cristiana in testa.
È questo partito che si è incaricato più di ogni altro di preparare il terreno politico necessario: dai sondaggi informali nei confronti dei prigionieri alla anticipazione, altrettanto informale, di proposte di soluzione politica selettivamente indirizzate e molto indicative, fino alle dichiarazioni di disponibilità della DC per bocca dello stesso De Mita «di fronte al fatto che le BR vogliono ridiscutere il loro passato». A cui corrisponde, per quanto riguarda il PSI, l’affermazione di Formica sul fatto che «la prossima legislatura dovrà affrontare la questione dei detenuti politici».
Ovviamente nel quadro delle forze borghesi non mancano le contraddizioni, e tutta la fumosa battaglia sulla «fermezza» o «trattativa» che i mass-media amplificano a dismisura è un segnale di quanto la questione della lotta armata sia una contraddizione cruciale dello scontro di classe in Italia.
In un progetto di pacificazione sociale per gli anni ’80-’90, per la DC e le altre forze politiche può trovare un senso preciso e concreto una qualche forma di soluzione politica e di riciclaggio sociale nei confronti di chi ha partecipato ad un «ciclo di lotta ormai chiuso» – come piace dire alla borghesia – ma che ha profondamente segnato la società italiana.
Nell’iniziativa a largo raggio che la DC sta portando avanti per riconquistarsi un peso e una centralità che erano stati messi in discussione in questi anni, e che è essenziale per riproporsi ed affermarsi come forza politica capace di «rifondare lo stato» su basi più solide e su più moderne coordinate «democratiche», rientra a pieno titolo anche la capacità di questo partito di presentarsi come interlocutore valido capace di chiudere politicamente con la lotta armata in Italia.
Questa capacità e forza di «chiudere i conti» con il passato, nel tentativo di riportare il conflitto di classe dentro i binari compatibili del «gioco democratico», può diventare un grosso elemento di rafforzamento politico di questo partito, come degli altri che in questa fase sono impegnati nel processo di rifondazione del sistema di potere della borghesia.
Da un punto di vista più generale, la pacificazione sociale è un elemento importantissimo per assicurare alla borghesia imperialista e ai capitali multinazionali dominanti quello spazio e clima sociale necessari per portare avanti i processi di ristrutturazione produttiva e di ridefinizione dell’assetto sociale iniziati negli ultimi anni.
Il carattere antiproletario e sempre più aggressivo dei processi di ristrutturazione e guerra imperialista richiede una classe e un movimento sempre più annichiliti e ingabbiati negli spazi della «società civile».
Per questo la borghesia, di fronte alle contraddizioni aperte dalla crisi capitalistica, si propone di rompere la continuità strategica tra l’esperienza rivoluzionaria degli anni ’70 e quella attuale.
La massiccia campagna di guerra psicologica lanciata dallo stato dopo le ultime azioni della guerriglia italiana e l’improvvisa accelerazione del dibattito pubblico sulla soluzione politica si inscrivono in questo quadro, e hanno come obiettivo dichiarato: quello di destituire di legittimità storica e svuotare di progettualità rivoluzionaria la ripresa del movimento di classe e della guerriglia.
È a fronte della crisi della guerriglia e del movimento rivoluzionario, in una situazione molto instabile, che questo progetto controrivoluzionario comincia a prendere corpo tentando di penetrare nel tessuto di classe, acutizzandone e accelerandone le contraddizioni.
La condizione di partenza è la possibilità di portare l’attacco «dall’interno della classe», servendosi e dando spazio a chi nell’abbandonare il campo rivoluzionario si fa portatore di queste linee di resa e pacificazione sociale dentro il movimento proletario.
L’offensiva che lo stato ha portato avanti dall’80 in poi contro la guerriglia non si è fermata allo scompaginamento militare delle Organizzazioni Comuniste Combattenti e delle avanguardie di classe attraverso il «progetto pentiti». Essa è continuata e si è sviluppata nel «progetto di dissociazione» mirato ad insinuare, in vaste aree del movimento antagonista e rivoluzionario, contenuti di resa e pacificazione, cercando di mettere in discussione i presupposti soggettivi della coscienza rivoluzionaria in una situazione di debolezza e disgregazione.
