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Un’importante battaglia politica nell’avanguardia rivoluzionaria italiana. Sviluppo della Seconda posizione del settembre 1984

(pubblicato in novembre)

1. Le nostre divergenze
L’inizio degli anni ’80, e l’anno 1982 in particolare, ha prodotto una secca soluzione di continuità nel processo di crescita, sostanzialmente ininterrotto, conosciuto dalla nostra organizzazione nel corso dei suoi primi dieci anni di attività; da questa terribile prova, essa ne è uscita fortemente ridimensionata nel numero dei militanti, nei mezzi politici e organizzativi a disposizione, nell’influenza e nel prestigio tra le masse. Da più parti si è rilevato che la campagna di repressione scatenata dallo Stato contro il movimento rivoluzionario ha, per così dire, solamente sviluppato e fatto evidenziare in tutte le loro implicazioni i sintomi di una profonda crisi politica che preesisteva ai giorni delle torture, dei tradimenti e degli arresti di massa; e questa visione del problema esce confermata anche solamente da uno sguardo superficiale gettato su quel che succede tra i prigionieri politici nelle carceri e nelle aule giudiziarie del nostro paese: fatta eccezione dei traditori veri e propri, la stragrande maggioranza di coloro che hanno avuto parte nel movimento rivoluzionario degli ultimi anni rinnega le proprie scelte ed auspica l’inizio di una trattativa con lo Stato al fine di ottenere la libertà in un prossimo futuro. Non è proprio possibile, infatti, chiudere gli occhi di fronte a questa monumentale ed insieme tragicamente ridicola Canossa di ex-combattenti che, prosternandosi compresi di fronte ai peggiori valori della società borghese, offrono alle masse proletarie del nostro paese uno spettacolo indecente, il cui scotto dovremo pagare a lungo. Tanto lordume non si accumula in uno o due anni, e la pulizia delle nostre stalle non sarà né breve né facile e dovrà necessariamente partire da lontano, perché di crisi politica si tratta e, effettivamente, di crisi politica profonda e complicata.
All’indomani della liberazione del generale americano Dozier, la nostra organizzazione ha ben ritenuto di dover condurre un bilancio approfondito su tutto l’arco della nostra esperienza ed ha così lanciato nel movimento rivoluzionario la proposta della “ritirata strategica”, vale a dire della necessità di un periodo di generale riadeguamento dell’avanguardia rivoluzionaria a seguito dei rovesci registrati. La storia, poi, si è incaricata di confermare una volta di più la validità del principio leninista secondo il quale la serietà di un partito politico si può misurare dal modo in cui affronta i suoi errori: i nostri critici “da sinistra” di allora, specialmente il tristo “partito guerriglia del proletario metropolitano” che predicava e praticava scellerate azioni militari per mezza Italia e ci accusava di tradire la lotta di classe, sono scomparsi come forze organizzate e, nelle prigioni, riscoprono tardivamente l’individualismo, la bellezza della vita comune e, perla delle perle, addirittura la religione. In una situazione in cui il primo compito materiale era quello di fronteggiare la stretta mortale della repressione di Stato si è dunque avviata una riflessione critica che si è avvalsa del contributo di ogni militante e di ogni struttura dell’organizzazione medesima, in attività e prigioniera. Il carattere di questa riflessione considerata nella sua generalità, è stato proprio quello di essersi sviluppata per gradi successivi, portando alla luce via via più chiaramente le ragioni profonde che spiegano degli errori e dei meriti della nostra esperienza. Come spesso succede, qualcuno lungo la strada ha visto confermate le proprie idee, altri le hanno mutate, altri ancora ci hanno abbandonato intimoriti dalle difficoltà del compito che era davanti. È certo che non è mutato l’obiettivo di questa riflessione: rilanciare l’attività rivoluzionaria nel nostro paese su basi teoriche politiche ed organizzative più solide e mature del passato. Questo periodo di generale riflessione critica, che perdura dai primi mesi dell’82 e che comunque non ha impedito alle Br di tornare a combattere ai più alti livelli politici e militari della loro storia, è giunto oggi ad un punto decisivo: due posizioni si scontrano intorno ai principali problemi teorici e politici all’ordine del giorno nella nostra discussione interna; ci si divide su questioni di strategia e su questioni di tattica, sul giudizio rispetto al passato, così come sul modo di concepire la nostra attività rispetto al futuro. Ma perché, si potrà domandare, una organizzazione decimata dagli arresti e rimasta praticamente da sola a combattere con le armi lo Stato borghese, si vuole ulteriormente indebolire con delle divisioni interne? E qual è il contenuto di queste divergenze?
Va riconosciuto, con estrema franchezza che il contenuto delle nostre divergenze consiste nel fatto che esistono oggi nelle Brigate Rosse due concezioni completamente differenti del processo rivoluzionario e dei compiti d’avanguardia nel nostro paese: una concezione si appoggia sull’idea che ritiene possibile, partendo dall’attività del partito rivoluzionario, condurre una “guerra di classe di lunga durata” in un paese imperialista come l’Italia – ed è una tesi che tutto sommato, è stata propria della nostra organizzazione fin dal suo atto di nascita e che può indicarsi anche sotto il nome di “strategia della lotta armata”; l’altra, a partire dalla valutazione concreta degli effetti che l’applicazione di questa tesi ha prodotto nella realtà italiana (effetti positivi e negativi, beninteso), e tenuti presenti alcuni fondamentali, insegnamenti del marxismo e del leninismo, considera che, nel nostro paese, la forma che assume la guerra rivoluzionaria è tendenzialmente quella di un’insurrezione, e che il compito del partito è quello di guidare le masse a questo appuntamento storico mediante la sua attività rivoluzionaria, la sua politica rivoluzionaria, centrata in modo essenziale ma non esclusivo sulla LA. Il problema potrebbe essere formulato anche così: in un paese imperialista sono ancora validi, considerati nella loro essenza, gli insegnamenti della rivoluzione d’ottobre oppure le cose sono evolute a tal punto che riferirsi a quei fondamentali accadimenti risulta sforzo vano e, in ultima istanza, controproducente? Si tratta, insomma di approfondire la concezione che Lenin aveva della rivoluzione o, al contrario di superarla?
A questo punto, lo scontro politico che oggi investe la nostra organizzazione acquista senso e significato inserendosi nel più vasto problema della crisi teorica e pratica che il marxismo leninismo ha dovuto affrontare nel secondo dopoguerra, al seguito della degenerazione revisionistica dei vecchi partiti comunisti, e delle risposte che i rivoluzionari hanno cercato di dare a questa crisi, nei contesti storicamente determinati in cui si trovano ad agire ed a riflettere. Da questa angolatura si capisce l’importanza delle nostre divergenze e si capisce perché la battaglia politica deve essere condotta a fondo nonostante le difficili condizioni attuali: i nostri problemi sono dentro la storia del movimento comunista internazionale; nello scontro politico oggi esistente all’interno delle Br si riflettono, colorandosi delle specificità proprie alla nostra storia d’organizzazione, questioni storiche irrisolte il cui peso è e sarà determinante nell’influenzare il destino della rivoluzione proletaria nel mondo e nei paesi imperialisti in specie.
La tesi dichiarata del presente lavoro è che bisogna approfondire il leninismo e non superarlo. A nostro avviso, la celebre definizione, offerta da Stalin nei suoi “Principi del leninismo”, secondo la quale il leninismo è il marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria, conserva intatta la sua validità a 60 anni di distanza dal momento in cui viene formulata. Quindi, l’idea della “guerra di lunga durata” – che rappresenta un riferimento fondamentale per la rivoluzione di nuova democrazia e per le lotte di liberazione nazionale nei paesi oppressi dall’imperialismo – deve essere rifiutata nei paesi imperialisti in quanto foriera di soggettivismo e avventurismo piccolo borghese. Intanto va riconosciuta alle esperienze di avanguardia che hanno fondato la propria azione su questi presupposti, la funzione storica di avere recuperato la problematica concreta e la dimensione militante della rivoluzione nei paesi del centro imperialista, in quanto ne vanno criticate le insufficienze, i limiti, le approssimazioni sul piano della scienza della rivoluzione.
Se è vero, infatti, come ognuno si affanna a sostenere a parole, che attualmente il compito principale è quello di trarre tutti gli insegnamenti possibili dalla nostra esperienza passata per poterla valorizzare appieno nel futuro, è ancora più vero che simile operazione non si può condurre, per così dire, “a basso profilo”, giustapponendo tra di loro singoli giudizi su pezzetti di storia d’organizzazione con l’illusione di salvare capra e cavoli. È una valutazione generale che va data dell’attività rivoluzionaria delle Br nel nostro paese e questa valutazione, che sola può rendere conto del significato storico della nostra esperienza, è cosa da condurre sulla base del marxismo e in uno spirito alieno da gretti interessi di campanile, proiettati, insomma, sul metro della storia. In questo senso, condurre a buon fine simile operazione teorico pratica equivale a rilanciare con rigore e con forza il m-l nel nostro paese, superando così, una volta per tutte, lo stato di minorità teorica e subalternità politica nel quale da troppi anni sembra essere consegnata la sinistra rivoluzionaria italiana.
Sulla questione del rilancio del m-l vanno fatte, preliminarmente, almeno due precisazioni. Innanzitutto, va precisato che questo rilancio non può avvenire nel modo acritico e dogmatico spesso proprio di certune sette che, con la stessa facilità con cui stampano qualche centinaio di copie di orribili giornaletti, si proclamano avanguardie del proletariato internazionale attirandosi addosso il ridicolo della borghesia e anche delle masse combattive. Invero, qualsiasi riflessione rivoluzionaria non può che partire dalla valutazione dell’esperienza rivoluzionaria che le masse ed i soggetti coscienti compiono in determinati periodi storici, ed ogni fase e momento storico è, lo si voglia o meno, superiore all’antecedente nel senso che ne rappresenta uno svolgimento e quindi, in ogni caso, un approfondimento reale. Nella “Guerra civile in Francia” Marx ci dà un esempio di questa metodologia scientifica allorché riferendosi alla Comune (esperienza i cui presupposti non aveva condiviso in pieno) la definisce “la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica dal lavoro”, cioè niente di meno che il primo esempio di dittatura del proletariato. Lenin, d’altro canto, ha sempre insistito sulla necessità di imparare dalla realtà per come essa è effettivamente, di riconoscere nella realtà ciò che, talvolta apparentemente inessenziale, è suscettibile di generalizzazione in quanto forma superiore e tendenzialmente più sviluppata dell’agire storico-sociale dell’uomo. Chi recita un principio a memoria e non si preoccupa di coglierne le implicazioni concrete, le forme reali ed anche contraddittorie di manifestazioni nella storia, non ha capito niente del materialismo dialettico in generale e della sua applicazione alla storia in specie. Per ciò che concerne noi, allora, nessuna attività rivoluzionaria che si dica m-l è concepibile nel nostro paese fuori dalle Br, perché solo la nostra organizzazione è in grado di tracciare un bilancio scientifico e militante (cioè capace di tradursi in pratica rivoluzionaria) dei meriti e dei limiti dell’esperienza rivoluzionaria compiuta nel corso degli anni ’70, individuando con precisione quali siano gli elementi positivi acquisiti e/o acquisibili nel patrimonio storico del movimento comunista internazionale, definendo con chiarezza i termini di una strategia e di una tattica veramente rivoluzionaria, valorizzando compiutamente l’insegnamento principale che scaturisce da tutta l’esperienza d’avanguardia degli anni ’70 e, in primo luogo da quella della nostra organizzazione: che la questione della lotta armata è parte decisiva della questione della politica rivoluzionaria di un partito marxista anche in una situazione non rivoluzionaria.
Secondariamente va chiarito cosa intendiamo per approfondimento della concezione della rivoluzione leninista e perché contrapponiamo tale indirizzo teorico pratico a quello del superamento della medesima. L’applicazione della teoria maoista della “guerra popolare prolungata” alla realtà sociale e storica dei paesi imperialisti conduce, a nostro parere, inevitabilmente, ad una distorsione profonda del leninismo fin nel suo nocciolo essenziale. È facile dimostrare, infatti, e la nostra storia lo ha grandemente dimostrato, che per quanto si cerchi di essere degli onesti m-l, per quanto si vogliano evitare le schematizzazioni, volendo applicare questa teoria nei paesi capitalistici avanzati si perviene, per forza di cose, ad una visione non leninista del rapporto coscienza-spontaneità e del suo correlato pratico lotta politica-lotta economica, si arriva a sottovalutare il ruolo educatore e politico del partito rivoluzionario trasformandolo, da soggetto cosciente della lotta per il potere, in mero organizzatore di una disponibilità rivoluzionaria di massa data per scontata, si stravolge, infine, completamente, situandosi all’opposto estremo, l’idea marxista e leninista “dell’eccezionalità” dell’incontro tra condizioni oggettive e condizioni soggettive della rivoluzione socialista proletaria, sposando una sorta di aggiornata filosofia della prassi, ultima raffinata eredità del marxismo “critico”. Vi sono, certamente, delle ragioni precise alla base del fatto che i marxisti leninisti conseguenti, all’inizio degli anni ’70, furono indotti a credere che una “lunga marcia nelle metropoli” costituisse l’alternativa rivoluzionaria giusta al tradimento revisionista e all’impasse dei gruppi (allora) extraparlamentari. E, in più, noi dobbiamo materialisticamente riconoscere che la questione della lotta armata si è conquistata il dovuto risalto, un risalto politico cioè, a partire da quelle scelte e attraverso tutta la nostra storia, dal ’70 a Dozier, sulla base di una teoria e di una pratica, approssimate quanto si vuole, ma storicamente all’avanguardia e pertanto giuste e positive. Nondimeno, oggi, un chiarimento si impone su questi come su altri problemi. Pare a noi inutile dichiararsi leninisti se non si accetta almeno il nocciolo del pensiero del grande rivoluzionario russo, e si rende, in verità, cattivo servigio al leninismo continuando a mescolarne i chiari principi con le più svariate e lontane concezioni. Come è possibile infatti appellarsi ai principi leninisti del partito come “reparto d’avanguardia” e “coscienza esterna del proletariato” e scrivere quasi accanto che “il problema non è di trasmissione di coscienza dai comunisti alla moltitudini”? (prima posizione della comunicazione). E che rapporto ha con il pensiero di Lenin, che individuava scientificamente le caratteristiche principali della fase rivoluzionaria, la seguente frase: “la lotta armata apre la fase rivoluzionaria a partire dall’attività politico-militare d’avanguardia che attacca la Stato e si rapporta alla classe secondo una strategia tesa ad organizzare le avanguardie rivoluzionarie, rappresentare e dare sbocco alle istanze di potere delle lotte proletarie e conquistare l’antagonismo al programma rivoluzionario”? (ibidem). Ed è possibile parlare di “atti di guerra” se il partito si muove in una situazione contrassegnata dalla dimensione politica in quanto dimensione prevalente dello scontro sociale fra le classi? In poche parole, chi crede davvero di poter superare Lenin, infischiandosene di quegli insegnamenti della rivoluzione d’ottobre che mantengono la loro validità tutt’oggi, deve almeno avere il coraggio di dirlo apertamente, ammettendo che la “guerra di lunga durata” o idee simili si accompagnano a tutt’altri discorsi e comportano un’altra visione del processo rivoluzionario, diversa e contrapposta a quella che, di questo, Lenin ne aveva. Noi, al contrario, pensiamo che la sostanza di quella concezione sia tutt’ora valida e che il problema sia quello di approfondirne i contenuti alla luce dell’esperienza pratica compiuta dal movimento comunista internazionale e tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti nella società.
In questo senso, lo scontro politico esistente oggi nell’Organizzazione si palesa anche come scontro di riferimenti teorici e, al limite, come scontro tra diverse metodologie. In questo scontro noi siamo per la demarcazione tra le due posizioni, non certo perché abbiamo il “gusto” della scissione o proviamo piacere a non trovare punti di unione a nessun livello, ma proprio perché la demarcazione consentirà di svelare un’altra delle caratteristiche seminascoste di questa battaglia politica: il fatto, cioè, che una posizione veramente marxista leninista potrà farsi strada nelle Br solo a patto di riuscire a smascherare come tale quell’eclettismo teorico, capace di dire una cosa e il contrario di essa allo stesso momento, che tanta fortuna ha riscosso nelle Br durante il corso della loro attività passata e che tanto più pesantemente ne ipoteca oggi il futuro.
In sostanza, alla domanda”quale futuro per le Br?” si potrà rispondere soltanto dopo aver chiarito in cosa consista il significato storico della nostra esperienza, dopo aver, cioè, evidenziato il nostro elemento di internità e di contributo alla storia e al patrimonio del movimento comunista internazionale, ed è evidente che il modo con cui si affronta quest’ultimo problema risulta assolutamente decisivo ed influenza, dall’inizio alla fine, qualsiasi discorso si voglia fare su più di 10 anni di lotta armata nel nostro paese. Infatti, in Italia, il problema della risposta d’avanguardia al tradimento revisionista dei PC provenienti dal Komintern, problema generale di tutta la sinistra rivoluzionaria europea, si è manifestato in maniera oltremodo evidente e sviluppata. La rottura con il revisionismo – e con il revisionismo più forte di tutto l’occidente – ha assunto caratteri di radicalità rivoluzionaria e di radicamento sociale sconosciute ad altre realtà nazionali: l’Italia ha fatto l’esperienza di un’acuta lotta di classe, che ha modificato profondamente alcuni tratti della nostra società e che ha accumulato nelle mani del proletariato rivoluzionario un patrimonio enorme di esperienze sulle quali è doveroso riflettere e dalle quali è possibile ricavare molti utili insegnamenti. Certamente, molti fattori di ordine oggettivo – cioè indipendenti dalla volontà dei singoli individui o gruppi, ed anche da quella delle classi stesse – hanno concorso al determinarsi di questa situazione: alcuni vanno rintracciati a livello profondo nella nostra storia nazionale, altri sono da riferirsi alle caratteristiche economiche e politiche assunte specificatamente dalla società italiana nel secondo dopoguerra. Ma pur tenendo conto di ciò non sembra e non può essere causale il fatto che l’elemento soggettivo trainante questa grossa “ondata” rivoluzionaria, le Br, siano sorte proprio nel tentativo di applicare i principi del marxismo alla realtà attuale, ricollegandosi così con l’eredità del comunismo rivoluzionario internazionale, non può cioè, essere considerata accidentale la relazione che di fatto si è stabilita tra il tentativo di riferirsi costantemente al marxismo leninismo sotto il profilo teorico, politico ed organizzativo e la quantità e la qualità del cammino percorso dalle Br dal momento della loro fondazione fino ad oggi, ivi compreso il fatto che esse sono attualmente la sola organizzazione ad avere superato la prova durissima della repressione dell’inizio degli anni ’80. Per questi motivi, al di là di ogni analisi sul rapporto tra le lotte di massa del 68-70 e nascita della lotta armata, è importante considerare i legami interni alla storia del movimento comunista internazionale; perché per un partito marxista è l’attività cosciente e quindi l’attività cosciente considerata nella sua evoluzione storica, che rappresenta il termine di riferimento fondamentale e la base per ogni avanzamento generale.
E qui siamo ad un punto estremamente delicato perché, nella misura in cui qualcuno si dà la pena di tentare un inquadramento della nostra esperienza in una dimensione storica appena più ampia di quella che si è sviluppata dal ’68 in poi, subito si alza il coro che grida al tradimento, alla svendita dei principi d’organizzazione, all’abbandono della lotta armata. Ora, noi rifiutiamo apertamente la posizione di chi ritiene di potere isolare la nostra storia da quella più generale del movimento comunista internazionale in nome di una sua presunta “originalità”. Senza meno, le originalità ed anche le “rotture” esistono, ma bisogna dire chiaramente che l’atteggiamento presuntuoso di chi non stabilisce relazioni storiche precise con il passato, o le stabilisce soltanto sulla base del fatto che si è operata una rottura irrevocabile con ciò che è solo opportunismo e degenerazione, che si è fatta una “scelta” da prendere in blocco o abbandonare impauriti, questo atteggiamento ci condanna vita natural durante al particolarismo e al primitivismo, “splendido” se si vuole, ma pur sempre incapace di elevarsi al livello politico oggi necessario per un partito rivoluzionario. In più, i “senza passato”, costretti a qualche riferimento di ordine storico, risultano incapaci di qualsiasi distinzione: ogni rivoluzione è buona per confermare le loro idee e, tra la rivoluzione socialista proletaria e quella di nuova democrazia, tra la forma che assume la rivoluzione nei paesi imperialisti e quella che assume nei paesi dipendenti, coloniali o neocoloniali, ogni precisazione è inutile perché rischia di inscatolare la nostra rivoluzione, ecco che arriva l’orribile parola…in un “modello”!! Noi, ovviamente, non siamo di questo avviso e le precisazioni quando necessarie ed utili non ci spaventano affatto: che problema c’è, ad esempio, che l’Italia è un paese imperialista e che la sua rivoluzione assume una forma necessariamente diversa da quelle che si svolgono nei paesi dipendenti riguardo la forma che tendenzialmente assume la guerra rivoluzionaria? E tacere questo fatto non vuol dire forse andare contro, lo si voglia o meno, alla teoria leninista dell’imperialismo che distingue con una certa precisione le nazioni imperialiste da quelle oppresse? E chi si inalbera contro i “Modelli”, non ha forse in testa un modello assolutamente definito, la “guerra di lunga durata”, l’accumulo progressivo di forza militare sulla base di un’attività necessariamente “tentacolare”(uno più uno, azione più azione), che non tiene conto e non può tenere conto dell’importanza dell’elemento oggettivo nella dinamica generale di qualunque processo rivoluzionario?
In verità, l’ingenuità teorica e pratica che ha caratterizzato per molti anni la nostra attività e che ha anche assolto una notevole funzione storica (conquistare un ruolo essenziale alla lotta armata nell’insieme dei metodi e degli strumenti di lotta in mano al partito marxista, sin dall’inizio del processo rivoluzionario), rischia oggi di trasformarsi in infantilismo, qualora prevalga ancora una volta una concezione eclettica dei compiti d’avanguardia e delle caratteristiche generali che assume il processo rivoluzionario nel nostro paese. Il bambino insomma rischia di rimanere nudo. La valorizzazione della nostra esperienza, al contrario e a nostro parere, coincide come già detto con il rilancio rigoroso del marxismo leninismo contro ogni sorta di opportunismo, ma anche contro quel genere di infantilismo che ormai è solo un ostacolo da superare sulla strada che porta alla costituzione del partito rivoluzionario nel nostro paese.

