Conquistare le masse alla lotta armata per il comunismo.
Costruire gli strumenti di potere proletario armato: il Partito Comunista Combattente e gli Organismi di massa rivoluzionari.
Sommario:
La crisi del modo di produzione diventa controrivoluzione preventiva
1 ) Dalla progettazione all’attuazione del piano controrivoluzionario.
2) Congiuntura e ristrutturazione.
3) L’unica transizione possibile è per il comunismo.
4) Organizzare le masse sul terreno della lotta armata per il comunismo. Costruire i nuclei clandestini di resistenza.
5) La guerriglia nella fase di passaggio dalla propaganda armata alla guerra civile antimperialista.
LA CRISI DEL MODO DI PRODUZIONE DIVENTA CONTRORIVOLUZIONE PREVENTIVA
Nell’analisi che abbiamo svolto in questi anni abbiamo spesso parlato della crisi irreversibile che colpisce il modo di produzione capitalistico, e abbiamo anche spiegato che questa crisi non significa crollo automatico del modo di produzione stesso. Abbiamo invece visto come le vecchie “crisi cicliche” del capitale si siano fatte sempre più frequenti e più profonde, sino a giungere alla fase attuale, caratterizzata da un intreccio simultaneo, persino all’interno delle stesse aree e degli stessi settori, di crisi di sviluppo in un insieme sempre più contraddittorio e lacerante.
Siamo convinti che tutto ciò sia il segno che il modo di produzione capitalistico è storicamente giunto alla fase della sua crisi ultima, e dunque al punto in cui comincia la sua estinzione. Come un dinosauro morente, la sua agonia sarà lunga, e i suoi colpi di coda tremendi. Ma la rivoluzione lo ucciderà. Alla radice della crisi sta il meccanismo stesso dell’accumulazione capitalistica. Per questo essa non può essere curata in alcun modo, ed è mortale.
Il capitale accumulato riesce ad essere valorizzato – e cioè a funzionare appunto come capitale – con difficoltà sempre maggiori. Un numero sempre più ristretto di produttori diretti, di forza lavoro viva, è costretto infatti a valorizzare un capitale morto (macchine, materie prime, ecc. ecc.) sempre più grande. E d’altra parte forze produttive immense sono castrate, costrette a svilupparsi solo nei modi e nella misura compatibili con le leggi del profitto. Oggi i rapporti di produzione capitalistici – rapporti tra le classi, rapporti tra uomini – strangolano lo sviluppo delle forze produttive; oggi la crisi storica del modo di produzione basato sui valori di scambio si scatena a livello planetario. Solo i capitali più grandi e aggressivi riescono a sopravvivere, divorando quelli più piccoli, mentre l’intero sviluppo capitalistico nella sua fase di declino è costretto a basarsi sulla conquista di sempre più larghe posizioni di monopolio di settori produttivi e di aree di mercato; a centralizzarsi su scala sempre più vasta oltre i confini degli Stati nazionali; a catturare lo Stato per usarne tutta la forza a sostegno delle traballanti leggi dell’accumulazione. Ma all’orizzonte, come al solito in tempi di crisi del capitale, c’è l’unica medicina che sin qui si è mostrata veramente efficace: la guerra imperialista. Del resto, il mondo è già in guerra, e ogni giorno più velocemente precipita verso la guerra. Solo “producendo per distruggere, distruggendo per poter produrre”, nella forma esasperata della guerra imperialista, il capitale multinazionale può sperare ormai di ritardare la sua fine. Contemporaneamente, sul piano interno, si realizza una strategia indivisibile di tutte le frazioni della borghesia intorno alla sua frazione dominante, quella imperialista, per un attacco rinnovato in forme sempre più sistematiche e feroci alle condizioni di vita delle masse proletarie, spremendo da una parte di esse il massimo plusvalore,e condannando l’altra alla precaria marginalità del lavoro nero e all’emarginazione totale. L’accentuarsi delle contraddizioni capitalistiche su scala internazionale si rovescia all’interno nelle forme congiunte dello sfruttamento e della crisi economica, entro un progetto complessivo di controrivoluzione preventiva che si traduce in una filosofia molto semplice: più i padroni e i loro servi si scannano tra loro nel mondo, più si devono unire contro i proletari di casa loro. La controrivoluzione preventiva è l’aspetto dominante di una strategia nella quale si riassumono la tendenza alla guerra imperialista sul piano internazionale e la ristrutturazione sul piano interno. Essa significa che su ogni strato proletario si abbatte la repressione, che le conquiste di un decennio di lotte operaie vengono messe in discussione, che si allarga la disoccupazione, che aumenta la stratificazione proletaria. Il “nuovo modo di produrre” mostra che l’unico sviluppo possibile del capitale è quello della sua miseria e della sua violenza. La repressione assume un carattere “strutturale” : non è in proporzione diretta, consequenziale alle singole lotte. La Thatcher in Inghilterra e Cossiga e i suoi successori in Italia, al di là delle diverse storie della soggettività di classe nei due paesi, devono reagire con la stessa durezza ad ogni esigenza proletaria.
Ma la crisi dei capitalisti non è la crisi dei proletari. Se infatti per i capitalisti crisi vuol dire guerra imperialista e controrivoluzione preventiva, per i proletari la lotta armata per il comunismo si afferma e vive come la strategia che, attraverso una precipitazione rivoluzionaria della crisi, porta al superamento del modo di produzione capitalistico. La crisi deve dunque essere analizzata non solo dal punto di vista del capitale, ma anche da quello della rivoluzione proletaria, la sola che potrà seppellire la vecchia società che muore, è che già oggi costruisce, nella lotta, l’unico futuro possibile: il comunismo.
1) Dalla progettazione all’attuazione del piano controrivoluzionario
Negli anni passati, sotto l’incalzare della crisi dell’imperialismo sul piano internazionale dovuta essenzialmente alle contraddizioni insolubili insite in questo sistema, sotto la sferza di un movimento di classe ben fermo a non subirne passivamente gli effetti disastrosi, la borghesia italiana ha cercato di definire un piano di ristrutturazione rivolto non già ad attivare i meccanismi di un improbabile, ulteriore sviluppo, ma a mantenere inalterate le possibilità del suo dominio. La crisi non ha possibilità di sbocchi positivi nell’ambito del sistema economico – politico – militare imperialista nel senso che, comunque la si rigiri, questo sistema è diventato il vicolo cieco in cui non può passare un allargamento della base produttiva, un’avanzata dello sviluppo economico. Di qui l’impossibilità di un superamento degli elementi congeniti che costituiscono la crisi stessa, che anzi tendono ad aumentare e ad acuirsi nella loro gravità. Lo stato di crisi permanente è la condizione alla quale la borghesia stessa è da tempo rassegnata senza illusioni. Ma la crisi di per sé non genera un crollo catastrofico ed istantaneo, genera solo un sistema di vita sempre più miserevole e barbaro per milioni di proletari. Come pure crisi permanente non significa immobilismo della borghesia, tutt’altro. Significa che la borghesia, senza più prospettive di evoluzione, si affanna e si agita in una rincorsa perenne delle contraddizioni di classe, con l’unico scopo di poterle controllare e di ritardarne l’esplosione. Questa rincorsa, per quanto affannosa, non è mai inconsulta e priva di logica, ma assume la logica di una ristrutturazione continua e radicale, di un piano articolato entro cui si definisce il modo in cui in una determinata fase le contraddizioni di classe vengono affrontate.
La ristrutturazione non va confusa con il riformismo, il quale, anzi, in questa fase celebra il proprio funerale, ma rappresenta il tentativo disperato e senza soluzione di continuità di agire cambiando continuamente le carte in tavola nei meccanismi interni dell’accumulazione del capitale, al fine di scompaginare continuamente la composizione di classe. Ma il risultato è sempre uno solo: a un temporaneo tamponamento delle contraddizioni in qualche settore di classe corrisponde inevitabilmente l’allargamento e l’approfondimento in altri. Al temporaneo strangolamento della capacità o possibilità di movimento di qualche componente di classe – che successivamente si ripresenterà in modo ancor più radicale – corrisponde un allargarsi dell’area sociale investita dagli effetti della crisi, inducendo alla mobilitazione e alla lotta nuove frange del proletariato.
Crisi – ristrutturazione di classe sono così legati da una indissolubile dialettica, ed è lo stadio di maturazione raggiunto da ciascuno di essi, nell’intima connessione con gli altri, che configura la fase di scontro e la congiuntura politica. Se guardiamo un attimo al periodo appena trascorso, si vede che la borghesia era alla ricerca di un piano complessivo, di una ristrutturazione globale per battere tutto ciò che il ciclo di lotte degli anni settanta aveva prodotto, e si attrezzava per un attacco frontale all’insieme dei livelli politici e organizzativi raggiunti dalla classe, ivi compresa la guerriglia nascente. Le direttrici fondamentali di tutto ciò sono state dettate dalle centrali imperialiste internazionali, e hanno seguito i criteri di costruzione di quello che abbiamo chiamato “Stato imperialista delle multinazionali”, dai connotati caratteristici che individuavamo in “crescente militarizzazione, crescente centralizzazione nell’esecutivo, strategie economiche dell’imperialismo”, ecc. L’elaborazione di questo piano non avveniva in astratto ma si calava nella realtà italiana, con la peculiarità delle sue contraddizioni, costituite in particolare dalla composizione di classe e dagli equilibri politici che ne derivano, e quindi con tutte le tendenze contrastanti che l’imposizione ferrea del progetto imperialista non poteva non produrre. In sostanza, la fase di cui stiamo parlando è quella contraddistinta da un ciclo di lotte, all’interno delle quali è nata la guerriglia, a cui si è contrapposta una “preparazione” della controrivoluzione imperialista, lanciata in un piano complessivo di ristrutturazione economico–politico–militare.
Ora diciamo che la fase è cambiata. Vuol dire che ci troviamo a un punto della dialettica – scontro tra crisi – ristrutturazione – movimento di classe diverso da quello precedente. Ci troviamo ora in presenza di un’attuazione accelerata del piano controrivoluzionario. Si può constatare che per la borghesia non si tratta più di omogeneizzare le linee di tendenza al proprio interno per ricondurle tutte nei binari pensati ed imposti dal capitale monopolistico e dalle centrali multinazionali, ma di dar corso e attuazione nella realtà italiana alle direttive che da queste vengono imposte. Ad esempio, rilevavamo che il sistema politico italiano era alla ricerca di una ridefinizione delle forze proiettate nella strategia imperialista, controllate ed immediatamente utilizzabili ai fini degli interessi degli imperialisti. Si presentava quindi la necessità di far emergere in ciascun partito della borghesia il personale politico adatto allo scopo, di qualificare per ciascun partito il ruolo dipendente dalle linee generali dell’imperialismo e ad esse vincolarne l’azione, di sfrondare il regime dalle forze centrifughe che ne ritardavano il compattamento, di liberarsi dei “compromessi” con chi non era in grado di adeguarvisi rapidamente. Ora questo scopo è raggiunto, e la cricca delle nuove alleanze di governo ne è la dimostrazione. Diventa ora importante comprendere non solo le direttrici generali del progetto imperialista, ma penetrare nel bozzolo che lo ha incubato per anni, cogliere il modo concreto in cui si sta attuando, cogliere tutte le implicazioni politiche economiche militari per la classe, perché il passaggio dello scontro da una fase a un’altra ha proprio questo punto di partenza: l’accelerata attuazione del progetto di controrivoluzione attraverso la forzosa applicazione di un progetto di ristrutturazione che oggi, dalle sperimentazioni, dai tentativi, dalle esortazioni – dalle idee e dalle chiacchiere, insomma – passa alla veemente, inflessibile attuazione delle cose concrete. Questo incide profondamente nella composizione della classe e nelle sue condizioni di vita. Vediamo per prima cosa che l’attuazione delle politiche economiche imperialiste investe come un rullo compressore tutto l’insieme delle componenti di classe proletaria, nessuna esclusa, ciascuna toccata pesantemente nella sua specificità, e senza la possibilità di sottrarsi, nel suo proprio ambito, a un confronto diretto con la globalità del piano nemico. Vengono così a dilatarsi i confini sociali in cui si esplica l’aggressione padronale, per cui componenti proletarie fino ad ora parzialmente privilegiate dalle possibilità della ridistribuzione del reddito, si ritrovano ora a essere oggetto di un attacco tremendo, il bersaglio su cui calano i fendenti della crisi. Si è dunque allargato nel proletariato il fronte delle componenti che, schiacciate dalla crisi e dalla ristrutturazione, si presentano come dato ineliminabile, in contrapposizione di interessi, di bisogni, di potere con la borghesia. Ci si trova così di fronte ad un solo dilemma: o accettare lo scontro globale rivoluzionario, o subire senza speranze. Il dato nuovo è proprio questo. La crisi si abbatte su strati proletari allargati (diversi dalla classe operaia) che già da oggi vivono in termini antagonistici e oggettivamente rivoluzionari la ristrutturazione capitalistica: al Nord come al Sud, nella piccola come nella grande fabbrica, nel quartiere ghetto come nelle corsie di un ospedale.
Si dà quindi oggi la possibilità, storicamente reale, che il movimento rivoluzionario sia movimento di grandi masse, che la ribellione prodotta da questo stato di cose si trasformi in guerra rivoluzionaria. Tutte le questioni che in questi ultimi anni l’avanguardia comunista aveva sollevato e affrontato sono divenute parte del vissuto proletario, contraddizione viva, concreta, verificabile (e parimenti insopportabile) dei soggetti politici e sociali subalterni e sfruttati in questa società. La strategia imperialista individuata, smascherata, denunciata dalle avanguardie, è oggi per grandi masse di proletari la realtà quotidiana, la cruda esistenza di ogni giorno. Il ritmo incalzante della ristrutturazione fa esplodere l’inconciliabilità tra esigenze del capitale e bisogni proletari, per cui ogni istanza proletaria, seppur minima, seppur parziale, non è più né assorbibile né cavalcabile dal capitale, ma mette immediatamente in crisi la globalità del piano e la sua attuabilità, con la conseguenza che lo scontro diventa altrettanto immediatamente scontro di potere. Questo è l’altro dato che caratterizza la fase: nell’attuale situazione il proletariato, comunque ponga il soddisfacimento dei propri bisogni immediati, non essendo questi riconducibili nella loro generalità, all’interno del piano di ristrutturazione, si colloca subito in modo sovversivo, e ogni reale momento di lotta diventa momento di frattura politicamente insanabile.
Per contro, si apre la possibilità di una saldatura ora a un livello enormemente più alto fra strategia rivoluzionaria di lungo periodo e scontro di classe nell’immediato, tra programma comunista e pratica di massa, tra lotta per il potere e lotta per gli obiettivi immediati. Non solo questo, ma si sono create le condizioni perché si produca e si concretizzi un nuovo livello politico organizzativo delle “articolazioni del potere proletario”. Si dà cioè nelle attuali condizioni la possibilità che lo scontro espresso dal movimento di resistenza proletario (che, ricordiamo, è un movimento di massa, è l’insieme dei comportamenti della classe antagonisti alla ristrutturazione) sedimenti in modo cosciente e irreversibile gli organismi rivoluzionari delle masse, anelli indispensabili del sistema del potere proletario. La strategia della lotta armata può trovare oggi una nuova, ricca e formidabile articolazione. Che questa possibilità esista, è confermato anche dal modo con cui la strategia della lotta armata viene oggi vissuta dalla parte più combattiva del proletariato. La lotta armata non è più solo il punto di riferimento costituito dall’avanguardia combattente nella lotta contro lo Stato; l’indicazione strategica per la presa del potere, la prefigurazione della forza e della potenza del movimento di massa rivoluzionario, un’ipotesi politica da verificare e che deve dimostrare di essere credibile. Non è più solo questo, e non ha più questi limiti, ma è divenuta la pratica necessaria e possibile per vaste masse di proletari, per non subire, per continuare a lottare. Diceva un operaio Montedison (uno dei tanti) a un allibito intervistatore in occasione della processione sindacale per l’esecuzione di Gori: “Abbiamo speso tante energie, le abbiamo provate tutte in tanti anni di lotta, senza cambiare nulla su questi problemi di Marghera: comincio a pensare che la strada giusta sia quest’altra, e che bisogna fare come loro”. Il problema di cui parlava è quello che fa di Marghera una camera a gas per una popolazione di 150 mila persone, e le fabbriche della zona altrettanti mattatoi per gli operai che ci lavorano. “La strada giusta” a cui si riferiva è la lotta armata e “loro” sono le Br. Questo per dire che oggi la lotta armata non viene vista come qualcosa con cui simpatizzare o verso cui emotivamente e istintivamente applaudire, ma come la strategia “giusta” per combattere sui problemi concreti e immediati, come la pratica capace di modificare i rapporti di forza tra proletariato e borghesia. La lotta armata è diventata necessaria per milioni di proletari, per i quali non si pone più il problema di solidarizzare con le Occ (e su questo le discriminanti sono nettissime), ma di appropriarsi di una linea capace di rompere l’accerchiamento soffocante del nemico, di demolire, nelle piccole come nelle grandi cose, le insopportabili condizioni della propria vita.
Se tutto ciò caratterizza il passaggio alla fase attuale, accorre cogliere nel contempo, senza la benché minima approssimazione, le peculiarità dell’attuale congiuntura politica. Senza cogliere le particolarità della congiuntura non è possibile dare efficacia alla nostra proposta, non è possibile essere realmente dialettici rispetto all’organizzazione e alla lotta delle masse. Cosa bisogna considerare per valutare la congiuntura politica? Come dice la Ds ’78, gli elementi da tenere in considerazione sono tre:
– il terreno dominante su cui si muove l’iniziativa controrivoluzionaria della borghesia imperialista;
– le condizioni particolari e specifiche che caratterizzano il movimento di resistenza offensivo, e in particolare gli strati proletari più combattivi;
– lo stato reale del partito, o comunque dell’avanguardia armata.
Dobbiamo quindi analizzare questi tre elementi, così come ci si presentano qui e oggi, con estrema esattezza, anche se non dobbiamo cristallizzare il nostro giudizio come in una fotografia, ma vederne il loro possibile sviluppo.
2) Congiuntura e ristrutturazione
- a) La ristrutturazione industriale
L’attuazione delle politiche economiche, in Italia, segue con monotona coerenza le direttive delle centrali imperialiste. L’Italia, in quanto anello debole della catena imperialista, assume su di sé gli aspetti più contraddittori e laceranti della crisi internazionale. In altre parole, al nostro paese spettano i lavori più schifosi, e i capitalisti italiani saranno quelli con l’acqua alla gola più di tutti. Perciò la recessione, provocata dal fatto che il crollo degli investimenti, l’inflazione e la disoccupazione sono ormai delle costanti, si sta traducendo a partire dall’autunno in una offensiva senza precedenti contro i proletari. Ma in tutti i settori tira aria di crisi. In alcuni le cose vanno a gonfie vele: quelli legati all’industria bellica. È questo il campo strategico della ristrutturazione industriale: sempre più l’economia diventa economia di guerra. L’unica produzione che apparentemente non crea ulteriori fattori di crisi economica è quella destinata a distruggere e ad essere distrutta. L’industria bellica vera e propria e quella parte di settori ad essa collegati (nell’elettronica, nel nucleare, in alcune componenti meccaniche, ecc.) hanno avuto un enorme sviluppo proprio in questi anni, tanto che l’Italia è il quarto paese nella graduatoria mondiale dei paesi esportatori di armi. Naturalmente, questa presenza sul mercato mondiale degli armamenti è subordinata alle direttive generali dell’imperialismo americano, che opera un rigido controllo politico su questo settore, e “indirizza” la produzione italiana di armi – nella quale è direttamente presente con uomini e capitali suoi – secondo le esigenze del momento: per es. è noto che dall’America è arrivato il “via” all’Italia per il massiccio rifornimento di armi all’Iraq, proprio poco tempo prima che cominciasse la guerra con l’Iran. Alla regolamentazione americana della produzione di guerra e della sua esportazione, deve corrispondere, per i capitalisti nostrani, un adeguamento della struttura produttiva secondo queste finalità. Essendo l’industria italiana fortemente caratterizzata da una tecnologia medio-alta, essa si trova già in una posizione di vantaggio per assolvere a questo compito. Ma, perciò deve realizzare attraverso la ristrutturazione una differenziazione produttiva che “ricicli” in funzione della produzione di armamenti una parte sempre più rilevante degli impianti. Si tratta cioè di specializzare all’interno di ciascun settore industriale un ciclo per la produzione di guerra, separandolo, potenziandolo e costruendovi sopra una organizzazione del lavoro dalle caratteristiche sempre più “militari”. Oggi infatti la produzione bellica percorre verticalmente tutto l’apparato industriale italiano, dalla siderurgia alla meccanica fine, dall’industria dell’auto all’elettronica, per finire, recentemente, alla chimica e alla farmaceutica. Accanto alle fabbriche esclusivamente dedite alla produzione bellica, assistiamo allo sviluppo in ogni grossa azienda sia privata che di Stato, di reparti organicamente progettati per dare vita alla produzione di armi: questo accade su scala sempre più ampia alla Fiat, per es., all’Ansaldo, alla Borletti, alla Gte, ecc. Tutto ciò, potendo e dovendo differenziare la produzione a questo fine, è una vera manna dal cielo per i capitalisti più in crisi. Si veda il caso della Fiat che, in crisi nel settore dell’auto, trova in quello bellico una grossa valvola di sfogo, così come la trova la cantieristica, che si ristruttura quasi esclusivamente per la produzione di navi da guerra, e lascia così la maggior parte della classe operaia occupata nel settore alla mercé dei più selvaggi piani di ristrutturazione e riduzione del personale. Data la tendenza accelerata alla guerra dell’imperialismo, e l’enorme quantità di risorse buttate nella corsa agli armamenti, si capisce dunque bene come questo settore sia e sarà sempre più privilegiato negli investimenti. Ma ciò, in quanto destinato in ultima analisi alla distruzione non solo di merci ma anche di capitali, porta fatalmente non già a risolvere ma a ingenerare ulteriori fattori di crisi, nel quadro della crisi generale dell’imperialismo. Il ruolo dell’anello debole Italia, dal punto di vista economico e politico, si traduce nel suo opposto dal punto di vista militare, data la sua posizione geopolitica. L’intera economia italiana si subordina allora all’esigenza Nato di trasformare il fianco Sud dell’alleanza in un fondamentale cardine strategico. È un tema che dobbiamo approfondire, nel senso che già oggi la lotta di classe in Italia vive dentro questi rapporti di forza, e si trova dunque nella necessità obiettiva di qualificarsi sempre più in senso antimperialista, all’interno di una nuova strategia internazionalista del proletariato.