Oggi questo progetto si misura con la diversità e specificità della congiuntura che stiamo attraversando.
Per tutta una prima fase, la borghesia ha finalizzato il suo attacco all’indebolimento di una prospettiva radicata e capace di porsi come punto di riferimento della classe.
Oggi cerca di conseguire una «vittoria strategica» cancellando la possibilità stessa della rivoluzione con l’attacco alla soggettività rivoluzionaria esistente e all’antagonismo di classe nel suo complesso.
Il perdurare della debolezza e contraddittorietà nel movimento di classe favorisce le condizioni per ridefinire la strategia controrivoluzionaria. L’attacco non è più delegato esclusivamente ai soli apparati giudiziari, magistratura, carcere, ecc., ma è assunto in prima persona dalle forze politiche istituzionali che lo sviluppano verso tutte le articolazioni dello scontro, all’insegna della «riconciliazione» tra stato e movimento di classe.
Anche nella congiuntura attuale il punto di partenza di questa iniziativa continua dello stato è il carcere, in particolare l’area dei prigionieri della lotta armata, in quanto settore oggi più attaccabile dalla borghesia per sviluppare il suo progetto.
Su queste basi, le forze politiche, DC in testa, stanno cercando di trovare tra i prigionieri interlocutori convinti dell’impossibilità attuale della lotta armata, disponibili a dialettizzarsi con questo progetto e a veicolare nel movimento precisi segnali di dissoluzione e di pacificazione.
Proprio per questo, il via vai di politici, giornalisti e gente varia dentro il carcere di Rebibbia e intorno al processo «Moro-ter» si è fatto più intenso, è diventato di dominio pubblico e il «dibattito» ha cominciato ad occupare massicciamente le pagine dei giornali.
C’è una tesi di fondo che si cerca di introdurre, negli ultimi mesi, nel dibattito del movimento e che molto più concretamente è «d’interesse» per la borghesia.
Lo scontro sociale apertosi negli anni ’70 sarebbe «storicamente esaurito» e, di conseguenza, «sarebbero esauriti» – cioè relegati ad un passato irripetibile e fuori dalla storia oggi – «gli specifici progetti di organizzazione rivoluzionaria che lo avevano attraversato».
Per questo si tratta di rendere possibile «la conclusione di questo complesso fenomeno storico-sociale creando gli strumenti culturali e politici per un oltrepassamento».
Secondo i sostenitori di questa tesi bisogna anche costruire le condizioni (!) della liberazione di tutti i soggetti che hanno partecipato alle lotte e alla guerriglia degli ultimi vent’anni. Liberazione dal carcere, dall’esilio, dalla latitanza…
La «fine di un ciclo» potrebbe diventare possibile superamento reale di quel ciclo solo con la soluzione di questa contraddizione specifica ancora aperta. Secondo questa tesi, anche la sinistra di classe e il movimento rivoluzionario dovrebbero farsi carico responsabilmente di questo problema e «conto in sospeso»!
Noi pensiamo che la questione della «liberazione dei prigionieri della lotta armata», così come viene proposta al movimento di classe in abbinamento al tema della pacificazione sociale assuma un carattere chiaramente strumentale e finalizzato a far acquistare maggior peso e legittimità ai sostenitori della soluzione politica nella trattativa con lo stato.
Da sempre questo è stato un terreno di mobilitazione del movimento, ma nel quadro di debolezza e disgregazione di questi anni, hanno spesso avuto buon gioco proposte e tendenze che ponevano la liberazione dei prigionieri in termini di capitolazione e svuotamento dell’identità rivoluzionaria (dalla proposta Scalzone ai fautori delle varie amnistie).