2. Il significato storico dell’esperienza delle Brigate Rosse
Come è noto, in Marx ed Engels, il tema della rivoluzione sociale si traduce, sul piano politico, nel problema dell’autonomia politica del proletariato ed in quella del rapporto tra classe rivoluzionaria e potere borghese, organizzato nello Stato. La rivoluzione sociale è strettamente legata alla sua condizione preliminare, la rivoluzione politica, ed uno dei momenti cruciali di questa complessa questione diviene, per forza di cose, quello della presa del potere.
I fondatori del socialismo scientifico si preoccuparono molte volte di chiarire il loro pensiero a questo proposito: Marx per primo parlò della violenza come “levatrice” della storia, individuandone la necessità sul piano dell’evoluzione e della trasformazione della società, ed insegnò che le tattiche da adottare per pervenire alla presa del potere devono innanzitutto tener conto delle caratteristiche politiche e militari dello Stato che si vuole abbattere; Engels, che considerava l’insurrezione un’arte, ancora nel 1895 (nell’anno della sua morte cioè) si dedicava all’analisi dell’evoluzione delle tecniche militari borghesi, mettendo in luce come, di pari passo, aumentavano le difficoltà di realizzazione di un’azione militare rivoluzionaria. Essi posero sempre l’accento sul problema della violenza e criticarono immancabilmente quei dirigenti socialisti che, abbacinati dai successi elettorali, si rifiutavano di considerare il lato violento della rivoluzione ed i compiti militari del partito proletario. D’altra parte, non trattarono l’argomento in modo organico e definitivo, lasciando aperta l’ipotesi, in via del tutto teorica ed esclusivamente riferita a quelle nazioni in cui lo Stato era particolarmente smilitarizzato, giovane e di debole presenza nella società, di un passaggio pacifico al socialismo.
In Lenin questa particolare tematica viene trattata in modo così diffuso e sistematico, così puntuale in tutte le sue implicazioni che, dal complesso delle sue opere, è possibile ricavare una vera e propria “concezione” del problema della presa del potere, una concezione che, ricercando costantemente e rigorosamente il riferimento all’opera di Marx ed Engels, si sviluppa e si rafforza nella lotta contro l’opportunismo imperante nella seconda Internazionale e ha come banco di prova la realtà ormai formata dell’imperialismo, cioè del capitalismo pervenuto al suo stadio monopolistico. Rammentiamone i passaggi fondamentali con l’aiuto di qualche citazione.
Per Lenin, nessuna rivoluzione socialista è possibile senza l’impiego di una certa violenza da parte del proletariato nei confronti dello Stato e della classe borghese: “La sostituzione dello Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta” (Stato e Rivoluzione). Anche l’ipotesi assolutamente giustificata di un passaggio pacifico al socialismo in certuni paesi, lasciata aperta da Marx ed Engels, risulta inattuale nell’epoca dell’imperialismo. “Il capitalismo premonopolistico – che raggiunse il suo apogeo appunto negli anni ’70 – si distingueva nei suoi tratti economici essenziali, manifestatisi in modo particolarmente tipico in Inghilterra e in America, per un amore della pace e della libertà relativamente grandi. L’imperialismo, invece, cioè il capitalismo monopolistico maturato definitivamente solo nel XX secolo, si distingue nei suoi tratti economici essenziali, per il suo minimo amore per la pace e per la libertà e per il massimo ed universale sviluppo del militarismo. “Non notare” questo nell’esaminare fino a che punto sia verosimile un rivolgimento pacifico o un rivolgimento violento, vuol dire scendere al livello del più volgare lacchè della borghesia” (La Rivoluzione violenta e il rinnegato Kaustki). Dunque, il confronto violento tra proletariato e borghesia è un fatto necessario che scaturisce dall’esistenza oggettiva del militarismo capitalista e, in particolare, dallo sviluppo pronunciato che quest’ultimo conosce sotto la realtà dell’imperialismo. Impostato il problema in questo modo e chiarito che l’azione rivoluzionaria violenta, per essere risolutiva, per riuscire cioè a strappare il potere politico dalle mani della borghesia, non può assomigliare ad un complotto, ma deve coinvolgere larghe masse proletarie depositarie della simpatia di milioni di persone, si pongono immediatamente, sempre per Lenin, due compiti fondamentali per il partito che voglia condurre vittoriosamente le masse alla rivoluzione violenta: innanzitutto il partito deve educare le masse all’idea della rivoluzione violenta attraverso tutta la propria attività, deve innalzare la combattività tenendo conto ed appoggiandosi sull’esperienza pratica compiuta dalle masse medesime, deve elevare il loro grado di coscienza fino alla comprensione dell’inconciliabilità di interessi che esiste tra loro e la borghesia nella società contemporanea. In poche parole, il partito deve porre di fronte alle masse il problema dello Stato, della sua natura di classe e della necessità del suo abbattimento violento, in quanto elemento fondante e precipuo della politica rivoluzionaria. Secondariamente, il partito deve individuare la forma che il processo rivoluzionario prende nella nazione determinata, considerando con particolare attenzione il problema del passaggio dalla fase politica alla fase militare dello scontro sociale, il problema del passaggio dalla situazione non rivoluzionaria alla situazione rivoluzionaria. Esso deve, perciò, analizzare la forma che la guerra rivoluzionaria prende e deve attendere ai compiti militari che questa forma particolare gli impone, senza la benché minima concessione all’opportunismo. Nell’essenziale, non ci sono altri compiti che scaturiscono per il partito dal principio della necessità della rivoluzione violenta, poiché, per Lenin, sia l’azione partigiana contro il poliziotto zarista che la grande dimostrazione popolare che si conclude con un bagno di sangue operano come fattori concreti di educazione delle masse, ne innalzano la combattività e gli svelano la natura delle istituzioni che governano la società. A patto, ovviamente, (e qui Lenin è sempre molto categorico) che sia il partito a dirigere simile “educazione”. Ogni altra interpretazione, ogni svalutazione del ruolo educatore del partito anche sulla questione della violenza, non è solo una concessione allo spontaneismo, ma conduce, nella misura in cui si praticano azioni partigiane, a quella logica “dell’argomento stimolante” che Lenin stesso metteva in ridicolo nel “ Che fare?”. Lo stesso argomento secondo il quale la lotta armata “sposta i rapporti di forza generali tra le classi”, a ben guardare, può essere compreso in questo schema concettuale. Ci spieghiamo meglio: per i comunisti per coloro che hanno come finalità immediata la presa del potere del proletariato, ogni miglioramento delle condizioni di vita del proletariato non è importante di per se stesso, ma solo in quanto, raggiunto sulla base della lotta di classe esso implica un aumento della coscienza rivoluzionaria della classe oppressa e un aumento dell’influenza concreta del partito rivoluzionario nelle masse medesime. È evidente, allora, che il fine dei comunisti non è tanto quello di “spostare i rapporti di forza”, ma piuttosto il fatto che mutino le relazioni generali tra le classi è un indice fondamentale dell’aumento della disponibilità rivoluzionaria del proletariato alle tesi del partito. Se è vero che la lotta armata sposta i rapporti di forza tra le classi, essa lo fa in un senso comunista, solo perché contribuisce ad innalzare la coscienza e l’organizzazione rivoluzionaria del proletariato. Considerato in altro modo, il problema ha solo due vie d’uscita, entrambe non marxiste: 1) la lotta armata sposta i rapporti di forza in quanto migliora le condizioni di vita delle masse: interpretazione “riformista”; 2) la lotta armata sposta i rapporti di forza in quanto accresce il potere delle masse: interpretazione che, in un paese come l’Italia, dove l’unico vero potere in mano alle masse prima della conquista del potere politico è la loro coscienza e la loro organizzazione rivoluzionaria, sottende necessariamente l’idea di un “potere crescente”, di un “ contropotere”, di un “sistema di potere”, che non trovano riscontro alcuno se non nel paradiso accogliente dell’ideologismo dal quale, a fatica, stiamo cercando di uscire. Per questi motivi è accettabile l’idea che la lotta armata “sposta i rapporti di forza generali tra le classi” solo nel senso preciso che ogni politica rivoluzionaria giusta, in quanto si inserisce con puntualità nella vita politica di una determinata nazione rappresentando l’interesse generale del proletariato di fronte allo Stato, fa aumentare la coscienza della classe oppressa e, concretamente, determina delle modificazioni nei rapporti tra sfruttati e sfruttatori sia nel campo economico, che in quello politico, ideologico, ecc..
Individuare la forma che la guerra rivoluzionaria assume in un dato paese; prepararne le condizioni soggettive, senza alcuna concessione all’opportunismo, sapere quando e come scatenarla e, finalmente, scatenarla effettivamente quando le condizioni generali si presentano, sono da sempre i compiti più difficili e il vero banco di prova per un partito che si dica rivoluzionario. L’argomentazione leninista, a questo punto, fuori e contro ogni filosofia della prassi, ci offre un criterio scientifico, una metodologia che applicata alla situazione concreta di un determinato paese in un determinato periodo storico, è la chiave di volta del problema e ci consente di decidere della forma (e con ciò tutto il resto) della guerra rivoluzionaria. Essa si articola su due livelli: il primo è quello della valutazione della situazione rivoluzionaria, il secondo è quello della valutazione della forza politica e militare dello Stato che si vuole abbattere. Procediamo con ordine.
La questione della situazione rivoluzionaria è di enorme importanza ai fini della definizione della forma che assume la guerra rivoluzionaria. Infatti, se per guerra rivoluzionaria noi intendiamo la situazione in cui larghe masse appartenenti a classi contrapposte si confrontano per mezzo delle armi, la situazione, cioè in cui l’elemento dominante della lotta di classe è quello militare (e non, come spesso si è creduto anche nella nostra Organizzazione, la situazione in cui l’avanguardia delle masse combatte con le armi mentre milioni di persone lottano ancora ad un livello meno elevato), allora è abbastanza elementare riconoscere che solo in una situazione rivoluzionaria si può sviluppare una guerra rivoluzionaria, e risulterà necessario poter stabilire precisamente quando una determinata situazione può dirsi rivoluzionaria. Ecco cosa scriveva Lenin: “Per un marxista è cosa certa che nessuna rivoluzione è possibile in mancanza di una situazione rivoluzionaria. Non è poi detto che ogni situazione rivoluzionaria scaturisca in una rivoluzione. Quali sono in generale i sintomi di una situazione rivoluzionaria? Siamo sicuri di non sbagliare nell’indicare tre seguenti elementi:
1) Impossibilità da parte delle classi dominanti di conservare integro il proprio dominio; una crisi dei circoli dirigenti, crisi politica della classe al potere, produce una falla nella quale entrano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Affinché abbia luogo una rivoluzione non basta, in genere, che non si accetti di scendere più in basso; bisogna altresì che non si possa più vivere come nel passato.
2) Il peggioramento abnorme delle privazioni e delle sofferenze delle classi oppresse.
3) L’incremento sensibile, in funzione di quanto precede, dell’attività delle masse, le quali, in tempo di pace, si lasciano tranquillamente derubare ma nei momenti di crisi sono incitate da tutta la situazione, e anche dai dirigenti, a prendere l’iniziativa di un’azione storica.
In mancanza di queste modificazioni oggettive, indipendenti dalla volontà dei gruppi isolati e dei partiti, nonché da quella delle classi, la rivoluzione è, in linea generale, impossibile. L’insieme di queste modificazioni oggettive costituisce esattamente la situazione rivoluzionaria… non è detto che da ogni situazione rivoluzionaria scaturisca la rivoluzione; perché la rivoluzione si compie solo quando, ai fattori enumerati si aggiunge l’elemento soggettivo, ossia l’attitudine nella classe rivoluzionaria all’azione rivoluzionaria, l’attitudine di masse abbastanza forti da spezzare e scuotere il vecchio regime che, all’apice della crisi non cade se non lo si fa cadere” (Il fallimento della Seconda Internazionale). Il problema allora, se si è d’accordo con Lenin, è quello di considerare con che frequenza queste situazioni si producono e per quanto tempo esse possono prolungarsi in un dato paese, considerate le sue caratteristiche socio strutturali (composizione di classe, collocazione nella realtà generale dell’imperialismo, ecc..), perché da queste cose dipende il carattere della guerra rivoluzionaria: se la situazione rivoluzionaria è presente costantemente, o relativamente costantemente, allora, la guerra rivoluzionaria potrà essere prolungata, potrà appoggiarsi sul sostegno costante e fattivo delle masse e conquistare dei territori da erigere a “zone liberate”, sui quali basarsi per continuare la guerra fino alla liberazione completa dell’intero territorio nazionale. Se la situazione rivoluzionaria si presenta raramente e tocca il suo punto culminante per breve tempo, allora la guerra rivoluzionaria non potrà che concentrarsi in momenti precisi ed assumere tendenzialmente l’aspetto dell’insurrezione. Sebbene ogni schematizzazione sia da evitare sotto questo (…), ci pare innegabile la sostanza scientifica e intimamente materialistica di questo ragionamento; così come ci sembra che tutta l’esperienza della rivoluzione proletaria del movimento progressista mondiale confermi questo fatto. Dire che esistono delle forme tendenziali di guerra rivoluzionaria, che esse possono, tutto sommato, ridursi a quella della guerra popolare prolungata e a quella dell’insurrezione armata, che è possibile e doveroso considerare, nel proprio paese, il tipo di guerra rivoluzionaria che si deve affrontare e trarre tutte le implicazioni sul piano della attività pratica del partito, non significa fare dello schematismo, ma esattamente applicare il marxismo con responsabilità (con la responsabilità di chi deve chiamare alle armi le masse e perciò deve farlo secondo un criterio preciso) alla situazione nazionale in cui si svolge il proprio lavoro. Lenin, ad esempio, trattando il problema della situazione rivoluzionaria in riferimento ai paesi capitalistici della sua epoca, scriveva: “Nella storia, questo aspetto della lotta si iscrive molto raramente all’ordine del giorno; al contrario, la sua importanza e le sue conseguenze perdurano per dozzine di anni” (Il fallimento della Seconda Internazionale). E non a caso, in Russia era partigiano dell’Insurrezione armata. Altrettanto