Criticare non assolutizzare gli errori. Documento di un gruppo di prigionieri (Kamo)

Il primo compito che si presenta di fronte ad una sconfitta rilevante è senza dubbio la ricerca degli errori commessi. Il sopra/sotto valutarli è pericoloso quanto l’ignorarli. Il coraggio di cui si devono armare le forze rivoluzionarie in questi frangenti è quindi prima di tutto ammetterne l’esistenza, per poi misurarne il peso e la profondità. Senza la critica-autocritica dell’esperienza vissuta, si negano gli strumenti stessi d’intervento nella realtà concreta. È stato questo l’obiettivo alla base della ritirata strategica lanciata dalle BR nell’82; aprire un profondo dibattito che nella ricerca delle cause ed errori alla base della sconfitta registrata, ponesse rinnovate basi per il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria su fondamenta più solide. Un obiettivo carico di grosse responsabilità, che non basta coraggiosamente perseguire, ma che richiede anche la capacità di farlo. Se il merito è stato quello di assumersi la responsabilità di farlo, l’indubbio demerito consiste nella mancata capacità di indirizzarlo, stabilirne i limiti oltre i quali la critica-autocritica cambia forma, si trasforma. Ma questo è sintomo di maturità generale delle forze rivoluzionarie, non semplicemente di una singola organizzazione, vista la mancanza di proposte alternative concrete e/o indirizzi chiari di dibattito, ed è un rischio costantemente presente in momenti di disorientamento. Fatto sta, che tale debolezza ha aperto la porta alle più svariate (ma non certo nuove) analisi critiche, alcune stimolanti, altre troppo superficiali. Ma tra tutte, va decisamente respinta quella che fonda la sua tesi nell’assolutizzazione degli errori soggettivi rispetto alla condizioni oggettive. Secondo tale tesi, la causa dominante andrebbe ricercata principalmente negli errori commessi dall’avanguardia rivoluzionaria, nella completa inadeguatezza di un«impianto teorico-politico», in sintesi nella concezione politico-militare della lotta rivoluzionaria, cioè nella lotta armata per come è stata concepita e costruita. Un impianto teorico politico inadeguato, perché concepito al di fuori del carisma marxista-leninista, per giunta macchiato di maoismo terzomondista. Un errore che si scopre sarebbe partorito con la nascita delle BR stesse, prendendo la forma della guerra di lunga durata, della strategia della lotta armata come concezione politico-militare della lotta rivoluzionaria.

A questo punto, pur non essendo questo il luogo, nell’intento di questo semplice intervento, dove chiarire meglio e per l’ennesima volta il concetto della strategia della LA, urge ugualmente aprire una piccola parentesi per eliminare confusioni e/o identificazioni superficiali spesso presenti nel dibattito affrettato. Va distinta la LA come concezione politico-militare della lotta rivoluzionaria, come sintesi teorico pratica dell’agire rivoluzionario, in una parola, come strategia, dalla LA nel suo parziale aspetto di «forma di lotta».

Le BR hanno contribuito sensibilmente alla definizione del concetto di lotta politico-militare, sottolineando decisamente l’importanza strategica dell’unione simbiotica dei due aspetti. Presi separatamente, sfuggono da qualsivoglia carattere rivoluzionario, assumono aspetti di fenomeni più o meno consoni alla società odierna. Insieme diventano la condizione necessaria, senza la quale non ha senso parlare di lotta rivoluzionaria, ma non solo a questo ci si è limitati. E’ stata anche determinante una differenza qualitativa, in sintonia con l’esigenza di tutta una fase a tutt’oggi valida. «È la politica che guida il fucile», sintetizzando con questo semplice aforismo, il carattere di dominanza dell’aspetto politico su quello militare per tutta la fase precedente al dispiegamento delle forze rivoluzionarie. E questo è stato rispettato. A chi per esempio sostiene criticando e criticandosi, che l’azione militare ha preso il sopravvento in momenti come quello dell’attacco alla controrivoluzione, passato attraverso le iniziative contro magistratura, polizia e i suoi apparati, va ricordato cosa s’intende per attacco al cuore dello stato, perché o l’hanno dimenticato o non l’hanno mai completamente compreso. Il cuore dello stato è prima di tutto una politica che prende forma attraverso progetti (politico-economico-militari) ben precisi e non s’identifica nei soli soggetti politici intesi in senso proprio. Non s’identifica solo nel governo, nell’esecutivo, nei partiti politici ma anche e non solo in altri apparati statali, come è stato per gli apparati della controrivoluzione alla fine degli anni ’70, quando il cuore dello stato era rappresentato anche dal progetto di annientamento e ridimensionamento rispettivamente delle forze rivoluzionarie e delle lotte operaie e proletarie. Un progetto dispiegatosi nelle diverse sfere (economico-politico-militari); basta semplicemente rammentare lo spostamento di poteri a beneficio della magistratura di cui ancora oggi se ne smaltiscono gli squilibri.