In un campo così inquinato da iniziative resaiole e di svendita, è quindi tutto da ricostruire un affrontamento rivoluzionario del nodo politico della liberazione e della lotta al carcere imperialista, e non si può certamente pensare di porlo a partire da una qualsiasi forma di trattativa con forze politiche «interessate», DC in testa.
Anzi, questo tipo di impostazione non fa che favorire l’azione della borghesia tendente a «criminalizzare» chiunque si pone fuori da un’ottica di pacificazione, tanto all’interno del movimento rivoluzionario che dentro il carcere.
Ci sembra importante ribadire con chiarezza alcune cose sulla questione della «liberazione dei prigionieri» e sui «termini» con cui oggi viene proposta al movimento di classe.
Per noi la liberazione dei prigionieri, come la lotta al carcere imperialista, è sicuramente un terreno irrinunciabile di iniziativa per tutto il movimento rivoluzionario e la guerriglia. Come tale pensiamo che non debba essere mai abbandonato e che vada costantemente praticato dentro la realtà e la complessità dello scontro e dentro lo sviluppo dell’iniziativa rivoluzionaria. Esso si lega direttamente all’affermazione nel movimento rivoluzionario di un punto di vista di lotta al carcere imperialista e alla ricostruzione, dentro le galere, di un tessuto di rapporti di solidarietà e di un confronto tra le diverse componenti rivoluzionarie e proletarie prigioniere, che si ponga lo scopo di un affrontamento di questo terreno nelle nuove condizioni dello scontro di classe.
Trasformare invece la liberazione dei prigionieri fin da subito in un obiettivo principale e «separato» dalla crescita del movimento rivoluzionario può significare soltanto o la sua assunzione ideologica astratta o, peggio ancora, la sua adozione in termini di svendita o trattativa con lo stato in contropartita alla pacificazione sociale.
Tutto questo potrebbe diventare un pericoloso «cul de sac» in cui il movimento di classe finirebbe per imbrigliarsi nel momento in cui cominciano a vivere inequivocabili segnali di ripresa dell’antagonismo e dell’iniziativa rivoluzionaria.
Per ogni comunista liberazione e rivoluzione sono poli inscindibili di una stessa dialettica di trasformazione sociale!
Ci sembra comunque – è importante ribadirlo – che il problema principale, davanti al dispiegarsi del progetto di soluzione politica dello stato, e all’attivarsi a suo sostegno di precise tendenze riformiste dentro e fuori dal carcere, sia quello di portare la critica rivoluzionaria sul terreno politico concreto in cui si colloca.
Non può bastare tirarsi fuori da esso, né la critica può essere portata in termini puramente ideologici.
Di fronte ad un progetto di questa portata e peso politico – destinato a dispiegarsi sul lungo periodo e mirato a riconquistare il monopolio dell’uso della violenza alla borghesia e al suo stato – è indilazionabile per le forze rivoluzionarie cominciare ad affrontarlo in modo adeguato per battere quei contenuti di «lealizzazione del conflitto sociale» che da qualche tempo si stanno manifestando nel movimento rivoluzionario.
Uno di questi contenuti è certamente il disfattismo. Prendendo a prestito le analisi borghesi e riformiste sulla scomparsa delle figure e delle contraddizioni che hanno generato lo scontro degli anni ’70, si vogliono confondere le acque, trasformando la necessità per le forze rivoluzionarie di riqualificare la loro progettualità nello scontro attuale in liquidazione della lotta armata e della prospettiva rivoluzionaria in generale.
Non è la prima volta che in questi ultimi 5-6 anni sentiamo ex rivoluzionari e neoriformisti affermare contenuti simili. Il tema è sempre lo stesso: rinunciare alla lotta armata, alla reale opposizione rivoluzionaria e accettare le regole del «gioco democratico» distruggendo l’idea dell’organizzazione autonoma del proletariato nello scontro di classe.