importante della valutazione della situazione rivoluzionaria risulta la valutazione della “forza” politica e militare dello Stato che si vuole abbattere. Non servirebbe a nulla infatti, aver stabilito con precisione con quale frequenza una situazione rivoluzionaria si produce e per quanto tempo si prolunga se poi non si conosce cosa si ha di fronte, se non ci si è preparati e non si sono preparate le masse alla realtà della guerra civile, se non ci si pone il problema di affrontare la crisi politica della borghesia. “Il vecchio regime…,anche all’apice della crisi, non cade se non lo si fa cadere”; ma non solo l’attività rivoluzionaria del partito marxista contribuisce all’approfondimento della crisi della classe dominante, nella misura in cui svolge una politica rivoluzionaria giusta e diviene la variabile rivoluzionaria della vita politica e sociale di un dato paese; molto di più, il Partito marxista deve far ciò tramite un metodo adatto allo stato contro cui vuole dirigere le masse. Nessuna politica rivoluzionaria può diventare elemento fondamentale della vita politica di un paese, contribuire all’approfondirsi della crisi della borghesia, fare cadere il potere della classe dominante, se i suoi metodi e le sue forme di lotta e di attività non sono adeguate alla natura dello Stato borghese che si ha davanti. Lenin, a questo proposito, è molto chiaro e stabilisce un nesso preciso – già messo in luce da Marx e da Engels – tra le caratteristiche dello stato e quella della lotta di classe, tra le forme assunte dal dominio politico della borghesia e le forme che deve assumere, al suo livello più elevato, la lotta rivoluzionaria del proletariato. “L’imperialismo (…) mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della “macchina statale”, l’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per accentuare la repressione contro il proletariato, sia nei paesi monarchici che nei più liberi paesi repubblicani. La storia universale pone oggi, senza alcun dubbio e su scala incomparabilmente più ampia che nel 1852, il compito della “concentrazione di tutte le forze” della rivoluzione proletaria per la distruzione della macchina statale” (Stato e Rivoluzione). Questo rapporto tra consolidamento dello Stato borghese e necessità, da parte del proletariato, di concentrare maggiori energie per distruggerlo si ricava anche dal secondo passaggio, dove Lenin chiarisce le implicazioni militari che l’evoluzione dello Stato comporta sul terreno della lotta di classe: “La tattica militare dipende dal livello della tecnica militare: questa verità è stata ribadita da Engels, da cui i marxisti l’hanno ricevuta già completamente elaborata. La tecnica militare è oggi diversa da quella della metà del secolo XIX. Sarebbe stupido marciare in massa contro l’artiglieria e difendere le barricate con le rivoltelle.” (Gli insegnamenti dell’insurrezione di Mosca). Come si vede, viene stabilito su questo punto una sorta di rapporto proporzionale: al consolidamento progressivo dello stato, alla sua accresciuta capacità di repressione e di integrazione sociale, deve corrispondere una strategia adeguata da parte del proletariato, capace di concentrare tutte le forze necessarie all’abbattimento dello Stato medesimo. Detto in altre parole, se lo Stato borghese nell’epoca dell’imperialismo ha sviluppato definitivamente il suo apparato burocratico e militare in funzione antiproletaria, allora il compito del partito sarà quello di porre, con maggiore forza e coerenza il problema dello Stato e della sua natura di classe di fronte alle masse e alla società tutta intera; il compito sarà quello di preparare le masse alla realtà di una guerra civile sanguinosa e tremenda mettendo in crisi, al più alto livello possibile, gli equilibri politici su cui, di volta in volta, si regge la forza dello stato medesimo. Da questo punto di vista, che, ripetiamo, è il punto di vista di Lenin, rintracciabile in ogni sua opera o scritto politico, la questione dello Stato è la questione della politica rivoluzionaria e della rivoluzione violenta, e la questione dell’evoluzione dello Stato è la questione, se ci è consentita una terminologia non proprio perfetta, dell’evoluzione della strategia e della tattica della rivoluzione violenta, la questione della capacità del partito del proletariato di essere costantemente “all’altezza” di quella forza repressiva particolare che è lo Stato in generale e lo Stato borghese nell’epoca dell’imperialismo in specie.
Questi, a nostro parere, sono i tratti fondamentali della concezione della presa del potere propria di Lenin, ma, prima di proseguire nel nostro discorso, bisogna fare almeno tre precisazioni: in primo luogo bisogna chiarire che questi insegnamenti hanno valore universale, cioè non riferibile soltanto alla situazione russa del ’17 o a quella europea tra le due guerre. Infatti, questi insegnamenti applicati da Mao alla realtà cinese del suo tempo hanno comportato esattamente la teoria e la pratica della guerra popolare prolungata. In secondo luogo essi sono validi qualora si abbia fermo il rapporto preciso che Lenin stabilisce tra la coscienza socialista e la spontaneità proletaria. In terzo luogo essi possono portare a fare veramente la rivoluzione solo se si ha chiaro che in Lenin la soggettività cosciente è una parte dell’oggettività quindi essa contribuisce concretamente alla modificazione dello scenario sociale e non si attesta opportunisticamente “sull’apprezzamento” delle condizioni oggettive considerate come “impermeabili” all’attività soggettiva del partito rivoluzionario.
Tenuto conto di ciò si deve ammettere che tali insegnamenti applicati alla realtà italiana del nostro tempo quindi ad una realtà ovviamente evoluta rispetto a quella della Russia del ’17 conducono a stabilire che la forma che assume la guerra rivoluzionaria nel nostro paese è tendenzialmente quella di un’insurrezione: un’insurrezione aggiornata che dovrà confrontarsi con uno Stato politicamente e militarmente agguerrito in modo diverso e superiore a quello zarista del ’17 ma pur sempre un’insurrezione. E se la polemica fra i sostenitori dell’insurrezione e quelli della guerra di lunga durata può infastidire qualcuno bisogna chiarire che dietro le parole si cela tutto un modo di concepire l’attività politica di quel Partito Comunista Combattente che si deve fondare; si celano, insomma due modi antagonisti di interpretare il rapporto teoria-prassi nel marxismo.
Ci si accusa di dogmatismo, di non considerare i mutamenti sopravvenuti nella società moderna. Ma è vero o non è vero che nel secondo dopoguerra non si sono conosciute nei paesi imperialisti situazioni veramente rivoluzionarie? È vero o non è vero che la dimensione politica della lotta di classe (la dimensione cioè caratterizzata dal fatto che i rapporti generali tra le classi si mediano, si equilibrano, si trasformano nell’ambito della sfera politica oggettivamente esistente in quanto risultato della lotta di classe) prevale per tutto un lungo periodo di tempo e trapassa nella dimensione militare (la dimensione della guerra civile) in tempi relativamente brevi?
Che ci piaccia o meno la teoria della guerra di lunga durata della strategia della lotta armata ecc… non è un’applicazione del marxismo leninismo alla realtà italiana ma esattamente l’opposto: è la giustapposizione ideologica di una pratica data per scontata, è il trionfo dell’eclettismo su ogni sforzo di impostare seriamente il problema della rivoluzione proletaria nel nostro paese.
È senz’altro vero che per sconfiggere questo Stato avremo bisogno di una “concentrazione di forze” estremamente rilevante così come è vero che nel processo politico che permette di concentrare simili forze la lotta armata gioca un ruolo decisivo fondamentale sin nella situazione non rivoluzionaria. Ma la soluzione di questi fondamentali problemi non si trova fuori dall’impostazione teorica sopra enunciata, bensì dentro il leninismo che permette sulla base degli elementi di teoria generale validi universalmente di valorizzare in modo compiuto l’esperienza pratica del movimento rivoluzionario internazionale.
Il significato storico dell’esperienza delle Brigate Rosse, allora, è quello di aver dimostrato che la questione della lotta armata fa parte della questione della politica rivoluzionaria di un partito marxista leninista moderno; che la lotta armata è il metodo di lotta fondamentale e decisivo del partito del proletariato poiché, anche nella situazione non rivoluzionaria, è un formidabile strumento di innalzamento della coscienza e dell’organizzazione rivoluzionaria delle masse sfruttate.
In questo senso, e solo in questo senso, si può dire che la nostra esperienza è una critica militante alle insufficienze dell’insurrezionalismo kominternista: il Komintern concepiva l’insurrezione come il coronamento militare di una lunga fase di attività politica legale basata sull’attività parlamentare; di fatto nel momento in cui il baricentro dell’attività politica si spostava in parlamento, la questione dell’insurrezione veniva persa di vista. In altre parole, il limite che separa la fase politica dello scontro sociale da quella militare, quella che divide la situazione rivoluzionaria da quella non rivoluzionaria, questo limite veniva concepito come separazione mentre, per la dialettica, un limite esiste solo in quanto mette in collegamento le due realtà, le fa trapassare una nell’altra e, in particolari condizioni storiche, le media in unità di opposti.
La lotta armata, in Italia, ha avuto questa funzione storica: mettere in risalto la possibilità di una teoria e di una pratica rivoluzionaria adeguata ai tempi in cui viviamo. Alla fine degli anni ’60, allorché grandi lotte operaie e studentesche caratterizzavano in modo prevalente la situazione politica nel nostro paese e in altri paesi europei, gli elementi rivoluzionari avanzati si trovavano di fronte a due fondamentali ordini di problemi, strettamente connessi tra di loro: in primo luogo essi dovevano condurre una spietata battaglia contro il revisionismo dei PC “ufficiali”, ormai trasformati in veri e propri partiti socialdemocratici, in secondo luogo nella definizione della loro strategia rivoluzionaria, dovevano tener conto del fatto che la visione insurrezionalistica propria del Komintern si era dimostrata sostanzialmente incapace di condurre le masse alla presa del potere nei paesi ove essa aveva trovato applicazione concreta. Queste due fondamentali questioni venivano affrontate, allora, sotto l’influenza e lo stimolo di quanto accadeva nel mondo e, in special modo, guardando alla Cina della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria e alle varie forme di guerra rivoluzionaria allora in atto nei paesi oppressi dall’imperialismo; e, nei settori più conseguenti del movimento rivoluzionario di quel periodo storico, si affermò progressivamente la posizione secondo la quale la risposta giusta a quei problemi la si poteva dare iniziando la guerriglia urbana per conquistare ad essa gradualmente l’intero proletariato.
Il cammino concreto della rivoluzione proletaria riprende, nel nostro paese, proprio a partire da questa scelta coraggiosa, da questa scelta soggettiva d’avanguardia: iniziare la lotta armata costituendo così “i primi punti di aggregazione per la fondazione del partito armato del proletariato”, iniziare la lotta armata con l’obiettivo del partito rivoluzionario moderno. Ma il contributo pagato al revisionismo sotto il piano della solidità teorica di quelle scelte è stato elevato: nel tentativo di distinguersi dalle attività burocratiche e conciliatrici del partito comunista revisionista, depositario ufficiale “dell’ortodossia”, molti degli argomenti teorici propri della nostra organizzazione si sviluppavano fuori dal marxismo leninismo, il richiamo stesso al socialismo scientifico era equivoco, discontinuo, possibilista; il corrompimento teorico è stata la conclusione inevitabile di queste contrattazioni.
Si tratta ovviamente di problemi che sono comuni a tutte le esperienze d’avanguardia sviluppatesi nei paesi europei nel corso degli anni ’70. Da un punto di vista generale bisogna tenere presente che la dissoluzione della Terza Internazionale, la restaurazione del capitalismo in Urss, la diffamazione di Stalin operata da Krusciov al XX Congresso, l’imponente degenerazione revisionistica conosciuta dai “vecchi” PC sono alla base sia del disorientamento teorico e pratico creatosi negli anni ’60 nel movimento comunista internazionale sia delle approssimazioni delle leggerezze che hanno caratterizzato la sincera attività rivoluzionaria nei paesi imperialisti durante il corso degli anni ’70. Il marxismo leninismo veniva sovente accomunato agli esiti della rivoluzione in Urss e alle politiche degenerate dei partiti comunisti revisionisti, era spesso fatto oggetto di critiche che formulate con una leggerezza alle volte imperdonabile tendevano a metterne in discussione i caratteri di visione unitaria del mondo, di concezione scientifica e di classe del reale. I limiti delle guerriglie urbane comuniste europee, l’eclettismo che ha regnato sovrano un po’ dappertutto si comprendono in questo quadro generale che non annulla alcuna specificità nazionale o di organizzazione ma rende ragione di quelle dinamiche generali che influenzano in modo decisivo ogni fenomeno particolare. Se si vuole questi limiti rappresentano il costo storicamente necessario pagato dalla rivoluzione al revisionismo affinché si levasse una nuova coscienza dei compiti comunisti d’avanguardia nei paesi imperialisti.
Oggi nessun avanzamento è pensabile fuori da una riflessione generale sulla nostra esperienza. La sostanza di questa riflessione non può che portare al punto seguente: il significato storico della nostra esperienza è quello di aver messo in luce il risalto politico che la lotta armata assume, in quanto metodo di lotta fondamentale del partito rivoluzionario sin dalla situazione non rivoluzionaria. Il limite fondamentale della nostra esperienza consiste nell’eclettismo teorico che ha guidato l’attività. L’eclettismo sul piano dei principi ha consentito la sovrapposizione di schemi rivoluzionari propri dei paesi dipendenti nella situazione sociale di un paese imperialista; esso ha permesso improbabili commistioni tra marxismo leninismo e operaismo piccolo-borghese; esso ha determinato la sottovalutazione dell’attività educatrice e politica del partito marxista rivoluzionario ed ha messo la lotta armata al servizio della lotta economica e spontanea del proletariato; l’eclettismo teorico infine ha consentito che molti individui instabili e oscillanti entrassero nelle file della nostra Organizzazione pronti a rinnegare le proprie scelte alla prima soffiata di vento contrario.
La battaglia contro l’eclettismo teorico che ha implicazioni su tutto l’arco dell’attività rivoluzionaria, è la condizione fondamentale per poter dar luogo alla fondazione del Partito Comunista Combattente.

