Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe. Roma, Aula bunker, processo di appello per le armi – Comunicato dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Fausto Marini, Stefano Minguzzi, Fulvia Matarazzo, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Cesare Prudente, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro letto in aula

Intendiamo ribadire in quest’aula i termini attuali dello scontro di classe e la valenza in esso della proposta strategica delle Brigate Rosse. L’evolvere dei fatti confermano come la contraddizione dominante che oppone la classe allo Stato continua ad essere il processo di riformulazione dei poteri e degli istituti dello Stato, anche perché tale processo ha aperto una fase politica nel paese che, contraria dal risolversi linearmente e pacificamente, trova vasta resistenza e opposizione nel campo proletario, nonché per altro verso per l’incalzare delle scadenze poste dal governo dell’economia dall’evoluzione/crisi dell’imperialismo, in quanto, quest’ultima ragione, strutturale del riassetto degli Stati. Due fattori questi da cui dipende la contraddittorietà di un processo che di riflesso implica mutamenti non certo indolori all’interno stesso delle forze politiche rappresentanti gli interessi della frazione dominante di borghesia imperialista; in altri termini, l’attuale momento di transizione e modifica del quadro istituzionale comportava e comporta come suo corollario un adeguamento delle forze politiche atte a mediarlo, ovvero l’assunzione da parte dei partiti di operare la mediazione e funzione del loro ruolo non solo per i passaggi già effettuati con la riforma della presidenza del consiglio o del voto segreto, ma soprattutto per quelli da effettuare all’interno di quella che può palesarsi come una fase evolvente verso la 2a Repubblica e che passa attraverso lo snodo della riforma elettorale. Il quadro che, riconducendosi alla 3a fase morotea, dovrebbe preludere all’alternanza quale modello a cui funzionalizzare l’opposizione istituzionale, è nella realtà un quadro che, dai governi di coalizione, tende a realizzare una serie di “staffette” travestite da alternanza col fine di consolidare il regime instauratosi nel paese svincolando l’esecutivo dalle spinte antagoniste prodotte dallo scontro di classe, un modello che, opportunamente svuotato dalla collocazione materiale antiproletaria e controrivoluzionaria, viene presentato come il superamento della cosiddetta anomalia italiana (preclusione del PCI dalle leve di governo) con buona pace del “riformismo forte” di Occhetto. È evidente che le forze proletarie che hanno maggior peso, per le loro dinamiche, su questo terreno sono giocoforza la DC, in quanto serbatoio storico della classe dirigente che rappresenta la frazione dominante di borghesia imperialista, e il PCI in quanto rappresentante istituzionale della classe. Il travaglio interno del PCI nel trovare una sua collocazione nel quadro politico istituzionale è manifestazione della crisi profonda che attraversa le forze dell’opposizione istituzionale e che ha origine proprio dalle modifiche apportate dalla controrivoluzione nella mediazione politica, modifiche che di fatto hanno sottratto a queste forze gli strumenti attraverso i quali nella fase precedente erano deputati a svolgere la loro funzione di rappresentanza istituzionale e ammortizzamento delle spinte conflittuali delle istanze di classe. Le attuali posizioni del PCI, lontano dal prefigurarlo come polo dell’alternanza, si traducono in “pura garanzia democratica” ai progetti democristiani a questo modo nello schieramento borghese. La DC asse principale delle svolte politiche nel paese, nonché reale gestore del potere sostanziale, gioca una funzione importante nel processo di adeguamento dei partiti, parallelamente ai mutamenti che avvengono nelle cosiddette democrazie mature. Una necessità ben chiara nella linea demitiana, perciò sottintesa nel suo progetto politico. Questo progetto avviandosi con prospettive di ampio respiro deve fare di fondo del progetto, certo ne costituiscono punto di squilibrio. Contraddizioni solo apparentemente riferibili allo scontro tra vecchio sistema correntizio espressione della gestione del potere nella fase precedente e rinnovamento demitiano, che vanno invece riferiti ai passaggi da effettuare verso quella “democrazia compiuta” tanto decantata dai politologi e che nella realtà italiana tende ad evolvere verso una forma di “governo presidenziale” espressione degli specifici caratteri della democrazia rappresentativa in Italia. Questo perché attualmente l’alternanza non trova terreno materiale di praticabilità dovuta al fatto che “i modelli” che si formano sono il prodotto degli equilibri generali politici e di forza fra classe e Stato, e solo secondariamente e di riflesso a ciò, riferiti all’ambito interborghese. Tra questa tendenza e la realtà c’è l’aspro scontro politico e sociale del paese: un proletariato non pacificato che esprime la vasta resistenza ai costi della crisi della borghesia imperialista e agli effetti della riforma dei poteri dello Stato, quest’ultima si riflette infatti sui termini dello scontro nella possibilità per l’esecutivo di “forzare” sulla mediazione politica come dimostra l’intervento di autorità in tema di diritto di sciopero e sulle modifiche delle libertà sindacali. Atti politici e materiali che chiariscono, come nel caso del voto segreto, in che modo le riforme istituzionali si riversano sulle condizioni di vita proletarie, modalità che sempre più spesso ricorrono all’uso dei CC come componente di forza delle trattative accanto ai “più democratici convegni” fra le parti finalizzati a “normalizzare” già nella fabbrica la produzione del conflitto.

