Elementi di Bilancio del Processo PC P-M. Documento dei militanti per la costruzione del PC P-M Bortolato Davide, Davanzo Alfredo, Latino Claudio e Sisi Vincenzo e dei militanti comunisti rivoluzionari Gaeta Massimiliano e Toschi Massimiliano

L’udienza del 4 maggio ha costituito il più alto momento della vicenda processuale contro i militanti per la costituzione del PC P-M, con una giornata di significativo impatto politico: la più forte mobilitazione della solidarietà, dentro ed attorno al tribunale, e la lettura della nostra dichiarazione finale in aula.

Questa vicenda, nel suo corso, ha acquisito una certa rilevanza di interesse generale nello scontro di classe. Per quanto il percorso politico organizzativo, colpito dalla repressione, fosse in una fase embrionale, esso (pur con i suoi limiti e difetti) era un passo decisivo nella ritessitura di quell’entità politico – strategica che storicamente si è dimostrata e legittimata in quanto unica, coerente concretizzazione della via rivoluzionaria, e qui nei paesi del centro imperialista. Quell’entità che si è forgiata nel vivo del grande ciclo di lotte dalla fine degli anni ’60, sostenendo una fase di scontro altissimo a cavallo fra i ’70 e gli ’80, ridando corpo e possibilità tangibili alla rivoluzione proletaria. E sul filo di continuità con il Movimento Comunista Internazionale.

È chiaro che avanguardia riconosciuta e portante di tale percorso sono state, nel nostro paese, le B.R. ma negli anni seguenti, di sconfitta tattica e di ondata reazionaria, si è trattato di riprendere criticamente la via tracciata, di evincerne i grandi insegnamenti, l’eredità positiva, liberandola dal peso degli errori. Perciò, come nucleo di militanti postisi sul terreno della ripresa della via rivoluzionaria, abbiamo formulato la centralità della questione del partito del proletariato, nei termini di PC P-M.

La precipitazione della crisi capitalistica, acuendo tutte le contraddizioni, ne rende ancor più evidente la necessità, l’urgenza. Settori di massa si battono con decisione, si radicalizzano, e nelle loro forme di lotta si sviluppa il contenuto dell’antagonismo di classe: operai sequestrano padroni e dirigenti, i giovani affrontano le polizie, i proletari immigrati sfasciano le prigioni-CIE (centri di ritenzione per immigrati), ecc.

In dialettica con questi sviluppi della lotta di classe si situa dunque il nostro processo. Così la nostra espressione di piena solidarietà agli operai in lotta alla FIAT di Pomigliano e alla Thyssen-Krupp di Torino.

Agli inizi del processo, quando potemmo incontrarci le prime volte dopo un anno di sostanziali isolamenti, definimmo le linee di una strategia processuale.

  • In carcere ed in tribunale, la lotta continua. Si tratta di affermare le stesse ragioni della via rivoluzionaria, cui si è contribuito all’esterno, e per cui si viene arrestati. Dunque il carattere principale da affermare è quello di processo politico, entro il generale scontro di classe ed ai fini degli obiettivi rivoluzionari di questa fase, in particolare del percorso di costruzione del partito
  • Questo pur tenendo conto del diverso grado di investimento militante dei compagni, in particolare fra i compagni rivendicanti il percorso politico-organizzativo in questione e quelli militanti entro realtà di movimento e/o di fabbrica. L’obiettivo che ci si era dati era quello di unità nella differenza. Unità fondata sulla comune identità di classe e di appartenenza al campo rivoluzionario.
  • La difesa andava impostata secondo il criterio del “processo di connivenza d’attacco”. Cioè, senza rifiutarlo drasticamente, ci si disponeva ad affermare il primato del politico, la negazione di legittimità alla giustizia borghese, e una battaglia costante lungo il suo svolgimento. Il ruolo degli avvocati andando perciò a subordinarsi a questa impostazione, l’aspetto tecnico-giuridico a quello
  • La solidarietà ed il movimento di classe potevano così trovare ampio spazio per dialettizzarsi con noi, per sviluppare una solidarietà nel suo senso più vero e ciò è reciprocità nel comune interesse di sviluppo delle posizioni rivoluzionarie nel contesto di scontro con la repressione, di affrontamento allo Stato della

In conclusione del processo, possiamo dire di aver tenuto saldi questi presupposti, e di averli realizzati in quanto obbiettivi politici, e questo anche grazie alla riuscita unità nella lotta fra questi vari soggetti.