La vastità dei temi che solleva l’analisi della ristrutturazione imperialista sta in realtà alla base della definizione di un programma politico di congiuntura. Non vogliamo affrontare qui complessivamente questo programma, ma fissare i punti essenziali, i terreni prioritari per quanto parziali, sui quali cominciare a costruirlo, secondo una linea politica corretta.
Nella fase dell’attuazione del progetto controrivoluzionario, i centri dello scontro, laddove si giocano le mosse iniziali e fondamentali di una lunga partita, sono i luoghi concreti in cui si verifica l’oppressione del proletariato: le grandi fabbriche, per quanto riguarda l’aspetto generale dello scontro, e le galere (e la politica della detenzione in genere) per quanto riguarda il cuore della politica dell’apparato statale.
Avevamo individuato nel piano Pandolfi il piano economico nazionale che, con la più grande coerenza, aderiva alle esigenze dell’imperialismo. Ed è tuttora su di esso che l’economia italiana s’incanala, per rimanere nel novero dei paesi cosiddetti forti. Il piano si diceva triennale, ma a ben vedere sembra che abbia tempi d’attuazione da qui all’eternità. Le sue chiarezze senza mezze misure diventano attacco selvaggio all’intero proletariato, per tamponare le numerose falle di un sistema produttivo destinato a svolgere le mansioni più umili e sporche nella divisione internazionale del lavoro dominata dagli americani. Si dovrà produrre solo ciò che non turba l’egemonia politica ed economica dei veri e forti padroni del carrozzone imperialista. È questo l’imperativo politico che nel piano viene accolto e rispettato con servilismo nella definizione dei tagli di interi settori produttivi, nel saccheggio e nella distruzione di capacità del sistema industriale italiano. La chimica, la siderurgia, il ciclo dell’auto, la gran parte dell’elettronica, ecc., seguono tutti questo filo a piombo. Il crollo degli investimenti e il restringimento della base produttiva vengono sostituiti da due parole magiche: efficienza e produttività.
In termini più propriamente economici ciò significa forzare i meccanismi dell’accumulazione del capitale spingendo oltre ogni limite i confini dello sfruttamento proletario. Il taglio della spesa pubblica, l’aggressione continua ai salari reali, la razionalizzazione dei settori produttivi, ecc., sono le mosse che vengono attuate dentro il disegno padronale per raggiungere questi obiettivi. Gli effetti che si riversano da tutto ciò sul proletariato sono oggi ben visibili nella realtà quotidiana: espulsione di classe operaia occupata e conseguente dilatazione del numero di disoccupati che vanno ad ingrossare le file dell’esercito industriale di riserva, o di un’emarginazione ormai stabile. La mancanza di un reddito investe ora in modo di gran lunga superiore elementi di classe stritolati, soprattutto al Sud, da una condizione di vita sempre più misera. I ritmi di lavoro non sono mai sufficientemente elevati, c’è sempre qualcosa di più da spremere sia dal lavoro operaio produttivo che da quello dei servizi, come rimedio universale in sostituzione del crollo degli investimenti.
Non c’è un solo settore produttivo o improduttivo in cui la nocività non sia in vertiginoso aumento. In casi sempre più numerosi come nel ciclo chimico o nel siderurgico o nel lavoro ospedaliero, si è arrivati a non avere garantita neppure la sopravvivenza. Con gli attuali rapporti di produzione, e con l’attuale classe dominante, l’opera dell’uomo sull’ambiente non sviluppa un potenziamento delle risorse umane e naturali, ma la loro distruzione in un rapporto definitivamente stravolto.
L’insieme di queste contraddizioni si è riversato negli anni scorsi sulla classe operaia delle piccole fabbriche e sui lavoratori dei settori produttivi, dove era più facile per il capitale muoversi fin da subito con estrema disinvoltura.
Ma in ciò occorre vedere la conferma di quel che nel piano viene chiaramente ribadito: la centralità della grande impresa multinazionale. Questo non significa affatto che la grande impresa viene preservata dagli effetti della crisi, ma soltanto privilegiata dalla ristrutturazione, e che a pagare per primi i costi della crisi sono quei settori che, a differenza della grande impresa, sono meno adeguati ai rigidi schemi della divisione internazionale del lavoro. Ma se l’intervento previsto dal piano in molti casi è stato attuato con la mano del chirurgo, per la grande impresa si opera con la mannaia del macellaio. È Agnelli naturalmente che si è assunto l’incarico del capofila. L’offensiva scatenata contro la classe operaia Fiat, l’accordo capestro sui licenziamenti mascherati siglato con le confederazioni sindacali, dovrebbero essere le pietre miliari di un vero e proprio massacro politico della classe operaia. La capitolazione dei vertici sindacali che ha concluso la vertenza ci dà la misura di che razza di vicolo cieco sia la politica sindacalista-revisionista, e a quale suicidio essa inevitabilmente conduca (suicidio, fra l’altro che non risparmierà neppure i bonzi che ne sono gli apologeti): ma ci dà anche la misura della reale integrazione degli apparati del revisionismo nostrano con lo Sim. Naturalmente, non si tratta più di ottenere il coinvolgimento del Pci attraverso la formula morotea della solidarietà nazionale, né di consentire margini seppur minimi di contrattazione sindacale, ma di mettere la firma di Lama in calce ai piani di Agnelli.
C’è da dire che questa offensiva il padronato italiano l’ha preparata con molta cura, e attraverso tappe facilmente identificabili: 61 licenziamenti esemplari della Fiat, che hanno di fatto dichiarato illegale ogni forma di lotta; lo sterminio di un’intera fascia di avanguardie operative, vera struttura portante del Mpro, accompagnato dall’arresto di centinaia di compagni; le migliaia di licenziamenti attuati silenziosamente quest’estate per assenteismo, per arrivare infine, allo scontro aperto generale di quest’autunno.
Ma è vero che per i padroni le cose stanno andando tutte così lisce? Non ci sembra proprio. La reazione operaia contro la stangata governativo-sindacale di luglio, la lotta e la coscienza di classe espressa alla Fiat davanti ai cancelli e sotto i palchi dei bonzi sindacali non sono solo una pesante ipoteca su questo progetto, ma costituiscono la materializzazione di un movimento di resistenza che nessuno si illude di avere battuto. Al contrario, la tenacia, la forza, la mobilitazione con cui la classe operaia resiste alla ristrutturazione sono l’esaltante premessa di un nuovo ciclo di lotte, durante il quale il potere proletario armato si estenderà e si rafforzerà. Quelle che oggi agli opportunisti appaiono come delle irrimediabili sconfitte, segnano invece la presa di coscienza per migliaia di operai della necessità della lotta armata per il comunismo, e della necessità di progredire e organizzarsi, per non farsi schiacciare. Anche questa volta i padroni e i loro lacchè sperano di aver vinto, ma anche questa volta si bruceranno le dita.
Se la disperata ricerca di margini di profitto porta a un attacco che si configura ormai nei termini dell’annientamento politico, non bisogna pensare che esso non abbia una tattica, attraverso una molteplicità di strumenti che non va sottovalutata. La ristrutturazione delle fabbriche è oggi il centro dell’iniziativa antiproletaria, e pertanto oggetto degli sforzi congiunti delle forze controrivoluzionarie. Essa cioè non si limita a ridimensionare alcuni settori e potenziarne altri, secondo la maggior composizione organica di capitale che quel tipo di produzione ha in sé, ma è una precisa strategia complessiva che attraversa ogni settore dell’economia industriale in profondità, nell’organizzazione del lavoro, nelle forme della composizione di classe, anche se tutto questo provoca non poche contraddizioni in campo borghese.
La centralità politica della grande impresa, dato il suo carattere multinazionale, ha avuto la sua verifica attraverso la contrazione del mercato interno, volta a favorire l’inserimento dell’intera economia industriale nel mercato internazionale. Questa è una delle principali conseguenze della ricerca di maggior “valore aggiunto” delle merci nell’attuale crisi. Questa politica economica è diventata unitaria, (abbracciando settori avanzati e arretrati, grandi e piccole aziende) grazie all’ampliamento della struttura creditizia. Lo sviluppo del capitale bancario e industriale è andato oltre la fusione diretta di capitale bancario e industriale, verso forme sempre più sofisticate di controllo dei vari momenti produttivi da parte dello Stato-banca e delle grandi imprese. Finanziarie e Consorzi non si limitano a condizionare le scelte di mercato, contribuendo a modellare quest’ultimo, ma più in profondità definiscono spesso persino gli organici, la scelta del prodotto, la sua quantità nelle singole aziende in crisi, ecc. Da un lato questa struttura accentua i conflitti interborghesi (vedi la lotta contro il carattere anarchico dell’economia sommersa, lo scannamento tra borghesia privata e di Stato, ecc.), ma dall’altro ha consentito, sulla classe, che l’attacco all’occupazione diventasse il perno della ristrutturazione, in una regia sapientemente differenziata. L’attacco all’occupazione, per i modi in cui viene condotto, si traduce in un processo continuo di stratificazione del proletariato, il quale è costretto a mutare le forme specifiche della sua composizione di classe. Per fare un esempio: parallelamente alla temporanea sospensione dei licenziamenti Fiat, sono stati sospesi una serie di crediti al mondo consortile delle piccole e medie aziende. Il che significa un ulteriore aumento di licenziamenti in questo comparto oltre a quelli previsti dalla Gepi, che come tutti sanno è un ente di salvataggio.
Sviluppo del controllo da parte del capitale finanziario (di Stato e privato insieme) e attacco all’occupazione oltre a essere aspetti legati sono momenti di fondamentale importanza in questa fase ormai irreversibile dello sviluppo capitalistico, quando la possibilità di investimento non dipende da possibilità reali di allargamento della base produttiva, ma dalla adattabilità alla sopravvivenza attraverso l’accumulo di tecnologia e la capacità di super sfruttamento. Sotto questo profilo, i settori di classe che non vivono gli aspetti più stridenti della ristrutturazione sono quelli appartenenti alla produzione considerata trainante, ad alta tecnologia. Ma in Italia questi settori occupano una parte ridotta dell’intero apparato industriale, dato il tipo particolare del nostro sviluppo capitalistico. Essi godono dei migliori appannaggi (data la larga presenza di capitale di Stato, che monopolizza, per es. il settore nucleare), e occupano una classe operaia numericamente ristretta, con occupazione relativamente stabile e con una reale capacità professionale, adeguata alla tecnologia moderna. Perciò, questi settori sono tanto importanti nell’analisi per capire l’evoluzione della ristrutturazione in generale, quanto poco indicativi della dinamica della lotta di classe.
Centro dell’attacco della borghesia imperialista e cuore della lotta di classe in Italia sono gli operai che lavorano nei settori a tecnologia “media”. Si tratta dei settori che caratterizzano la maggior parte dello sviluppo capitalistico italiano, non solo fino ad oggi, ma anche nel nostro futuro di paese di serie B. Si va dall’auto alla cantieristica civile, che sono settori strutturalmente a tecnologia media, al tipo di chimica o di siderurgia o persino di elettronica (civile) che l’Italia deve produrre, non potendo aspirare a mete più raffinate, per le quali dipende dai brevetti stranieri. Tutta questa produzione è quella in cui è concentrata la maggior parte della classe operaia delle grandi fabbriche, oltre che il maggior numero di operai in assoluto. Ed è prevalentemente in mano alle multinazionali private. Lo scontro tra borghesia privata e di Stato racchiude un conflitto di potere che ha questa base strutturale.
La necessità di elevare la composizione del capitale fisso rispetto alla situazione precedente. Ciò infatti significherebbe allargare la base produttiva in vista di un’espansione del mercato: insomma, ignorare la crisi, l’economicità, il buon senso. Si realizzano allora le seguenti condizioni:
– diminuzione degli occupati in rapporto al capitale fisso esistente;
– riadeguamento dell’organizzazione della produzione alla nuova quantità di forza-lavoro impiegata (con relativi investimenti in questo senso);
– conseguente rafforzamento dell’autorità della produzione come “piano”, che si contrappone al singolo operaio nel mantenere i nuovi livelli di sfruttamento.
Oggi, come vediamo, il primo punto non si dà più con lo stillicidio dei licenziamenti nelle piccole fabbriche e il blocco del turn-over generalizzato, ma come un’ondata di licenziamenti, epicentro di un attacco economico politico e militare che riguarda l’intera stratificazione proletaria e la sua capacità di lotta, a partire dai suoi punti più alti. Parallelamente, lo sviluppo dell’automazione vuole espropriare con l’esasperata parcellizzazione del lavoro manuale, ogni possibilità della classe di contrapporsi al capitale, a partire dal potere “contrattuale” costituito dalla conoscenza del processo produttivo complesso; e vuole realizzare la possibilità materiale di sfruttare ancora di più la forza lavoro viva. La rivoluzione industriale dell’informatica applica non solo agli impianti, ma ormai anche a molti prodotti finiti, i microprocessori, che immettono in un unico pezzo quello che era il frutto meccanico di un insieme di mansioni operaie professionalizzate.
Due sono le cose di questo processo sulla composizione di classe in questi settori (e quindi per la maggior parte, e la più combattiva, della classe operaia). Da un lato si diffonde ancor più la figura di classe più espropriata e sfruttata, che abbiamo definito “operaio massa”. Pensare all’operaio massa come l’addetto alle catene o alle “vecchie giostre” o ai “ tappeti” e cose simili, legate ai compiti dell’assemblaggio, è quanto di più riduttivo si possa pensare. Da tempo ormai, con l’estendersi dell’informatica, ogni macchina utensile può trasformare il suo addetto in operaio di massa anche nelle piccole fabbriche riciclate nella produzione della “scelta europea”. Causa di questo processo è l’uso sempre più massiccio della scienza come forza produttiva contrapposta al lavoro manuale, per mantenere gli attuali rapporti di produzione. Il corrispettivo della diffusione dell’operaio massa è perciò con tutta naturalezza l’aumento a dismisura delle funzioni di controllo. In parole povere alle vecchie divisioni basate sulla professionalità si va oggi sostituendo una nuova forma di divisione, in cui il piano del capitale nella produzione appare in tutta la sua ostilità come controllo sul lavoro parcellizzato. Non solo i capi si trasformano in puri sbirri, ma le stesse aristocrazie operaie di vecchio tipo vengono via via sostituite da una nuova aristocrazia che si distingue dal fatto che nelle sue varie funzioni (sindacali e professionali) tocca sempre meno l’utensile per limitarsi a guardare quelli che lo usano: e quindi è improduttiva e non operaia. Mai come per questi strati di operai massa la presunta neutralità dello sviluppo delle forze produttive, sbandierata dai revisionisti, è apparsa in tutta la sua assurdità. Le forze produttive a partire da quel che oggi è la classe operaia, sono plasmate secondo gli attuali rapporti di produzione, che appaiono in tutta la loro ferocia.
Accanto a questi strati di classe se ne affiancano oggi altri di settori a bassa tecnologia nelle piccole e medie fabbriche, e i lavoratori dei servizi. Il rastrellamento di una massa maggiore di plusvalore relativo nelle aziende a tecnologia media diventa, dove la tecnologia è più bassa, ricerca di un maggior plusvalore assoluto. La riduzione dei costi di lavoro non potendo però avvenire tramite il prolungamento permanente della giornata lavorativa, avviene attraverso lo “spremere al massimo quanto serve”. L’industria di questi settori trasforma i suoi addetti in operai massa precari, la cui stabilità occupazionale sottostà ai minimi cambiamenti di “umore” del mercato, secondo le esigenze del giro grosso delle grandi imprese. Il carattere “indotto” di questo mondo non deriva più, cioè, solo dal fatto che in esso è concentrata la produzione della componentistica per le grandi imprese, perché è la sua stessa esistenza che è “indotta” come fenomeno direttamente dipendente dal sistema integrato dalla grande impresa attraverso i meccanismi della intermediazione finanziaria. Come già vediamo in tendenza nella Direzione Strategica del 1978, la precarietà non riguarda più il singolo operaio, ma la stessa unità produttiva in cui l’operaio è inserito, come valvola di sfogo del sistema delle multinazionali. Abbiamo messo i lavoratori dei servizi alla stessa stregua di questi strati operai pur non essendo produttivi, per un motivo molto semplice: nella politica fiscale dello Stato essi rientrano ormai nella voce “taglio della spesa pubblica”. Lo Stato, nella sua veste di imprenditore nei settori trainanti, nella sua veste di capitalista collettivo che deve mediare con le esigenze delle multinazionali private, di finanziatore di sbirri ecc, non può che rifarsi sotto questa voce. I lavoratori dei servizi perdono ogni residua sembianza di strati proletari privilegiati, sono destinati anch’essi a subire uno sfruttamento sempre maggiore, in un numero sempre minore.
La ristrutturazione economica, e in particolare quella dell’apparato industriale, persegue quindi l’intento di accumulare capitale e di attivare i meccanismi che a questo sono funzionali.
Ma questo naturalmente ai capitalisti non basta. Essi sanno che devono sconfiggere la resistenza proletaria, che il successo del loro piano è subordinato alla sconfitta del movimento di classe. Tutto il piano di ristrutturazione infatti è formato da due condizioni politiche: mobilità e militarizzazione.
La mobilità è il principio che guida ogni mossa, anche la più piccola, della ristrutturazione. Significa che, nel progettare la chiusura di una fabbrica, lo smembramento di un reparto, la modifica di un qualsiasi processo produttivo, l’obiettivo che i padroni tentano di raggiungere è quello di smembrare la composizione di classe, con una stratificazione in cui sia sempre più difficile l’identificazione proletaria e la possibilità di riunificare il proletariato. Per i capitalisti il proletariato serve “mobile” perché possa essere duttile e malleabile. Il restringimento della base produttiva segue certamente le esigenze economiche del capitale, ma nel modo di raggiungerlo deve ottenere lo scopo di impedire l’unità di classe, di frantumare l’organizzazione autonoma, di annichilire preventivamente la crescita e lo sviluppo della coscienza e della lotta proletaria.
I licenziamenti non vogliono dire soltanto buttare un sacco di gente sul lastrico. Vogliono dire anche modificare profondamente la composizione dell’intero proletariato. Vuol dire rendere disponibile, perché ricattata, priva di reddito, una fetta sempre maggiore di proletari al lavoro nero, saltuario, precario. Si realizza così una dispersione della potenzialità proletaria nei mille rivoli del lavoro supersfruttato. Ogni movimento di capitale, ogni licenziamento, ogni spostamento di reparto, ogni capillare manovra è rivolta ad intaccare la composizione politica della classe, ed è per questo che la mobilità va combattuta come il peggiore dei nemici. Ed è per questo che la resistenza proletaria quando si misura su questo terreno è offensiva.
È scontro di potere in una prospettiva di superamento delle divisioni di classe.
La militarizzazione è l’altro aspetto caratterizzante della ristrutturazione economica, che nel sistema produttivo raggiunge il massimo della sua applicazione. Tutto il complesso progetto, settore per settore, di automatizzazione della produzione tende a porre sotto un rigido controllo di tipo militare gli operai. Vale a dire: l’automazione ha come obiettivo quello di legare l’uomo alla macchina, in modo che sia quest’ultima a determinare i ritmi e le cadenze. Si cerca così di rendere “oggettivo” il rapporto uomo-macchina e di annullare definitivamente la soggettività dell’operaio. L’organizzazione del lavoro punta, attraverso l’applicazione di sistemi avanzati, a vincolare senza la possibilità di potersene sottrarre, i comportamenti operai, la loro possibilità di interazione col loro lavoro, al meccanismo autonomo e determinante della catena produttiva. La speranza è che così facendo venga eliminata quella “fastidiosa “ microconflittualità che la resistenza opera pratica tutti i giorni.