Chiudendo qui la parentesi e ritornando al discorso iniziato, sentendo valutare così pesantemente gli errori soggettivi, sembra quasi che questi nascano nel nostro cervello, originino dentro di noi. Con maggior volontà, più impegno e qualche lettura in più, saremmo riusciti a piegare queste ostinate condizioni oggettive. Se avessimo spiccato il famoso «salto al partito», oggi voleremmo verso la rivoluzione, l’Italia non sarebbe al quinto posto (almeno secondo gli indici parziali degli economisti borghesi) nella graduatoria dei paesi più industrializzati e l’economia mondiale navigherebbe nella recessione incontrollata. No, non è certo questo lo scenario determinabile da un corretto intervento delle forze rivoluzionarie in Italia.

Senza trascendere in posizioni agnostiche tipo «sarebbe ugualmente andata così» o ricorrere al destino, bisogna riconoscere i limiti di sviluppo che ha ed avrebbe comunque incontrato l’iniziativa rivoluzionaria, per quanto possente, nel quadro nazionale e internazionale.

Una chiarezza e maturità superiore a quelle dimostrate, ci vedrebbe mantenere oggi una posizione difensiva in condizioni migliori, con maggiore forza e stabilità, non sarebbe poco, ma nulla di più, sempre una posizione difensiva delle forze rivoluzionarie registreremmo. E per un semplice motivo. La struttura del modo di produzione capitalistico (MPC), vive fisiologicamente in specifiche e bene determinate fasi cicliche e meccanismi strutturali (come le controtendenze); tra questi, i cicli di ristrutturazione e le guerre sono indispensabili al capitalismo per superare le proprie fasi di crisi. Pensare di eliminare, impedire che si risolvano le manifestazioni stesse del capitalismo, significa rivoluzione immediata. Impedire completamente lo sviluppo dei processi di ristrutturazione o la guerra imperialista, è possibile solo con la conquista del potere politico e la trasformazione socialista del modo di produzione; situazione tanto determinata e determinante, quanto rara. Ciò che più frequentemente si ripete è invece la lotta atavica e cruenta contro queste manifestazioni strutturali del MPC, dall’esito scontato, ma dal grado di realizzazione tutt’altro che determinato.