3. La situazione attuale nel movimento comunista internazionale ed alcune indicazioni generali per i marxisti leninisti conseguenti
Il potenziamento rivoluzionario esistente oggi nel mondo è significativamente testimoniato dallo sviluppo impetuoso della lotta di classe in ogni angolo del nostro pianeta. In molti paesi perdurano e si intensificano forti guerre popolari prolungate che impegnano apertamente l’imperialismo in una lotta senza quartiere e senza riserve; in molti altri le classi popolari subiscono il giogo di dittature fasciste e militari, la cui ferocia terroristica non impedisce l’esplosione di notevoli episodi di resistenza di massa e di lotta armata rivoluzionaria. La questione nazionale, sia come questione riferita al problema dell’ottenimento di una reale indipendenza dal neo-colonialismo, sia come questione di vera e propria lotta di liberazione nazionale, permane di bruciante attualità in svariate regioni del globo. Nei paesi del centro imperialista, grandi lotte operaie e proletarie caratterizzano il quadro attuale scontrandosi principalmente contro le politiche economiche e contro i preparativi di guerra delle classi al potere. Sebbene l’imperialismo usi tutti i suoi mezzi per nascondere agli occhi delle masse proletarie e popolari questa fondamentale verità, è cosa reale e indiscutibile che non esistono al mondo, oggi, zone socialmente pacificate e che la borghesia è vieppiù costretta a contrastare l’opposizione cosciente delle masse che opprime e che sfrutta. In più, la crisi economica attuale, che è una crisi generale del modo di produzione capitalista, produce una notevole accelerazione nello sviluppo delle contraddizioni in ogni parte del mondo e spinge le potenze imperialiste ad intensificare il riarmo ed i preparativi di guerra; si avvicinano sempre più chiaramente tempi in cui gli eventi sociali saranno messi in moto impetuosamente, determinando così grandi occasioni per la rivoluzione in ogni paese.
Di fronte a questa situazione, che è tanto difficile e complicata quanto densa di possibili svolgimenti positivi, il movimento rivoluzionario e progressista mondiale marcia disunito e privo anche soltanto di una certa conduzione; in particolare, il ruolo dei veri comunisti, dei marxisti leninisti conseguenti, risulta talvolta debole e secondario, laddove addirittura non ve n’è traccia e la direzione della lotta di classe e popolare è per lo più in mano a partiti revisionisti, nazionalisti, se non reazionari. Come è noto, il campo del marxismo leninismo è diviso, frammentato e separato al suo interno da mille polemiche e diatribe, qualcuna delle quali francamente sterili e infantili, e grande confusione deriva dal fatto che vi rivendicano un’internità organizzazioni e partiti apertamente revisionisti, così come piccole sette tanto sconosciute e ininfluenti nelle masse, quanto presuntuose nei confronti del mondo e di chi, pur tra molte difficoltà ed anche errori, si “sporca le mani” nell’impetuosa arena della lotta di classe.
A nostro parere, sullo stato di degrado e di debolezza in cui si trova il movimento comunista considerato nel suo complesso, hanno influito ed influiscono tutt’ora tre fattori di grande rilievo storico: l’assenza sulla scena mondiale attuale dei paesi socialisti, la degenerazione revisionistica dei partiti comunisti provenienti dal Komintern, l’assenza, che si prolunga ormai da tempo, di un’organizzazione comunista internazionale capace di dirigere e coordinare l’attività rivoluzionaria su scala mondiale. Questa situazione impone pertanto che si intensifichi e si rilanci effettivamente una coerente battaglia contro ogni sorta di revisionismo e di opportunismo, avanzando risolutamente verso l’obiettivo di una maggiore unità teorica, politica, organizzativa dei marxisti militanti di ogni paese.
Il blocco della transizione in Urss e la sua trasformazione da paese socialista a paese capitalista, pongono tutt’ora grandi problemi di comprensione teorica e parecchie difficoltà sul piano pratico ad ogni rivoluzionario conseguente. Non soltanto, infatti, si tratta di individuare la ragioni profonde della sconfitta subita nel ’56 dal proletariato in Urss, ma anche di tenere presente che l’Urss è una componente attiva ed importante nello scenario internazionale, ove costituisce il maggior avversario dell’imperialismo più potente ed aggressivo del mondo, quello Usa, e dove, a causa di complicate ragioni di ordine storico ed anche contingente, spesso appoggia ed aiuta materialmente grandi movimenti nazionali e popolari che si battono contro la dominazione del brigante occidentale, ossia contro la fonte oggi principale di reazione nel mondo. Questa situazione ingenera molte volte un certo disorientamento, ed anche sincere organizzazioni rivoluzionarie assumono atteggiamenti oscillanti talvolta, possibilisti, comunque non chiari mentre molti fanfaroni, sulla cui buona fede rivoluzionaria è lecito avanzare qualche riserva, si lanciano nella condanna degli imperialismi in generale, e di quello sovietico in particolare, equiparando così la realtà della dominazione imperialista. Una potenza imperialista di tipo particolare che porta in sé tutt’ora alcuni tratti dell’epoca socialista e che tende a giustificare le proprie azioni con una fraseologia marxista, ma pur sempre una potenza imperialista. Non tener conto di questo fatto, non valutare tutte le implicazioni che derivano da questo giudizio, significa porre una pesante ipoteca negativa sul destino della rivoluzione mondiale e, in particolare, significa sminuire i compiti e l’atteggiamento specifico dei comunisti di fronte ai preparativi di guerra oggi in atto nel mondo. Questo giudizio d’altro canto non ci impedisce di considerare la situazione mondiale concreta, di operare una valutazione sul grado di aggressività degli imperialismi e sulle particolarità delle loro politiche, e di riconoscere che la rivoluzione, se vuole avanzare in un mondo diviso in “blocchi” può e deve sfruttare le contraddizioni prodotte dal funzionamento del modo di produzione capitalista stesso. Come Lenin ha insegnato in teoria e in pratica, sono i principi che vanno tenuti fermi e rinsaldati, mentre la loro applicazione non può che essere viva, dinamica, concreta: nel medesimo momento, perciò, in cui riteniamo che vada condotta una battaglia ferma di principio a livello internazionale contro il revisionismo sovietico e la sua politica di potenza, diciamo anche molto chiaramente che è un opportunista di fatto colui che, per sbraitare contro tutti gli imperialismi, non assolve ad uno dei primi doveri di un vero comunista: quello di sfruttare tutte le contraddizioni che scaturiscono dalla dinamica generale dell’imperialismo per affrettare, far avanzare, e portare a compimento la rivoluzione mondiale.
La restaurazione del potere borghese dello Stato dei soviet è inestricabilmente legata ad un altro rilevante fattore storico che condiziona pesantemente la vita e l’attività del movimento comunista internazionale: la generale degenerazione revisionistica dei grandi PC formatisi sulla base della spinta potente della Rivoluzione d’Ottobre. Il danno prodotto da questa degenerazione è stato enorme sotto molteplici aspetti: la rivoluzione, come riferimento e finalità fondamentale dell’attività comunista, è stata completamente affossata; si è rinnegata la necessità dell’abbattimento violento dello Stato borghese e della dittatura del proletariato; la politica comunista si è via via identificata con il parlamentarismo e con il pacifismo; si è consumata una storica e nefasta scissione tra marxismo teorico, ridotto ad un’icona inoffensiva buona per essere studiata da individui borghesi quali sono i professori universitari, ed attività pratica dei partiti operai improntata al più bieco e reazionario pragmatismo. Il credo kroutcheeviano della “coesistenza pacifica” e delle “vie nazionali e pacifiche” al socialismo ha solo ratificato ufficialmente, dopo il ’56, il fattivo e sistematico collaborazionismo di classe praticato dai PC occidentali sin nell’immediato dopoguerra e l’inerzia fellona dei PC esistenti nei paesi coloniali di fronte ai compiti nazionali e democratici della loro rivoluzione. La gravità di questo processo si può apprezzare solo tenendo presente che a rinnegare il marxismo erano proprio quei partiti che si erano costituiti per assolvere fino in fondo i compiti rivoluzionari e che avevano svolto la loro attività durante il corso di molti e difficili anni, conquistandosi in diversi paesi un notevole seguito ed una notevole influenza tra le masse. Sebbene risulti di estrema importanza ricercare le origini del revisionismo dei PC sin dentro la storia del Komintern e in particolare, partendo da alcune interpretazioni opportuniste date della tattica dei “fronti popolari”, definita nel ’35 al settimo Congresso dell’Internazionale Comunista; così come risulta indispensabile considerare le basi sociali (aristocrazia operaia nei paesi imperialisti, piccola e media borghesia intellettuale nei paesi coloniali, prosperità relativa del capitalismo nel secondo dopoguerra,ecc…), è necessario sottolineare che il banco di prova per ogni bilancio storico, per quanto raffinato e puntiglioso possa essere, rimane la capacità pratica di scalzare le posizioni tutt’ora mantenute dei partiti revisionisti dentro le masse operaie e popolari, rompendo la situazione di subalternità attuale che conduce, al massimo alla riscoperta della lotta economica come terreno ideale per il rivoluzionarismo di maniera e conquistando coraggiosamente (come obiettivo tendenziale, naturalmente) la direzione politica dei grandi movimenti di massa in ogni paese.
La battaglia rivoluzionaria contro il revisionismo sovietico e contro le “vie nazionali e pacifiche al socialismo” dei vari Tito, Togliatti e Thores, ha inizio in modo aperto e coerente con Mao Tse Tung nei primi anni ’60. Nel corso dello svolgimento di questa battaglia, Mao ha fornito una prima valida interpretazione degli accadimenti in Unione Sovietica e soprattutto è pervenuto alla definizione della teoria della continuazione della rivoluzione sotto la dittatura del proletariato ed ad un’analisi approfondita e scientifica del ruolo della contraddizione nell’epoca che divide il capitalismo dal comunismo. Questa visione dei problemi del socialismo oltre a rappresentare un insostituibile criterio di giudizio nella valutazione dell’esperienza sovietica è stata tradotta e verificata in pratica da Mao Tse Tung e dagli elementi rivoluzionari in seno al PC Cinese nel corso della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, che ha rappresentato un movimento rivoluzionario senza precedenti nella storia, in grado di rinforzare la dittatura del proletariato contro i tentativi di restaurazione capitalistica e di estendere e proseguire la rivoluzione socialista in tutti i campi della società. Oggigiorno, in seguito al colpo di stato reazionario effettuato nel ’76 in Cina, all’indomani della morte di Mao, non solo i revisionisti cinesi, ma anche alcuni partiti e singole “personalità” hanno iniziato, prima prudentemente ed in seguito con estrema virulenza, ad attaccare su tutta la linea il pensiero e l’opera di Mao, definendoli “estremistici” e non marxisti. All’ubriacatura “maoista” si è sostituito, in tutta fretta, un corri corri a prenderne le distanze ed a riscoprire l’Urss in quanto elemento “anticapitalistico”. Alcune di queste caratteristiche, apparentemente puntuali, si basano in realtà sulla presunta equivalenza tra il pensiero di questo grande dirigente rivoluzionario e le volgarizzazioni e i riduzionismi che ne sono stati fatti, specialmente in occidente, a partire dalla seconda metà degli anni ’60. Quello che a nostro parere deve essere sommamente chiaro è che il contributo fornito da Mao sulla questione della rivoluzione e della guerra popolare prolungata nei paesi oppressi dall’imperialismo, quello fornito con gli scritti sulla dialettica materialistica e quello, già citato, sulla questione della continuazione della lotta di classe nel socialismo, rimangono approfondimenti fondamentali del marxismo leninismo e come tali oggetto di difesa e di sviluppo critico da parte del movimento comunista internazionale. Infatti, sulla base di quali posizioni è possibile avanzare scientificamente nella critica del revisionismo sovietico e delle sue varianti titoiste, togliattiane, ecc., se non su quella che scaturisce dall’opera di Mao e dalla sua verifica pratica nella rivoluzione culturale? Su quali basi è possibile difendere la memoria e l’operato del compagno Stalin, se non tenendo conto della battaglia durissima che Mao condusse contro i rinnegati della cricca kroutcheeviana, e contro la diffamazione da loro operata ai danni del grande dirigente bolscevico? E ancora, su quali basi è possibile, nei paesi oppressi dall’imperialismo, criticare in maniera militante l’inerzia dei PC revisionisti ed il velleitarismo del “fochismo” cubano se non appoggiandosi sugli insegnamenti della rivoluzione cinese, resi in forma scientifica da Mao? Per questi motivi, non si può combattere il revisionismo moderno senza considerare l’apporto decisivo del pensiero e dell’opera di Mao a questo proposito, e la difesa dell’eredità lasciataci da questo grande dirigente del proletariato, al di là di ogni “maoismo”chiacchierone e di maniera, costituisce una questione centrale per i veri marxisti leninisti.
