Nell’ultimo decennio la questione araba ed in particolare quella palestinese ha varcato i confini del Medio Oriente per riproporsi con forza a livello internazionale ed in modo particolare in Europa la quale si è assunta in prima persona il ruolo di mediatore del “conflitto”, intenzionata a non delegare più la difesa dei propri interessi nell’area agli Stati Uniti. Intervento che assume un peso sempre maggiore anche in conseguenza del fatto negativo del disimpegno diplomatico sovietico in tutta l’area.
Quest’impegno diretto non poteva non riprodurre le contraddizioni derivate dall’intervento sul campo fin dentro il cuore degli Stati che l’hanno prodotto e così gli anni ’80 hanno segnato di fatto il massimo livello di internazionalizzazione della rivolta arabo-palestinese contro le politiche imperialistiche in Medio Oriente.
Il governo italiano assume un ruolo di interlocutore privilegiato in questo progetto europeo di pacificazione forzata in quanto storicamente è il meno compromesso fra gli Stati europei proprio perché la sua politica coloniale non ha interessato direttamente questa zona. Questo gli permette di avere atteggiamenti amichevoli, dall’alto di una relativa, quanto formale, neutralità politica che è fatta sì di aiuti al Popolo Palestinese, ma è anche fatta di forniture di armi al “regime sionista”, le stesse armi con le quali si consuma il genocidio del Popolo Palestinese. In realtà l’intervento diretto del governo italiano nella complessa situazione arabo-palestinese fa sì che il governo italiano si faccia interprete dei vari progetti di pacificazione che, per essere consoni agli interessi imperialisti nell’area, devono tradursi in una imposizione di risoluzioni da fare accettare alla resistenza palestinese ad ogni costo. Così, se fino ai primi anni ’80 la neutralità italiana si traduceva in una relativa non ingerenza verso le forme di auto-organizzazione nella resistenza palestinese, verso la fine della prima metà degli anni ’80 questo atteggiamento muta radicalmente e nel volgere di poco tempo l’Italia diventa il paese europeo con il maggior numero di militanti della resistenza palestinese imprigionati.
All’aumento dei prigionieri arabo-palestinesi nelle carceri italiane, corrisponde anche un salto di qualità nel loro trattamento. Se prima i pochi prigionieri avevano di fatto un riconoscimento politico, sia per quanto riguarda la reale effettuazione della pena che per lo stesso trattamento carcerario, in seguito questo informale status di prigionia politica cede il passo ai vari accordi internazionali che, equiparando le lotte di liberazione in ogni parte del mondo alla categoria del terrorismo, utile a nascondere le ragioni sociali e politiche di tali lotte, fa sì che i prigionieri comincino ad essere usati come veri e propri ostaggi e come forma di pressione contro la resistenza palestinese. Per la prima volta i prigionieri arabo-palestinesi vengono immessi nel circuito delle carceri speciali e sottoposti ai peggiori trattamenti di distruzione psico-fisica che di fatto integrano e prolungano le tecniche di annientamento messe in atto nei campi di concentramento sionisti. Il trattamento dei prigionieri tende a diventare il mezzo per condizionare le scelte politiche delle diverse organizzazioni della resistenza palestinese nella sua lotta di liberazione. Inoltre l’individualizzazione del trattamento messo in atto negli speciali, trasforma questi luoghi in laboratori in cui sperimentare le tecniche di frantumazione della resistenza palestinese. In pratica le sperimentazioni vengono effettuate immettendo negli speciali i militanti rivoluzionari per verificare, dividere e catalogare le reazioni dei prigionieri in relazione alla provenienza organizzativa ed accumulare conoscenza controrivoluzionaria utile non solo a differenziare più scientificamente i prigionieri ma anche ad usare questa conoscenza al fine di poter operare chirurgicamente nel corpo palestinese in rivolta.
In questo quadro si inseriscono tutte le forme di compressione al fine di sperimentare anche contro di noi i sistemi, già affinati precedentemente, atti a creare artificiosamente la figura del dissociato.
Il carcere speciale di Livorno ha indubbiamente questo tipo di funzione. La relativa concentrazione di militanti rivoluzionari arabo-palestinesi (siamo in cinque di cui tre nella sezione speciale) lungi dall’essere una concessione per far riunire in un carcere i prigionieri politici arabi, come abbiamo anche chiesto più volte, corrisponde al tentativo di creare contraddizioni tra di noi ed indebolire così la nostra identità. La gestione rigidamente militare di questo carcere non è nient’altro che la versione occidentale dei campi di concentramento di Ansar, Ashkelon, ed altri… La dissacrazione dei simboli della nostra lotta, della nostra cultura, le aggressioni, il rifiuto opposto alle più elementari richieste, l’asfissiante e disumano controllo quotidiano e persino la registrazione scritta di ogni attimo dell’ attività giornaliera di ogni singolo prigioniero, sono solo alcuni aspetti del trattamento riservatoci. Questo trattamento però, contrariamente ai suoi intenti, sta creando in noi solo una maggiore coscienza di tutto ciò che si nasconde dietro la maschera amica del governo italiano, e per questo noi non possiamo far altro che ringraziare il Ministero di Grazia e Giustizia, perché di questa nuova coscienza saprà fare tesoro il Popolo Palestinese nella scelta dei suoi amici.
Nasconderci in questi sepolcri o disperderci nelle prigioni o isolarci totalmente come nelle celle di Marassi (il carcere di Genova) non servirà a nascondere, disperdere e isolare la lotta del Popolo arabo-palestinese di cui siamo parte integrante.
Intifadah fino alla vittoria!
Solidarietà con il popolo palestinese!
Solidarietà con il popolo libanese!
Unità del fronte antisionista-antimperialista
Unità del movimento di liberazione araba!
Onore ai martiri di Yarun (Sud Libano)
Onore agli eroi di Ismailia (Egitto)
Hamidan Karmawi, Militante rivoluzionario arabo-palestinese
Carcere speciale di Livorno
15 febbraio 1990