È appunto dal grado di resistenza che sviluppa la lotta di classe, dalla capacità di contrastarne la realizzazione, che si misura la consistenza dell’organizzazione di classe. Le forze rivoluzionarie possono e devono dirigere la fisiologica resistenza di classe che automaticamente si sviluppa contro queste piaghe capitaliste cercando di conquistare posizioni migliori. E’ questo che va misurato per comprendere il grado reale degli errori commessi. E’ in questi limiti che va analizzato l’operato delle forze rivoluzionarie, definendo in pratica lo spettro d’intervento possibile dentro le condizioni date. Confondendo i due aspetti e i limiti che li distinguono, si confondono i termini stessi dell’analisi critica di un’esperienza. Tutto e niente può essere causato dall’errore soggettivo, così come dalle condizioni oggettive, se si fa confusione. Nessuno vuole negare gli errori commessi e sono svariati. Vanno ricercati, analizzati, compresi e superati. Ma va altrettanto pesato il loro valore rispetto alle condizioni oggettive, pena la svendita, cosciente o meno, di un’esperienza, l’abbandono frettoloso proprio della materia che l’ha determinata e sostenuta. È abbastanza chiaro a tutti, che il momento dello sviluppo dell’attacco padronale attraverso i 61 licenziamenti e l’autunno caldo, si è verificato nel pieno dell’affermazione delle forze rivoluzionarie e delle stesse BR, segno evidente che, anche se non ottimali, le condizioni oggettive minimali per lo sviluppo del processo di ristrutturazione produttiva di questa portata, esistevano. I padroni (FIAT in testa), l’hanno compreso ed hanno giocato la loro carta risultata poi vincente. Non si può riduttivamente affermare che sono stati solo costretti dallo sviluppo internazionale del processo produttivo e dell’economia, e dalla conseguente necessità di raggiungere almeno livelli concorrenziali. Sono in parte stati costretti, ma hanno anche valutato la loro percentuale probabilità di successo, che si calcola analizzando condizioni oggettive non certo solo relative alle lotte di classe in Italia, dentro una valutazione complessiva di condizioni necessarie di carattere nazionale ed internazionale, di cui le lotte rappresentavano un aspetto importante ma non l’unico. Dimostrando così, quanto le condizioni oggettive erano complessivamente molto meno favorevoli di come le forze rivoluzionarie le descrivevano, influenzate dalla lettura superficiale e troppo localista dei pur promettenti avvenimenti. La dose di soggettivismo e meccanicismo dimostrati dalle forze rivoluzionarie e la loro analisi teorica sono dovute ad una incompleta ed imprecisa proprietà di applicazione dei principi del marxismo-leninismo e del materialismo dialettico, più che ad una loro esaltazione e/o teorizzazione. La positività oggettiva leggibile nello sviluppo della crisi e delle lotte di classe che allora emergevano, ha avvolto, nascondendola, l’esigenza di una lettura dialettica delle prospettive di sviluppo, delle possibili soluzioni della congiuntura. La lettura degli avvenimenti, per come si presentavano a prima vista, ha preso la mano all’analisi metodico-astratta, costringendola al ruolo di supporto degli sviluppi pratici, negandone di conseguenza la funzione dialettica che la lega ai fenomeni reali osservabili. Un po’ come la sola osservazione di un esperimento di laboratorio può ingannare il fisico che si attiene alla semplice analisi del fenomeno empirico. Ma di carenze inquadrabili nel processo di crescita e sviluppo delle forze rivoluzionarie si tratta, prova ne sono le continue battaglie politiche perseguite contro queste ed altre tipiche deviazioni (come l’estremismo) dell’82. Gli errori si commettono sempre, anche se non sempre si giustificano o si considerano inevitabili. Ma va decisamente operata una distinzione tra quelli perseguiti e trasformati in vera e propria dottrina politica e lo spettro di quelli possibili, stante tutta una serie di condizioni oggettive, tra cui quella della maturità delle forze rivoluzionarie non è indifferente; L’esperienza è maestra indispensabile e qualcuno, troppo frettolosamente caduto nel dimenticatoio, sottolineava l’importanza di essere rossi, ma anche la necessità di essere esperti. Le forze rivoluzionarie devono costantemente imparare a comprendere ed applicare le leggi ed i meccanismi che regolano il movimento della materia sociale per essere in grado di intervenire trasformandola nel senso dovuto. Tutto sommato, il movimento comunista è veramente ancora oggi nella fase della pubertà. Le sue malattie infantili vanno e possono essere curate ma non vanno confuse con deformazioni patologiche. C’è profonda differenza tra terapia e trapianto, tra cura e sostituzione. Guardando alla storia di questo paese, nessuno può negare, come spesso si è detto, che le forze rivoluzionarie sviluppatesi alla fine degli anni ’60 siano nate orfane. Intendendo così sottolineare il vuoto lasciato dalla sinistra italiana, che sulla spinta della rivoluzione d’Ottobre, aveva timidamente prospettato un percorso rivoluzionario bloccatosi alla fine della seconda guerra con l’abbandono anche formale della via rivoluzionaria. Loro sì che hanno visto le condizioni oggettive trasformarsi in concreta occasione rivoluzionaria quando, dopo l’attentato a Togliatti, mezza Italia era letteralmente in mano alla classe operaia ed al proletariato. Non siamo certo stati figli della lotta rivoluzionaria e/o partigiana. La memoria storica (di cui oggi si riesuma l’importanza) non è certo stata lo strumento lasciatoci in eredità, proprio perché questa non è data principalmente dalla lettura dei testi di storia o da memorie autobiografiche, ma vive e si riproduce nell’azione continua delle forze rivoluzionarie. È questa che è mancata, proprio perché, dopo la seconda guerra mondiale, le forze rivoluzionarie italiane sono scomparse praticamente dalla scena politica con tutta la loro seppur limitata esperienza. Tant’è che il nostro punto di riferimento s’è spostato identificandosi nella eroica lotta del popolo vietnamita, nella lunga marcia cinese alla conquista del potere politico, nelle esperienze guerrigliere dell’America Latina. Ma il vuoto rivoluzionario lasciato in eredità, la mancanza anche solo di tentativi di sistematizzare la politica rivoluzionaria, di sviluppare continuità attiva del processo rivoluzionario, ha sortito l’effetto di trasformare la memoria storica in ricordo nel senso più statico della parola.