Tra questa tendenza e la realtà c’è l’attività rivoluzionaria delle BR di cui rivendichiamo l’apporto fondamentale nell’aver saputo individuare ed attaccare il progetto politico centrale di rifunzionalizzazione dello Stato, contribuendo al suo attuale impasse e dimostrando nel contempo la possibilità/necessità di impattare ed inceppare la tendenza antiproletaria e controrivoluzionaria di cui è portatore il progetto demitiano, un’iniziativa politica che collocandosi al punto più alto dello scontro ha promosso in avanti il processo di ricomposizione e coagulo delle istanze più mature dell’autonomia di classe sulla lotta armata e lavorare sul duplice piano di ricostruzione e formazione delle avanguardie di lotta e rivoluzionarie al fine di organizzarle e disporle adeguatamente nello scontro. Un’iniziativa politica che inserita nella fase di ricostruzione ha esplicitato sul terreno pratico la sostanza del riadeguamento complessivo allo scontro. Il rilancio che le Brigate Rosse hanno operato in questi anni di Ritirata Strategica dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria, le prospettive politiche che questo ha aperto sia sul terreno del rapporto classe/Stato, sia sul terreno dell’antimperialismo, ha determinato uno spostamento in avanti del piano di scontro rivoluzionario. Un movimento consapevolmente prodotto e calibrato dalle Brigate Rosse rispetto ai rapporti di forza generali fra le classi e al rapporto imperialismo/antimperialismo. L’elemento di forza di questo rilancio è costituito dal fatto che si è forgiato all’interno delle condizioni della controrivoluzione degli anni ’80 con delle caratteristiche di maturazione il cui portato politico si è reso subito tangibile nel dispiegamento pratico dell’attività rivoluzionaria per la sua capacità di dialettizzarsi in termini di direzione/organizzazione con le istanze più mature dell’autonomia di classe, di costituire cioè il catalizzatore di tutte le componenti rivoluzionarie e proletarie vive del paese, nel contempo di proporsi sul piano dell’antimperialismo come forza rivoluzionaria autorevole non solo per il contributo già operato su questo terreno, ma soprattutto per il contributo al rafforzamento/consolidamento della politica del Fronte Combattente Antimperialista. Questo dato politico centrale nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione che ha posto lo Stato a ridefinire contromisure per contrastare il dato politico della proposta delle Brigate Rosse sul campo proletario, più precisamente misure che fossero in grado di “gravare” e divaricare il terreno delle aspettative che si sono create nell’ambito operaio e proletario. All’interno di questo quadro si può comprendere perché la direzione dell’antiguerriglia sia stata assunta dai servizi segreti e direttamente orientata dall’esecutivo; l’autobomba di Milano, gli episodi minori ad essa collegati, l’“affare” del vicedirettore di Rebibbia chiariscono il riferimento apertamente terroristico dello Stato nei confronti del campo proletario, un recupero dei vecchi strumenti riaggiornati però alla funzione svolta dalla guerriglia, nella dialettica dello scontro fra le classi, iniziative di deterrenza che hanno il fine immediato di “raffreddare queste aspettative” e, come secondo momento, la velleità di contrastare gli effetti prodotti e le prospettive politiche concrete messe in campo. Tali iniziative caratterizzano l’antiguerriglia nel duplice piano di intervento: la guerriglia e il suo referente di classe, ovvero il rovesciamento degli attacchi alla guerriglia nelle condizioni politiche/generali dello scontro. Un’attività che avvalendosi della cattura di alcuni militanti, intende rilanciare su base di forza il logoro copione della soluzione politica in cui l’appello alla cessazione delle ostilità è ratificato dagli esperti dei servizi segreti. Una fattiva collaborazione volta, in termini politici, a ricondurre la questione della lotta armata a questione di prigionieri, a questione di reduci; una immagine questa che lo Stato cerca di accreditare anche attraverso la gestione della “storia delle Brigate Rosse” e del processo di insurrezione utilizzando allo scopo le diverse sfumature della collaborazione e defezioni lì presenti, che, a buon diritto, caratterizzano tale processo come processo antiguerriglia e che lo Stato si incarica di sponsorizzare allo scopo di contrastare le Brigate Rosse e la realtà dello scontro rivoluzionario per l’impossibilità di inficiare e mettere in discussione la praticabilità e validità della proposta rivoluzionaria. Un fatto questo dimostrato dalla capacità di riprodursi e riadeguarsi nelle condizioni più dure dello scontro riaffermando in ciò l’efficacia della strategia della lotta armata quale alternativa politica alla crisi della borghesia imperialista.

Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario demitiano di riforma dello Stato.

Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale, nello specifico i progetti imperialisti di “normalizzazione” dell’area mediorientale che passano sulla pelle del popolo palestinese e libanese.

Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antiperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geo-poitica.

Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

Onore ai compagni Annamaria Ludman, Riccardo Dura, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli uccisi il 28 marzo in via Fracchia, onore a tutti i rivoluzionari antimperialisti caduti!

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Maria Cappello, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Fausto Marini, Stefano Minguzzi, Fulvia Matarazzo, Fabio Ravalli – I militanti rivoluzionari – Daniele Bencini, Cesare Prudente, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro

 

Roma, 28 marzo 1989

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