Il movimento comunista è internazionalista per sua stessa natura. Marx e Engels concludevano il “Manifesto” con la celebre parola d’ordine “proletari di tutti i paesi unitevi” e Lenin, nel momento in cui si palesò con drammatica evidenza il fallimento della Seconda Internazionale, dedicò la massima energia alla costituzione dell’organizzazione internazionale dei veri comunisti, ricollegandosi idealmente all’attività svolta da Marx e Engels nella Associazione Internazionale dei Lavoratori. L’idea leninista di un “partito unico della rivoluzione mondiale” e la vasta e sistematica attività svolta dall’Internazionale Comunista tra il ’19 e il ’43 hanno influenzato in modo decisivo l’evoluzione della storia mondiale ed hanno contribuito a serrare nei ranghi dei partiti comunisti e sotto la teoria del socialismo scientifico gli operai avanzati e i sinceri progressisti di tutto il mondo. Solo tenendo presente l’importanza reale di cui si riveste un centro unico della rivoluzione mondiale, capace di operare in qualità di centro propulsore, di orientamento e di innalzamento del livello teorico politico e organizzativo dei partiti che vi aderiscono; solo tenendo conto di ciò è possibile apprezzare in tutta la sua vastità il ruolo storico svolto dal Komintern ed anche il peso negativo che deriva, per quanto concerne la situazione attuale, dall’assenza di un simile punto di riferimento.
Infatti lo sviluppo del modo di produzione capitalistico e della società borghese, che sono alla base della formazione del proletariato in quanto classe mondiale, si sono storicamente intrecciati alla nazione come entità geografico politica elementare in cui si organizzano, nella società e nello Stato, le forze produttive, la divisione del lavoro ed il sistema di relazioni sociali interne.
Di conseguenza, anche la lotta di classe del proletariato conosce uno sviluppo diverso e specifico nelle varie nazioni, sia in riferimento al fatto che a gradi differenti di penetrazione del capitalismo in una data nazione corrisponde un peso sociale differente del proletariato nel novero generale delle classi, sia in riferimento al fatto che, come classe, esso si trova di fronte innanzitutto la questione della conquista del potere politico su scala nazionale. Ma, considerato ciò, si deve riconoscere che le barriere fra Stati accrescono le divisioni dentro il campo degli sfruttati, favorendo di fatto lo sciovinismo e con esso l’identificazione con i destini della propria borghesia e l’allentamento dei legami di solidarietà con i propri simili nel resto del mondo. Per questi motivi, i marxisti, che partono dal presupposto del proletariato come classe universale, si sono sempre adoperati, nella loro attività propagandistica, a mettere in rilievo gli interessi sovranazionali e, materialmente, hanno sempre tentato di raggrupparsi al di là e al di sopra delle frontiere, dando vita ad organizzazioni internazionali che traducevano sul piano della coscienza e dell’attività conseguente, l’oggettiva unità di interessi del proletariato su scala mondiale.
Attualmente, nel mondo l’idea internazionalista conosce una certa svalutazione ed il problema dell’unità, anche organizzativa, tra comunisti di ogni paese viene affrontata generalmente con malcelato disinteresse e, in qualche caso, addirittura come un falso problema. Naturalmente nessuno si sogna di negare l’importanza dell’internazionalismo e di una solidarietà fattiva con la lotta del proletariato internazionale e dei popoli oppressi dall’imperialismo, ma si preferisce rimanere nel generico, diluire la questione il più possibile: quel che si contesta, o meglio, quello di cui non si vuole parlare è che la questione dell’internazionalismo, per un marxista leninista non può essere lasciata al suo andamento spontaneo ma, al contrario, deve essere affrontata in modo consapevole ed organizzato, poiché il processo stesso della rivoluzione proletaria mondiale non può essere portato a compimento senza che l’attività cosciente dei comunisti sia calibrata a quel livello.
La sottovalutazione dell’elemento cosciente nelle questioni riguardanti l’internazionalismo, che è purtroppo una posizione estremamente diffusa negli ambienti rivoluzionari di tutto il mondo, ha però delle ragioni storiche precise che vanno individuate senza timore, se si vuole rilanciare la discussione militante su questi temi. Senza meno, bisogna partire dalla constatazione, anche banale, che fra noi e l’anno in cui il Komintern decise la propria autodissoluzione (’43), sono passati più di quarant’anni, durante i quali si sono determinati la restaurazione del capitalismo in Urss, la conseguente rottura del campo socialista con l’inizio della battaglia antirevisionistica di Mao, la completa degenerazione revisionistica dei PC e il colpo di stato reazionario in Cina, che ha, momentaneamente, affossato la rivoluzione in quel paese ed eliminato dalla scena mondiale la contraddizione paesi socialisti paesi capitalistici. Tutti questi avvenimenti hanno provocato ovviamente interminabili polemiche e profonde divisioni fra i comunisti, e qualcuno ha anche creduto, in perfetta malafede diciamo noi, che l’attività principale di un rivoluzionario dovesse essere quella di distruggere e rifondare ridicoli partitini ad ogni piè sospinto, più o meno nel medesimo modo di un bambino viziato che rompe i suoi giocattoli per poi reclamarne di nuovi. Si è creata così una situazione per la quale chi voleva veramente fare la rivoluzione era portato a disinteressarsi sostanzialmente di tali questioni ed a valutarle in modo pragmatico ed approssimativo; senza considerare poi che, se il primo dovere di un vero internazionalista è fare la rivoluzione nel proprio paese, le organizzazioni comuniste che hanno svolto un’attività reale nei propri paesi hanno reso un contributo internazionalista infinitamente superiore a quello che proviene dalle chiacchiere svolte in qualche stanza da sedicenti marxisti leninisti. Del resto, la direzione del PC cinese ed in primo luogo Mao, pur sostenendo il peso di una fondamentale e giusta battaglia antirevisionistica non si sono mai impegnati a fondo nel compito di ricostruire una vera e propria organizzazione internazionale comunista, avvalorando in questo modo l’idea che il Komintern peccava di eccessiva centralizzazione e di conseguenza, che il problema dell’unità politica e organizzativa dei comunisti su scala internazionale non fosse allora un compito urgente e inderogabile per i veri marxisti. Va poi considerato che tutta l’esperienza della Internazionale Comunista si era sviluppata in stretta relazione con la storia socialista dell’Urss, e che lo Stato dei soviet era realmente la base d’appoggio della rivoluzione mondiale, costituendo l’esistenza di un paese socialista un potentissimo fattore propulsivo per la lotta di classe proletaria in ogni parte del mondo: la restaurazione del capitalismo prima in Russia e poi in Cina ha eliminato queste basi di appoggio che sebbene non indispensabili in linea di principio, storicamente avevano svolto un ruolo fondamentale nel favorire l’innalzamento dell’unità politica organizzata dei comunisti a livello internazionale. Tutto ciò, considerato nelle sue implicazioni storiche e unito a moltissimi altri fattori che, comunque appaiono di secondaria importanza, ha determinato nel corso degli anni una situazione estremamente complicata e difficile sulla quale molti si sono adagiati e nella quale la dispersione di energie è la caratteristica dominante.
Attualmente, proporsi e proporre d’invertire questa tendenza negativa, stabilendo con precisione l’unico, vero, obiettivo politico valido in linea di principio: l’unità politica ed organizzativa dei comunisti su scala internazionale, l’Internazionale Comunista, non vuol dire, come molti pensano anche con una certa legittimità, fare del velleitarismo gruppettaro, o riscoprire l’emmellismo tardivamente; porre alto l’obiettivo irrinunciabile della fondazione della nuova Internazionale Comunista, vuol dire concretamente e allo stato attuale, adoperarsi affinché il confronto tra marxisti leninisti conseguenti si sviluppi in modo non episodico, lavorare per stabilire livelli di unità superiore tra organizzazioni e PC di ogni paese, rendere pubblico e ufficiale, nel limite del possibile e nel rispetto delle varie esigenze, ogni risultante di simile lavoro.
Si deve chiarire che, a nostro parere, da questo processo sono posti fuori in modo categorico e irrevocabile tutti quei gruppetti “marxisti leninisti” che fanno del loro dogmatismo l’alibi migliore per la loro inattività. Così come va combattuta un’intensa battaglia politica contro tutte quelle forze che (sul genere di Action Directe, Raf, e simili), pur lottando con le armi contro le proprie borghesie non riconoscono la guida del marxismo leninismo per la propria azione. Come ultima precisazione, c’è da dire che lo sviluppo del confronto fra comunisti non impedisce e non può impedire legami di solidarietà e di sostegno militante con tutti i movimenti che lottano contro l’imperialismo in modo coerente e nemmeno annulla il problema di alleanze tattiche, qualora se ne ravvisi la necessità, con nazioni e paesi che svolgono un ruolo progressista sulla scena mondiale.
Il lavoro che porterà alla fondazione di una nuova Internazionale Comunista sarà perciò lavoro di anni, ma bisogna dire chiaramente che l’Internazionale Comunista non sorgerà spontaneamente e che l’argomento “realista”, che apparentemente è un argomento di grande legittimità, è in realtà una lampante concessione allo spontaneismo, gravida di conseguenze negative sui destini della rivoluzione proletaria mondiale.
Tra l’altro, alla base di una gran parte delle approssimazioni teoriche che hanno caratterizzato la nostra storia d’Organizzazione, vi è proprio l’assenza di un punto di riferimento simile a quanto sopra. La lotta armata per il comunismo nel nostro paese, così come in altri paesi imperialisti e persino in alcuni paesi dipendenti, non trova e non cerca schemi teorici precostituiti, e nemmeno un ambito di confronto internazionale nel quale porre al vaglio della critica sovranazionale i propri presupposti di fondo. Questo fatto, che, come abbiamo già avuto modo di chiarire altrove, non è imputabile a nessun gruppo in particolare, ma rappresenta la condizione storica concreta nella quale è rinata l’attività rivoluzionaria in determinati paesi, ha senz’altro influito determinando, per così dire, una “provincializzazione” esasperata delle organizzazioni che praticavano determinate strategie. Oggi il problema, naturalmente, non è quello di fare “più azioni internazionalistiche”, il che significherebbe dire che la Raf aveva ragione fin dal ’70, ma esattamente quello di considerare le implicazioni internazionali di ogni rivoluzione, di valutare la comune sostanza di fondo di certi processi sociali, di perdere insomma, un po’ di boria da presunti “originali” della rivoluzione mondiale.
L’impegno costante in campo internazionale, sia sul terreno della battaglia antirevisionista che su quella del confronto fra organizzazioni comuniste, con l’obiettivo di principio dell’Internazionale Comunista, contribuirà in modo decisivo all’innalzamento del livello politico generale della nostra Organizzazione e dovrà rimanere una delle costanti fondamentali della nostra attività.