Da sempre uno dei più importanti fattori di rafforzamento del sistema di potere borghese risiede nella capacità di assorbire le contraddizioni del conflitto sociale, di ridurre l’antagonismo di classe a una variante del sistema borghese, svuotando del carattere rivoluzionario i suoi protagonisti e le sue espressioni organizzate. Essi verrebbero reimmessi nella cosiddetta «dialettica democratica» per valorizzarne il contenuto, perché anch’essi avrebbero contribuito a far avanzare l’attuale «società democratica»!
Questa manovra è micidiale per il movimento di classe, perché non è altro che un’indiretta apologia del capitalismo, della sua possibilità di «superare la crisi» e dell’impossibilità di abbatterlo: è un invito ai proletari a ritagliare la propria esistenza negli spazi che la cosiddetta «società postindustriale» concede.
È importante oggi affermare il senso dei contenuti di rottura, di trasformazione sociale e di potere di un ciclo di lotte che hanno realmente spostato in avanti la prospettiva rivoluzionaria in questo paese e, contemporaneamente, lavorare per contribuire a ricostruire e rilanciare l’iniziativa di classe dentro la complessità dello scontro attuale.
Le idee forza, la scienza rivoluzionaria che il proletariato nel suo insieme ha costruito in vent’anni di lotte, sono un patrimonio di classe che non va disperso e che può essere valorizzato solo rifondendolo nella progettualità e pratica rivoluzionaria che oggi emerge nello scontro di classe e nella crescita reale del movimento di lotta.
In questo senso, si può parlare di memoria rivoluzionaria riappropriandoci dell’insieme delle esperienze della lotta armata di questi anni.
Le Brigate Rosse, e la guerriglia italiana in generale, sono nate a ridosso dei grandi movimenti di massa che a livello internazionale hanno rilanciato l’offensiva contro l’imperialismo e hanno posto in essere una radicale critica rivoluzionaria al rapporto sociale capitalistico nella sua globalità. Fin da subito hanno teso ad affermare per linee interne al proletariato metropolitano i contenuti della rivoluzione proletaria attraverso la lotta armata per il comunismo. E col tempo sono riuscite ad affermarsi nella pratica come un punto di riferimento essenziale dell’intero movimento di classe e rivoluzionario.
Questa legittimità storica e sociale dell’uso della violenza proletaria per la distruzione del capitalismo e la trasformazione rivoluzionaria della formazione economico-sociale, in questa fase di debolezza del movimento di classe, viene attaccata direttamente dalla borghesia per essere definitivamente cancellata.
Così può essere spezzata la continuità di prospettiva strategica con un’esperienza rivoluzionaria che, al di là delle contraddizioni e sconfitte subìte, è riuscita a porre al centro della lotta del proletariato la questione del potere e lo sviluppo della rivoluzione nella metropoli imperialista.
Sotto questa luce, è palese e grossolana la falsificazione della memoria delle Brigate Rosse operata da chi in interventi pubblici tende ad accreditare una chiave di lettura distorta e riduttiva dell’esperienza della lotta armata, come risposta e reazione proletaria alle trame eversive e golpiste della borghesia per tutto un periodo storico. Da cui discende, ovviamente, che in presenza di una «democrazia consolidata» come quella attuale… l’uso della violenza proletaria sarebbe destituito di qualsiasi legittimità e senso!
Dopo l’offensiva dello stato contro le Organizzazioni Comuniste Combattenti nell’82, il riferimento strategico della sinistra rivoluzionaria di classe costituito dalle Brigate Rosse e dalla guerriglia in generale, è stato largamente ridimensionato dalla controrivoluzione e dalla crisi di progetto che ha investito l’intero movimento rivoluzionario.
Ciò non è stato senza conseguenze nel movimento di classe e nella organizzazione autonoma del proletariato, e ha finito per favorire la disgregazione dell’opposizione rivoluzionaria e il parallelo ripresentarsi sulla scena del «lealismo» che le tendenze riformiste vanno predicando da qualche anno.
Questo dato acquista un certo peso nel progetto di soluzione politica, perché consente di sviluppare al massimo le politiche controrivoluzionarie di isolamento sociale e politico delle soggettività antagoniste e rivoluzionarie.