Ogni forma del processo produttivo, dell’organizzazione del lavoro, per quanto mistificata e lubrificata dalla demagogia padron-sindacale, è guidata da questo perfido intento: sottoporre in ogni luogo di lavoro, in ogni reparto, in ogni linea, la classe operaia ad un “nuovo modo di fare la produzione”, ad una nuova organizzazione che abbia in sé la capacità di castrare la soggettività operaia.
Parallelamente a questi meccanismi oggettivi (insiti cioè nel processo produttivo) agiscono altri di tipo soggettivo. Sono i molteplici strumenti di controllo, aperti e sputtanati, quali i capi, i guardiani, i sindacalisti, i carabinieri sulle linee, i Digos, le schede di identificazione personale (applicazione superlativa dell’informatica per il controllo, per seguire in ogni istante i comportamenti individuali degli operai) le telecamere ovunque, ecc. È così che una fabbrica, un ospedale, uno scalo ferroviario assomigliano sempre più ad un campo di concentramento, militarizzato a tal punto che il consenso operaio diventa superfluo mentre decisiva è l’impostazione militare.
Si può dire che gli unici “investimenti” fatti negli ultimi tre anni dai capitalisti vanno unicamente in questa direzione. Se la mobilità è l’arma che crea la stratificazione, la militarizzazione è quella che nella stratificazione persegue l’annientamento. Questo è valido in ogni settore di classe: all’informatica impiegata per il controllo nella grande fabbrica corrisponde l’impiego del blindato e la carica della polizia nella piccola; all’assedio permanente nei quartieri ghetto corrispondono le pistolettate omicide dei posti di blocco.
La militarizzazione è la linea strategica della borghesia per mantenere sempre più forzatamente e violentemente le condizioni dello sfruttamento, e per distruggere nel proletariato ciò che è virtualmente possibile.
Combatterla è compito primario delle forze rivoluzionarie.
Combatterla, mobilitando il movimento di resistenza, per disarticolare e distruggere in ogni dove gli strumenti con cui si attua, va nel senso della guerra civile per il Comunismo e della costruzione del potere proletario.
Lo scontro fra la strategia padronale e gli interessi immediati del proletariato vive dunque in termini di assoluto antagonismo. L’attacco alle condizioni di vita e di lavoro non riguarda aspetti congiunturali (di mercato o di repressione di una singola lotta), ma vuole caratterizzare i termini essenziali di una intera fase storica. All’interno di una complessa strategia economica e politica, il capitale intende cioè, di fronte alla crisi, “rimodellare” le forze produttive nell’illusione di rendere esterni i suoi rapporti di produzione. E’ per questo che l’attacco agli interessi immediati del proletariato prende anche i connotati dell’annientamento politico. Ma è anche per questo dunque che dal punto di vista operaio, la lotta immediata non può porsi in termini rivendicativi ma diventa scontro di potere.
Da questa possibilità deriva la necessità dell’organizzazione comunista di unificare queste lotte all’interno di un programma di transizione al comunismo. Occupazione, intensificazione dello sfruttamento, nuove forme di controllo e divisione, sono oggi terreni immediati sui quali bisogna saper individuare i nodi strategici del piano meridionale.
Infatti dietro l’attacco differenziato all’occupazione emerge il carattere politico di ogni licenziamento. Carattere politico perché se per i padroni costituisce il punto centrale per una nuova stratificazione delle forze produttive, per i proletari lottare su questo terreno diventa l’articolazione specifica di un programma mirante a lavorare tutti per lavorare meno. Dunque assumere questa parola d’ordine a livello generale può determinare un elemento di unità per tutti i lavoratori, produttivi e improduttivi, può impedire che, per la sua complessa natura, la lotta contro la stratificazione proletaria (blocco del turnover, accordi separati, cassa integrazione prolungata, mobilità, precarietà ecc) si disperda in mille rivoli.
Ogni licenziamento è politico! Nessun licenziamento rimarrà impunito!
La macchina che segna i pezzi, la scheda perforata che determina il lavoro operaio, il capo sbirro, il sindacalista spia, sono gli aspetti più immediatamente visibili, gli ostacoli più diretti di ogni lotta contro la repressione e lo sfruttamento. Lottare contro queste cose vuol dire ormai mettere in discussione una divisione esasperata tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, che avendo sempre meno qualsiasi giustificazione storica, si presenta sempre più come pura imposizione.
Controllare i controllori! Sabotare e colpire l’apparato di controllo: i suoi mezzi, le sue strutture, i suoi uomini! Individuare, isolare e colpire le spie e gli infiltrati!
Riduzione degli organici, nuove forme di divisione nell’organizzazione del lavoro, in connubio con le tecniche di automazione, tese a far dipendere sempre più l’operaio dalla macchina, sono i mezzi che materializzano l’intensificarsi dello sfruttamento. In questo quadro la nocività non è solo frutto di impianti o produzioni arretrate, ma esattamente l’opposto. Nelle mille forme in cui si manifesta la resistenza operaia allo sfruttamento essa deve assumere al suo interno l’obiettivo che: nessun reparto nocivo deve funzionare!
Questa parola d’ordine non mira ad ottenere qualche miglioria dell’ambiente di lavoro o il pagamento di qualche indennità in più, ma a colpire il cuore delle multinazionali nelle loro scelte strategiche, ad affermare potere proletario armato per imporre le finalità collettive della produzione, a ribaltare l’attuale rapporto uomo – natura in una società diversa.
Sabotare con tutti i mezzi l’intensificazione dello sfruttamento! Annientare i massacratori del proletariato!
- La ristrutturazione dello Stato.
- Lo Stato espressione della Borghesia imperialista.
Quando i rapporti di produzione strozzano l’ulteriore espansione delle forze produttive, quando cioè si produce il fenomeno della crisi generale del modo di produzione, la “politica” è costretta a tirare fuori i denti, e ad assumere un ruolo determinante. È la realtà economica, naturalmente, che provoca questa accentuazione del momento politico, determinato in ultima istanza dal livello esplosivo delle contraddizioni fondamentali. Tra parentesi diciamo che questa affermazione non ha nulla di poco ortodosso dal punto di vista marxista: il prevalere del “politico” in alcuni momenti storici non ha nulla a che vedere con la sua presunta autonomia!
L’essenza della posizione dominante dello Stato nella fase di crisi generale sta nella molteplicità dei meccanismi economici, politici, sociali, giuridici, ideologici e militari che pone in essere e fa operare in ogni ambito della società borghese in funzione della sua conservazione, cioè della conservazione dei rapporti capitalistici ormai superati.
Il carattere strutturale della crisi non fa che potenziare il ruolo dello Stato quale rappresentante dell’interesse delle multinazionali. Se l’allargamento delle funzioni dello Stato, che sempre più deve intervenire per controbattere la tendenza alla crisi insita nel modo di produzione capitalistico, porta alla crisi della forma–Stato stessa, ciò non significa affatto che questa crisi ne diminuisca il ruolo. All’opposto, essa spinge lo Stato a un salto di qualità. Lo Stato diventa espressione politica reale della borghesia imperialista, perde l’aspetto di rappresentante complessivo dell’intera borghesia e assume definitivamente la forma di Stato Imperialista delle Multinazionali, in quanto aumenta sempre più, in questa fase, l’influenza sostanziale che nel processo di formazione delle decisioni strategiche viene esercitata dalla frazione monopolistica multinazionale del capitale. Lo Stato diventa la determinazione operativa delle centrali imperialiste, e passa decisamente all’attuazione del progetto controrivoluzionario. La politica dello Stato italiano è oggi l’applicazione puntuale delle direttive economiche del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e delle direttive politico–militari della Nato, sotto la guida dell’imperialismo americano.
Al di là delle apparenze di un quadro di democrazia parlamentare che viene formalmente e opportunamente mantenuto, da una parte, il personale politico imperialista si concentra nei Ministeri e Istituti chiave dello Stato (Ministero del tesoro, Banca d’Italia,…) così come negli anelli del comando padronale (Confindustria, Intersind,…), i cui funzionari vengono oggi a costituire il nerbo dell’imperialismo, e dall’altra i CC diventano l’esercito antiproletario in tutta la complessità delle sue funzioni integrate nella strategia globale della Nato.
Nella metamorfosi della forma dello Stato non possiamo vedere certo lo sviluppo di una politica socio–assistenziale, come gli scienziati sociali borghesi si affannano a dimostrare, cioè una politica volta a porre rimedio alle contraddizioni dello sviluppo capitalistico attraverso una serie di interventi molteplici ed integrati nel sociale, quanto lo svilupparsi e il consolidarsi di una politica “social–militare”. Lo Stato si determina come Stato della controrivoluzione preventiva, con la funzione di garantire i presupposti stessi dell’accumulazione e, contemporaneamente, di difenderli con la forza delle armi.
Da Stato per il controllo sociale tende a trasformarsi in Stato per la guerra.
Ma esso non riesce più a risolvere la questione decisiva: la governabilità del sistema, perché nessun esecutivo, per quanto onnipotente, riuscirà mai a mettere d’accordo le richieste degli strati sociali supersfruttati, marginalizzati dalla riduzione della base produttiva, privati di realistico futuro, con le leggi dell’accumulazione capitalistica. Proprio per questo le contraddizioni che l’intervento dello Stato produce nei confronti della borghesia e all’interno delle sue diverse frazioni andranno adeguatamente considerate, per individuarne i punti deboli e portare con più efficacia il nostro attacco. Non devono però esser sopravvalutate, se non si vogliono correre tragici errori nella valutazione della congiuntura. Vediamo le polemiche furibonde di alcuni settori dell’industria privata verso la concorrenza dello Stato, o più ancora sull’entità e sulla distribuzione della spesa pubblica. Vediamo le lotte selvagge che si sviluppano per il controllo del sistema bancario. Vediamo come si sbranano i partiti tra di loro… Ma queste contraddizioni riguardano sempre un aspetto particolare, una delle facce dello Stato, mai quella principale: quella rivolta al mantenimento degli attuali rapporti di produzione attraverso meccanismi molteplici, in cui il momento essenziale è costituito dal “no” al proletariato su tutta la linea (dalle sue esigenze immediate a quelle strategiche). Attorno a questo obiettivo principale la borghesia, in questa congiuntura, si trova più che mai compatta!
Il “farsi Stato” di ogni frazione della classe borghese risponde proprio a questa esigenza irrinunciabile, e caratterizza l’attuale congiuntura. Il farsi Stato di queste frazioni non significa infatti che esse diventano tutte stupidamente subalterne a ciò che dice il governo, ma avviene all’opposto una ridefinizione profonda del ruolo di tutte le istituzioni economiche, sociali e politiche della società borghese. Da rappresentanti degli interessi di questa o quella parte sociale, tutti ricomposti e unificati nello Stato attraverso l’istituzione parlamentare, esse oggi hanno un ruolo rovesciato. Si sono trasformate negli apparati della coercizione indiretta (non militare) dello Stato: apparati civili per il consenso e per l’esecuzione della controrivoluzione nei vari ambiti.
Attraverso una logica contraddittoria quanto inesorabile, il “cuore dello Stato” ossia la strategia politica della borghesia imperialista, diventa sempre più controparte immediata dei proletari.
- Il ruolo della Dc, partito–regime
In Italia affrontare un problema dello Stato significa affrontare il problema della Dc, perché la Dc materializza in sé tutto quanto dobbiamo combattere e distruggere. Questo partito in più di trent’anni ha saputo compenetrarsi con il potere in tutte le sue articolazioni, in tutte le sue forme, tanto da diventare il potere, da identificarsi con la struttura economica, politica, militare dello Stato stesso. Al punto che distruggere la Dc significa distruggere l’intero sistema politico–istituzionale che la borghesia italiana, con l’aiuto determinante dell’imperialismo americano ha costruito dal dopoguerra ad oggi.
La Dc è diventata così il partito-regime che si è impadronito dello Stato, che ha modellato a sua immagine e somiglianza, che ne ha fatto lo strumento del suo potere. Quando si dice che la Dc materializza in sé tutto quanto dobbiamo combattere e distruggere si dice proprio questo. Il proletariato nella sua lotta di ogni giorno è proprio la Dc che si trova continuamente di fronte. E se la trova di fronte nell’insieme delle sue varie funzioni, strettamente intrecciate una nell’altra: quella di partito-imprenditore, di partito-banca, di partito-Stato,che tutti assieme definiscono appunto la sua natura intrinseca di vero e proprio partito-regime.
La Dc è partito-imprenditore essendo il partito che ha pilotato l’intero processo di sviluppo industriale in Italia nel dopoguerra, ponendosi come il partito del grande capitale privato. Nello stesso tempo controlla, attraverso il sistema delle Partecipazioni Statali, il capitale pubblico. Dentro la Dc è dunque organizzata la grande borghesia monopolistica di Stato, intimamente legata al capitale multinazionale ed estremamente attiva su piano della penetrazione imperialistica del capitale italiano nei paesi del terzo mondo. È questa frazione della borghesia che guida in Italia i processi di ristrutturazione che coinvolgono tutta una serie di settori decisivi, quali il siderurgico, il cantieristico, l’energetico, l’elettronico… Questa borghesia, attraverso il controllo dell’industria di Stato, è in grado di controllare e orientare lungo la via della ristrutturazione parti consistenti dell’industria privata, assumendosi una funzione trainante. Ma, in quanto partito–imprenditore, la Dc copre una molteplicità di figure, organizzando politicamente parte della piccola industria (Confapi), della borghesia agraria e rurale (Confagricoltura), e dell’artigianato. Inoltre, una delle più salde roccaforti del suo potere sta nel controllo pressoché totale che essa ha delle camere di commercio, attraverso le quali può estendere il suo potere in tutte le articolazioni e gli aspetti del meccanismo economico.
Ai fini di questa posizione di dominio, è tuttavia essenziale l’altra funzione della Dc quella di partito-banca.
Il sistema delle banche è saldamente nel suo pugno, e non c’è lotta per quanto feroce che la Dc non sia disposta a mantenere pur di mantenerlo. Attraverso il controllo del credito, gli uomini-banca della Dc esercitano un enorme potere nei confronti dell’intera struttura produttiva, tanto più che la Dc non controlla solo gli Istituti centrali, laddove, in accordo strettissimo con gli istituti del capitale multinazionale, si decidono le politiche monetarie e finanziarie, ma controlla pure tutta la rete capillare delle Casse di Risparmio. Così solo la Dc è in grado di omogeneizzare sulle linee portanti della ristrutturazione l’intera borghesia italiana, costituendone l’esempio propulsore e unificante.
Ma infine la Dc è anche partito-Stato. Cioè è il partito in cui si raccoglie la maggior parte del personale politico imperialista che costituisce il nerbo dello Stato, annidato nei Ministeri, negli Uffici studi, nelle Commissioni che a livello nazionale e internazionale, mettono a punto le strategie della controrivoluzione preventiva. Abbiamo sempre visto nella Dc l’asse portante del progetto, la forza che polarizzava un quadro politico in formazione, forte, omogeneo, adeguato alle esigenze ferree della ristrutturazione. Ma ora la Dc è qualcosa di più e di diverso.
È la struttura politica attorno alla quale si è cementato il nuovo livello di stabilizzazione del quadro politico, il partito che ha richiamato attorno a sé un coacervo di componenti politiche coalizzate nella applicazione (e non più solo nella elaborazione) del piano controrivoluzionario. Ha selezionato il personale di questa coalizione che ha assunto in toto la direzione del progetto stesso, raggiungendo così un grado di operatività di gran lunga più elevato del precedente, relegando ad un livello molto secondario le contraddizioni interne alla normale dialettica del potere. Questo noi dobbiamo saper vedere, al di là delle lotte intestine e dei balletti che ogni volta accompagnano la formazione e l’immancabile successiva caduta dei vari governi.
È il personale specializzato di questo partito – Stato che ha messo insieme quella specie di Bibbia controrivoluzionaria che è il piano Pandolfi, e che si prepara a gestire la controrivoluzione preventiva, cioè l’insieme delle politiche di controllo sociale e di militarizzazione che possono permettere l’attuazione del piano stesso. Non c’è alcun aspetto che questi uomini-Stato trascurano; quand’è in gioco il dominio della loro classe, quando la resistenza proletaria e l’attacco delle avanguardie rivoluzionarie smaschera fino in fondo il volto livido e reazionario dei loro progetti. E non c’è oggi Ministero, banca o direzione aziendale in cui la Dc non sia presente e attiva, per condurre in prima persona questa offensiva.
La Dc è l’asse portante dell’attuazione della controrivoluzione imperialista che dobbiamo attaccare e distruggere.
Questa linea deve tenere conto delle forme concrete con cui gli uomini di questo partito esercitano le loro funzioni di personale politico imperialista, organizzandosi nei diversi gruppi e consorterie che rappresentano all’interno dello Stato e dei suoi apparati altrettante frazioni del capitale monopolistico multinazionale. È a partire da qui che si può definire una linea selettiva di attacco alla Dc veramente efficace, cioè in grado di produrre contraddizioni strategiche.
L’attacco va portato contro quegli uomini e quelle strutture che, all’interno del partito, dello Stato, dell’apparato produttivo, sono espressioni delle consorterie dominanti della borghesia imperialista, e che attraverso di esse svolgono funzioni centrali di comando, gestione ed elaborazione. Proprio perché la Dc è il partito che da un lato raccoglie gran parte del personale specializzato delle consorterie dominanti, e dall’altro ne costituisce un fondamentale veicolo di potere politico, attaccarla vuol dire attaccare il cuore dello Stato. Disarticolare e annientare la Dc è il presupposto per la disarticolazione e la distruzione dello Stato.
Attaccare la Dc per attaccare le consorterie dominanti!
Colpire gli uomini della Dc che nel partito, negli apparati dello Stato, nel sistema produttivo guidano il processo di ristrutturazione imperialista!
Isolare e disarticolare i terminali periferici attraverso i quali il potere e il controllo sociale della Dc si esercita!
- Il Partito Comunista Italiano, ovvero il partito dello Stato dentro la classe operaia
Oggi non si possono analizzare i processi di ristrutturazione dello Stato senza considerare il ruolo che in essi assumono il Pci e il sindacato. Non è il caso di raccontare qui la triste parabola del revisionismo, che milioni di proletari hanno davanti agli occhi. Il risultato è un Pci che con Berlinguer ha finalmente e definitivamente riconosciuto la centralità del potere della Dc in Italia; che concepisce la sua politica in esclusiva funzione di alleanza con la Dc, che ha accettato fino alle sue ultime conseguenze politiche e militari l’integrazione dell’Italia nello schieramento imperialista; che si è fatto portatore, all’interno della classe operaia, delle più sottili e perfide istanze di controllo sociale per conto della borghesia imperialista; che è diventato, nei quartieri e nelle fabbriche, il miglior alleato di CC e poliziotti, che cerca di cancellare, in nome del suo “farsi Stato”, ogni memoria e ogni coscienza di classe nelle masse proletarie. Il Pci, in effetti, da tempo e in forma esplicita, ha fatto proprie le esigenze di larghi strati di piccola e media borghesia, e si sforza in ogni modo di imporle alla sua base proletaria, insieme a tutte le istanze di efficienza e di razionalizzazione capitalistica dell’apparato produttivo.
Il Pci e il potere economico.
All’interno dell’industria di Stato, un grande numero di esperti e manager trovano nel Pci il loro referente politico. Da costoro partono ambiziosi e particolareggiati progetti di ristrutturazione capitalistica dell’apparato produttivo (vedi per es. il ruolo di Castellano e della sua banda nella ristrutturazione del gruppo Ansaldo), e le più pericolose politiche di contenimento delle esigenze proletarie, sacrificate ai miti della efficienza e produttività. Inoltre, il Pci dedica un impegno particolare per conquistarsi la piena fiducia dei piccoli e medi industriali – proprio quelli che spesso sfruttano in modo più bestiale il lavoro operaio! – ai quali offre la propria consulenza e la propria alleanza, con la promessa rassicurante della pace sociale. Ed è inoltre imprenditore in proprio, organizzando i suoi “padroncini” sopratutto nella Lega delle Cooperative e occupando una posizione di monopolio nell’intermediazione degli scambi tra l’Italia e i paesi dell’est europeo. Così, il Pci è una delle principali forze che direttamente collaborano alla ristrutturazione della grande industria di Stato, e in forme più immediate con quella privata, ed è diventato, a livello di territorio, il partito dei “padroncini”, cioè delle peggiori sanguisughe del proletariato.
Il Pci e lo Stato.