Particolarmente significativo lo smacco alla strategia della Contro (Digos e magistrati) tesa a creare divisione e disgregazione. Il loro unico risultato è stata la creazione del “pentito” di turno, rivelatosi però molto maldestro ed inefficace. Per contro, la compattezza fra tutti noi è stato notevole, segnata da vari momenti marcanti, dalla solidarizzazione nei momenti di scontro acceso, espulsioni dall’aula, ecc.

Questo ha inciso positivamente pure sulla tattica tenuta dagli avvocati. Relazionandosi alla nostra impostazione politica ed a questa esigenza di non dare adito a differenziazioni di tipo dissociativo, anche gli avvocati hanno trovato una certa base di intesa e di comune battaglia.

Ne è conseguita una difesa globalmente omogenea e coerente con i presupposti politici. Alcuni passaggi delle loro arringhe hanno così partecipato alla nostra iniziativa di stravolgimento (ribaltamento) politico dell’accusa, evidenziando tutto il carattere classista, di ingiustizia e di strumento di repressione controrivoluzionaria dell’ordine giudiziario.

Evidenziando come strategie e strumentazione repressive sono vere e proprie articolazioni, da parte borghese, di uno scontro che tende a trasformarsi in guerra aperta.

A rafforzare il tutto, il notevole apporto di solidarietà del movimento di classe. Questo non era per nulla scontato, visto il clima di terrore preventivo con cui lo Stato cerca di isolare le istanze rivoluzionarie. E invece, la mobilitazione attorno al processo ha ribadito e sviluppato pienamente quello slancio che si era manifestato sin dal giorno degli arresti.

Questa solidarietà si dava sia rispetto alla rivendicazione di internità delle nostre figure al movimento di classe – nostra collocazione negli ambiti proletari di lavoro e di lotta – sia rispetto al riconoscimento di percorso politico-organizzativo. Per quanto la realtà del movimento di classe sia ancora caratterizzata da frammentazione e incapacità a produrre unità e determinazione progettuale-strategica, se ne riconosce la possibilità nei passi concreti fatti da alcuni nuclei militanti. Se ne riconosce la valenza, il potenziale. L’espressione immediata di solidarietà è stata in particolare importante come elemento di forza nel contrasto all’operazione che lo stato cerca sempre di imbastire in questi casi: “non si tratta che di quattro fanatici isolati..” L’intreccio che si dava fra il livello qualitativo di questa solidarietà – e cioè da situazioni specifiche di movimento e dalle fabbriche di provenienza – e l’entità della nostra istanza politica, ha determinato un’espressione di forza, ha permesso di attestarsi su un livello di lotta visibile, sulla linea di affrontamento fra classe e Stato.

Non è cosa di poco conto, poiché ha significato il ribaltamento, in certa misura, del dato di partenza, e cioè di una sconfitta tattica in impulso ad una nuova dinamica. Dinamica sicuramente ridotta e parziale rispetto agli obiettivi progettuali della struttura in formazione, però dinamica significativa che consente l’allargamento di spazio politico, l’innalzamento del dibattito politico. Tant’è che questo dato si è dispiegato chiaramente in questa stagione processuale, vivendo come rappresentazione (pur modesta ed embrionale) di quella tendenza rivoluzionaria che è comunque sentita in ambiti proletari, come esigenza e passaggio inevitabile dalla semplice lotta di classe alla guerra di classe. Tanto più nell’attuale sprofondamento di crisi e guerra imperialista.

A questa dinamica ha contribuito molto anche l’apporto internazionale, che non è stato un semplice fatto testimoniale, episodico. Si è configurato invece come iniziativa costante e sistematica nel tempo. Perché? Perché essa si è generata entro gli ambiti ruotanti attorno alla costruzione del S.R.I. il quale, dalla sua definizione originaria, concepisce il sostegno ai prigionieri rivoluzionari come parte e funzione della più generale battaglia per cui essi sono caduti in carcere e cioè lo sviluppo del processo rivoluzionario. Perciò la priorità è sempre stata per le esperienze relativamente più avanzata e vive, dal punto di vista rivoluzionario. E questo, coordinando e concentrando l’iniziativa dei vari comitati nazionali, attorno quei casi che acquisiscono un valore al di là delle frontiere: fu (ed è) il caso con il movimento rivoluzionario di Turchia e Kurdistan, con Palestina e mondo arabo, con Spagna e Paese Basco, e appunto con il caso nostro.

Quanto questo sia significativo ed importante è evidente sia nella sua dimensione diretta, tangibile, che nella prospettiva che apre: nell’attuale contesto, estendere la valenza di ogni battaglia rivoluzione/controrivoluzione in tutta l’area geo-politica, significa farne veicolo di avanzamento nell’interesse generale internazionale.