La ricomposizione della frattura tra stato e movimento di classe, che le forze politiche, dalla DC al PSI fino a il manifesto, vanno patrocinando per il prossimo futuro, è uno scenario politico chiaramente finalizzato a fare terra bruciata intorno alle iniziative rivoluzionarie.
Per la borghesia imperialista è necessario imporre un quadro politico-sociale pacificato nei rapporti e nelle relazioni tra le classi per spianare definitivamente la strada ai processi di ristrutturazione e riassetto capitalistico. Processi di ristrutturazione che, riaffermando a livello strutturale la centralità dell’impresa, del profitto, della produttività, richiedono una maggiore stabilità nel governo delle contraddizioni sociali che si generano e moltiplicano incessantemente, e un pesante ridimensionamento dei rapporti di forza conquistati in decenni di lotta proletaria.
In questa prospettiva, la borghesia non esita a concentrare un attacco globale a quelle forze rivoluzionarie e a quelle istanze autonome del movimento di classe che contribuiscono a rilanciare il movimento di lotta antagonista e la guerriglia metropolitana per il comunismo.
Si può dire che il progetto di pacificazione sociale procede di pari passo con l’intensificarsi della controrivoluzione preventiva e serve a creare uno scenario direttamente legato al modello imperialista di intervento della «guerra al terrorismo», che ha determinato specifiche «politiche di sicurezza» in Europa occidentale, sempre più omogenee ed integrate, per combattere l’organizzazione e le lotte del proletariato internazionale.
Oggi chi non sta alle regole del gioco e si pone fuori del quadro di compatibilità/stabilità della borghesia diventa per ciò stesso «un criminale terrorista»: da chi combatte con le armi a chi manifesta contro la guerra e il nucleare, fino a chi lotta per la casa e contro la disoccupazione…
Questa riduzione delle lotte proletarie e rivoluzionarie a «fenomeno criminale terroristico» operato dalla controrivoluzione preventiva trova in Europa occidentale un immediato terreno di applicazione. Nel senso che dà legittimazione alle campagne di repressione dei movimenti di lotta «con metodi moderni».
Su queste coordinate gli stati imperialisti fondano l’integrazione delle strategie di prevenzione, repressione e annientamento dell’antagonismo di classe che informano le loro «politiche di sicurezza», e ne sono un segnale i vertici e gli accordi che in materia di «antiterrorismo» si stanno susseguendo in Europa occidentale. Lo stato italiano, da questo punto di vista, proprio per l’alto livello di scontro sociale che lo ha attraversato, ha affinato al massimo le sue strategie controrivoluzionarie.
Dopo l’azione di esproprio di Roma e l’esecuzione del generale Giorgieri stiamo assistendo ad una violentissima campagna di guerra psicologica (proiettata a livello internazionale) contro le organizzazioni guerrigliere, tendente a veicolare un’immagine di «terroristi residuali, sbandati e allucinati», che cerca di dare spazio alla contrapposizione mass-mediata tra le «vecchie BR», in qualche modo radicate nel proletariato, e le «nuove BR» completamente esterne a qualsiasi dinamica di classe.
Inoltre si rinnovano ed appesantiscono gli attacchi della sbirraglia contro le mobilitazioni del movimento antinucleare, e si fa più frenetico l’attivismo poliziesco, con perquisizioni a tappeto, controlli e provocazioni sempre più frequenti contro singoli compagni, situazioni di movimento e realtà proletarie organizzate.
È la complessità attuale dello scontro di classe che la borghesia vuole negare ed è in questo contesto specifico che il progetto di soluzione politica trova una sua più forte ragione di esistenza. Più che la chiusura di un ciclo passato si vuole impedire la ripresa di un nuovo ciclo rivoluzionario dagli sviluppi poco prevedibili e certamente sfavorevoli per la borghesia imperialista, tenuto conto della natura delle contraddizioni che lo scontro rivoluzionario sta producendo in questi anni.