Le strategie di potere del Pci passano in gran parte attraverso il controllo degli enti locali, che, imitando e sopravanzando persino la Dc, esso trasforma in propri feudi e centri di aggregazione clientelare. Attraverso di essi, inoltre, il Pci si infiltra in tutta una serie di centri decisionali e comincia a mettere piede nel mondo della finanza, e allaccia rapporti sempre più stretti con le strutture periferiche, ma non per questo meno delicate e importanti, dello Stato. A livello centrale, l’attenzione che il Pci dedica al problema dello Stato, e del suo inserimento in esso, è testimoniata dalla mole di lavoro svolto dalla sua Sezione problemi dello Stato, che si è sempre più decisamente posta sulla via della guerra controrivoluzionaria, qualificandosi come vera e propria agenzia al servizio della borghesia imperialista. È soprattutto di lì, infatti, che viene impostata e coordina (…) rivoluzionarie, e la schedatura delle frange più antagoniste del proletariato metropolitano, in supporto dichiarato alle operazioni della Digos e dei CC. Al proposito, è importante osservare come già da molto tempo il Pci abbia compiuto opera di centrismo nella polizia e nella magistratura (Caselli, Calogero, Vigna e soci, stanno lì a dimostrarlo), riproducendo in qualche modo, anche se in scala ridotta, la stessa tattica di compenetrazione nei corpi dello Stato già messa in atto dalla Dc. In questo modo, anche il Pci persegue l’obiettivo di farsi partito-Stato, anche se è perfettamente consapevole che ciò comporta una perenne, strutturale subalternità strategica alla Dc. Entro i margini di questa subalternità, tuttavia, il Pci cerca in tutti i modi di allargare, attraverso i servizi che è in grado di rendere alla borghesia (e che vorrebbe vedere meglio compensati!), la sua area di influenza. In ciò è stato in parte ripagato, perché la sua avanzata elettorale a metà degli anni ’70 non è affatto dovuta all’aumento dei voti operai, ma a quelli di strati sempre più ampi di borghesia, rassicurati dalla sua politica di “diga” nei confronti del proletariato e una diga che si presentava tanto più efficace, in quanto costruita in parte all’interno del proletariato stesso. Ma proprio questo è l’elemento di contraddizione che paralizza il Pci, lo rende privo di una strategia complessiva e credibile, lo rende ostaggio nelle mani della Dc.
Il Pci e la classe.
Il punto essenziale per capire la posizione del Pci, la sua strategia, le ragioni della sua tenuta elettorale (nonostante le recenti sconfitte, che gli vengono proprio da parte operaia e proletaria!) e della sua indubbia capacità di controllo sulla classe operaia sta in una precisa analisi di classe. È giusto dire che il Pci ha sempre avuto il suo punto di forza nella classe operaia per via delle sue radici storiche, ma certo non è oggi sufficiente limitarsi a questo. Su chi il Pci esercita la sua egemonia e perché? Intanto, non solo e non tanto su strati di piccola e media borghesia in quanto tali, e non su quelli che abbiamo chiamato i “padroncini” che solo in base a calcoli di convenienza immediata possono accertarne l’alleanza. In realtà su un piano generale si può affermare invece che il Pci rappresenta tutti gli strati oggettivamente interessati alla funzione principale che esso intende esercitare: la funzione di controllo all’interno del processo produttivo complessivo.
Puntualizziamo due cose:
1) dato lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive e la loro complessità, questa funzione di controllo è di fondamentale importanza; copre un arco vastissimo di ruoli e permette al suo interno ampie e differenziate possibilità di carriera; resta in ogni caso legata al mondo della produzione, rispetto al quale si pone come l’indispensabile cerniera che lo lega alle direttive generali del capitale;
2) gli strati sociali interessati a questa funzione sono assai ampi, e seppure di diversa provenienza definiscono oggi l’area di quella che possiamo chiamare “nuova piccola borghesia”, alla quale fornisce, nell’ambito di quella funzione di controllo, concrete possibilità di mobilità e prestigio sociale, e un’ideologia di tipo tecnocratico, basata sul mito della razionalità produttiva, dell’efficienza, della ristrutturazione, dello sviluppo.
Le ragioni della sua presa sugli strati dell’aristocrazia operaia sono, in questo modo, assai chiare. È il Pci che nella sua quotidiana politica di fabbrica aiuta l’operaio professionalizzato a fare il salto da produttore a controllore della produzione, facendogli contemporaneamente compiere il “salto di classe” che lo stacca dal proletariato per inserirlo in quella “borghesia tecnico-burocratica” che rappresenta nei confronti della produzione il punto di vista del capitale.
Questa politica, condotta insieme dal partito e dal sindacato (non è un mistero il gioco delle parti tra i due, né il fatto che si costruiscono piattaforme rivendicative ad esclusivo vantaggio dell’aristocrazia operaia!), ottiene una serie di risultati:
1) collabora in forma diretta alla nuova organizzazione del lavoro richiesta dalle direttive generali della ristrutturazione. Su questo argomento, berlingueriani e sindacalisti sono in prima fila a fare “proposte costruttive”: solo che vanno a farle agli operai per conto della direzione!
2) spacca la classe, favorendo processi di scomposizione continua che la indeboliscono e la lasciano disarmata di fronte al procedere inesorabile dei processi di ristrutturazione;
3) lascia, in ultima analisi, il proletariato senza alcuna vera rappresentanza politica, neppure a livello degli interessi più immediati, e anzi lo divide cacciandone una parte sempre più grande in una condizione di marginalità, corrompendone un’altra parte con speranze di “carriera” o almeno di sistemazione stabile, reprimendo infine quanti resistono in nome dell’antagonismo e dell’unità di classe. Con il risultato di volgersi anche contro una parte di sé, perché il Pci non esita certo a coinvolgere nella rete dei sospetti di “terrorismo” quella parte della sua base che resta nonostante tutto tenacemente comunista, e consegnarla, alla prima occasione, al potere.
Quella del Pci è una linea politica precisa, che trova riscontro in un largo arco di forze e di interessi, e che dunque ha avuto la sua parte di successo. Tuttavia, essa deve pur sempre giustificarsi in nome di qualcosa che non siano le pure e semplici esigenze del capitale, deve fornire una prospettiva sociale e politica complessiva. Qualche anno fa si trattava delle riforme di struttura, che si sono poi miserevolmente ridotte agli elementi di socialismo, fino a diventare oggi efficienza produttiva (cioè sfruttamento), ristrutturazione e pace sociale.
Cosa è successo? È successo che la crisi capitalistica ha distrutto le basi stesse dell’utopia socialdemocratica del Pci, utopia che non è altro che il cemento ideologico degli strati sociali che esso rappresenta. Le condizioni economiche che potevano illudere circa una gestione democratica e riformista dell’apparato produttivo sono il segno di un tempo che fu! La crisi ha distrutto ogni margine all’ideologia riformista, sì che pian piano al Pci non è rimasto che aspirare alla gestione e alla conservazione dell’esistente, quale esso sia e a qualsiasi prezzo. E ciò ha rivelato fino in fondo la natura subalterna della sua strategia di potere. All’interno del sistema dominato dal capitale multinazionale, questa subalternità politica non è altro infatti che il riflesso della subalternità sostanziale e oggettiva del ruolo occupato dallo strato sociale che si riconosce nel Pci. Un conto è controllare un processo produttivo, e un conto è possederlo e dominarlo!
In altre parole, la funzione di controllo non è che un servizio reso ai padroni: in questo caso, in definitiva alle multinazionali imperialiste.
Una prospettiva incerta e limitata di potere all’ombra della Dc, al servizio della borghesia imperialista, sotto l’ombrello protettivo delle atomiche della Nato: ecco qui tutta la prospettiva strategica del Pci!
Ma nei confronti del proletariato, i revisionisti, pur svolgendo un lavoro subalterno, contribuiscono in modo fondamentale all’allargamento dell’iniziativa controrivoluzionaria. Al di là delle divergenze con la Dc, che resta l’esecutore centrale, essi si sono costituiti in apparato civile per il consenso alla controrivoluzione, lavorando alla costruzione di un blocco sociale a sostegno dello Stato imperialista, da opporre all’avanzata del processo rivoluzionario. Di più, infiltrati come sono all’interno della classe operaia, essi sono in grado di rovesciare su di essa con un grado elevatissimo di pericolosità, la loro politica. Sono i quadri del Pci che spiano, schedano, denunciano. Già da tempo hanno consegnato alla direzione, in tutte le fabbriche italiane, l’elenco dei sospetti “terroristi” e dei loro “fiancheggiatori”. Ora, sono impegnati a tenere aggiornate le liste! E lo stesso sporco lavoro di spionaggio fanno nei quartieri, in stretto contatto con i politicanti della Dc e con ogni genere di sbirri.
Il proletariato deve dunque attaccare il Pci con la massima decisione, e secondo un’opportuna strategia politica. Questa strategia deve distinguere le due funzioni principali lungo le quali il Pci conduce le sue azioni:
1) quella che ne fa un partito dello Stato e dentro lo Stato;
2) quella che svolge nei confronti delle masse.
La prima funzione ha un carattere strategico, e si identifica negli uomini del Pci organicamente integrati nelle strutture dello Stato: magistrati, alti funzionari e manager, amministratori locali, economisti, esperti vari, giornalisti, consulenti e merda simile. Questi uomini sono le cerniere di collegamento tra le istituzioni statali e il Pci: in quanto tali, sono riconosciuti e politicamente indefinibili agli occhi del proletariato. Il loro annientamento militare è immediatamente anche il loro annientamento politico. E si può stare certi che neppure un proletario piangerà per loro!
La seconda funzione presenta problemi più complessi. Dobbiamo infatti considerare che gran parte degli agenti del revisionismo vive ancora in mezzo alle masse, e, appoggiandosi soprattutto a un apparato di partito diffuso e capillare, riesce in qualche modo a legittimarsi come loro rappresentante politico, e a strappare, anche se sempre più raramente, la loro immediata fiducia. È prioritario dunque che la guerriglia faccia chiarezza politica nelle lotte, isolandoli, screditandoli, mettendoli alla gogna, svelando le loro trame e le loro complicità, e cioè, in una parola, li sconfigga politicamente prima che militarmente. Naturalmente, la dialettica tra i due piani è decisiva, nel senso che il primo terreno di attacco è condizione politica assolutamente necessaria del secondo, in quanto ne costituisce l’aspetto strategico. Battere i revisionisti e il loro progetto di controrivoluzione sociale preventiva è condizione necessaria per la conquista delle masse sul terreno della guerra civile antimperialista, e per la costruzione del potere proletario armato.
Se nelle file della borghesia imperialista le iene berlingueriane credono che una tessera in tasca sia un passaporto d’impunità, si sbagliano: verranno annientate senza pietà!
Attaccare i revisionisti che si nascondono tra le masse: smascherarli, isolarli, sollevare contro di loro l’intero proletariato.
- La strategia di guerra in mano ai militari.
Nella controrivoluzione preventiva aumenta, con l’avanzare della crisi e l’estendersi del movimento rivoluzionario, il peso numerico e politico degli apparati diretti della coercizione statale (corpi militari, magistratura, carceri) nella amministrazione delle condizioni di vita del proletariato.
Questo processo, come abbiamo visto è affiancato dal parallelo trasformarsi in apparati indiretti della coercizione statale dei partiti, sindacati, ecc, va oltre lo scopo di annientare le forze comuniste combattenti, perché dà già corpo alle strutture ed ai metodi per la distruzione politica dell’intero proletariato, ossia della lotta di classe in ogni sua forma.
Non essendoci ancora la guerra civile, questa “sproporzione” che trasforma gli apparati coercitivi in un vero e proprio apparato per la guerra, ha due principali motivi:
1) le contraddizioni interimperialistiche, gravissime oggi in particolare in Medio Oriente, aumentano l’importanza dei paesi mediterranei aderenti alla Nato, ed in primo luogo dell’Italia che assume il ruolo di bastione, anello centrale su cui si impernia la strategia militare dell’alleanza atlantica: la linea oltre la quale non si arretra. L’Italia deve essere, per l’imperialismo americano, una base sicura e pacifica in cui tenere la sede dei vari comandi Nato per le forze terrestri e navali del Sud Europa, e in cui organizzare un potente retroterra logistico donde partire per esercitare il dominio sull’area e per fare, se necessario, la guerra (l’Italia è ormai diventata la portaerei del mediterraneo);
2) l’estendersi e il rafforzarsi della forza guerrigliera e la possibilità che intorno ad essa si coaguli e si organizzi l’antagonismo proletario che il meccanismo della crisi riproduce e approfondisce.
Ma la guerriglia in Italia ha già vinto la sua prima e fondamentale battaglia, affermando nei fatti la lotta armata come unica strategia possibile per la conquista del potere proletario. Inoltre, essa ha in sé la capacità di proiettarsi in un contesto internazionale e di collegare la propria azione a quella di tutte le forze e movimenti rivoluzionari che operano nell’area mediterranea.
Lo Stato Imperialista delle Multinazionali è costretto allora a proseguire la politica del dominio col mezzo della guerra per prevenire quella proletaria: ciò determina una assunzione di peso politico da parte dei militari e trasforma sempre più la controrivoluzione preventiva in strategia di guerra in mano ai militari. Tutti i settori della coercizione diretta diventano una struttura integrata posta sotto un comando politico-militare centralizzato. Essendo in atto un tendenziale processo di guerra, il comando passa ai militari.
I CC e l’apparato per la guerra civile.
I militari alla testa della strategia di guerra sono i CC per tre ragioni storiche: la loro struttura è quella di un esercito professionale; la loro finalità è l’ordine pubblico; la loro collocazione nell’Esercito si accompagna a funzioni specifiche integrate alla Nato. A questo si aggiunga la “fedeltà” ottenuta attraverso una rigorosa selezione. I CC sono oggi un vero e proprio esercito antiproletario, forte di 90.000 uomini, e il loro vertice è già lo stato maggiore di un apparato per la guerra civile, perché non solo ha la possibilità di usare tutte le sue truppe nello sviluppo della guerra antiproletaria (vedi le campagne orchestrate su tutto il territorio nazionale sotto il Comando Supremo Centrale di Roma), ma realizza e gestisce una tale complessità di compiti e funzioni integrate che:
– ha bisogno di una totale indipendenza giuridica che separi, come in tutte le guerre, gli apparati militari, nelle loro strutture e operazioni, dai vincoli civili;
– deve ricorrere a questo scopo a un personale “militarizzato” dentro la società: una magistratura di guerra, un personale carcerario per prigionieri di guerra, ecc.
E questo sia per la necessaria copertura formale, che per condurre le operazioni non solo appoggiandosi alle proprie strutture, ma dovunque sia necessario sul territorio nazionale;
– deve avere a disposizione un personale poliziesco, che anche se autonomo, come la Pubblica Sicurezza, la Finanza, i Vigili Urbani… i portinai, abbia una conoscenza specifica e sia introdotto in tutte le realtà sociali in cui devono svilupparsi i suoi interventi;
– deve costruirsi una rete capillare di collaboratori per la raccolta delle informazioni e per promuovere le campagne politiche che “ preparano” le operazioni di terrorismo di massa;
– deve garantirsi il controllo della controguerriglia psicologica che non si basi solo sull’asservimento dei giornali, ma sia centralizzato a partire dagli uffici stampa dei Comandi e delle caserme.
Questo apparato si articola in tre livelli principali:
1) al vertice la struttura speciale costituita dallo stato maggiore “occulto” della guerra, dal nucleo originario oggi molto allargato e altamente professionalizzato, dell’antiguerriglia e dei magistrati di guerra impegnati per settore o per territorio nella lotta alle Occ;
2) un secondo livello che chiameremo di antiguerriglia allargata, costituita dal sistema Digos-Ucigos del Ministero degli Interni, dai nuclei dei CC, di PS, di polizia Giudiziaria, dalle Guardie di Finanza, dai Vigili Urbani, che nelle varie Procure e Sezioni Istruttorie si “interessano” di terrorismo;
3) infine la struttura ordinaria con la relativa truppa, che ormai è struttura di servizio delle altre due.
Ma prima di descriverli meglio vogliamo chiarire cos’è una struttura integrativa.
I vari settori coercitivi militari e civili, ora integrati, hanno più rapporti tra loro all’interno del singolo livello, soprattutto nella struttura speciale, di quanti non ne abbiano tra i diversi livelli uomini e strutture dello stesso settore. L’esempio più lampante è quello dell’uomo di truppa: un normale agente di PS avrà più rapporti con un suo collega CC durante i vari superblocchi, perquisizioni, ecc, di quanti non ne abbia realmente con un suo collega di PS che faccia l’antiguerrigliero più o meno occulto. Il magistrato di guerra ha più rapporti con gli sbirri del suo livello, che con gli altri magistrati. A differenza degli altri, egli non si trova davanti al “fatto compiuto” quando i CC fanno le loro azioni di guerra (vedi per esempio i diversi rapporti della magistratura genovese e del “pool torinese” rispetto alla strage di Via Fracchia a Genova). Altri casi sono meno lampanti: se un sindacalista partecipa all’ormai stranota “assemblea contro il terrorismo” con i relativi magistrati e poliziotti portati in fabbrica, egli non deve necessariamente sapere di fare parte di una campagna orchestrata da un livello superiore, dove i passi successivi saranno operazioni di “terrorismo di massa” e quindi la creazione di strutture antiterroristiche locali con quel che segue.
La struttura integrata consente una capacità di direzione politica da parte del vertice che va oltre l’aspetto immediato, che resta in gran parte occulta, e che consente agli altri livelli di muoversi in un ambito di formale autonomia.
La struttura speciale. È quella che lotta a tempo pieno per annientare le Occ. Si muove con una strategia unitaria a livello nazionale e internazionale che ha modi e tempi propri, indipendenti in larga parte dalla realtà esteriore percepibile delle lotte speciali. È la struttura dominante al di sopra delle altre, di cui si serve, in quanto braccio armato dell’esecutivo centrale e dell’imperialismo. A questo proposito va ulteriormente precisato:
– il vertice della struttura è saldamente in mano ai CC.
Oltre al decreto di dicembre che ha dato la divisione Pastrengo a Dalla Chiesa, la riorganizzazione dei servizi segreti Sismi e Sisde è avvenuta mettendo a capo di entrambi due generali dei CC; e per un generale dei CC è stato inventato un nuovo compito di consigliere militare del Rimbambito Nazionale (il quale però fa parte della struttura ordinaria quale comiziante “antiterrorista” sulle piazze del paese);
– la politica imperialista ha fatto un passo avanti, oltre che con il ruolo assunto dalla Nato nelle vicende interne, con una legislazione europea che dall’uniformazione in materia controrivoluzionaria è passata a fissare spazi giudiziari comuni al di là delle singole frontiere. È come tale che la struttura speciale non risponde a nessun livello giuridico formale dello “Stato democratico”, e si muove secondo una prospettiva indipendente. Quindi, in una logica più rigida militarmente e più clandestina degli altri livelli è il settore strategico degli apparati controrivoluzionari del Sim. La sua funzione particolare è quella di condurre “operazioni speciali” vale a dire quelle operazioni che sul piano militare e su quello politico fissano le linee strategiche della controguerriglia. Se per es. il problema è quello di organizzare la delazione, sarà questa struttura a dare il via, costruendo e guidando un’opportuna campagna. Se è necessario fare un salto di qualità nella repressione in fabbrica, sarà sempre questa a guidare l’arresto di centinaia di operai come è accaduto alla Fiat.
I suoi mercenari sono quelli che per primi hanno sperimentato e affinato nel corso di questi dieci anni, le tecniche antiguerriglia. Oggi la loro pratica assassina e la loro sadica scienza vengono generalizzate ai livelli nuovi che lo Stato fa scendere in campo nella guerra di classe contro il proletariato e le sue avanguardie.
L’antiguerriglia allargata. È la struttura che lotta contro le forze rivoluzionarie e il proletariato avendo di mira intere aree sociali caratterizzate da un insieme di comportamenti antagonistici che abbiamo definito Mpro. È questo il nuovo livello che scende in campo in armi contro il proletariato: è su questo terreno che è indispensabile estendere il combattimento, perché è la struttura portante della controrivoluzione preventiva nell’attuale congiuntura, nel senso che legittima ogni tipo di azione contro i proletari in lotta e agisce preventivamente colpendo a cerchi sempre più allargati, non più con lo scopo di “togliere l’acqua al pesce” (cioè soffocare la guerriglia), ma di bloccare e spegnere l’oggettiva spinta rivoluzionaria che il proletariato esprime ad ogni livello.
Questa forma di antiguerriglia allargata è il nuovo strumento terroristico e di annientamento dell’imperialismo che si muove nella forma di una legalità formale, ogni volta teatralmente ribadita. Le differenze che si notano nei modi di operare tra i nuclei di Dalla Chiesa o Digos, per es., o tra le squadre giudiziarie dei due corpi, sono il riflesso di un’altra caratteristica della controguerriglia. Per quanto influenzata dalla struttura speciale, l’antiguerriglia è dotata di un certo grado di autonomia politica ed esecutiva, per una maggiore aderenza alla realtà politica e sociale, sulla quale vengono portate le iniziative.
La struttura ordinaria. Le sue funzioni ordinarie sono ormai relegate a cose secondarie o a demagogiche operazioni di giustizia formale. È al servizio dei due livelli precedenti, e come tale viene utilizzata ogni volta che se ne presenta il bisogno. Possiamo dire che siamo in presenza di un uso speciale sempre più largo della struttura ordinaria. A parte la funzione storica del personale carcerario, e l’uso della truppa quando la vastità dell’operazione lo richiede, si è avuto l’incremento di:
– funzioni preventive fuori dal lavoro investigativo specializzato, come il controllo delle fabbriche, le scorte e la militarizzazione del territorio. È per es. un luogo comune che le città sono “squadrate” da volanti che non hanno solo il compito di fermarsi se succede qualcosa, ma soprattutto di “cercare”, “guardare”, ecc;
– campagne terroristiche a livello di massa (perquisizioni, rastrellamento, blocchi regionali delle vie di comunicazione,ecc );
– intervento repressivo dove non esiste iniziativa armata o non ci sono “grossi problemi”, almeno per ora (per es. blindati o cariche in piccole fabbriche in loco, caccia agli occupanti di case, repressione di lotte di massa al Sud, ecc);
– fornitura, oltre che di uomini e mezzi, di strutture “speciali” in cui si disseminano gli antiguerriglieri per le loro iniziative più infami (isolamento e torture in piccole caserme decentrate, ristrutturate a questo scopo, per es.).