La mancata continuità, anche in condizioni oggettive sfavorevoli, ha trasformato la memoria storica in caratteri immobili, ordinati per righe dentro altrettanti ben rilegati libri di storia invece che in pratica rivoluzionaria, ciò, che è ancor più valido oggi, alla luce dell’esperienza accumulata in questi ultimi abbondanti tre lustri. Insomma, è questo un vuoto che pesa e che va inserito nella valutazione dell’esperienza trascorsa, come un elemento concreto, fa parte dello stato oggettivo in cui le forze rivoluzionarie hanno rilanciato l’iniziativa agli inizi degli anni settanta. Un altro argomento che spesso viene esposto a sostegno della «incapacità soggettiva» delle forze rivoluzionarie e delle BR in particolare, è il cosiddetto mancato «salto al partito», ma non solo. È stato perentoriamente affermato che tale mancato passaggio ha rappresentato l’immagine del declino delle forze rivoluzionarie. Con maggior volontà e un pizzico di «decisionismo» in più, il partito oggi sarebbe realtà, ed a quanto sembra avrebbe risolto in positivo gli attuali problemi. Ma è davvero così semplice? Non è insensato nutrire seri dubbi. Prima di tutto, bisognerebbe ben stabilire come e quando si costruisce un partito, ma non uno qualsiasi, parlo di quello rivoluzionario. Non è certo per decreto che si «istituisce», non basta volere il partito perché «ce n’è bisogno». Di questi partiti se ne possono fondare un paio al giorno. Come l’organizzazione rivoluzionaria nasce dall’esigenza di proseguire e prospettare un processo rivoluzionario al di sopra dei flussi e riflussi dei movimenti di massa, così un partito rivoluzionario nasce dalla necessità di organizzare delle avanguardie rivoluzionarie, che nel dare soluzione alle aspirazioni di classe, indichino e seguano coscientemente un percorso rivoluzionario. Proprio per questo, allora si affermava che il processo di costruzione del partito passava attraverso la capacità di coagulare attorno a questo obiettivo le avanguardie rivoluzionarie e di organizzare interi settori di classe. Il partito si costruisce su questo banco di prova teorico-pratico. Non può essere frutto esclusivo della mente di alcune avanguardie illuminate che se ne fanno carico in uno slancio di volontarismo. Non è come andare al bagno quando scappa. Ma è la formalizzazione materiale del livello superiore d’organizzazione raggiunto dalla classe in generale. Un partito politico, come forma d’organizzazione, è la manifestazione statica materializzata dello sviluppo della coscienza, capacità e forza d’organizzazione di una o più classi. Le lotte di classe sono la materia in movimento, un partito ne è la loro misura concreta. Esse sono in continuo movimento, il partito è li fermo a rappresentarle nelle loro diverse fasi di sviluppo. Il partito rivoluzionario è a maggior ragione una fedele trasposizione del livello d’organizzazione e maturazione raggiunti dalle forze rivoluzionarie. Ora i soliti teorici della «perfezione soggettiva», sostengono che il compito inevaso è stato proprio quello di non dare risposta alla domanda di direzione proveniente dalla parte più avanzata del movimento rivoluzionario, le avanguardie più coscienti. Quindi se il partito deve essere specchio del grado di sviluppo delle forze rivoluzionarie dovremmo notare una marcata tendenza di queste ad organizzarsi in partito, partendo proprio dall’esigenza di unire le avanguardie rivoluzionarie nel compito di rappresentare gli interessi generali della classe. Ma se analizziamo le forze rivoluzionarie di allora, quasi tutte le avanguardie presenti nelle varie organizzazioni, tranne che in parte delle BR, da PL ai nuclei di MPRO ad altri gruppi armati, tutto richiedevano, fuorché direzione intesa come costruzione di un’istanza organizzata fatta partito, non solo come semplici parole d’ordine o indicazioni.