Il processo di polarizzazione delle classi in questa fase sta subendo una evidente accelerazione, sotto la spinta delle strategie del capitalismo. L’internazionalizzazione e concentrazione del capitale multinazionale italiano, l’incessante ristrutturazione dell’apparato produttivo, la scelta nucleare, le strategie del complesso militare-industriale, l’adesione al progetto SDI, il ruolo dell’Italia nel quadro Nato e nei piani di guerra dell’imperialismo occidentale e USA, sono dinamiche che si collocano organicamente nel quadro dello scontro internazionale, e generano risposte e lotte di larghi strati proletari, e una ripresa dell’iniziativa dei movimenti di massa.
Questa realtà pone nuovi compiti e problemi ai rivoluzionari in questo paese.
Noi pensiamo che assuma un’importanza vitale, in questa fase, l’intensificazione di una dialettica unitaria tra i rivoluzionari intorno ai problemi politici che pone a tutto il movimento rivoluzionario la ripresa del processo rivoluzionario in Italia, e il superamento, in questo, del settarismo che spesso in passato ha immobilizzato il dibattito e la pratica rivoluzionaria.
Secondo noi, la costruzione e la riqualificazione della progettualità rivoluzionaria non potrà darsi che dal convergere di forze ed esperienze diverse in un percorso unitario, capace di rilanciare l’iniziativa di classe nel quadro mutato dello scontro tra borghesia e proletariato e di affrontare i nodi strategici che oggi esso pone.
Questo per noi è il significato concreto, in questa congiuntura, dell’unità dei rivoluzionari nello scontro di classe, come momento fondamentale ed indispensabile alla costruzione della strategia rivoluzionaria e della ricomposizione di classe.
Mentre la borghesia cerca di sanare la frattura tra stato e movimento di classe, i segnali di ripresa del movimento antagonista e dell’iniziativa guerrigliera mostrano che in questo paese esistono reali possibilità di sviluppo del processo rivoluzionario.
Dentro questa realtà concreta si tratta di dare un contributo per spostare in avanti il dibattito politico, ponendo al centro le contraddizioni principali che il proletariato si trova di fronte nello sviluppo della sua lotta.
La dimensione internazionale che caratterizza lo scontro di classe porta a collocare queste contraddizioni e ad affrontarle in un quadro necessariamente internazionale che rompe con prospettive legate ad una superata dimensione .“nazionale” e localistica.
Da questo punto di vista, il movimento rivoluzionario e la guerriglia in Europa occidentale costituiscono un punto di riferimento molto importante, proprio perché hanno saputo cogliere questo aspetto fondamentale dello scontro e realizzare una pratica antimperialista che si muove verso la ricomposizione del proletariato internazionale e la costruzione di un nuovo internazionalismo.
In questa prospettiva, come collettivo rivoluzionario intendiamo lavorare, assieme a tutte le forze rivoluzionarie, per rilanciare il patrimonio della lotta armata e del movimento di classe nel suo complesso e, contemporaneamente, per affermare i nuovi necessari livelli di coscienza e organizzazione rivoluzionaria.
In questo senso, è importante capire che le iniziative volte alla trattativa con lo Stato, alla soluzione politica e alla pacificazione sociale si pongono materialmente anche contro la ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria, perché oltre a voler frantumare la continuità tra il ciclo rivoluzionario degli anni ’70 e le lotte attuali, possono incidere sui processi reali di connessione che si stanno sviluppando tra i movimenti di lotta e le forze rivoluzionarie, dentro il più generale processo di ricomposizione del proletariato internazionale.
Per questo, anche la critica rivoluzionaria e la lotta al progetto di soluzione politica costituiscono un terreno unitario a cui nessun rivoluzionario può sottrarsi per battere il liquidazionismo e il disfattismo nel movimento di classe.
Susanna Berardi, Vittorio Bolognese, Lorenzo Calzone, Luciano Farina, Domenico Giglio, Natalia Ligas, Giovanni Senzani
Roma, giugno 1987