La magistratura
La magistratura merita un cenno a parte, per analizzare l’evoluzione che ha subito in funzione degli sviluppi della controrivoluzione preventiva. I magistrati sono ormai definitivamente distribuiti nei livelli indicati dell’apparato per la guerra, in base ad una divisione per compiti e all’esperienza che hanno accumulato negli anni.
Al primo livello sta un ristretto “pool” di magistrati di guerra (ben noti alle forze rivoluzionarie!) organicamente collegati ai militari nella strategia di annientamento delle Occ, completamente svincolati da qualsiasi obbligo nei confronti delle istituzioni giudiziarie ordinarie. Questi magistrati sono totalmente integrati nella struttura speciale e si possono ritenere parte dello stato maggiore occulto della guerra.
Al secondo livello sta un vasto strato di sostituti procuratori, giudici istruttori e pretori antioperai, che è alla testa della campagna di criminalizzazione del Mpro che nei tribunali giudicanti ha già distribuito secoli e secoli di galera a migliaia di militanti, e che nelle fabbriche e nei quartieri ha fatto eseguire migliaia di licenziamenti e di sgomberi di case.
Oggi vi è uno sviluppo ulteriore: visto che la gestione del prigioniero al momento della cattura è parte integrante della strategia di guerra, i magistrati non si limitano a svolgere la funzione passiva di copertura giuridica delle pratiche di tortura non riconosciute formalmente dalla borghesia, ma hanno un ruolo attivo prestabilendo per queste pratiche un tempo variabile secondo il soggetto e secondo le caratteristiche dell’operazione. In altre parole, questo preludio alla istituzionalizzazione della tortura scientifica, che non vuole lasciare alternative tra l’annientamento da un lato e il cedimento e la delazione dall’altro, diventa l’intera e reale istruttoria. E così non è un caso che dietro alla struttura speciale, nelle sue operazioni più ambiziose, ci siano sempre figure di giudici istruttori. Proprio per la funzione strategica che deve svolgere, è in questo livello che, ultimamente, il potere ha concentrato il massimo degli sforzi di ristrutturazione in senso efficientista della magistratura, fino a progettare la concentrazione della “lotta al terrorismo” in una serie di grandi procure e sezioni istruttorie metropolitane, che dovranno avere il ruolo di guida e battistrada dell’intero processo di criminalizzazione del movimento rivoluzionario.
Da ultimo, va sottolineato che esiste una mente politica, il Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), che rappresenta la cinghia di trasmissione con l’esecutivo, e che stabilisce le direttive del processo di ristrutturazione della magistratura, attraverso la costituzione di Commissioni di studio, gruppi di lavoro, e la gestione, in collaborazione con vari centri studi nazionali e internazionali, di convegni in cui vengono gettate le basi delle strategie di intervento future, e garantite ogni volta le necessarie coperture scientifiche a ogni pratica d’annientamento. L’importanza del Csm è tale – si tratta di governo della magistratura! – che la sua direzione è sempre stata saldamente in mano alla Dc (da Bosco a Bachelet a Ziletti).
Attaccare lo Stato, rompere l’accerchiamento!
Il “cuore dello Stato”, oltre ad essere una controparte sempre più immediata dei bisogni proletari, vive in una prospettiva di guerra civile, come “accerchiamento politico-militare” delle masse. Attaccare lo Stato vuol dire, in questa congiuntura, rompere l’accerchiamento: in pratica vuol dire qualificare sempre più la propaganda armata come punto di forza di una possibile iniziativa di massa.
In questo senso, l’azione e il programma guerrigliero escono da una logica relativamente “simbolica” dal punto di vista militare, e assumono un carattere “distruttivo”. Non sono ancora, come nella guerra civile dispiegata, azioni dirette ad abbattere definitivamente il sistema di comando e di oppressione, pur essendo azioni di distruzione reale che vengono portate avanti selettivamente secondo priorità politiche: quelle volte, appunto, a rafforzare direttamente la possibile iniziativa di massa. Il programma guerrigliero vive dunque ancora politicamente in una fase di disarticolazione del nemico, e non di distruzione. E questo vale anche nell’attacco all’apparato di guerra dello Stato (sia militare, sia giudiziario, sia carcerario), in cui occorre seguire un progetto di disarticolazione lungo i tre livelli che abbiamo individuato. Il primo livello, quello speciale, è il nemico principale, quello che fa la guerra alle Occ e guida le tappe della guerra civile: va attaccato, ma non è nell’attuale congiuntura “disarticolabile” in concreto. Tuttavia contro di esso – il cuore strategico militare dello Stato imperialista – e contro il personale altamente professionalizzato che lo sostituisce va diretto e concentrato ogni sforzo per un annientamento senza mediazioni.
Ma accanto a questo obiettivo strategico, che le Occ devono saper praticare con continuità ed efficacia adeguate, pena la loro possibilità di crescita e la stessa sopravvivenza, l’obiettivo generale di questa congiuntura rispetto all’apparato militare nel suo complesso è quello di aprire una spaccatura fra il personale antiguerriglia e quello che si rifiuta di svolgere compiti che lo pongono come antagonista diretto del proletariato e delle Occ. Se dunque l’obiettivo strategico è quello di colpire l’apparato di guerra dello Stato nei suoi gangli vitali, bisogna anche condurre con costanza un’opera di annientamento selettivo che privilegi l’antiguerriglia, e non attacchi come tale la struttura ordinaria se non nell’esercizio di particolari funzioni antiproletarie.
La politica è sempre al primo posto. Nel cuore dello Stato non vediamo dunque una somma di apparati da distruggere, ma l’essenza della strategia politica della borghesia imperialista e, all’interno di essa, dobbiamo saper cogliere gli elementi di oggettiva debolezza. Lo schieramento nemico è ormai chiaramente definito in una politica di guerra, in cui ridistribuisce le sue forze politiche, sociali e militari. Ma tutto ciò avviene alla luce di un programma studiato preventivamente, che si deve ancora misurare con un’iniziativa rivoluzionaria adeguata, con un’iniziativa cioè che al tempo stesso crea le condizioni per rafforzare lo schieramento proletario, e perciò centuplica i suoi effetti.
Chi, da un punto di vista obiettivo, è più isolabile dalla popolazione: i Betassa che stanno nei reparti, o le caserme dei CC che torturano e arrestano i proletari? Intorno a chi è più facile fare terra bruciata?
- La controrivoluzione preventiva nel carcerario
Nel settore carcerario la controrivoluzione preventiva ha assunto le forme della strategia differenziata, cioè, in altre parole, di un processo di ristrutturazione continua, nel quale lo Stato imperialista gioca fino in fondo la sua capacità di colpire in modo articolato l’intero movimento di classe, e di predisporre, in base a una precisa linea strategica, gli strumenti per condurre una guerra di classe che, in modo lento e contraddittorio ma irreversibile, sta assumendo sempre più chiaramente i tratti della guerra civile dispiegata.
In questo senso, la strategia differenziata è insieme progetto e sperimentazione. È la manifestazione della capacità del personale politico imperialista, incaricato della sua gestione, di cogliere di volta in volta la specificità dello scontro in atto, e di rispondere con tempestività ed efficienza all’attacco delle forze rivoluzionarie. In questa fase di transizione alla guerra civile, la strategia differenziata è volta a selezionare gli obiettivi e le forme degli apparati della controrivoluzione preventiva in presenza della contraddizione principale che si presenta oggi alla borghesia imperialista: l’impossibilità di arrestare la vita e la crescita della guerriglia. Solo di qui si può capire come l’elemento trainante della strategia differenziata sia appunto la controrivoluzione preventiva, che in questi anni ha fatto, e non poteva non fare, il salto di qualità verso l’affidamento ai militari della condotta complessiva della guerra. La delega ai militari dell’arma dei CC ha lo scopo di concentrare le forze e i mezzi di un intero esercito per tentare di stroncare l’affermarsi della guerriglia e il suo consolidarsi all’interno di sempre più ampi strati di classe. E ha lo scopo, in ordine ai fini che l’imperialismo si propone nella nostra area, di preparare gli uomini e gli strumenti della guerra civile.
Storicamente, in Italia, questa strategia di guerra in mano ai militari si è coagulata materialmente la prima volta nel 77, con l’istituzione delle cosiddette “carceri speciali”, cioè di un circuito carcerario relativamente autonomo, posto sotto il diretto controllo dell’esercito. Quella scelta si collocava all’interno di una strategia di lungo respiro: nel quadro, cioè, di una strategia di guerra. E oggi siamo di fronte alla realtà di uno Stato che proprio in questi anni, affrontando un processo di ristrutturazione continua e affinando i meccanismi della differenziazione, ha costituito un apparato carcerario in grado non solo di contenere o reprimere, entro margini più larghi che in passato, le lotte interne, ma anche di sopportare in tendenza il peso di una guerra civile. Se negli anni passati il potere aveva inseguito le lotte dei proletari prigionieri, oggi con la ristrutturazione del settore le ha sopravanzate.
Se analizziamo a grandi linee le fasi della ristrutturazione, possiamo cogliere meglio i termini di questo passaggio. La strategia differenziata, nella sua prima fase, ha assunto soprattutto l’aspetto immediato di una differenziazione del trattamento dei prigionieri per controllarne e regolamentarne la massa. La separazione fisica delle avanguardie politiche si presentava come condizione per la pacificazione del carcere, come condizione per ristabilire il controllo sociale sui prigionieri provenienti dagli strati disgregati del proletariato metropolitano che, durante una lunga stagione di rivolte, avevano incrinato dalle fondamenta l’intero sistema carcerario italiano. Dalla parte del proletariato, ciò non è del resto che la conseguenza del fatto che l’Italia è il paese europeo nel quale la guerriglia si è radicata in modo irreversibile, in cui più alto è il livello e la qualità politica e militare dello scontro. L’importanza del carcere non sta dunque solo nel fatto che esso rappresenta un nodo centrale nel rapporto di guerra che sempre più oppone il proletariato allo Stato imperialista. Il primo e assolutamente fondamentale elemento che occorre considerare in tutta la sua ricchezza e complessità per impostare una corretta analisi del settore carcerario, e per dare forma a una corrispondente linea di combattimento, è dunque il rapporto complessivo tra rivoluzione e controrivoluzione, così come si è storicamente determinato e come vive nella presente congiuntura.
All’interno di questo quadro, i rapporti di forza esterni si legano dialetticamente con i rapporti di forza espressi dentro il carcere dalle lotte del proletariato prigioniero, e solo in questo legame la linea di combattimento può trovare adeguata definizione. Ma essa deve anche sapersi articolare rispetto alla complessità di un settore della controrivoluzione che lo Stato imperialista sottopone a processi di ristrutturazione continua, differenziandolo sempre più al suo interno. Il carcere, infatti, nel disegno strategico dello Stato, deve rispondere a molti compiti: la regolamentazione di grandi masse proletarie; l’annientamento selettivo e scientifico di avanguardie comuniste combattenti; la diffusione del terrore e di un’immagine di onnipotenza; lo studio e la raccolta di dati sulla guerriglia, come in un laboratorio affidato a una nuova razza di specialisti in tecniche di controspionaggio e d’annientamento.
Il circuito delle carceri speciali e le avanguardie politico-militari del proletariato metropolitano.
Il circuito delle carceri speciali (con i suoi accessori, i bracci speciali all’interno dei grandi giudiziari metropolitani) ha la funzione di annientare politicamente uno strato di proletari che rappresenta di fatto l’avanguardia politico-militare del proletariato metropolitano. Questo circuito è oggi l’anello forte del carcerario, perché il potere l’ha costruito e organizzato in totale separazione dalle altre carceri e l’ha distribuito nelle zone più sicure dall’attacco delle forze rivoluzionarie, e perché in esso si è venuto sempre più concentrando il carattere di strategia di guerra in mano ai militari proprio della strategia differenziata.
La stratificazione dei prigionieri è il prodotto delle lotte del proletariato metropolitano, ed è così composta:
– uno strato di avanguardie storicamente formatesi dentro il carcere, in espansione negli ultimi anni, e in gran parte allineata alla scelta della lotta armata;
– uno strato di militanti delle Occ e di avanguardie provenienti da diverse esperienze di lotta armata, anch’esso in rapido e continuo aumento per le ondate di arresti che si susseguono ormai da tempo;
– uno strato di avanguardie del movimento di classe entrato in carcere in seguito alle periodiche campagne di criminalizzazione del movimento, articolato in una complessa dialettica nei confronti della lotta armata.
In un arco di dieci anni, e specialmente in questi ultimi tempi (a partire dall’aprile scorso sono entrati in carcere circa 600 compagni, accusati di far parte delle Occ e del Mpro!) questo strato è cresciuto enormemente, sino a raggiungere proporzioni di massa tali da determinare in Italia una situazione “cilena”. Del resto, non è un mistero per nessuno che ci sono molti più prigionieri politici oggi in Italia che durante il fascismo.
La difficoltà pratica di isolare un numero così vasto e in costante aumento di prigionieri costringe il potere ad accrescere il numero delle carceri speciali e a sperimentare nuovi sistemi di differenziazione multipla e di scomposizione, per rompere l’unità e la forza oggettiva. La fase attuale è caratterizzata proprio da questa sottile opera di divisione, dispersione e concentrazione dei prigionieri, attraverso un’analisi politica della loro esperienza e dei loro comportamenti, sin dal primo ingresso in carcere. La differenziazione scatta quindi subito e conosce successivamente tutta una serie di gradi diversi che non passano solo e sempre attraverso le condizioni materiali di carcerazione. Un elemento sempre più importante in questo quadro, infatti, è dato dalla composizione dei singoli “speciali”, attentamente calibrata dagli esperti dell’antiguerriglia. Lo scopo per cui i compagni delle Occ e le avanguardie del proletariato prigioniero vengono raggruppati in un certo modo e in certe carceri è per lo più quello di esercitare su di loro uno stretto controllo politico che individui eventuali tensioni e fratture al loro interno, che ne scopra i canali che li legano con l’esterno, che fornisca elementi di conoscenza sulla consistenza e sulle strategie delle Organizzazioni che in Italia si muovono nell’area della lotta armata e sui loro collegamenti.
Il grande passo avanti che il potere ha indubbiamente fatto in questo senso nell’ultimo anno deriva certamente, in parte non trascurabile, dal tipo assai sofisticato di sorveglianza a cui quei compagni sono sottoposti. Ciò pone naturalmente il problema della particolare delicatezza dei rapporti interno-esterno, e pone anche un problema tutto “interno”: se il potere ormai è capace di determinare secondo i suoi fini la composizione dei vari campi, è chiaro che in qualche misura riesce a condizionare indirettamente anche la composizione e la struttura stessa delle istanze di lavoro politico e di combattimento che i compagni prigionieri costruiscono dentro le carceri. Per fare un esempio, il potere ha attentamente valutato cosa comportasse il concentramento a Palmi di tanti noti compagni della nostra O. E Palmi è infatti a tutt’oggi il caso più chiaro e nuovo di carcere-laboratorio, approntato apposta per le Brigate Rosse. Ma lo è, per es. anche Trani, in cui da sempre la direzione mira alla disgregazione politica dello schieramento proletario alimentando in tutti i modi le fratture tra i componenti delle varie Occ. Il che avviene in parte anche a Messina e, con modi e contenuti diversi, anche a Cuneo.
Ma all’estremo opposto della differenziazione, ben presente a tutti i proletari prigionieri, c’è l’Asinara. Cioè il massimo della capacità terroristica e dell’annientamento fisico che il potere in questa fase riesce ad esprimere.
Dopo la battaglia del 2 ottobre dell’anno scorso, durante la quale la sezione speciale era stata completamente distrutta dai compagni, sull’Asinara è tornata a concentrarsi gran parte della strategia del potere rispetto al settore carcerario. Da una parte ripartivano i lavori di ristrutturazione che hanno portato oggi la sezione speciale a poter accogliere una settantina di prigionieri, in condizioni particolari di isolamento per blocchi di due celle assolutamente separati uno dall’altro. Dall’altra, hanno continuato a starci dai quindici ai venti prigionieri, attraverso un lento ma continuo gioco di trasferimenti, in condizioni ai limiti della sopravvivenza. In questo modo l’Asinara torna a rappresentare il punto più alto del progetto complessivo di annientamento, il cuore strategico del progetto imperialista nel carcerario. Ed è insieme il modello ultimo di un percorso che ha altri punti di forza; per es. a Novara, dove tanti proletari hanno sperimentato sulla loro pelle la scientifica brutalità che avrebbe dovuto portare alla loro distruzione psico-fisica, oppure, in passato, a Favignana, prima che le epiche battaglie condotte dal Comitato di Lotta costringessero il potere a chiudere la sezione speciale.
Perciò la strategia differenziata vive all’interno di una linea unitaria che sempre più tende a caratterizzare le carceri speciali come campi di concentramento per prigionieri di guerra, nei quali si delinea la scelta imperialista di realizzare una forma di annientamento alternativa all’esecuzione sommaria sul campo di battaglia. Ma, se i campi vogliono essere l’anello forte della controrivoluzione sul piano dei rapporti di forza militari, essi sono anche, politicamente, l’anello debole. Per due motivi fondamentali:
– il potere, nonostante gli enormi sforzi e l’incredibile concentrazione di risorse che dedica al settore, non riuscirà mai a risolvere in via definitiva il problema dei prigionieri di guerra, in presenza di una guerriglia che si estende sempre più. Né dieci né cento campi di concentramento potranno di per sé risolvere un problema che dipende dai rapporti di forza esistenti sul piano generale tra rivoluzione e controrivoluzione;
– per i proletari il carcere speciale, nelle sue strutture e nelle sue condizioni di vita, concretizza il massimo possibile di antagonismo sociale e politico: diventa perciò punto di aggregazione e crea, attraverso le esperienze dell’avanguardia rivoluzionaria, omogeneità nei livelli di coscienza. Il movimento dei proletari prigionieri trova in esso la sua forza e le sue forme organizzate più avanzate: finché il movimento di lotta nei campi sarà mantenere l’offensiva, nessun anello del carcerario potrà essere pacificato!
La pratica della differenziazione trova in questa contraddizione irriducibile il suo limite storico. Nessuna differenziazione o separazione o isolamento possono cancellare la profonda e indivisibile unità che lega le avanguardie prigioniere con il proletariato metropolitano e con l’intero movimento rivoluzionario; non possono tagliare le radici che le legano al movimento di classe; non possono evitare che lo stesso antagonismo che le ha prodotte si riproduca con determinazione e chiarezza politica sempre maggiore proprio là dove la natura dello scontro in atto si rivela nelle sue forme estreme. È questa avanguardia, perciò, che assume il ruolo di referente principale dell’O. Nel carcerario, ed è insieme ad essa che va condotto l’attacco ai progetti d’annientamento della controrivoluzione imperialista.
Cattura e tortura
Nell’ultimo anno l’importanza del settore carcerario ha fatto un grande salto in avanti, su un punto specifico. Ci riferiamo qui non tanto al gran numero di compagni imprigionati, che pure è un elemento nuovo e fondamentale per cogliere i termini dell’attuale congiuntura, ma a ciò che avviene al momento della cattura e nei mesi appena successivi. Abbiamo visto i risultati delle torture e dei pestaggi. Sappiamo dell’isolamento nelle caserme dei CC, magari dentro containers metallici costruiti apposta. Sappiamo degli interrogatori “speciali”, della costruzione di figure più o meno artificiali di “pentiti”, del coinvolgimento in campagne terroristico-psicologiche di parenti e amici. In una parola, la cattura e l’immediata gestione della cattura, con ogni mezzo possibile, anche il più feroce, si iscrivono ormai interamente in una logica di guerra: si definiscono in ogni loro aspetto come azioni militari che lo stato imperialista cerca di rovesciare col massimo di efficacia distruttiva possibile contro le Occ e il movimento rivoluzionario nel suo complesso. Noi dobbiamo cogliere in ciò alcuni importanti elementi di novità. Soprattutto due:
– rispetto ai corpi dello Stato, la cattura dei compagni con quel che la precede e la segue rappresenta il momento di maggior integrazione tra quella parte della magistratura che abbiamo definito “magistratura di guerra” e l’esercito. Pratiche di isolamento, interrogatori, allargamento ad ondate successive delle operazioni richiedono infatti una collaborazione strettissima e organica, che oltrepassa ormai tutti i tradizionali confini istituzionali, tra quella parte della magistratura che si è riciclata in funzione della guerra civile e le forze militari che questa guerra conducono. Per non fare che un esempio, sarebbe certo interessante considerare in questa luce i comportamenti “integrati” della magistratura torinese e dei CC nell’operazione che, facendo perno su Peci, ha “costruito” la strage di via Fracchia e, successivamente, la morte del compagno avv. Arnaldi;
– rispetto ai compagni, il fatto che la cattura non concluda ma al contrario allarghi e approfondisca, attraverso la sua gestione militare, i termini di un rapporto complessivo di guerra, fa saltare o perlomeno definisce in modo nuovo la vecchia separazione fra “esterno” e “interno”. Ciò significa che l’O. deve costruire la sua linea di combattimento nel settore carcerario innanzitutto come coerente prosecuzione dei livelli più alti di attacco agli uomini e alle strutture dello Stato, in una logica di disarticolazione e rappresaglia adeguate alla natura nuova dello scontro. L’isolamento e la tortura dei compagni subito dopo la cattura, infine, sono sempre più spesso la prima tappa della strategia differenziata, e quella più feroce e insidiosa per gli effetti devastanti che cerca di ottenere contro l’intero movimento rivoluzionario.