Si teorizzavano specie di partiti-massa, partiti-non partiti, organizzazioni orizzontali, evitando come la peste la stessa caratteristica fondamentale del partito rivoluzionario leninista che lo rende organizzazione concreta del processo rivoluzionario: il centralismo democratico. Le forze rivoluzionarie, fortemente ideologizzate nell’illusione di rendere più «comunista», più «paritetica» l’organizzazione di classe, in realtà ne perseguivano la negazione attraverso l’apologia dell’anarchismo, libertà e parità decisionali inesistenti quanto irreali. Come chiedere ad un bambino cosa farà da grande appellandosi alla libertà di scelta. Invece di comprendere i differenti livelli di coscienza, se ne teorizzava la parità inesistente e denigratoria. Come si può costruire un partito rivoluzionario quando le forze rivoluzionarie stesse ne negano nei fatti l’esistenza? Non è certo un nucleo di avanguardie, come quelle che rappresentavano il cuore delle BR, che avrebbe potuto e dovuto sostituirsi a queste condizioni oggettive, emanando decreti di fondazione metafisici. E neanche dando semplicemente risposta alla «richiesta di direzione» con le sole parole d’ordine «giuste» e indicazioni politiche, quando queste non sono sostantivate dalla forma d’organizzazione che può renderle concrete e realizzabili. L’invito, in conclusione, è quello di leggere questa e ogni altra esperienza politica valutando meglio le condizioni reali in cui si è determinata a suo tempo. E la strada non è certo quella che si percorre con gli occhi impressi dai fotogrammi degli avvenimenti susseguitisi (sarebbe fin troppo facile per chiunque) o con l’esigenza di sostanziare «nuove strategie» costruite sul cadavere dell’esperienza passata. L’obiettivo principale di un’analisi autocritica è la ricerca, comprensione ed appropriazione degli errori commessi, non è il sostegno ad una tesi o linea politica costruita precedentemente. Così la critica-autocritica diventa mezzo d’affermazione dei propri paradigmi, non strumento indispensabile di comprensione ed intervento nello scontro di classe. Stesso e identico metodo usato ultimamente da alcuni prigionieri politici nel lanciare quella che chiamano «battaglia per la libertà». Non si può certo affermare che l’esperienza rivoluzionaria vissuta in questi anni sia stata una «critica pratica» (come scritto nella prima lettera ad esempio) o che abbiamo contribuito all’attuale sviluppo della società italiana. Non eravamo certo dei riformisti radicali un po’ troppo violenti. Abbiamo lottato per costruire un percorso rivoluzionario tutt’ora in cammino, che portasse alla conquista del potere politico e all’abbattimento di questo stato e dei rapporti di produzione che rappresenta e sostiene, non certo per migliorarne i rapporti economico-sociali. Ed era obiettivo dichiarato a suon di proclami. Non ci siamo certo legittimati, e non è mai stato nelle intenzioni delle forze rivoluzionarie presenti, nell’opera di miglioramento della società italiana o nella lotta per il rispetto dei diritti del «cittadino». Ma nella lotta contro questo stato in qualità di rappresentanti/avanguardie di una classe ben precisa. È bene ricordarlo, vista la facilità con cui alcuni rimuovono i «ricordi». Non abbiamo certo lottato per salire sul podio e ricevere dallo stato la medaglia della corsa al contributo al progresso… capitalista! Tale lettura dell’esperienza è incomprensibile, a meno che l’obiettivo non sia quello di trasformare il nostro passato in nota di merito al nostro «cattivo comportamento».