Insomma, questo dispiegamento di solidarietà, sul piano locale ed internazionale, è ancor più importante oggi e proprio accentuando il suo carattere di internità, di dialettica con gli sviluppi del movimento di classe e della sua tendenza rivoluzionaria (e non come semplice “soccorso”).

Il fatto che la nostra vicenda sia assurta ad un ruolo emblematico, significativo, rispetto agli scenari del possibile scontro di classe – e questo ben al di là sia dei livelli politico-organizzativi concretizzati che delle capacità soggettive – ha determinato il suo sovraccaricarsi di interesse a valenza, da parte dei due campi.

Sicché, nel campo proletario, ciò è avvenuto rispetto ai livelli di coscienza e maturazione, esistenti o meno. Vale a dire che, talvolta, pur esprimendo solidarietà (sempre rispettabile) lo si è fatto tentando di ricondurre, di ridurre la dimensione strategico-rivoluzionaria ai limiti e ristrettezze della dimensione movimentista.

Infatti, quello che ci ha stupito di più, negativamente, è la diffusa trasversale, tendenza a ridurre in questa vicenda il suo aspetto principale, portante: l’istanza di riorganizzazione e progettualità strategiche, sul terreno politico- militare.

Si è voluto spesso presentare la cosa come semplice ondata repressiva contro il movimento, finendo per di più per rendere principale il dato repressivo.

Questo è sbagliato, e molto.

Benché, da anni, l’involuzione autoritaria, la blindatura preventiva, fino a forme di guerra preventiva da parte statuale, stiano avanzando e si aggravino di anno in anno, possiamo riscontrare che comunque queste politiche si manifestano a livelli diversi. Contro il movimento di classe, nella sua dimensione di massa, viene fatto ricorso alla violenza poliziesca nelle piazze, così come allo squadrismo fascista-razzista; vengono usati fermi di polizia e denunce, perquisizioni e tutta la politica di sgomberi ed espulsioni (centri sociali, case occupate, fabbriche in lotta), fino alla repressione specifica contro i proletari immigrati che assomma al suo carattere di classe pure quello neo-colonialista.

Infine la spada più pesante: l’uso dei reati associativi. Che però, rispetto a questo campo di massa, bisogna dire che (per il momento) è ancora un uso deterrente, risolvendosi in brevissime carcerazioni – come nel caso della rete “Sud ribelle”, o dei sindacalisti SLAICobas, sempre al sud – e certo con effetti intimidatori e paralizzanti. Il massimo peso repressivo (sempre rispetto ai movimenti di massa), con un vero salto di qualità, lo si è avuto come nel caso delle pesanti condanne per il G8-Genova e per gli scontri a Milano – Corso Buenos Aires. Ma proprio perché la repressione colpiva lotte di piazza non pacifiche, anzi vere pratiche di violenza proletaria organizzata. Certo, la repressione è stata vile ed indiscriminata, ma la differenza qualitativa politica c’è.

Tant’è che arriviamo al nocciolo della questione: la repressione che tocca le istanze di lotta e i progetti organizzativi che praticano l’uso delle armi. Che sia nell’area comunista che in quella anarchica. La repressione, qui si dà come parte di vero e proprio scontro, sviluppato ed assunto politicamente. Come parte inevitabile quando si cerchi di trasformare la lotta di classe in vera lotta rivoluzionaria. E questo è un’altra differenza qualitativa, politica, fondamentale.

Viceversa, nella visione riduttiva, la repressione appare quasi come unico attore a fronte di un informe movimento. E mancando una chiara visione del piano di tendenziale lotta rivoluzionaria, e la sua conseguente assunzione, ne discende un’attitudine che potremmo definire vittimista. Perno ne è la convinzione che si venga attaccati “per le proprie idee, per la propria identità”. Ciò che, oggi in Italia, all’attuale livello delle contraddizioni, non è vero ed è sfalsante politicamente. Infatti la questione dell’identità politica, proprio perché non è meramente “idealista”, concerne la prassi. È questa a qualificare veramente l’identità. È questa che è stata attaccata nel caso nostro, e non la generica identità di militanti di classe.

Ed è per questo, per contro, che migliaia di onesti e combattivi militanti di classe, oggi, non vengono arrestati (per non parlare dei ciarlatani di sedicenti partiti m-l-m, o altri “rivoluzionari” inconseguenti).