4. Conclusioni e tesi
Proponiamo qui di seguito una serie di tesi, necessariamente essenziali nella loro formulazione, sulla base delle quali riteniamo possibile imprimere una netta svolta all’attività generale dell’Organizzazione. Non si ha qui la pretesa di porre le basi teoriche del Partito Comunista Combattente, compito di cui comunque sono state investite le Br, ma piuttosto si tenta di delineare un indirizzo politico, il più possibile preciso e coerente, che metta l’Organizzazione in condizione di formulare al più presto una vera e propria linea politica su cui basare la propria attività.
La fine della “ritirata strategica”, identificata giustamente da molti compagni con il momento in cui le Br avranno una linea politica capace di far muovere l’Organizzazione con “una sola volontà”, non è certo una chimera; ma qui bisogna rimarcare che l’entità dell’autocritica dipende dalle proporzioni della sconfitta e, in un certo senso, la tortuosità del processo riflessivo sviluppatosi all’interno delle Br, in attività e prigioniere, all’indomani di quel gennaio ’82 è una testimonianza in più delle molte “anime” che continuano a convivere nella nostra formazione politica, che, attaccata da ogni parte, rimane anzitutto depositaria di un enorme patrimonio storico politico che influenza, in tutta la sua contraddittorietà, la situazione presente nel bene e nel male.
A nostro avviso, e lo abbiamo ripetuto più volte, si tratta di sconfiggere l’eclettismo, si tratta di far uscire dalla tana quel tipico modo di ragionare, estremamente sfuggente, che permette di dire una cosa e il contrario di essa nel medesimo momento e senza alcuna vergogna. Ma ciò non basta, bisogna trovare le radici di questa impostazione teorico-pratica e bisogna trovarle sul serio, perché solo così l’Organizzazione potrà veramente fare quel passo in avanti che le consentirà di potersi proporre come nucleo fondante del partito rivoluzionario nel nostro paese. Come abbiamo cercato di mettere in luce in precedenza, ci pare che questo eclettismo trovi la sua ragione di fondo nel tentativo, portato avanti anche con un certo “eroismo”, di far quadrare il marxismo leninismo con la concezione gradualistica e progressiva della lotta armata per il comunismo, tentativo che caratterizza tutta la storia delle Br e che ha trovato il suo momento culminante in “L’ape e il comunista”.
Da questo punto di vista, regolare i conti con il passato significa anche assumere definitiva consapevolezza di quella contraddizione teoria-prassi, ideologismo-prassi, che sempre svolge un ruolo nell’attività dei partiti, i quali, se ci è consentita una terminologia colorata, “fanno pratica sul serio”. La pratica infatti non permette sempre e soltanto una verifica immediata delle proprie convinzioni teoriche; spesso il concreto e immediato (sebbene, a rigore, l’immediato propriamente detto non esista da nessuna parte) avvalora posizioni sbagliate, addirittura le rafforza nella lotta alle posizioni giuste (se esistono). In ogni caso arriva il momento in cui la realtà oggettiva, e le leggi che ne regolano l’esistenza (in questo caso tipicamente sociale), fanno valere i loro diritti. Allora si misura la sincerità di un materialista: se farà di tutto per far quadrare la sua interpretazione delle cose con la realtà che gli grida contro da tutte le parti, non è un materialista e, probabilmente lo diverrà a grande fatica; se si adopera, a partire da un atteggiamento scientifico, ad esaminare i dati di fatto per estrapolarne gli insegnamenti validi in generale, allora è sul terreno del materialismo dialettico.
La nostra organizzazione si trova più o meno in un simile, cruciale, momento. Il modo con cui ne uscirà sarà determinante per il suo futuro.
1. Nell’epoca dell’imperialismo, la forma che storicamente assume il processo generale della rivoluzione proletaria mondiale è quella di una rivoluzione ininterrotta e per tappe. Come Lenin ha infatti dimostrato, lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalistico determina nel mondo una divisione di sostanza tra un piccolo numero di paesi imperialisti, ove il capitalismo è particolarmente avanzato, ed un grande numero di nazioni oppresse che l’imperialismo saccheggia, obbligandole all’arretratezza e alla dipendenza economica e sociale. Dal punto di vista della rivoluzione, lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalistico, oltre ad essere alla base della possibilità di far trionfare la rivoluzione inizialmente in uno o più paesi per volta determina in modo preciso ed oggettivo la natura della tappa della rivoluzione per ciascuna nazione e l’insieme delle classi o frazioni di classi interessate al raggiungimento della tappa medesima. Al giorno d’oggi, dunque, la rivoluzione proletaria mondiale è composta, per l’essenziale, da due grandi correnti che rappresentano, allo stesso tempo, due grandi tappe storico-sociali: la rivoluzione socialista proletaria, il cui soggetto storico è il proletariato nei paesi imperialisti, e la rivoluzione di nuova democrazia – o di liberazione nazionale -, il cui soggetto storico sono le classi popolari oppresse dall’imperialismo nei paesi oppressi e coloniali. Tre fondamentali contraddizioni influiscono oggi in modo decisivo sulla situazione mondiale e, di conseguenza, sul processo generale di sviluppo della rivoluzione socialista proletaria e di quella di nuova democrazia: la contraddizione tra proletariato e borghesia, che si esprime in forma storicamente compiuta nei paesi imperialisti e, in forma meno sviluppata e conforme al grado di penetrazione economica del capitalismo, nel resto del mondo; la contraddizione tra imperialismo e popoli e nazioni oppresse; la contraddizione tra potenze imperialiste.
2. L’Italia è un paese imperialista e le principali classi in cui si divide la nostra società sono la borghesia e il proletariato; la dittatura della classe borghese su quella proletaria prende la forma di democrazia parlamentare, basata sul suffragio universale. La natura della tappa della nostra rivoluzione è quindi quella della rivoluzione socialista proletaria ed il suo soggetto storico è il solo proletariato. Intanto esso, e il suo partito rivoluzionario, non possono contrarre alleanze con altre classi o frazioni di classe, in quanto sono tenuti a sfruttare ogni occasione per stabilire una reale egemonia della classe proletaria su frazioni di classe o gruppi sociali oscillanti ed instabili. La conquista del potere e l’abbattimento dello Stato borghese da parte delle masse proletarie rappresentano le condizioni storicamente necessarie per instaurare la dittatura rivoluzionaria del proletariato su tutte le altre classi sociali e per organizzare la società socialista.
3. La conquista del potere politico e l’abbattimento dello Stato borghese da parte delle masse proletarie non possono darsi che tramite una rivoluzione violenta; questo principio è confermato da tutto lo sviluppo del militarismo capitalista e, in particolare, dal consolidamento progressivo dello Stato borghese nelle sue determinazioni fondamentali: esercito (inteso come esercito interno ed esterno) e burocrazia. La lotta di classe tende necessariamente a trasformarsi in guerra civile. Il partito rivoluzionario deve tener conto di questo fatto e trarne tutte le implicazioni pratiche sul piano della sua attività. Posto che la rivoluzione non può che essere violenta ne consegue che la situazione rivoluzionaria tende a determinare la guerra civile; la guerra civile può caratterizzarsi come guerra rivoluzionaria se esistono e sono accettate dalle masse oppresse delle idee, o tesi, rivoluzionarie. Per guerra rivoluzionaria intendiamo la situazione sociale in cui l’elemento militare dello scontro di classe è predominante sugli altri; naturalmente, anche nella situazione di guerra rivoluzionaria gli eventi sono determinati dalla situazione esistente tra proletariato e borghesia: la nostra società è divisa in classi, ogni fenomeno perciò ha un preciso carattere di classe. Rifiutiamo categoricamente ogni altra interpretazione del concetto di guerra rivoluzionaria: la guerra rivoluzionaria, per essere tale deve appoggiarsi sulle masse, deve coinvolgere sul terreno dello scontro militare le masse. Quando ciò non è possibile, non si può parlare di guerra rivoluzionaria; parlarne significa: a) non considerare che le modificazioni qualitative dello scontro sociale si definiscono in base alla attività generale delle masse; b) sposare, per forza di cose, una concezione soggettivistica del reale e del suo movimento. Il marxismo impone di prendere posizione sulla questione della guerra rivoluzionaria e chi non prende posizione a questo proposito si schiera di fatto con i possibilismi propri del soggettivismo.
4. In un paese imperialista le condizioni materiali della rivoluzione, le condizioni materiali per lo scatenamento della guerra rivoluzionaria, non si presentano tutti i giorni. Il grado relativo di benessere economico e sociale di cui partecipano anche le masse (e che è possibile sulla base dell’alto sviluppo delle forze produttive del lavoro e dello sfruttamento a cui sono sottoposte le nazioni oppresse dall’imperialismo) e l’elevato livello di libertà politiche e individuali concesso dalla democrazia parlamentare, consentono alla borghesia di occultare agli occhi delle masse il contenuto classista della società e di assorbire con una certa facilità le spinte tendenti alla trasformazione sociale; in questo contesto, il revisionismo, – che ha come base sociale proprio quegli strati operai corrotti dalle briciole che l’imperialismo può elargirgli – svolge un ruolo fondamentale rappresentando esattamente la politica borghese del movimento operaio. In linea di massima, in un paese imperialista è possibile definire rivoluzionaria una determinata situazione politico-sociale qualora coesistano le seguenti condizioni soggettive e oggettive: a) una gravissima crisi di dominio politico della borghesia, sia nel senso di indebolimento della sua compagine e di una delegittimazione del suo potere agli occhi delle masse, sia nel senso di un indebolimento dei suoi legami internazionali; b) un notevole e sostanziale peggioramento delle condizioni di vita delle masse, tale da provocare una generale aspettativa e disponibilità verso grossi mutamenti sociali; c) una considerevole, cosciente e organizzata mobilitazione di masse proletarie; d) la presenza di un deciso partito rivoluzionario, capace di influenzare e orientare in modo corretto e preciso le masse medesime. Le condizioni oggettive della rivoluzione proletaria in un paese imperialista si presentano, come si capisce, in situazioni del tutto eccezionali, e lo studio concreto della storia ci insegna che esse si presentano in genere nel periodo che precede, che interessa o che segue una guerra diretta tra potenze imperialiste, e con particolare forza nei paesi che subiscono in modo accentuato le conseguenze della guerra stessa (paesi sconfitti, paesi occupati, paesi impreparati socialmente al conflitto bellico). Questa posizione, che è l’unica posizione veramente scientifica e materialistica sulla questione della situazione rivoluzionaria, conduce a stabilire che la forma che assume la guerra rivoluzionaria nel nostro paese è tendenzialmente quella di un’insurrezione armata di massa contro il potere centralizzato dello Stato borghese.
5. L’obiettivo immediato del partito marxista rivoluzionario, fondato sulla teoria del socialismo scientifico, è la conquista del potere politico e l’abbattimento violento dello Stato borghese da parte delle masse proletarie. L’obiettivo immediato del partito marxista rivoluzionario è perciò, in termini concreti, l’insurrezione armata delle masse proletarie contro lo Stato borghese. Le masse proletarie, attraverso il loro movimento spontaneo, non sono in grado di elevarsi alla coscienza dell’irriducibile antagonismo che esiste tra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo: questa coscienza può essere portata loro solo dall’esterno e solo il partito marxista rivoluzionario può assolvere tale compito. Va chiarito che non esiste alcun potere reale delle masse all’interno della società capitalistica e che l’unico, vero, potere in mano al proletariato è la sua coscienza rivoluzionaria. Il compito principale del Partito Comunista quindi, è e rimane quello di aumentare la coscienza e l’organizzazione rivoluzionaria delle masse; tale fondamentale compito deve essere assolto attraverso lo svolgimento di una coerente lotta politica comunista, cioè attraverso un’attività che si ponga come obiettivo centrale quello di rappresentare il proletariato non nei suoi rapporti con un determinato gruppo di imprenditori, ma nei suoi rapporti con tutte le classi della società contemporanea e, principalmente, nei suoi rapporti con lo Stato borghese. Questa attività, che permette al partito di elevarsi al di sopra della lotta economica del proletariato e di contrapporsi alla politica borghese del movimento operaio (la lotta politica tradeunionista), consiste perciò, per così dire, in una “preparazione quotidiana dell’insurrezione”. L’insurrezione armata delle masse proletarie contro lo Stato borghese è un enorme fatto sociale da organizzare giorno per giorno, a cui educare costantemente le masse, le cui condizioni militari vanno coscientemente organizzate e preparate. L’insurrezione armata delle masse proletarie contro lo Stato borghese non è, finalmente, una perfetta azione militare che corona un lungo periodo di agitazione politica legale; ma, al contrario, il momento tattico decisivo in cui l’azione politica militare del partito rivoluzionario si incontra con la disponibilità cosciente delle masse alla rivoluzione.
6. L’esperienza pratica degli ultimi 15 anni nel nostro paese ci insegna che il metodo decisivo della lotta politica comunista del partito del proletariato è la lotta armata. Essa consente di interpretare in modo eccezionalmente chiaro gli interessi generali del proletariato nei confronti dello Stato; essa permette di considerare in modo dialettico, non metafisico, il limite che esiste tra il periodo in cui il compito fondamentale del partito è quello di guidare politicamente le masse e il periodo in cui si pone il problema di guidarle anche militarmente contro lo Stato. Facendo uso delle armi, il partito comunista non può che essere partito combattente, quindi clandestino. Ogni suo militante, in quanto quadro del Partito Comunista Combattente, deve essere disposto al combattimento e verificato, nei limiti delle esigenze del partito, su questo terreno. Il Partito Comunista Combattente deve trarre tutte le conseguenze dal suo essere partito combattente e clandestino, nello svolgimento della sua attività complessiva, sia nei confronti dello Stato e della società borghese, sia nei confronti delle masse proletarie. La lotta armata è il metodo di lotta decisivo e fondamentale della politica rivoluzionaria del partito marxista: mentre in una situazione di guerra civile tra le classi il combattimento risponde in modo diretto alla fondamentale legge della guerra: distruzione delle forze nemiche e conservazione delle proprie, nel lungo periodo che precede la situazione rivoluzionaria il combattimento è un formidabile strumento politico capace di ingenerare coscienza ed organizzazione rivoluzionaria nelle masse, nella misura in cui è riferito espressamente alle grandi questioni politiche al centro della vita del paese, rappresentando coerentemente gli interessi generali del proletariato. L’iniziativa combattente non è (nella situazione non rivoluzionaria) un “atto di guerra”, ma un fondamentale atto politico che, esprimendosi mediante l’uso delle armi, ha ovviamente conseguenze particolari di cui il partito deve tener conto con estrema responsabilità, ma anche appoggiandosi sulla più ferma decisione. Pur considerando il termine “strategia” sotto il significato di “visione generale che il partito ha del processo rivoluzionario e di come pervenire alla conquista del potere politico”, la lotta armata non è una strategia: essa è il metodo di lotta decisivo della politica rivoluzionaria del partito marxista anche nella situazione non rivoluzionaria.
7. Il partito comunista, per poter giungere alla rivoluzione, deve conquistare un’influenza predominante nelle masse proletarie, condizione per poterle guidare effettivamente alla conquista del potere politico e all’abbattimento dello Stato borghese. La questione della conquista della direzione politica dei movimenti di massa è, da questo punto di vista, decisivo. Si deve chiarire che, nei paesi imperialisti la conquista della direzione politica dei movimenti di massa da parte del partito rivoluzionario è ostacolata dalla grande influenza che il revisionismo e l’ideologia borghese esercitano sulla classe proletaria, corrompendo una parte numerosa di essa alla lotta pacifica, al conciliatorismo e al tradeunionismo. Il partito rivoluzionario, pur tenendo conto di questi fatti, non può e non deve cadere nel “codismo”, nell’economicismo, recedendo così dal suo ruolo essenziale: quello di essere portatore della proposta della rivoluzione, del mutamento generale di tutto l’ordinamento sociale esistente. D’altro canto, il partito, per poter sviluppare la sua attività rivoluzionaria, per poter aumentare e innalzare la coscienza e l’organizzazione rivoluzionaria delle masse, deve possedere un’adeguata linea di massa. La linea di massa del Partito Comunista Combattente non può essere, come si è detto, la lotta armata. La linea di massa del Partito Comunista Combattente deve essere fondata essenzialmente sul programma politico (minimo) che il partito lancia alle masse e che è sostenuto in primo luogo tramite il combattimento. Il programma politico del Partito Comunista Combattente deve essere composto da parole d’ordine valide per tutto il proletariato e la sua funzione principale è quella di essere una leva per lo sviluppo dell’agitazione, della propaganda e dell’organizzazione rivoluzionaria.
Nei paesi imperialisti, il Partito Comunista Combattente è più che mai il reparto d’avanguardia del proletariato. Ogni sottovalutazione del ruolo cosciente del partito, ogni concessione allo spontaneismo risulta estremamente nociva alla causa del proletariato rivoluzionario e rischia di trasformare la sua avanguardia in una sorta di “braccio armato” del movimento di massa o, al contrario, presupponendo una coscienza di massa più elevata del reale, in una formazione politica avventuristica.
8. Per poter impostare la sua politica in modo maturo, per poter svolgere fino in fondo il suo compito di “educatore rivoluzionario” delle masse, il Partito Comunista Combattente deve dotarsi di un giornale politico, da diffondersi clandestinamente e su scala nazionale. Il giornale politico del Partito Comunista Combattente è uno strumento fondamentale della sua attività complessiva. Esso è anche uno strumento intimamente “antigradualista” e “antitentacolare”, perché è di per sé (naturalmente con il presupposto della lotta armata) una voce rivoluzionaria precisa ed autorevole, capace di orientare praticamente le masse e di prendere parola sulle principali questioni politiche e sociali del paese: esso, quindi, supplisce alle difficoltà che una organizzazione clandestina incontra nella propaganda e stabilisce un rapporto preciso e generale tra partito e masse.
9. Il Partito Comunista Combattente propone di volta in volta un programma politico (minimo) alle masse, composto di parole d’ordine, che sono desunte dallo scontro reale che vive in un determinato momento nel paese, si esprime, nell’attività generale delle masse, in forma pubblica ed aperta. Là dove è possibile, risulta doveroso dotarsi di “cinghie di trasmissione”, dirette da nostri militanti legali, capaci di diffondere e sostenere le parole d’ordine di massa lanciate dal partito e, non certo di creare un “sindacalismo di sinistra”, un “nuovo movimento operaio” o cretinerie simili.