Il circuito delle carceri normali (grandi giudiziari metropolitani e periferici) e il proletariato extra-legale.
Il circuito delle carceri normali e in particolare i grandi giudiziari metropolitani raccolgono la massa del proletariato prigioniero, con la funzione specifica di controllare e regolamentare ampie fasce del proletariato metropolitano.
Questo circuito ha storicamente costituito e continua a costituire, nonostante tutti gli interventi messi in opera dallo Stato, l’anello debole del settore carcerario, perché il potere è costretto a mantenere al suo interno strati diversi del proletariato metropolitano, contraddicendo il principio della separazione che è alla base della strategia differenziata, e perché non può impedire la concentrazione pericolosa di grandi masse proletarie.
Come dicono i compagni prigionieri, la composizione di classe dei grandi giudiziari rispecchia sempre più la stratificazione del proletariato nei poli metropolitani, e ciò significa che aumenta sempre più il numero dei prigionieri che vive la propria carcerazione in termini di diretto antagonismo di classe. Questi proletari, infatti, fanno parte di un preciso segmento di classe: il proletariato extra-legale, che vive come determinazione particolare del proletariato marginale, cioè di quella parte di proletariato costituita da strati diversi, tutti caratterizzati dalla posizione di marginalità rispetto alla struttura produttiva.
A questo proposito va fatta una precisazione rispetto alla Ds 78, nel senso che il proletariato extra-legale non nasce solo tra coloro che sono definitivamente espulsi dal processo produttivo – cioè gli emarginati -, ma al contrario attraversa tutti gli strati che compongono il proletariato marginale. Nelle condizioni di particolare disgregazione prodotte dalle stesse leggi dello sviluppo capitalistico, incrementate oggi dall’inesorabile meccanismo della crisi, si sviluppa il fenomeno del passaggio da emarginato, disoccupato, lavoratore nero, precario, sottopagato… a extra-legale: questa è la via di chi non trova più alcuna possibilità di vendere la propria forza-lavoro e deve svenderla sottomettendosi alle più dure e distruttive condizioni di sfruttamento, e nell’illegalità di massa trova o allarga le sue possibilità di sopravvivenza. In questo senso l’illegalità di massa è la traduzione diretta, nei comportamenti di un preciso strato di classe, dell’antagonismo irriducibile prodotto dalle leggi dell’accumulazione capitalistica: accumulazione crescente di ricchezza da una parte, accumulazione crescente di miseria dall’altra. Per questo, l’extra-legalità non definisce solo un insieme di comportamenti soggettivi, specchio della disgregazione che li ha prodotti, ma nel loro insieme e in tendenza esprime un’oggettiva collocazione di classe determinata da un identico bisogno di reddito, e una contrapposizione sempre più netta allo Stato che della accumulazione capitalistica è il garante sul piano politico come quello militare, come ogni proletario incarcerato ha ben imparato a sue spese.
È proprio nel carcere che per questo strato si può compiere il salto dalla disgregazione soggettiva alla prima formazione di una coscienza di classe. Mentre all’esterno questi strati non riescono a trovare alcun punto reale di aggregazione, e anzi spesso approfondiscono i termini oggettivi e soggettivi della loro marginalità, nel carcere, all’opposto, le comuni e dure condizioni di vita, l’uguale rapporto nei confronti del potere costituiscono una potente spinta a processi di socializzazione e politicizzazione. Il carcere, per questo segmento di classe, diventa il momento di maggior socializzazione, veicolo di coscienza politica, organizzazione e lotta. Storicamente, le lotte nelle carceri hanno trasformato i “detenuti” in “proletari prigionieri”! E tutto ciò, a dispetto delle mille pratiche di differenziazione, di regolamentazione, di controllo con le quali il potere inutilmente cerca via via di soffocarne la crescita politica.
L’analisi non può tuttavia fermarsi a questo punto: è senz’altro vero, e va sottolineato con forza, che il carcere rappresenta l’unico punto di aggregazione per questo strato. Ma ciò non deve far saltare direttamente alla conclusione che si debba allora rovesciare il corretto rapporto che parte dal territorio, e cioè dalla situazione di classe propria di questo strato, per arrivare al carcere. Non si tratta cioè di teorizzare un ruolo autonomo per il proletariato extra-legale, e per di più costruito sul carcerario, anche se le sue forme storicamente date di aggregazione sono esistite per così dire “al negativo”, in esclusiva funzione dell’istituzione carceraria. E’ proprio qui che va operato un rovesciamento dialettico. Senza negare la spinta antagonistica verso la società borghese che caratterizza questo strato, e le concrete possibilità di politicizzazione che riesce a maturare nel carcere, è necessario ribadire che la sua collocazione di classe non è definita dalla illegalità o dal carcere, ma dalla collocazione di marginalità rispetto ai rapporti di produzione. Inoltre. È fondamentale considerare che la durata assai diversa del soggiorno in carcere-spesso breve e ripetuto – e dunque la particolare “mobilità” alla quale questo strato è soggetto, lo distingue dagli altri strati costituiti da avanguardie del movimento di classe e da prigionieri di guerra destinati, secondo il potere, a morirci dentro. Il rapporto dell’O. con questo strato si pone dunque correttamente nell’ottica complessiva del rapporto con gli altri strati del proletariato metropolitano diversi dalla classe operaia, e quindi della ricomposizione del proletariato metropolitano a partire dalla situazione strutturale in cui esso vive (il quartiere, la borgata..). Se è dai rapporti di produzione che si deve partire per una giusta individuazione della posizione oggettiva di ciascuna componente del proletariato, è altresì necessario, per una analisi che voglia afferrare il fenomeno nella sua complessità, cogliere tutta la ricchezza delle sue determinazioni, e dunque anche le forme specifiche della soggettività. Ma il fatto che il grande carcere metropolitano faccia spesso emergere quella soggettività antagonista che è sempre presente nei comportamenti del proletariato extra-legale, non significa che noi dobbiamo costruire la nostra linea di intervento solo dentro il carcere, e che dobbiamo limitarci, per fare un esempio significativo, a una pratica di reclutamento basata su una esperienza carceraria frammentaria e disgregata. E’ chiaro che il reclutamento entro questo strato di classe è sempre possibile, ma è altrettanto chiaro che esso non è una linea politica. Il vero problema è un altro.
Si tratta di costruire una linea di intervento nel proletariato marginale all’esterno del carcere, a partire dai suoi reali livelli di coscienza e lotta politica: una linea che possa diventare concreta in un programma immediato, e che dia espressione e forma organizzata ai bisogni di questo strato di classe.
Le forze rivoluzionarie devono aggredire il carcere metropolitano dall’esterno, quale parte fondamentale del sistema di controllo sociale sul territorio, e anello di quella catena che va dagli uffici di collocamento giù giù fino alla rete degli sbirri di quartiere. La lotta dentro il carcere deve raccogliere e potenziare i contenuti della lotta esterna! In questo modo l’aggregazione che il carcere produce non resta fine a se stessa, ma diventa strumento di reale antagonismo di classe; mentre la maturazione politica che in carcere ha luogo può rovesciarsi nel sociale, radicandosi in forme stabili di organizzazione e di lotta. Ci sembra questa la via per costruire nuove possibilità di attacco alle grandi carceri metropolitane: una via che non si fida solo delle grandi esplosioni spontanee, ma cerca di arricchirle di precisi contenuti di classe. Così sarà possibile mettere realmente in crisi la funzione di questo potente strumento di controllo e repressione dei bisogni proletari.
In questa prospettiva, infine, occorre considerare che questo tipo di carcere costituisce il primo anello della differenziazione, e che le lotte che in esso si sviluppano rompono, per le loro caratteristiche di massa, gli equilibri assai delicati di questa strategia. Ne è direttamente colpita, infatti, l’efficienza stessa di tutto l’apparato carcerario, e dunque anche l’efficienza e la funzionalità del circuito speciale, che può essere gestito solo sulla base della completa pacificazione di quello normale.
Liberazione dei prigionieri e guerra alla strategia differenziata.
La controrivoluzione preventiva ci costringe a riconsiderare i termini della questione carceraria e a ridefinire i nostri compiti dopo il salto di qualità compiuto dal potere nel ’79. Il carcere imperialista, proprio perché costituisce l’anello terminale della pratica dell’annientamento, è diventato uno dei punti più alti della ristrutturazione dello Stato: il punto in cui si condensa gran parte della strategia di guerra dell’imperialismo in Italia.
La possibilità per la borghesia di far arretrare il processo rivoluzionario trova, come abbiamo visto, un momento fondamentale in questo anello, in gran parte dell’avanguardia politico-militare del proletariato dovrebbe essere neutralizzata, e in cui una parte ancora più vasta del proletariato marginale dovrebbe essere controllata, regolata, pacificata.
L’analisi sin qui fatta evidenzia la complessità dei problemi che l’O. si trova davanti, nel formulare il suo programma d’intervento. Ma dall’analisi stessa emergono pure, con chiarezza, quegli elementi attorno ai quali l’O. può e deve costruire una stabile e unitaria linea di combattimento.
Innanzitutto, accettare di avere più di tremila avanguardie in carcere per un movimento rivoluzionario in Italia, e di avere centinaia di militanti in carcere per qualsiasi organizzazione rivoluzionaria combattente, significa farsi strangolare politicamente ancor prima che militarmente. Di qui, occorre costruire la capacità di raccogliere la sfida e di sfidare a nostra volta lo Stato sul terreno in cui oggi questo gioca tanta parte della sua forza e della sua credibilità. Ed è dunque anche su questo terreno che si misurerà la capacità della nostra organizzazione di agire da partito, articolando nel settore la linea strategica di attacco al cuore dello Stato.
Ciò comporta una linea di combattimento caratterizzata non solo dalla stabilità e dal livello militare che di fatto oggi la guerra impone, ma anche una linea profondamente unitaria rispetto al movimento dei proletari prigionieri. Una linea che abbia cioè la capacità di coniugare l’attacco al potere carcerario con le lotte dei proletari prigionieri stessi, e con la loro analisi della congiuntura al riguardo. Perché è proprio a partire da un patrimonio comune di analisi che può essere concretamente individuato di volta in volta il cuore politico del nemico.
In questo senso è importante capire che darsi una linea unitaria significa essenzialmente due cose:
– realizzare volta per volta, come si è detto, il massimo di unità possibile con i proletari prigionieri, sia per quanto riguarda l’aspetto concreto dei loro programmi di lotta, che per quanto riguarda il loro vivente patrimonio di esperienze e analisi politiche, che va discusso, verificato e fatto proprio dall’intera organizzazione. Tutto ciò non è tuttavia un dato di partenza, ma il risultato di un preciso lavoro politico, che deve sviluppare e arricchire tutti i rapporti tra l’esterno e l’interno. Si tratta di realizzare anche qui un salto di qualità, collocando questo lavoro nel quadro di una vera e propria “costruzione di organizzazione”, che significa costruzione di militanti, di strutture, di reti di sostegno, finalizzati a questo scopo, attraverso i quali una linea di combattimento possa calarsi e vivere in modo non episodico e senza scollamenti.
– l’unità intesa come capacità di rapporto e di confronto continuo con i proletari prigionieri deve diventare, dialetticamente, anche un’altra cosa. Deve infatti diventare unità politica interna alla linea di combattimento, deve diventare prospettiva strategica unificante. In altre parole, i momenti più alti di attacco agli uomini e alle strutture del settore carcerario devono potenziare al massimo l’unità dialettica tra il contenuto politico generale (l’attacco al cuore dello Stato) con il contenuto concreto e particolare dell’attacco al settore specifico, secondo linee e obbiettivi specifici, e secondo parole d’ordine che sappiano sintetizzare ogni volta i contenuti politici propri di ogni congiuntura. Solo così le azioni militari di disarticolazione possono avere immediata dimensione ed efficacia politica, e coerenza strategica di fondo. Solo così non ci saranno salti o vuoti che dividano le piccole dalle grandi azioni, e che dividano le grandi azioni tra di loro, lasciandole scollegate e sospese nell’astrattezza che hanno tutti gli interventi che non riescono a dialettizzarsi con la realtà presente, a calarsi in essa. Realtà che, nel nostro caso, è quella complessa del settore carcerario, nel quale direttamente si scontrano le strategie dello Stato imperialista e l’irriducibile capacità di lotta e di analisi politica dei proletari prigionieri. E con tutto ciò, sempre, noi dobbiamo fare i conti, quando in questo settore facciamo qualcosa.
Sul piano dei contenuti generali dell’attacco, tenuto conto dell’esperienza militare e politica sin qui accumulata da noi e dai proletari prigionieri, sono punti centrali del nostro programma:
– la liberazione dei proletari prigionieri;
– la disarticolazione del carcere imperialista.
Tra liberazione e disarticolazione non esiste oggi una priorità o una subordinazione dell’una nei confronti dell’altra, se non nel senso assai preciso che la liberazione rappresenta il livello massimo della disarticolazione, e la disarticolazione è una delle condizioni della liberazione. Esse non devono dunque più definire l’una il programma strategico (la liberazione) l’altra il programma tattico (la disarticolazione), quasi che tra le due ci fosse una sorta di gradualismo o di rapporto meccanico. In realtà, dato il livello ormai raggiunto nel settore dallo Stato imperialista, esse devono vivere in stretta unità dialettica nella nostra pratica di combattimento: saranno le condizioni oggettive, le possibilità concrete che definiranno di volta in volta quale momento privilegiare, e quindi la tattica da seguire. Importante non è dunque di per sé la diatriba: liberazione sì, liberazione no (col rischio di correre dietro, senza alcuna chiarezza e capacità di direzione politica e in modo del tutto episodico, a ogni progetto in merito), oppure l’altra: distruzione sì, distruzione no… importante è capire fino in fondo che la controrivoluzione preventiva ha assunto nel settore carcerario la forma della strategia differenziata e che la strategia differenziata costituisce il cuore – strategico, appunto – di tutte le pratiche di annientamento che a vari livelli lo Stato mette in opera contro il proletariato prigioniero. Sì che noi dobbiamo assumere in questa congiuntura la parola d’ordine generale: guerra alla strategia differenziata, per la liberazione del proletariato prigioniero e per la disarticolazione del carcere imperialista.
Questo comporta una scelta: quella di concertare l’attacco contro i punti forti della ristrutturazione carceraria, e quindi di avere come punto centrale di riferimento le carceri speciali, nelle quali si realizza oggi il massimo della differenziazione e della strategia di annientamento. È da queste carceri, del resto, che negli ultimi anni sono venute le esperienze più alte e significative di lotta (Favignana, Asinara, Termini Imerese), ed è contro questo circuito che va oggi rovesciato il massimo di capacità distruttiva che l’O. può esprimere.
I percorsi della disarticolazione sono pressoché infiniti, come ci insegna la pratica dei Comitati di Lotta, e non sta a noi tentare di elencarli, o di spiegare come essi, caso per caso, possano far vivere nell’immediatezza dello scontro il contenuto strategico ultimo: la liberazione e la distruzione di tutte le galere!
Nel concreto, è ormai ben chiara davanti a noi, nel suo preciso significato politico, una serie di obiettivi, contro i quali va portata una linea d’attacco coerente, che deve tradursi in uno stato d’assedio stabile del carcerario secondo il principio: “colpire al centro e logorare e disarticolare la periferia”. Ciò vuol dire: colpire i vertici del Ministero di Grazia e Giustizia; i vertici della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, i vertici delle agenzie imperialiste nazionali e internazionali che in stretta collaborazione reciproca hanno guidato e guidano la ristrutturazione nel settore carcerario, elaborando le direttive generali e le tecniche più criminali e sofisticate con le quali controllare e annientare il proletariato prigioniero; colpire i direttori delle singole carceri e l’intero staff di esperti che a vario titolo applicano quelle direttive, e collaborano quotidianamente alla loro elaborazione e al loro aggiornamento; colpire la magistratura di guerra e i CC, che in modo sempre più integrato conducono le loro campagne di guerra, e si incaricano in prima persona dell’isolamento e della tortura dei compagni catturati e tra cui si annidano i gruppi operativi speciali; colpire i nuclei che assicurano la militarizzazione attorno alle carceri e nel territorio circostante; colpire il corpo degli agenti di custodia, a partire dal Comando centrale e dai Comandi Regionali, e in particolare il sistema dei marescialli e dei brigadieri, ai quali spetta di tradurre le direttive superiori in pratica giornaliera di sorveglianza, di spionaggio, di violenza; colpire il grande carcere metropolitano nei suoi uomini e nelle sue strutture, quale primo anello della catene della differenziazione, attuata scientificamente in forme multiple nei suoi bracci e nelle sue sezioni, e quale generale strumento di controllo e distruzione dell’antagonismo proletario. Colpirlo, per destabilizzare l’intero sistema della differenziazione e metter in crisi anche il circuito degli “speciali”.
Oggi, questa linea di attacco dà corpo alla nostra strategia di disarticolazione del settore e di liberazione dei proletari prigionieri, ed è dunque tutt’altra cosa da un “programma inventato”, perché in essa si riassumono e si moltiplicano le esperienze e le indicazioni di lotta che sono ormai patrimonio della nostra O. A questa linea hanno dato contributi determinanti i proletari prigionieri i quali l’hanno articolata entro i contenuti del Programma Immediato e l’hanno calata nelle forme organizzative dei Comitati di Lotta. Ma – quel che più conta – l’hanno fatta vivere attraverso gli attacchi disarticolanti che hanno saputo portare contro le carceri speciali, e in particolare contro una di queste, che rappresenta il punto più alto della ristrutturazione, il cuore della strategia differenziata, quella in cui l’isolamento e la tortura sono tornate a distruggere fisicamente, nel modo più diretto e brutale, i prigionieri che vi sono rinchiusi: l’Asinara. La nostra linea deve dunque trovare là il suo punto materiale di coagulo, oggi storicamente acquisito alla coscienza di tutti i proletari prigionieri nei suoi contenuti immediati e nella sua portata strategica. Dobbiamo perciò raccogliere la parola d’ordine: chiudere con ogni mezzo l’Asinara!, e farla vivere da subito come contenuto unificante dei nostri attacchi. Solo così le lotte per il Programma Immediato negli atri campi potranno riavere l’ampiezza e il respiro di un attacco complessivo alla strategia dello Stato imperialista. Solo così, insieme ai proletari prigionieri, potremo cominciare a realizzare concretamente il nostro programma.
È proprio questa capacità di assediare stabilmente il carcere dall’interno e dall’esterno, e di colpire il cuore del progetto nemico in modo da impedire alla strategia differenziata di funzionare, che ci permette di mettere all’ordine del giorno il contenuto centrale e irrinunciabile del nostro programma: la liberazione di tutti i proletari prigionieri!
Guerra alla strategia differenziata, per la liberazione del proletariato prigioniero e per la distruzione del carcere imperialista!!
3) L’unica transizione è per il comunismo
Nel sistema imperialista delle Multinazionali i rapporti di produzione capitalistici non caratterizzano più il sistema dominante, ma sono ormai estesi, generalizzati su scala planetaria. Questo richiede un profondo riadeguamento nella teoria comunista, che sia il riflesso di questa comprensione: l’unica transizione possibile è ormai quella verso il comunismo.
In passato, il programma di transizione si traduceva in una serie di mediazioni rese, oltre che necessarie, possibili dalle leggi dello sviluppo storico nell’ambito del capitalismo. La liberazione delle forze produttive vedeva il suo primo passo nella loro emancipazione, ossia nel loro sviluppo. E questo sia prima che dopo la presa del potere da parte delle forze rivoluzionarie. La strategia del socialismo elaborata dai comunisti è stata sostanzialmente tutto questo, la risposta a simile questione.
È per esempio assurdo andare a vedere nei tentativi di realizzazione della società socialista (Urss dei primi anni, la Cina fino alla sconfitta della rivoluzione culturale) un particolare modello economico diverso dal capitalismo, con una diversa funzione delle categorie di valore, mercato, accumulazione. La socializzazione dei mezzi di produzione vedeva il suo primo passo nella statalizzazione: quindi in pratica nella realizzazione di un contraddittorio capitalismo di Stato. E questo, ovviamente, a prescindere da alcune idealizzazioni teoriche sulla transizione di allora, che qui stiamo mettendo in discussione; a prescindere dalle diverse tattiche con cui si è portata avanti l’accumulazione per formare l’industria di base, ecc. Ciò che storicamente ha contraddistinto la transizione socialista (dopo la presa del potere) sta soprattutto nella sovrastruttura: nel potere politico che assicura il processo – ancora capitalistico, anche se contraddittorio – di sviluppo delle forze produttive, evitando che questo processo rafforzi la vecchia classe dominante sotto nuove forme. Dunque ciò che in teoria definisce il socialismo come fase transitoria è la dittatura del proletariato, con il suo corollario: “mettere in piedi uno Stato costituito in modo che cominci subito a sparire e non possa fare a meno di sparire” (Lenin).