Le forze rivoluzionarie, la legittimità, la valorizzazione del loro passato, se la sono conquistata nella lotta contro le forze reazionarie dei borghesi, e non è una novità storica il tentativo di chiudere in «gabbie giuridiche», in articoli del codice penale, le lotte rivoluzionarie e proletarie con l’intento palese di occultarne il carattere politico. Non siamo né i primi né gli ultimi soggetti politici ad essere rinchiusi nella categoria dei criminali. Non è una novità. La novità, o meglio la curiosità, sta nel presentare un tentativo di eliminazione (dello stato) come un’azione di salvataggio. Va bene, la dialettica può molto, ma per cortesia!

L’unica spiegazione credibile per comprendere una tale operazione, sta evidentemente nell’obiettivo di conquistare il pubblico (che non è certo rappresentato dal proletariato) nell’operazione «battaglia per la libertà». Ma prima di continuare, va preposta una piccola precisazione sul concetto di battaglia politica, visto che anche questo, quando fa comodo, diventa un «ricordo». Una battaglia, da che mondo è mondo, implica un rapporto di scontro, fisico o verbale che sia, e non certo per il significato letterale rintracciabile in un comune vocabolario, ma per come se lo è conquistato nella lotta di classe stessa. Qui lo scontro non sembra apparire come l’azione determinante e determinata, a meno che non si voglia confondere con le pur ovvie e storiche differenze tra i soggetti in questione. Due parti possono arrivare al confronto, trattativa, tregua o qualunque altra forma di dialogo o mediazione pur essendo radicalmente diverse, senza che ciò assuma il carattere di scontro politico. È per questo, che il carattere della citata iniziativa più che di battaglia assume l’aspetto di una richiesta di libertà. Dignitosa, questo sì, ma di richiesta si tratta.

Certamente molte miglia la divide dalla dissociazione e dal pentimento, ma non può essere spacciata per ciò che non rappresenta. Sarebbe opera di scarsa chiarezza e manifestatrice d’intenti differenti da quelli dichiarati. Che un gruppo o un’area di prigionieri avanzi tale richiesta manifestando l’indisponibilità a rinnegare il proprio passato e se stessi, non presenta particolari problemi o «scandali» politici. Quello che la rende inaccettabile politicamente, anche per chi sostiene analisi e scopi differenti da quelli degli estensori, è il tentativo maldestro di nasconderne la vera natura dietro una tinta politica, composta da presunti contributi del movimento rivoluzionario allo sviluppo della società attuale dietro inesistenti movimenti, che oggi all’esterno lottano per la liberazione dei prigionieri (a meno che non si voglia identificarli con qualche comitatino di amici, parenti e conoscenti sparsi), dietro, per l’appunto, sedicenti battaglie politiche.

Tutto questo stona quanto meno con i propositi dichiarati di correttezza e limpidezza della proposta; prima ancora che nel merito il confronto diventa impraticabile per vizio di metodo.

Kamo (1)

Settembre 1987

 

(1) Lo pseudonimo scelto da un gruppo di prigionieri non ha, evidentemente, nulla a che vedere con il nome del «Kamo-Laboratorio di comunicazione antagonista» di Bologna.

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