Fonte: PROGETTO MEMORIA, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

Unione dei Comunisti Combattenti – Manifesto e tesi di fondazione – ottobre 1985

La lotta rivoluzionaria risorse in Italia negli anni 1968-’69, sulla base della spinta politica impressa dalle vaste mobilitazioni operaie, proletarie e studentesche. Dopo anni di indiscussa egemonia revisionista sulla classe proletaria, dopo anni nei quali il movimento non si elevò punto al di sopra di una lotta tradunionista, di una lotta entro i limiti di una società borghese, ritornò di impetuosa attualità la parola d’ordine della conquista del potere politico e della dittatura del proletariato.

Sin dall’iniziale esplosione delle lotte di massa un problema risultò bensì centrale agli occhi delle vere avanguardie: come dare direzione politica al movimento di classe, quali fossero le forme dell’azione rivoluzionaria in grado di guidare i lavoratori alla presa del potere statale. Invero, ogni lotta di classe è una lotta politica e lo scopo di questa lotta, che inevitabilmente si trasforma in guerra civile, è il monopolio del potere politico. E proprio il prodursi degli eventi, contrassegnato in quel biennio dallo sviluppo impetuoso del movimento di massa nonché dalla reazione e dal contrattacco della borghesia, chiariva manifestamente la natura inconciliabile dell’antagonismo esistente tra capitale e lavoro, mostrava che in ultima istanza le classi combattono per conquistare il potere dello Stato. In breve, la storia di quegli anni pose al proletariato, alle sue avanguardie conseguenti, un compito pratico ed urgente: creare un partito di tipo nuovo, un partito realmente comunista, capace di combattere senza riserve per la dittatura del proletariato e di non farsi allettare dalle sirene della democrazia borghese.

Ma grande era il prestigio del P.C.I. tra le masse ed altrettanto grande si presentava perciò il danno provocato dalla sua involuzione revisionistica, dalla vergognosa politica pacifista che questo partito consumava quotidianamente nelle aule del parlamento borghese. Né tale tradimento poteva considerarsi casuale, né era ulteriormente procrastinabile un esame responsabile dell’evoluzione avvenuta nei rapporti di classe, negli istituti politici della società borghese e nelle esperienze compiute dai movimenti rivoluzionari. Si imponeva insomma la ricerca di vie nuove, di vie adatte a rilanciare la rivoluzione nelle mutate condizioni del secondo dopoguerra.

Chi individuò con precisione e puntualità questo problema, chi riuscì a rispondervi con conseguenza estrema in sede pratica, fu l’organizzazione delle Brigate Rosse e ciò in virtù della loro decisione di iniziare la lotta armata contro lo stato in maniera sistematica e continuata.

Costituitesi nel 1970, le Brigate Rosse dovettero inizialmente navigare controcorrente: non solo, infatti, si trovarono innanzi molti gruppuscoli pseudo rivoluzionari che, disposti a cavalcare le esplosioni violente della lotta di massa, si tiravano da parte quando si trattava di porsi alla testa del movimento in modo organizzato e conseguente, quando si trattava di svolgere una funzione politica e dirigersi sulla lotta spontanea del proletariato; ma, molto di più, esse rompevano scientemente con una mossa di pregiudizi consolidati negli ambienti rivoluzionari che volevano impossibile la lotta armata al di fuori di condizioni insurrezionali e che trovavano una immediata benché surrettizia giustificazione nella grande tradizione dell’Internazionale Comunista. Tuttavia proprio la giustezza della loro visione politica – iniziare la lotta armata costituendo così i primi punti di aggregazione per la fondazione del partito del proletariato – risultò alla base del fatto che le Brigate Rosse ebbero decisamente ragione di queste tendenze ritardanti ed opportuniste. Ben presto esse si stesero nelle principali città italiane, nei principali poli industriali, ben presto fu evidente il senso ed il significato della loro scelta soggettiva d’avanguardia e ben presto, con la loro giusta azione di lotta allo Stato, conquistarono alla lotta armata comunista un ruolo centrale nel panorama politico italiano; altri gruppi iniziarono a seguire il loro esempio.

Marxiste leniniste nel riferimento teorico, fortemente radicate nella classe operaia e negli strati più combattivi del proletariato urbano, le Brigate Rosse si affermano in quanto reparto d’avanguardia innanzitutto perché la loro proposta risultò essere la risposta politica più concreta ad una situazione storica concreta. Da un lato, infatti, risultava assolutamente chiara l’inutilizzabilità del parlamento ai fini dell’attività rivoluzionaria, dall’altro i comunisti rischiavano lor malgrado di trasformarsi in sterili propagandisti, estremisti nella lotta economica e connaturalmente incapaci di influire nell’andamento politico dei rapporti tra le classi. Ma gruppi che non sanno porre davanti alla società tutt’intera le esigenze politiche del proletariato, gruppi che non sanno contrapporsi coi mezzi adatti alle istituzioni borghesi per affermare questi interessi, che non operano al fine di conquistare condizioni generali più favorevoli allo sviluppo della rivoluzione, non sono certo gruppi comunisti, non svolgono certo una funzione dirigente nella lotta di classe.

I comunisti sono gli interpreti coscienti di un processo incosciente: tale è la tesi incontrovertibile del socialismo scientifico. E tramite l’iniziativa politico militare l’avanguardia recuperò spazio nella vita politico nazionale, si condusse appunto in qualità di rappresentante cosciente degli interessi del proletariato: si elevò al di sopra della lotta economica delle masse, al di sopra del pantano gruppista, e si contrappose chiaramente agli agenti della borghesia nel movimento operaio. Attraverso l’uso della lotta armata le Brigate Rosse ribadirono in modo chiaro e netto che obiettivo della classe operaia non è questa o quella riforma parziale, ma la presa violenta del potere politico, il rivoluzionamento generale dell’intera società; e con ciò, nei fatti, nell’azione concreta conforme alle peculiarità della nostra situazione storica, si ricollegarono al contenuto reale, alla sostanza immortale della tradizione comunista.

Fu chiaro infatti in pochi anni che il partito della Brigate Rosse costituiva l’avanguardia del proletariato italiano, la sua direzione politica rivoluzionaria. Sulla base di un’intensa attività combattente e di un costante lavoro di penetrazione nelle masse, nel 1978 le Brigate Rosse poterono legittimamente dichiarare chiuso il primo periodo della loro lotta politico militare: in seguito alla campagna di primavera di quell’anno, al sequestro e all’esecuzione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana e massimo fautore della politica cosiddetta del “compromesso storico” tra D.C. e P.C.I., la lotta armata si affermava definitivamente come punto di riferimento obbligatorio e discriminante per ogni rivoluzionario e, ad un tempo, come l’unica opposizione politica coerente al governo borghese ed alle manovre dei partiti di fronte alle più vaste masse. L’unità del politico e del militare nell’attacco al “cuore” dello Stato, l’iniziativa combattente del partito come direzione politica cosciente della lotta di classe verso la presa del potere politico, si presentava dunque come la conquista storica come il risultato essenziale di quel periodo.

Epperò la storia non procede in linea diritta. Essa ha certo una direzione, una direzione necessaria, ma questa direzione si presenta appunto come risultato di un percorso niente affatto facile, piano, diretto: è attraverso innumerevoli sacrifici ed anche errori, attraverso grandi offensive e ostiche ritirate, che una classe oppressa giunge a conoscere la strada della sua emancipazione.

Se è manifesto ed inconfutabile che le Brigate Rosse riguadagnarono al proletariato italiano la capacità politico-pratica di organizzare la lotta rivoluzionaria allo stato borghese (ed in ciò consiste il loro inestimabile valore storico), è pur vero che, nella loro azione, si basarono su di una concezione politico eclettica, che solo in stretta misura può definirsi marxista. La sovrapposizione di schemi rivoluzionari propri di paesi dipendenti alla situazione sociale di un paese imperialista, la sottovalutazione del ruolo specificamente politico dell’avanguardia comunista, le numerose commistioni tra il marxismo leninismo ed ideologie antimaterialiste di schietta derivazione piccolo borghese, sono solo i più marchiani fra i vari errori commessi sul piano teorico delle Brigate Rosse.

E ad ogni errore teorico, nella lotta di classe, corrisponde un errore pratico: da una parte simili sbagli provocarono l’incapacità di sfruttare appieno le conquiste reali che l’esperienza medesima aveva consegnato ai comunisti, dall’altra condussero ad esaltare aspetti secondari, tutt’affatto estranei alla lotta armata in quanto politica rivoluzionaria. Le Brigate Rosse erano giunte a possedere un enorme prestigio politico, un prestigio ed una autorità da partito; erano riuscite a creare una macchina organizzativa assai forte, una macchina che costituiva uno dei più importanti fattori politici della società italiana, ma questa macchina era al suo interno politicamente debole, mancava la saldezza teorica ed un forte centro dirigente in grado di infondere compattezza ideologica e pratica nei diversi istituti dell’organizzazione. La sconfitta tattica dell’anno 1982, preceduta dall’altalena tra economismo e militarismo, da sintomatiche ed eloquenti scissioni, dalle prime defezioni e collaborazioni col nemico di classe, fu dunque il logico risultato di un accumularsi di contraddizioni che, per quanto visivamente collocabile nel periodo che segue il 1978, si originava senz’altro da ben più lontano.

Quella particolare visione teorica, l’indirizzo di pensiero e di azioni che accompagnò la nascita ed il primo sviluppo della lotta armata nel nostro paese ascrive cosi al proprio rendiconto alcuni errori sostanziali, alcune debolezze politiche di fondo. Ma si tratta di errori e debolezze, per così dire, necessari; di errori e debolezze che il movimento comunista, per farsi strada ed esperienza, non poteva non commettere; di errori e debolezze peraltro facilmente comprensibili, dato il quadro storico in cui la lotta armata è sorta come forma della politica rivoluzionaria ed in cui ha trovato i suoi primi riferimenti ideologici.

Se dunque non v’ha dubbio che nel nostro paese un periodo della lotta rivoluzionaria si è chiuso, è ancor più vero che quel che si è concluso è solamente il periodo della giovinezza della lotta armata, il periodo in cui l’imperativo consisteva innanzitutto nell’affermarla in quanto carattere fondante ed obbligatorio dell’attività di partito. Finalmente, nei quindici anni trascorsi la lotta di classe ha scoperto da sé la formula politica adatta a rilanciare nel nostro periodo storico l’attività comunista. Lo ha fatto tra molte contraddizioni, lo ha fatto per mezzo di ingenuità ed anche errori, ma pure lo ha fatto! Ciò è l’essenziale.

Tutto il periodo storico che va dal 1970 al 1982 è perciò straordinariamente istruttivo per la rivoluzione. Durante questi anni attraverso l’esperienza accumulata dalle Brigate Rosse, si è evidenziato nettamente che la lotta armata è il metodo decisivo della lotta politica comunista contemporanea, carattere fondamentale ed obbligatorio dell’azione di partito. Inoltre, ogni semplice lavoratore, gli elementi avanzanti del proletariato, i sinceri rivoluzionari ed i gruppi organizzati hanno conosciuto e visto in opera tutte le principali tendenze da sempre presenti nell’arena della lotta politica in quanto riflesso del movimento più generale delle classi; ne hanno valutato la portata, osservato la parabola teorica e pratica, esaminato il rapporto reciproco ed hanno imparato a discernere una linea realmente marxista, realmente rivoluzionaria, dalle sue artate contraffazioni. Tutto ciò costituisce in ogni caso un immenso patrimonio per il movimento comunista, un enorme contributo alla teoria ed alla pratica della rivoluzione proletaria non solo per il nostro paese, ma per tutta l’area del centro imperialista. Tutto ciò, soprattutto, rappresenta sicuramente la base reale per ogni ulteriore avanzamento.

Nello stesso tempo però l’esperienza del periodo trascorso ha provato fuori da ogni dubbio che senza una visione scientifica ed organica della nostra rivoluzione, senza un concetto marxista dei compiti e del ruolo del partito, anche le più grandi conquiste della lotta di classe rischiano di rimanere inoperose, persino i più grandi successi possono vanificarsi, inghiottiti tra le pieghe della storia.

Gli anni passati, anni di gigantesche sfide e di coraggiose scelte d’avanguardia ci consegnano la lotta armata come forma della politica rivoluzionaria. Oggi il punto principale è imparare a perfezionare questo insegnamento, imparare a far di più e meglio per spingere oltre i risultati raggiunti, affinché la linea rivoluzionaria possa esser portata avanti senza la minima esitazione.

Ma la situazione chiede scelte appropriate, scelte precise capaci di tradursi in pratica. Non soltanto, infatti, le Brigate Rosse si dimostrarono attualmente incapaci di progredire, nonché di elevarsi al livello politico richiesto dall’evoluzione delle cose stesse; ma già nei settori più inesperti e disgregati del movimento rivoluzionario si delinea chiaramente lo sviluppo di una tendenza revisionista, il cui contrassegno consiste nella teorizzazione (esplicita o sottintesa) dell’abbandono della lotta armata. La situazione di disorientamento attualmente esistente nel movimento di classe; l’incipiente pericolo di vanificare la più grande conquista degli ultimi quindici anni di lotta d’avanguardia; la necessità di battere definitivamente, nella teoria e nella pratica, le impostazioni soggettiviste che tanto danno arrecano alle potenzialità politiche della lotta armata; l’obbligo di difendere con intransigenza di fronte alla borghesia ed ai suoi lacchè la giustezza del cammino percorso dei comunisti negli ultimi anni e di trasmettere alle nuove generazioni rivoluzionarie l’esperienza cumulata; infine, l’evoluzione del quadro nazionale ed internazionale, che disegna l’avvicinarsi di battaglie decisive per il proletariato – tutte queste circostanze pongono chiaramente all’ordine del giorno, rendendolo anzi un dovere, il problema della costituzione di un nuovo gruppo politico, capace di basarsi sulla grande esperienza delle Brigate Rosse e sul marxismo leninismo per giungere ad una teoria ed una pratica rivoluzionarie realmente adeguate alla situazione italiana.

Sulla base di tali considerazioni, nonché sotto l’impulso e l’iniziativa di alcuni ex militanti delle Brigate Rosse fuoriusciti da questa organizzazione in seguito alla loro battaglia per l’adozione delle tesi politiche enunciate nella cosiddetta “seconda” posizione, nel mese di ottobre dell’anno 1985 si è costituita adottando le seguenti tesi, l’Unione dei Comunisti Combattenti.

  1. L’Unione dei Comunisti Combattenti è un’organizzazione marxista leninista. Come tale, essa assume a guida della propria azione la dottrina del materialismo storico-dialettico e riconosce come propri principi inderogabili la dittatura del proletariato ed il potere del Soviet, vale a dire la sostanza di tale dottrina. L’Unione dei Comunisti Combattenti non ha dunque interessi diversi dell’intero proletariato: essa se ne distingue poiché, possedendo una visone complessiva della strada storica che questa classe deve necessariamente percorrere, si sforza di difendere, in ogni svolta della lotta di classe, non gli interessi dei singoli gruppi o professionisti ma gli interessi della classe operaia nella sua totalità.
  2. L’Unione dei Comunisti Combattenti, avanguardia cosciente della classe operaia, opera per trasformare ogni lotta ridotta o parziale in una lotta generale per il rovesciamento dell’ordine capitalistico. Essa organizza e dirige la lotta del proletariato col fine preciso di guidarlo sino all’insurrezione armata contro lo stato borghese, sino allo scontro diretto per la conquista del potere politico.

Per potersi emancipare dalla schiavitù del lavoro salariato, per poter istituire la propria dittatura sulle altre classi sociali ed organizzare il socialismo – stadio inferiore del comunismo – la classe operaia deve innanzitutto conquistare il potere politico nel proprio paese e distruggere senza remore la macchina statale borghese. Dall’altra parte, attraverso il loro movimento spontaneo le masse proletarie non sono in grado di elevarsi alla coscienza compiuta dei propri interessi, alla coscienza dell’irriducibile antagonismo, che esiste tra loro e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo. E proprio in ciò consiste il ruolo dell’avanguardia comunista: rendere il proletariato capace di realizzare la sua grande missione storica, organizzarlo in partito politico autonomo – in reparto d’avanguardia contrapposto a tutti i partiti borghesi e principalmente allo Stato – per dirigere ogni manifestazione della lotta di classe verso il suo sbocco necessario, la dittatura del proletariato.