A maggior ragione si riscontra questo carattere di “mediazione” nel programma rivoluzionario di transizione prima della presa del potere. Basti pensare al carattere della rivendicazione sindacale, salariale o normativa che sia. Nella teoria socialista, l’operaio scopre il suo ruolo di merce, afferma i suoi bisogni materiali in un’ottica di classe: ma a partire dal fatto che è possibile uno spazio socio-economico nell’ambito dello sviluppo capitalistico, ambito che si traduce per gli operai in modifiche della professionalità, nella sua modernizzazione.
Ma oggi i sindacati non sono istituzioni del capitale solo per la logica evoluzione delle loro storiche vocazioni trade-unioniste; i revisionisti non hanno smesso di essere riformisti per un repentino tradimento. Il trade-unionismo e il suo corrispettivo politico, il riformismo, erano ancora delle politiche operaie, per quanto non rivoluzionarie e coincidenti con un settore della borghesia. È che oggi, invece, non esiste più lo spazio sindacal-riformista inteso per quel che è realmente, non solo ideologicamente: briciole da dare alla classe via via che aumenta la torta del capitale. Non c’è dunque nessuno spazio socio-economico dove, all’interno di questa società, si possa realizzare un interesse proletario che nella sua ambiguità politica, ma non per questo meno concretamente compiuto, prefiguri al tempo stesso la società futura. Tutti i temi della transizione vivono già nell’immediatezza dello scontro di classe, sono inscindibili dalla lotta per i bisogni immediati del proletariato. I quali, a loro volta, per essere affrontati, non si possono scindere da una visione comunista, che nella sua tattica d’organizzazione e di lotta sappia tradursi in una via che rompa gli attuali rapporti di produzione. Di conseguenza, non c’è nessun programma di “sapore socialista” realizzabile in questa società, basandosi su una piattaforma più avanzata di quella della classe dominante o della “opposizione” Pci-sindacati: istituzioni queste ormai addette a rappresentare le istanze borghesi dentro il proletariato. Il programma proletario richiede la rottura dei rapporti di produzione: deve diventare un programma comunista, e non più “progressivo” rispetto a una presunta timidezza evoluzionista di un riformismo che è morto. La transizione al comunismo si pone quindi come necessità storica, vissuta come tale da milioni di uomini. Ma questa transizione a una società comunista possiede le basi materiali per essere oltre che necessaria anche possibile?
A differenza del ’17 sovietico o del ’49 cinese, nella metropoli imperialista contenuto e forma della rivoluzione proletaria coincidono perfettamente. Ciò significa che qui è effettivamente data la condizione materiale per eliminare, insieme al rapporto di capitale, anche la maledizione del lavoro sfruttato. Sono date cioè le condizioni materiali per il passaggio epocale dalla “comunità illusoria” alla “comunità reale”, dalla divisione del lavoro al pieno sviluppo dell’individuo sociale.
Certo, come il sistema dell’economia borghese si è venuto sviluppando passo a passo, così avviene anche per la sua negazione, che ne è il risultato ultimo: ma questa negazione è qui immediatamente transizione rivoluzionaria al comunismo.
L’enorme sviluppo delle forze produttive capitalistiche costituisce la base contraddittoria di questo processo. Mentre, infatti, sapere scientifico e applicazioni tecnologiche sono ostinatamente usati per distillare plusvalore e controllare la classe operaia, la dinamica interna del sistema spinge inesorabilmente verso trasformazioni “impensabili” per la borghesia imperialista. E quei rapporti di produzione e quella rielaborazione delle forze produttive che la classe dominante è costretta a impedire sono condizioni imprescindibili di superamento della crisi e della liberazione proletaria.
In questa contraddizione si forma ed emerge il proletariato metropolitano come soggetto rivoluzionario, come espressione sul terreno politico dei rapporti sociali di produzione in gestazione, latenti, possibili, costretti ad esercitare una pressione virtuale sui rapporti di produzione operanti.
Rapporti di produzione in gestazione che, tuttavia, interiorizzandosi in ciascuna avanguardia proletaria, ne rimodellano in continuazione la struttura della coscienza alludendo a una trasformazione radicale: all’uomo sociale, collettivo, ricomposto nelle sue molteplici pratiche. Rapporti sociali di produzione in gestazione il cui carattere radicalmente rivoluzionario è fondamento del programma di transizione al comunismo e che, perciò, definiscono la pratica della ribellione, anche armata, per la loro instaurazione, come la forma di esistenza sociale più avanzata oggi possibile nella metropoli imperialista.
Tutto questo rende, nelle attuali condizioni storiche, la transizione al comunismo necessaria e possibile. Quando diciamo “possibile” non intendiamo che sia realizzabile qui e oggi qualche frammento di comunismo, o nelle pratiche di riappropriazione delle merci o in una sorta di riorganizzazione individuale del lavoro, ecc. Questo finisce per essere soltanto una parodia del comunismo. Intendiamo dire invece che la transizione al comunismo è oggi possibilità materiale di guardare il presente con gli occhi del futuro, di vedere in ciò che esiste ciò che sarà, ed è anche possibilità di fissare, attraverso la critica del modo di produzione capitalistico, i contenuti del programma di transizione. Ciò d’altra parte non può avvenire senza fissare nel contempo il percorso storico – che attraversa una intera epoca – che la sua realizzazione presuppone.
La concezione del potere proletario armato è il punto dal quale dobbiamo partire. Il sistema del potere proletario armato, nella sua ambivalenza: Partito Combattente e Organismi di Massa Rivoluzionari – nell’evolversi dello scontro di classe cresce e si afferma accumulando il potenziale proletario. Il potere proletario armato è esercizio di potere che trova il suo compimento nella conquista e nella distruzione dello Stato borghese, cioè nel pieno dispiegamento della sua forza nella forma della sua dittatura. La categoria politica della dittatura del proletariato è e rimane un problema fondamentale del cammino per la trasformazione comunista della società.
Non si tratta di concepirlo come un momento magico che, basta aspettare, prima o poi arriverà, ma come l’esercizio pieno e dominante di un potere politico che ha soppiantato quello della borghesia. Quello che oggi affermiamo è che la dittatura del proletariato non è un momento di passaggio per la realizzazione di qualche conquista “socialistica” (mediata cioè dalla necessità dell’accumulazione capitalistica), ma è condizione per una diretta e immediata transizione al comunismo.
Potere proletario armato, dittatura proletaria per la transizione rivoluzionaria al comunismo!
Infatti, pur immaginandolo in un contesto storico più avanzato, che senso avrebbe oggi proporre piattaforme socio-economiche di carattere generale? Quella dei sindacati e dei revisionisti, per esempio, non chiedono poco: chiedono niente e contro i proletari. Compito dei comunisti è dunque un altro.
In ogni situazione specifica vissuta dai proletari, la lotta per gli interessi immediati, per soddisfarli, è qualcosa di diverso da ieri. Compito dei comunisti è di cogliere questo “diverso”. C’è un unico bisogno che obiettivamente accomuna questi interessi, ed è ormai il bisogno politico del comunismo. Lo sviluppo dell’organizzazione del lavoro produce solo controllo e disoccupazione, mentre il problema operaio, ormai, è il superamento della divisione del lavoro. La nocività mortale nasce da impianti moderni: l’unica soluzione complessiva sta in un diverso rapporto dell’uomo con la produzione e la natura.
Questi interessi, per andare avanti, hanno perciò bisogno di una capacità politica che sappia far emergere la necessità del comunismo in ogni situazione particolare, e dunque in forme d’organizzazione che costruiscono il potere proletario, e nella loro capacità di rovesciare gli attuali rapporti di produzione.
La funzione del partito è di essere questa “capacità politica” di far vivere la lotta in ogni situazione di classe come parte di un programma generale di transizione al comunismo; essere con la propria pratica d’avanguardia e con le sue indicazioni a livello di massa il punto di riferimento che riesce a dare questo significato concreto a ogni specifica situazione di classe.
4) Organizzare le masse proletarie sul terreno della lotta armata per il comunismo. Costruire i nuclei clandestini di resistenza.
Le condizioni di vita e di lotta delle masse sono molto cambiate. Dobbiamo sbarazzarci degli schemi che abbiamo ereditato da una tradizione politica adeguata a una vecchia situazione storica, che ora è bruscamente cambiata. Come abbiamo già detto, non c’è più alcun sbocco riformista alle tensioni e alle lotte che il proletariato esprime. La prima conseguenza è che si è chiusa la possibilità dell’autonomia di classe di (…) come per il passato la contraddizione fra due strategie capitalistiche. In particolare la contraddizione sindacato-padronato, che oggi è ricomposta (pur con numerose sbavature) all’interno di un’unica strategia controrivoluzionaria, dove gli uni e gli altri si trovano sostanzialmente uniti nel realizzare la ristrutturazione.
Il secondo aspetto concerne la natura della repressione.
Il suo carattere preventivo è sempre stato rivolto, soprattutto, alla possibilità di estensione delle lotte. Rispetto alla singola lotta, la repressione in genere è arrivata dopo, invece che prima, per impedire che le cose diventassero troppo serie per l’assetto del dominio. Solo allora la repressione era rappresentata direttamente dallo Stato, poiché dalle concezioni derivate dalla libera concorrenza sul mercato, esso si manifestava formalmente neutrale nel rapporto diretto operai-capitale, almeno finché la situazione restava “normale amministrazione”: quando riguardava cioè la contrattazione del prezzo della forza-lavoro (nei limiti del necessario sviluppo della professionalità) e non il potere.
L’autonomia della lotta di classe si è dunque storicamente determinata, in un lungo periodo, come capacità proletaria di “forzare” le possibilità offerte dalla stessa “legalità” del sistema. Quindi oggi, ogni lotta, seppur parziale e circoscritta, può nascere solo se si riesce a scavalcare (o a eludere) l’insieme degli impedimenti sindacali-padronali-statali che le si frappongono. E quando la spontaneità delle masse riesce a creare (battendo il sindacato, ecc.) le condizioni di unità su cui sviluppare la lotta per i bisogni immediati, questa lotta raggiunge istantaneamente un tetto. Essa si configura immediatamente come scontro di potere rispetto al quale il movimento di massa stenta a mantenere l’offensiva. Sebbene lo scontro di potere viva oggettivamente nella sua immediatezza, non esistono ancora i livelli di organizzazione sufficienti a poterlo interpretare. Su questo piano il movimento di massa è pressoché all’anno zero.
Accade quindi che le iniziative di lotta intraprese dai vari segmenti di classe, che, seppur con varia intensità e frequenza, percorrono tutto il proletariato, si arrestano di fronte alla possibilità-necessità di affrontare “disarmati” lo Stato imperialista. Il culo di sacco cui la controrivoluzione preventiva sembra avere imbottigliato l’autonomia proletaria è però solo apparente.
In realtà, la soggettività proletaria comincia a misurarsi e a realizzarsi su questo nuovo terreno. Ed è qui che va valutato il suo carattere offensivo, poiché offensivo può essere solo ciò che si forma sulle novità della fase attuale. Se di fronte allo sfascio completo delle forme organizzate tradizionali del proletariato sono scomparse persino le istanze politiche più elementari, se viene permessa e considerata legale solo la lotta che non serve in alcun modo ai proletari, è scomparso rapidamente e definitivamente il vecchio, ma altrettanto rapidamente ha cominciato a nascere il nuovo. I proletari più coscienti e combattivi, le vere avanguardie delle masse, hanno cominciato a misurarsi con il problema che si pone sul tappeto: ricostruire, nelle nuove condizioni, la capacità del movimento di massa di riprendere l’offensiva.
In questo senso va valutata la vasta mobilitazione che si è verificata quasi ovunque nel movimento di classe (dalle grandi fabbriche ai quartieri), intesa a riallacciare, a partire dalla clandestinità, i fili di una rete proletaria che sappia riappropriarsi delle capacità di lotta e di antagonismo che le mutate condizioni avevano distrutto nella vecchia forma.
Il carattere di massa di questi primi momenti di organizzazione sta in questo: sono la prima espressione organizzata e stabile dei caratteri offensivi della resistenza di massa alla ristrutturazione. In quanto forme organizzate della resistenza alla ristrutturazione che si materializza nell’immediato di ogni situazione di classe rappresentano il massimo dell’offensiva oggi esprimibile dalle masse. E’ un fiore destinato a crescere per la ricchezza del terreno su cui nasce. In tutti i momenti di lotta aperta che si sono verificati di recente (dagli scioperi Fiat, Alfa, ecc.. alle lotte dei lavoratori dei servizi, alle esplosioni sociali tra i proletari del Sud) si è espressa una componente antagonista che ha mantenuto e ricreato una continuità dello scontro in mille episodi di resistenza quotidiana alla ristrutturazione. Questi comportamenti sono diventati un immenso fenomeno di “riorganizzazione sotterranea” di migliaia e migliaia di proletari che la controguerriglia psicologica deve riconoscere, seppur con le parole velenose della mistificazione. In realtà, questo fenomeno apre la possibilità di lottare stabilmente nella fase della controrivoluzione preventiva, poiché non si tratta di un arroccamento in difesa dei livelli precedenti, ma di un adeguamento a quelli nuovi con una capacità autonoma di organizzazione. L’agitazione e la propaganda clandestina, le mille piccole azioni combattenti; il sabotaggio continuo alla struttura produttiva e di controllo, la pressione e l’accerchiamento contro le gerarchie militarizzate, il rigetto e il crescente isolamento degli apparati sindacal-revisionisti, sono il dato caratteristico fondamentale della lotta di classe in quest’ultimo periodo. Cogliendo questo dato essenziale, dobbiamo lanciare nel movimento di classe la parola d’ordine: costruire i nuclei clandestini di resistenza, in quanto embrioni degli organismi che nascono dalle masse e, per il modo offensivo di collocarsi nello scontro, gli organismi di massa del potere proletario. Ciò che dà valore a questa parola d’ordine non è tanto la consistenza numerica che i nuclei possono avere, ma il fatto che sanno unire già oggi in una pratica di massa il politico al militante in forme clandestine, interne a un processo di resistenza di massa alla ristrutturazione.
Questo perché nella fase attuale solo la lotta armata può esprimere compiutamente l’antagonismo proletario: è la sola strategia che nelle attuali condizioni storiche possa dirsi rivoluzionaria. Ne consegue che la costruzione del Partito Comunista Combattente non può darsi separando il politico dal militante, come separazione dei due aspetti.
Questo, deve essere chiaro, vale anche per gli Organismi di massa Rivoluzionari. Nella guerriglia, in cui non c’è separazione fra una fase politica (precedente) e una militare (presa del potere), gli organismi rivoluzionari delle masse non sorgono alla vigilia dell’insurrezione, ma nel corso di un intero periodo storico in cui la crisi economica e politica si accentua e la lotta armata si intensifica, e si caratterizzano insieme come organismi politico-militari. Anche per quanto riguarda la clandestinità delle varie forme che l’organizzazione assume all’interno delle masse, cogliamo un segno dell’avanzata nella costruzione del potere proletario. Il concetto di clandestinità è legato a una concezione politica offensiva dello scontro e dell’organizzazione che deve guidarlo. Clandestinità vuol dire organizzarsi perché la lotta non si fermi alla prima ventata repressiva, altrimenti è solo la repressione a stabilire il tetto del programma rivoluzionario e chi lo deve condurre. È chiaro altresì che le forme che assumono i momenti di organizzazione delle masse non sono legate a uno schema rigido e immutabile, ma al contrario si modellano a seconda delle condizioni particolari, delle specifiche possibilità che i vari movimenti presentano.
Ma non dobbiamo confondere la forma con la sostanza. E nella sostanza noi dobbiamo vedere con chiarezza che il “nuovo” sta proprio nell’estendersi e nel rafforzarsi della rete sotterranea dentro il tessuto proletario, il sedimentare di primi momenti di organizzazione stabile quali punti di partenza di organismi propri delle masse che si misurano con la capacità di combattere la ristrutturazione, e di costruire il potere proletario armato.
Ma non si può ridurre il problema dell’organizzazione delle masse a un problema esclusivamente organizzativo. Si tratta di definire i contenuti di un programma che tende a riunificare la classe, che sia fin da subito mobilitante. Che cosa vuol dire questo? Nelle masse vivono tensioni, lotte, espressioni multiformi di antagonismo generate dalla crisi, che hanno la loro origine nelle condizioni materiali quotidianamente vissute. “Gli uomini si pongono, in genere, solo i problemi che possono affrontare e risolvere”, e non c’è dubbio che le masse proletarie questo fanno, e lo fanno spontaneamente, senza l’intervento di nessuno. Ma se le contraddizioni affrontate giorno per giorno dalle masse proletarie generano la lotta spontanea, il processo che porta alla elaborazione del programma immediato su cui mobilitare e farle combattere non è altrettanto spontaneo e automatico.
Va capito innanzitutto che il punto di partenza è la lotta spontanea (a volte soltanto tensioni, esplicite o latenti), perché in essa vi sono gli elementi politici, i contenuti specifici del programma immediato valido per i diversi strati del proletariato metropolitano. Non c’è dunque da inventare niente su questo piano, ma bisogna invece cogliere con intelligenza politica quel che già esiste nella spontaneità delle masse e trasformarlo in progetto lucido e coerente, in piattaforma politica unificante sulla quale imperniare la costruzione dei livelli di mobilitazione delle masse e delle articolazioni del potere proletario.
Facciamo un esempio: Alfa Romeo, reparto verniciatura. Nei mesi scorsi, gli operai di questo reparto hanno sviluppato una lotta sul salario: in concreto, volevano il passaggio automatico di categoria. La lotta è stata dura perché questa esigenza non rientra né tanto né poco nei piano di ristrutturazione di Massaccesi e, quindi, ci si è trovati contro tutto l’apparato controrivoluzionario: la direzione, il sindaco, e infine la digos. Le Brigate Rosse si sono dialettizzate con tutta la fabbrica, e con questa lotta in particolare, con un insieme di iniziative politico-militari di propaganda armata (opuscolo n.8, azione Dallera, ecc.).
Nella lotta della verniciatura, che indubbiamente coglie uno dei nodi della ristrutturazione, vive anche materialmente uno dei contenuti operai affermatesi in dieci anni di lotta: l’aumento uguale per tutti. Questa parola d’ordine, sempre presente in tutte le lotte per il salario, è intesa a riunificare la classe, a rompere l’artificiosa stratificazione operaia ottenuta dal padrone attraverso la differenziazione salariale. Non solo, ma vediamo che, pur interpretando un bisogno reale e immediato (più soldi), allude a una società diversa, fondata su altri principi. Una società in cui il valore del lavoro non si misura con il denaro con cui ti pagano, ma in cui, al contrario, ribaltati i rapporti di produzione, si può e si vuole vivere fra uguali, secondo il principio: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Non si creda che questa interpretazione della lotta della verniciatura sia una “forzatura”, un voler mettere un cappello politico troppo grande a una lotta troppo piccola.
È l’insieme di queste cose che i comunisti devono saper leggere e valorizzare nella lotta spontanea delle masse. Occorre rielaborare i contenuti di ogni lotta contro la nocività, i ritmi, per il salario,ecc, per metterne in evidenza lo scontro di potere, la carica sovversiva che li anima contro i rapporti di produzione. Da questa operazione politica nasce il programma immediato, che parte sì dalla spontaneità, ma la trasforma in movimento organizzato e cosciente. Senza questa operazione politica la spontaneità nasce e muore, rinasce e rimuore, come sempre è avvenuto, e non produce affatto né programma né altro. D’altro canto, senza programma immediato è impossibile che nascano, si sviluppino e diventino potenti gli organismi di massa rivoluzionari. Se oggi cominciano a esistere gli embrioni di questi organismi (i Nuclei Clandestini di Resistenza), essi troveranno le ragioni della loro esistenza e della loro evoluzione solo in un Programma Immediato, che sappia essere sintesi politica e proposta mobilitante in dialettica con le condizioni di vita delle masse. Occorre quindi farsi carico, da parte del partito Comunista Combattente, per ogni segmento di classe e approfondendo l’analisi delle lotte rivista alla luce della necessità di elaborare i programmi immediati, della capacità immediata di ciascuna componente di lottare per i propri bisogni. In altri termini, il programma immediato non è un programma economico-rivendicativo, ma un programma politico che fa vivere le esigenze e i contenuti generali dello scontro in stretta aderenza alle necessità immediate che questo scontro esprime in ogni concreta situazione di classe.
Con chi si elabora un programma immediato? Sono i proletari più attivi e combattivi delle masse che devono essere mobilitati in questo lavoro. È all’interno della costruzione degli organismi di massa rivoluzionari che la dialettica deve essere sviluppata a questo scopo. Il compito del partito deve essere quello di favorire, sollecitare, supportare la sua azione, la sua iniziativa militante, la definizione chiara, esplicita, concreta degli elementi che costituiscono il programma immediato. Favorire, sollecitare, supportare la mobilitazione possibile per il suo raggiungimento. Il compito della Brigata di fabbrica, di quartiere, di campo è principalmente questo. Il militante delle Brigate Rosse deve oggi qualificarsi nella classe come dirigente attivo di questo processo.