Sicuramente un domani, quando le forze rivoluzionarie ed il processo rivoluzionario si svilupperanno, allora la repressione si estenderà e toccherà anche solo il “reato d’opinione”, toccherà gli ambiti di massa in modo indiscriminato (come avvenne nella fase acuta di scontro dei primi anni ’80). Ma, anche in questo caso, motivo scatenante ne è l’esistenza dell’istanza rivoluzionaria, dello sviluppo del processo rivoluzionario. E così è oggi, pur nelle proporzioni de la situazione attuale, di sviluppo embrionale delle contraddizioni. Presentare le cose come repressione delle idee, dell’identità politica, significa sostenere qualcosa di non credibile politicamente e, peggio, svalutare, eludere l’istanza rivoluzionaria. Tant’è che l’attitudine vittimista si riassume poi in una difesa del tipo “non è successo nulla, non hanno fatto nulla.”

Noi abbiamo discusso, riflettuto sul perché emerga diffusamente questa attitudine. In effetti, ci sembra questione di rilievo poiché essa è sintomo, risultato dei livelli attuali del movimento e dei nodi politico-ideologici da affrontare.

Come si può superare la situazione di arretratezza soggettiva di fronte alle grandi possibilità oggettive offerte dalla crisi capitalistica?

Come superare la situazione di difensiva permanente – a fronte di attacchi incessanti su tutti i fronti – e riuscire a ricomporre le fila proletarie su una prospettiva unificante, e unificante perché concreto percorso (strategia) verso la realizzazione degli obiettivi di trasformazione sociale?

Come superare il senso di impotenza, inefficacia, o meglio il dislivello dei piani d’azione con cui il sistema, blindato, riesce a tenere a distanza i movimenti, a confinarli nella marginalità?

Come superare l’uso disfattista degli esiti delle Rivoluzioni del Novecento, finalizzato ad impedire, bloccare ogni seria progettualità di “mondo nuovo”?

Qui le risposte non possono che essere sul piano della progettualità, di un’ipotesi politico organizzativa che assuma responsabilità e rischi del caso. Il tutto concretizzandosi in una prassi.

Ora, questo è esattamente il senso del nostro tentativo, del nostro inizio di un percorso politico-organizzativo definito come “costruzione del PCP-M”. Un percorso che riesca a riannodare i fili che raccogliamo dal grande ciclo ‘70/’80, operandone una sintesi adeguata in superamento di limiti ed errori.

Sintesi che fa propria soprattutto l’esigenza di concretizzare la strategia rivoluzionaria, tramite la costituzione di un Partito in grado di sostenere un processo rivoluzionario di lunga durata, e questi come unico sbocco positivo alle tante istanze di lotta e trasformazione sociale.

Solo la rottura rivoluzionaria ed il dispiegamento di un percorso di scontro politico-militare può dare sbocco e prospettiva a queste istanze, può aprire la possibilità dell’alternativa sociale; viceversa non solo impossibile, ma destinata ad essere stritolata dalla involuzione autoritaria e militarista del sistema capitalista (che fa a pezzi persino le illusioni riformiste della “sinistra borghese”).

Per quanto il movimento di classe sia composto di livelli e situazioni diverse, per coloro che si pongono sul piano della prospettiva rivoluzionaria può e deve esistere unità tendenziale, politica ed ideologica, con le punte più avanzate che pongono la suddetta questione di strategia e prassi. Solo in questo modo si crea lo spazio politico necessario per riuscire ad articolare il lavoro in seno alla classe, anche sui livelli più minuti. Cioè, solo in questo modo si può far vivere un rapporto dialettico fra le varie istanze.

Viceversa si finisce nell’arretramento: ci si appiattisce sui livelli di massa (invece di farli evolvere); ci si perde in impostazioni velleitarie ed inconseguenti (perché non si dice e non si pratica il come affrontare l’imperialismo e la crisi capitalistica); si arretra di fronte alla repressione in attitudine vittimista e de-politicizzata; ecc.

Certo, oggi l’esercizio è difficile, mancando il polo rivoluzionario costituito, di questa dialettica. Mancando cioè, se non il Partito quanto meno un’organizzazione politico-militare che sappia “agire da partito”. Però questo è il lavoro, questa è l’impostazione. L’articolazione nel lavoro di massa, nelle situazioni di base, nei movimenti, deve orientarsi al comune obbiettivo di avviare, costruire la via rivoluzionaria. Ciò che chiamiamo “Unità nella lotta”.

Le attitudini, le impostazioni contraddittorie a questa comune finalità e che alimentano opportunismo e incoerenza, vanno criticate e superate. Ciò che chiamiamo “Lotta nell’unità”.

 

Milano – maggio 2009

 

I militanti per la costruzione del PCPM

Bortolato Davide

Davanzo Alfredo

Latino Claudio

Sisi Vincenzo

 

I militanti comunisti rivoluzionari

Gaeta Massimiliano

Toschi Massimiliano

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