Lo scontro tra rivoluzione e controrivoluzione si gioca essenzialmente su questo terreno. Per la guerriglia, vuol dire conquistare e mobilitare le masse sul terreno della lotta armata per il comunismo. Per lo Stato imperialista, annientare questa possibilità. Il Partito Comunista Combattente misurerà quindi la sua capacità di essere tale principalmente nel ruolo che saprà giocare nella direzione di questo complesso lavoro: nella capacità che avrà di legare indissolubilmente e strategicamente il programma generale di transizione al comunismo con i programmi immediati e con gli organismi che ne sono i portatori.
“Brigate” e “Nuclei clandestini di Resistenza” non sono dunque rispettivamente espressioni della “strategia” e della “tattica” della rivoluzione, ma articolazioni strategiche di un unico processo di costruzione del potere proletario armato. Nella dualità che assume il processo di costruzione del potere proletario, i Nuclei Clandestini di Resistenza non sono organismi di partito. Mentre le Brigate sono gli embrioni del partito come cellule politico-militari, i Nuclei sono gli embrioni di massa del potere proletario.
Le brigate raccolgono quella parte dell’avanguardia di classe che porta avanti il programma generale rappresentato dall’agire di partito; i Nuclei tendono a raccogliere l’avanguardia di classe nel suo complesso (e quindi nelle sue varie componenti non solo sociali ma anche politiche), per essere espressione del programma generale nella realizzazione dei programmi immediati. Ossia, strategia applicata a una particolare situazione di classe del proletariato. La dialettica esistente fra questi diversi livelli autonomi è quella esistente fra i due momenti inversi: dal generale al particolare per gli embrioni degli organismi di massa rivoluzionari. E’ lo stesso tipo del rapporto che c’era – per fare un paragone – tra Soviet e Partito Bolscevico. Ma l’analogia si ferma qui, perché oggi, in una situazione storica molto diversa di “capitalismo maturo”, mutano gli obiettivi, i quali perdono il loro carattere intermedio rispetto allo sviluppo capitalistico che allora si presentava come necessario. Muta quindi il loro carattere spesso “difensivo” dal punto di vista proletario: mutano ancora, quindi, come abbiamo visto, le caratteristiche di questi organismi, che non scindono il politico dal militante.
Il lavoro di massa delle Br nell’attuale congiuntura
Via via che la guerra di classe avanza, via via che cresce il movimento rivoluzionario, si evolve e cambia la fase in cui si connota lo scontro. Non c’è mai staticità o ripetitività nello scontro, ma dialettica, che sposta continuamente in avanti la contraddizione: la classe abbatte e supera le vecchie barriere, conquista e si attesta a un nuovo livello. L’organizzazione rivoluzionaria, il Partito, deve saper adeguare la sua linea politica alle nuove esigenze, deve ridefinire la sua funzione partendo sempre da una strategia complessiva, ricalibrando i compiti che deve assolvere. Ciò gli è possibile solo tenendo ben chiari e fermi i propri riferimenti strategici, solo se sa reinterpretare alla luce delle nuove esigenze i propri principi politico-organizzativi. L’insieme dei principi politico-organizzativi dell’Organizzazione non deve essere un corpo imbalsamato esposto in una bacheca di cristallo, perfettamente conservato ma irrimediabilmente morto. Deve essere al contrario materia viva, sostanza cromosomica che modella l’Organizzazione nella sua evoluzione, che le consente di mutare e di crescere mantenendo inalterati i caratteri distintivi fondamentali. A partire da queste considerazioni, è necessario ridefinire e qualificare una struttura essenziale e insostituibile del nostro lavoro: il Fronte di massa.
Nella teoria dell’organizzazione delle Br i Fronti di Combattimento rispondono all’esigenza “di elaborazione e omogeneizzazione dei programmi di lavoro e di lotta in settori specifici”. Questo, nella fase della propaganda armata (dove i compiti principali erano, ricordiamo in sintesi: radicare la necessità della lotta armata, disarticolare il progetto di costituzione dello Sim, costruire il Partito Comunista Combattente come indispensabile determinazione del potere proletario), ha dato origine a due strutture centralizzate di lavoro e direzione politica: il Fronte di lotta alla controrivoluzione e il Fronte logistico. Il lavoro di massa dell’O., in quanto finalizzato ai compiti sopraddetti, percorreva tutto il corpo dell’O.; trovava impulso e proposizione da una parte, e centralizzazione dall’altra, nelle Colonne e nei due Fronti. Il lavoro di massa, pur non avendo strutture sue proprie (oltre alle Brigate, ovviamente), anzi proprio per questo, riusciva a essere presente in tutte le strutture dell’O. e trovava in esse la centralizzazione necessaria. Propaganda armata e lavoro di massa in questo schema organizzativo, essendo due funzioni strutturalmente integrate, si compenetravano perfettamente senza che vi fossero frapposti steccati organizzativi. Questo era l’unico modo corretto per risolvere dialetticamente la necessità di far nascere e attecchire la lotta armata, e di lavorare nella classe per organizzare l’avanguardia del partito.
Ora ci troviamo in una fase in cui possiamo definire i compiti dell’O, per semplicità di sintesi, in una parola d’ordine: conquistare le masse alla lotta armata; organizzare le masse in un articolato sistema di potere proletario armato. Il lavoro di massa dell’O. punta allora a qualcosa di più e sostanzialmente diverso che per il passato. Non si tratta cioè di una semplice estensione quantitativa o geografica, ma di un’evoluzione qualitativamente diversa. Non muta affatto il rapporto tra l’O. e il movimento, anzi la funzione del partito si rafforza e acquista ancor più valore: muta invece la qualità politica delle finalità e degli obiettivi del nostro lavoro di massa. Il nostro programma punta a organizzare strati di classe per la guerra civile, a favorire la nascita e la crescita degli organismi di massa rivoluzionari, in dialettica con il programma generale, ecc. Questo conferisce al lavoro di massa dell’O. non solo una grande importanza (questa l’ha sempre avuta), ma una connotazione del tutto nuova che non può più essere compresa entro lo schema organizzativo della fase precedente. Si tratta infatti di articolare la linea politica dell’O. in riferimento specifico alle diverse componenti del proletariato metropolitano, in aderenza ai loro bisogni immediati e strategici, alla dinamica particolare dei diversi momenti di lotta, ecc. Si pone quindi la necessità di approfondire l’analisi e l’elaborazione politica dal punto di vista di strati omogenei di classe (omogenei per condizione oggettiva), di produrre gli indirizzi politici in un’ottica di riunificazione dei programmi di lotta e di ricondurre questi a una strategia generale, tenendo conto della complessa dialettica esistente tra Partito e movimento. Il lavoro di massa dell’O. deve pertanto essere centralizzato in apposite strutture che possano assolvere a questo compito. Il fronte di massa deve costituirsi come struttura centrale dell’O., nella medesima concezione che caratterizza sia il Fronte di lotta alla controrivoluzione che il Fronte logistico, i quali nell’attuale congiuntura conservano appieno la loro validità e la loro funzione. Dovendo centralizzare il lavoro di massa che l’O. svolge all’interno delle varie componenti di classe, le articolazioni del Fronte di massa sono conseguenti alla capacità che si avrà di penetrare e radicarsi all’interno di ogni componente proletaria. In questa prospettiva, possiamo già individuare e realizzare delle valide articolazioni, suddividendo il Fronte di massa in tre settori fondamentali:
- Settore Classe operaia e fabbriche.
2 .Settore lavoratori dei servizi.
3 .Settore proletario marginale.
5) La guerriglia nella fase di passaggio dalla propaganda armata alla guerra civile imperialista.
Non siamo più nella fase della propaganda armata e non siamo ancora in quella della guerra civile antimperialista. La fase della propaganda armata è contraddistinta da questo: la guerriglia con la sua iniziativa politico militare disarticola politicamente il nemico di classe. Avviene cioè che la guerriglia, individuando il “cuore pulsante” del progetto nemico, sferra i suoi attacchi per mettere a nudo di fronte ai proletari la sua natura, i suoi intenti, la sua inconciliabilità di interessi, e così facendo “batte la strada”, “apre la pista” al movimento proletario. Collocandosi al punto più alto della contraddizione tra borghesia e proletariato, costituisce per quest’ultimo il punto di riferimento sul piano strategico; si traduce sul piano politico nella massima espressione dell’antagonismo di classe; apre dei varchi nella gabbia dell’oppressione capitalistica, così che la governabilità politica dei rapporti di produzione ne esce irrimediabilmente infranta, e prefigura la possibilità della distruzione definitiva del potere della borghesia. La guerriglia infrange la “pax imperialista”, fa vivere al suo punto più alto lo scontro di potere in cui si esprime l’antagonismo della classe, dimostra che i tempi della rivoluzione proletaria sono maturi, e che questa non può essere recuperata neppure con tutte le mistificazioni di cui è capace la borghesia imperialista. In questa fase, pur essendo minoritaria, la guerriglia riesce ad essere l’interprete dei bisogni politici della maggioranza. Pur essendo come forza militare dispiegata ben poca cosa, riesce in quanto materializzazione organizzata della più alta coscienza proletaria, a conquistare spazi politici entro cui la lotta delle masse può avanzare. Disarticolazione politica vuol dire soprattutto questo.
Inoltre l’attacco guerrigliero, nella misura in cui è veramente indirizzato contro l’aspetto principale della contraddizione, provoca uno sconquasso fra le file nemiche: ne acuisce le contraddizioni interne, divarica le differenti tendenze delle varie componenti del suo fronte, impedisce il ricomporsi dei conflitti intercapitalistici, rende tutto l’apparato ancora più disfunzionale. La fase della propaganda armata si contraddistingue quindi per l’esistenza della lotta armata come strategia possibile per il comunismo, e la guerriglia in sostanza propaganda se stessa. La tattica viene definita non tenendo in alcun conto i rapporti di forza militare, perché è scontato che essi pendono in modo soverchiante dalla parte del nemico, e il compito principale della guerriglia è quello di esistere: esistere come fatto politico.
La fase della guerra civile dispiegata è quella in cui la lotta armata costituisce il fronte della lotta principale della iniziativa delle masse. La mobilitazione delle masse si articola prevalentemente sul terreno della guerra, lo scontro di potere non è più solo proiezione politica dell’antagonismo di classe e prefigurazione di rapporti di forza possibili, ma è capacità di imposizione della forza proletaria che distrugge il potere borghese, e attraverso la costruzione del sistema di potere proletario armato ribalta i rapporti di produzione esistenti. La fase della guerra è quella in cui le forme organizzate del potere proletario hanno la capacità di inchiodare il nemico senza via di scampo, di operare per la sua distruzione, di eroderne ogni spazio di agibilità politica e militare. La tattica in questa fase è principalmente determinata dai rapporti di forza militari (intendendo per militari i livelli di organizzazione costruiti, la loro capacità di mobilitazione delle masse, la disponibilità e il grado di capacità al combattimento raggiunto, ecc.), che diventano la determinazione principale del “fare politica” delle masse.
Abbiamo detto che non siamo ancora in una situazione di guerra civile dispiegata, pur essendo esaurita la fase in cui la propaganda armata era l’unica dimensione in cui la strategia della lotta armata potesse vincere. Ciò significa che ci troviamo in un momento di passaggio, che stiamo vivendo un periodo in cui le masse si approprieranno della lotta armata, un periodo in cui dovranno avvenire profonde trasformazioni, radicali innovazioni, nel modo di “fare politica” (nel senso di incidere nei rapporti di forza) del movimento di classe. Ci troviamo nel momento iniziale della formazione degli organismi del potere proletario. Dire che non siamo ancora in piena guerra civile significa affermare che siamo all’inizio di un processo politico-militare che conquisterà nella sua interezza il proletariato alla lotta armata, intorno alla quale ogni segmento di classe potrà essere riunificato e mobilitato, edificando gli organismi della dittatura del proletariato. E’ quindi chiaro che non si verificherà alcun spostamento significativo nel senso della guerra civile se non attraverso una avanzata, passo dopo passo, delle condizioni soggettive, di coscienza, di organizzazione, che permetta al movimento di classe di trasformarsi in movimento di massa rivoluzionario e, in definitiva, di fare la guerra. Perché la guerra può essere fatta solo da grandi masse, e non dalla organizzazione guerrigliera, per quanto forte e organizzata essa possa essere.
Qual è allora il compito della guerriglia in questo periodo che è a cavallo tra due fasi? Prima di tutto deve mantenere la funzione di propaganda armata: deve però proiettarla in modo diverso che nel passato. Lo scopo della propaganda armata ora deve essere quello di conquistare stabilmente gli spazi politici, i terreni di scontro in cui l’iniziativa possibile delle masse si possa incanalare, su cui la spontaneità della classe si trasforma in Programma Immediato, su cui la resistenza “naturale” alla ristrutturazione diventa offensiva e quindi istanza di potere. La propaganda armata deve cioè essere rivolta non più solo a “battere la pista” al movimento, ma a spianare, definendolo, il campo di battaglia, dove le varie componenti di classe combattono per la conquista del Programma Immediato.
Laddove i proletari lottano per i propri bisogni, laddove le contraddizioni particolari enucleano i contenuti dell’iniziativa proletaria seppur informale o solo potenziale, l’azione di propaganda deve tendere a interpretare l’elemento di programma che dalla lotta stessa emerge, deve ricondurre i contenuti che si agitano nei momenti di scontro dentro un progetto unitario che ne elevi la capacità sovversiva e rivoluzionaria. L’azione di propaganda armata deve quindi essere di guida, perché si pone avanti (non sopra!) al movimento di massa, ma nello stesso tempo deve essere di supporto alla capacità e possibilità di mobilitazione e di combattimento del Movimento Proletario di Resistenza Offensivo. Deve essere il vero, effettivo, concreto punto di riferimento al quale le forze impegnate alla costruzione organizzata di nuovi rapporti di forza con il nemico non guardano con astratto interesse e simpatia, ma per avere indicazioni valide nella loro condizione e praticabili nell’immediato.
Questo ancora non basta. La propaganda armata deve avere la funzione di esplicitare, facendoli vivere nello scontro, gli obiettivi della trasformazione sociale di cui i comunisti sono portatori. Deve cioè essere rivolta a propagandare con chiarezza i principi, i contenuti, la logica e la teoria che stanno a fondamento della società che i comunisti vogliono costruire.
Qui facciamo una parentesi, per chiarire un modo di intendere questa funzione che riteniamo sbagliata. Taluni credono che essere comunisti voglia dire possedere una ideologia perfettamente costruita, seguendo i sacri testi del marx-leninismo, da tenere gelosamente custodita e accessibile solo ai pochi eletti che sono i membri del Partito.
Per cui quest’ultimo illumina di tanto in tanto la scena buia dello scontro di classe (alcuni lo fanno poco; altri dicono che bisogna farlo molto) con i portentosi raggi di un “comunismo” progettato a tavolino, sognato e prefigurato come la più rara delle astrazioni. Questo modo di intendere la questione porta a ridurre il problema della transizione al comunismo a una specie di dipinto psichedelico perfettamente pennellato con i colori dei sogni, che raffigura una società perfetta, idilliaca, altamente desiderabile per ciascuno perché ciascuno può pensarla come vuole. Questo porta a grandi discorsi vuoti, che non sono nient’altro che lo sfogo alle frustrazioni (e sono tante!) che la società capitalistica ci regala, e che ciascun proletario si porta dietro. Questo modo depravato di intendere la teoria comunista ha generato sin dal nascere del movimento operaio la più sciocca e inoffensiva delle deviazioni del marx-leninismo: l’ideologismo dogmatico, settario e gruppettaro.
Noi crediamo invece che una società che muore – e la società capitalistica è in piena agonia – ha già in sé, nei soggetti sociali che la affossano, i nuovi valori che sostituiscono i vecchi, le nuove concezioni che stanno alla base di un nuovo mondo da costruire, così come le vecchie concezioni stavano alla base del mondo che scompare. Ma anche questo non si percepisce metafisicamente: vive nella lotta di classe, non al di fuori di essa. Ed è nella lotta che vive seppur solo come aspirazione, come negazione che nello stesso tempo proietta la possibilità di costruzione, il comunismo come “il movimento reale che modifica il presente stato di cose”. Compito del partito è quello di essere la coscienza organizzata anche di questo, di saperlo volere e raccogliere nel suo rapporto con le lotte del movimento reale, di legarlo, con la sua capacità teorica di progettare, al disegno complessivo, non astraendo mai neppure per un istante dalla dinamica sociale che lo produce, di ributtarlo al movimento trasformato in arma potente se impugnata dai proletari che combattono. Inoltre bisogna tener conto che viviamo in questa società e non in un’altra, del tutto ipotetica, e quindi ne siamo il prodotto: siamo “uomini vecchi” e non “uomini nuovi”. I comunisti devono affrontare la battaglia ideologica contro le vecchie concezioni trasformando anche se stessi e gli altri non con intimistiche elucubrazioni, ma come un aspetto della lotta di classe e in essa ricercarne le verifiche.
Ritornando alla propaganda armata, è evidente che non è sufficiente fare “propaganda di comunismo” semplicemente con qualche slogan alla fine dei volantini, o anche parlandone tanto, ma legando il programma generale di transizione al comunismo ai programmi immediati della classe, con uno sforzo di interpretazione politica, con una operazione di partito. In questa fase la propaganda armata deve collocarsi con puntualità nella dialettica che deve esistere tra programma generale e programmi immediati. Al di fuori di questo esiste solo fantasia e astrazione, che come è noto sono cose diverse dal materialismo dialettico.
Se la propaganda armata è ancora uno dei compiti principali dell’O, pur rivista nella nuova luce, si dice anche che è cominciata la fase della guerra civile. Non c’è dubbio che il nemico è già pienamente sul terreno della guerra d’annientamento, mentre il fronte proletario antimperialista non si è ancora costituito. Significa allora prima di tutto che la guerra non è possibile rifiutarla. Il livello di scontro è dato, e chi pensa che sia possibile tornare indietro prima ancora che un opportunista è uno sciocco.
Che significa accettare la guerra nella attuale fase di passaggio? Non è accettare lo scontro frontale: accettare questa logica è un suicidio politico e militare. Nell’attuale contesto ciò si riduce in pratica alla sola logica del colpo su colpo e della sola rappresaglia. E’ una riduzione militarista dei termini dello scontro che si traduce sul piano politico in una forma di arroccamento. Infatti siamo all’inizio di una fase di transizione e non alla sua fine, e il passaggio del movimento di resistenza proletaria a movimento di massa armata non è un fatto spontaneo: in esso dunque dovrà qualificarsi tutta la capacità politica di costruzione del Partito Comunista Combattente. Dobbiamo passare all’offensiva, accettando il livello della guerra, ma sui terreni scelti dalla guerriglia. Tutta la partita si gioca nella capacità guerrigliera di operare questa selettività!
Se il regime ha inferto colpi al movimento di classe e alle sue avanguardie combattenti, non è affatto il momento di stare sulla difensiva, ma al contrario, di sferrare colpi dieci volte maggiori e più terrificanti nelle file della borghesia. Ma l’azione distruttiva . E sempre meno simbolica – vive militarmente in un programma politico di disarticolazione: se assume questo carattere distruttivo anche sul piano politico, è perché si pone come “punto di forza” di una possibile iniziativa di massa. Avviene perciò attraverso una selezione dei terreni politici dello scontro, dove la priorità è data dal loro carattere interno ai bisogni, alle lotte, alle tensioni delle masse proletarie.
Accettare la guerra, attaccare il cuore dello Stato, far vivere i contenuti di distruzione e disarticolazione militare sviluppano una linea di massa che dialettizzi i contenuti specifici dei programmi immediati con il programma generale di transizione al comunismo!
In questo complesso lavoro organizzare le due diverse determinazioni del potere proletario: il Partito Combattente e gli Organismi di Massa Rivoluzionari!
È evidente che questo è un compito difficile, ma non sono accettabili semplificazioni di sorta. La molteplicità degli aspetti che deve avere la politica della guerriglia non può essere ridotta a una sola valenza, che non sia in stretta connessione con le altre. Ogni scorciatoia conduce irrimediabilmente e in un tempo brevissimo alla sconfitta. Mentre se si accettano con coraggio i complessi compiti che spettano oggi alla guerriglia, l’avanzata, seppur lenta e faticosa, sarà inesorabile, la vittoria sicura.
“Per i capitalisti crisi vuol dire guerra imperialista e controrivoluzione preventiva, per i proletari vuol dire rivoluzione proletaria, la sola che può seppellire la vecchia società che muore e già oggi costruisce nella lotta l’unico futuro possibile: il comunismo.”
“Dobbiamo accettare la guerra e attaccare il cuore dello Stato, facendo vivere i contenuti di distruzione dentro una linea di massa che dialettizzi i programmi immediati con il programma generale di transizione al comunismo”.
Brigate Rosse
Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.
Un pensiero su “Direzione Strategica, ottobre 1980”