L’Unione dei Comunisti Combattenti, consapevole che è compito fondamentale dei comunisti quello di rimanere sempre nel più stretto contatto con ampi strati del proletariato, mantiene bensì la più ferma convinzione che i concetti di partito e massa debbono essere tenuti rigorosamente separati. Il partito è una parte della classe, ma distinto da essa; è il suo reparto d’avanguardia, cosciente ed organizzato. In ogni fase della lotta esso è, per sua natura alla testa della mobilitazione, alla guida degli elementi migliori e più devoti del proletariato: ad esso spetta la responsabilità di fare avanzare la rivoluzione, di affrettare la crisi delle classi dominanti e non già di attestarsi sul livello della massa.

Di conseguenza ogni svalutazione nella teoria e nella pratica del ruolo cosciente del partito, ogni concessione allo spontaneismo ed al tradeunionismo, conduce inevitabilmente (e segnatamente nei paesi imperialisti come il nostro) ad assumere posizioni revisioniste, snatura la funzione stessa del comunismo e va combattuta perciò come il peggiore dei nemici della causa proletaria.

  1. L’Unione dei Comunisti Combattenti adotta la lotta armata in quanto metodo decisivo della propria lotta politica comunista. Strutturata coerentemente come organizzazione armata e clandestina, che riunisce sin da subito nella propria azione generale, così come in quella di ogni singolo istituto e militante, il lato politico e quello militare dell’attività rivoluzionaria, essa avversa bensì tutte le concezioni che, proponendo una divisione di ruoli fra organismi militari e politici, minano alla base l’unità d’azione, la compattezza e la natura comunista dell’avanguardia contemporanea.

L’epoca rivoluzionaria esige dai comunisti l’uso di sistemi di lotta capaci di concentrare tutta l’energia del proletariato sino all’estrema, logica conseguenza: l’urto diretto, la guerra dichiarata con la macchina statale borghese. Da un lato, infatti, risulta assolutamente necessario che ogni semplice lavoratore abbia ben chiara la differenza che esiste tra le vere avanguardie comuniste, che lottano per conquistare il potere politico, ed i vecchi partiti ufficiali, che col loro pacifismo parlamentare hanno vergognosamente tradito la bandiera della classe operaia. Dall’altro è bensì evidente che nell’epoca attuale, contrassegnata nei nostri paesi dal massimo sviluppo e dal massimo consolidamento del contenuto reazionario della democrazia borghese, il centro di gravità della vita politica si è spostato in modo totale e definitivo oltre i confini del parlamento, che resta unicamente la maschera formale della dittatura della borghesia ed al contempo un efficace mezzo per inchiodare ai limiti dalla legalità capitalistica ogni reale spinta di opposizione proletaria. In tale contesto storico l’indipendenza politica del proletariato, la sua vocazione storica alla dittatura, si legano indissolubilmente al rifiuto dei vincoli istituzionali e dell’azione parlamentare. Il terreno della lotta d’avanguardia, della lotta dei comunisti, si sposta altrove: nella lotta armata, nell’azione autonoma ed energica di un partito combattente che, rappresentando realmente gli interessi generali della classe lavoratrice in opposizione allo stato borghese, sappia nondimeno incidere nell’andamento politico dei rapporti tra le classi, miri ad accentuare la crisi politica della borghesia contrastandone le mene reazionarie e realizzi al contempo una chiara indicazione rivoluzionaria di fronte alla più vaste masse.

L’Unione dei Comunisti Combattenti, istruita dall’esperienza pratica compiuta sin qui dal movimento rivoluzionario nazionale ed internazionale nonché dalla teoria del socialismo scientifico, difende ed afferma gli interessi generali del proletariato con il combattimento contro lo Stato e considera dunque l’uso attuale della lotta armata (la lotta armata d’avanguardia in condizioni non rivoluzionarie) come la principale e fondamentale discriminante politico pratica tra i veri e i falsi comunisti, tra le vere e le false avanguardie del proletariato.

  1. Per giungere alla rivoluzione, l’avanguardia comunista deve conquistare un’influenza predominante nelle masse proletarie, condizione per poterle guidare effettivamente alla presa del potere politico ed all’abbattimento dello stato borghese. È infatti dimostrato da tutta la storia della rivoluzione proletaria che, nella sua lotta per la dittatura, questa classe non otterrà la vittoria se non quando – entro precise condizioni oggettive – i suoi strati politicamente determinanti si saranno schierati a fianco del comunismo e disporranno di forze sufficienti per infrangere la resistenza della reazione borghese. Da ciò deriva l’incondizionata necessità di principio che, nella costante e continuata battaglia contro le deviazioni opportuniste ed economiste presenti nel proletariato, i comunisti rivoluzionari arrivino a conquistare la direzione politica delle masse e dei loro movimenti di lotta.

L’Unione dei Comunisti Combattenti – che afferma il proprio ruolo di combattente per il socialismo attraverso la lotta armata e conserva in ogni caso la propria autonomia politico-organizzativa qualunque direzione prendano gli avvenimenti e quali che siano le forme del movimento – sin dal primo giorno della sua costituzione si pone esplicitamente come scopo non già la creazione di una setta di propaganda, non già un’attività politico militare avulsa dalla reale dinamica e dal reale contesto della lotta tra le classi, ma proprio la partecipazione cosciente a tale conflitto, l’intervento d’avanguardia nella scena politica e la guida della lotta proletaria secondo una direttiva comunista. Suo obiettivo dichiarato è elevare, nel corso della lotta, il proletariato alla coscienza compiuta dei propri interessi; conquistarne la direzione politica per guidarlo alla presa del potere.

  1. L’Unione dei Comunisti Combattenti respinge categoricamente ogni concezione soggettivista che ritiene possibile la rivoluzione proletaria senza un’adeguata opera di conquista delle masse lavoratrici alla linea politica del comunismo. Ma proprio affinché questa opera sia efficace proprio per impedire la nefasta altalena tra estremismo ed economismo, proprio per combattere l’errata tendenza che vorrebbe immediata e senza ostacoli la conquista del sostegno di massa, è necessario stabilite un giusto rapporto tra l’avanguardia ed il movimento proletario nel suo insieme.

L’agitazione comunista verso le masse proletarie, la linea di massa dell’avanguardia, deve essere condotta in modo che i lavoratori in lotta siano portati a riconoscere dalla loro esperienza stessa che la nostra organizzazione è la guida energica e fedele del loro comune movimento. Per ottenere ciò è necessario innanzitutto che l’avanguardia intervenga con la sua azione combattente in sintonia ed in appoggio ai movimenti generali del proletariato, che li sostenga e li guidi indirizzandoli contro i governi e lo stato borghese, che sia capace di generalizzare con vigore le parole d’ordine politico-organizzative più avanzate scaturite da queste lotte e dalla situazione generale. D’altra parte in ognuna delle fasi della lotta politica ed economica, i comunisti debbono diffondere in mezzo al proletariato la consapevolezza che questi movimenti costituiscono solo una parte, una tappa nella più generale lotta di classe, che è una lotta per il potere politico dello Stato; giammai essi dovranno abdicare al loro ruolo specifico: affermare l’interesse generale proletario, spingere avanti la situazione politica.

È attraverso questo lavoro, assolutamente necessario, che un gruppo comunista può diventare l’avanguardia reale di milioni di proletari; guidando le masse lavoratrici nella costante lotta contro le sopraffazioni del capitale risulterà possibile, e sarà anzi doveroso, rendere comprensibile ed attuale il legame che esiste tra la vita quotidiana, tra il movimento di tutte le classi e di tutti i partiti politici, e la parola d’ordine della dittatura del proletariato.

L’Unione dei Comunisti Combattenti, che in quanto organizzazione armata e clandestina non può non porre precisi ed invalicabili limiti al modo con cui svolge la propria attività verso le masse, riconosce in ogni caso pienamente l’importanza fondamentale che quest’opera riveste ai fine della rivoluzione. Guidare, allargare, approfondire, le attuali lotte generali del proletariato e, in conformità al corso del loro sviluppo e dell’esperienza pratica compiuta dalle masse medesime, trasformarle in lotte politiche finali è e resta insomma il criterio da seguire in tale lavoro. Ma ciò sarà infine possibile se L’Unione dei Comunisti Combattenti, autonoma ed in grado di combattere le istituzioni borghesi e le loro politiche in ogni circostanza della lotta di classe, saprà evitare tanto il settarismo quanto la mancanza di principi.

L’Unione dei Comunisti Combattenti si basa organizzativamente sul centralismo democratico, i cui principi essenziali sono: l’eleggibilità degli organi superiori da parte di quelli inferiori, il carattere assolutamente vincolante di tutte le direttive degli organi superiori, l’esistenza di un forte centro dirigente la cui autorità e le cui decisioni, negli intervalli tra i congressi, non possono essere messe in discussione da nessuno. Va da sé che, nelle condizioni di clandestinità in cui si sviluppa la lotta, il principio elettivo può subire delle limitazioni: gli organismi dirigenti hanno pertanto il diritto di cooptare nei proprio effettivi singoli militanti, qualora si presenti la necessità per l’organizzazione.

L’Unione dei Comunisti Combattenti riconosce come propria la causa della fondazione del Partito Comunista Combattente del proletariato italiano. Operando in tal senso, essa si sforza bensì di consolidare, irrobustire ed affermare la tendenza comunista rivoluzionaria contro tutte le deviazioni avventuriste e contro tutte le tentazioni liquidatorie – che si esprimono oggidì nel rifiuto dell’uso della lotta armata – e chiama risolutamente a raccolta, sotto le sue fila organizzative, i marxisti militanti del nostro paese.

Al momento presente, contrassegnato da uno stato di particolare disorientamento del movimento rivoluzionario, si presenta di fatti necessario un deciso lavoro di orientamento politico, teorico e pratico, teso a chiarire la natura della strategia, dei principi e della tattica del partito rivoluzionario, nonché l’arco delle forze interessate alla sua fondazione. L’Unione dei Comunisti Combattenti, che riconosce come propri interlocutori in primo luogo quelle forze e quei gruppi marxisti che oggi si pongono senza tentennamenti sul terreno della lotta armata, è animata in ogni caso dalla convinzione che l’unità dei comunisti di partito debba basarsi sulla chiarezza di vedute e che questa chiarezza, all’ora attuale, non possa che scaturire da un reale ed approfondito confronto intorno alle questioni principali che l’esperienza pratica della rivoluzione proletaria ha posto all’ordine del giorno nel nostro paese.

L’Unione dei Comunisti Combattenti, inoltre, sottolinea l’importanza fondamentale della battaglia antirevisionista. Deve essere infatti chiaro ad ogni rivoluzionario che non è possibile una preparazione anche solo preliminare del proletariato al rovesciamento della borghesia senza una inevitabile, sistematica, ampia ed aperta lotta contro i vecchi partiti ufficiali, ed in particolare contro il P.C.I., che detengono tutt’ora forti posizione nel movimento operaio e che col loro pacifismo parlamentare illudono le masse sulla reale natura della democrazia borghese.

L’Unione dei Comunisti Combattenti infine, si schiera con decisione al fianco della lotta comunista combattente esistente nei paesi capitalistici avanzati e delle lotte di liberazione nazionale che si sviluppano potentemente nei paesi dominati dall’imperialismo. Nella sua aspirazione a raggiungere la completa emancipazione della classe operaia e consapevole che la rivoluzione proletaria è per sua stessa natura internazionalista, essa non risparmia alcuno sforzo per contribuire all’unità dei comunisti e dei lavoratori di tutti i paesi.

Rivendicazione dell’iniziativa contro Licio Giorgieri

No all’adesione italiana alle guerre stellari. Fuori l’Italia dalla Nato!! No alla politica gendarme dell’Italia nel Mediterraneo. Costruiamo l’unità dal basso di tutte le forze contrarie al neo-autoritarismo dei governi borghesi.

Onore alla compagna Wilma Monaco ‘Roberta’.

Venerdì 20-3-1987 un nucleo armato della nostra organizzazione ha colpito il generale Giorgieri Licio, Direttore Generale delle Costruzioni delle Armi e degli Armamenti Aerospaziali.

Il Generale è stato colpito esclusivamente per le responsabilità da lui esercitate in seguito all’adesione italiana al progetto delle ‘guerre stellari’. Il progetto delle ‘guerre stellari’ per la massa di risorse finanziarie che mobilita e per la particolare collaborazione che richiede tra alta burocrazia statale, vertici militari e vertici della grande industria rafforza quell’intreccio di interessi, complicità e connivenze espresso dal complesso miltare-industriale. Il fenomeno investe l’insieme dei paesi partecipanti al progetto, quindi anche il nostro paese, e ciò spiega la creazione di organismi con la partecipazione di alti burocrati, generali ed industriali, la rinforzata presenza di militari nei Consigli di Amministrazione delle imprese con interessi nel settore bellico, e lo sviluppo di tutti quei fenomeni economici, politici ed istituzionali tipici dei paesi capitalisti in una fase caratterizzata da una loro accresciuta aggressività sul piano internazionale.

La nostra organizzazione intende sottolineare che le finalità di questa iniziativa militare sono eminentemente politiche. Colpendo il Generale Giorgieri non abbiamo voluto condurre una generica guerra agli apparati dello Stato, ma attraverso questa iniziativa militare abbiamo voluto esprimere la nostra opposizione risoluta all’adesione italiana al progetto delle guerre stellari ed in generale al corso reazionario della politica estera italiana, innanzitutto nel Mediterraneo. Le ambizioni della grande borghesia italiana hanno trovato espressione nelle scelte dei successivi governi del Pentapartito, ed in particolare nel decaduto governo Craxi, anche sul piano della politica estera e della difesa, conducendo a quel protagonismo che caratterizza l’iniziativa del nostro paese nel Mediterraneo ed in Medio Oriente. Le velleità autonomistiche che hanno alimentato alcune delle prese di posizione dei successivi governi del Pentapartito riguardo alle questioni di carattere internazionale non sfociano assolutamente nella messa in discussione della collocazione internazionale del nostro paese, ma in una politica che vuol fare in misura maggiore gli interessi della borghesia italiana nel quadro delle alleanze occidentali, in primo luogo per quanto riguarda il Mediterraneo. L’installazione degli euromissili e l’adesione allo Sdi mostrano che la partecipazione italiana alla Nato ancora il nostro paese al campo della reazione mondiale guidato dagli Usa, nemico della pace, della distensione e della volontà d’indipendenza dei paesi liberi. Con l’insieme della nostra iniziativa politico-militare perseguiamo fondamentalmente due obbiettivi:

  1. Pesare sugli equilibri tra i vari partiti politici borghesi che presiedono alla formazione dei governi, ai loro programmi e metodi d’azione. Combattere il tentativo dei partiti borghesi di trovare un equilibrio al loro interno che gli permetta di approfondire la svolta reazionaria.
  2. Rappresentare su scala nazionale il soggetto politico rivoluzionario che dà ‘voce politica’ e riferimento all’insieme delle forze sociali, a cominciare dalla classe operaia, duramente colpiti dalla svolta reazionaria voluta dalla grande borghesia e realizzata dai governi del Pentapartito.

Il neo-globalismo reazionario della presidenza Reagan e la militarizzazione dello spazio.

  1. Lo Sdi è un colossale programma di riarmo che implica un drenaggio di risorse sconosciuto dai tempi del kennediano progetto Apollo. Voluto dall’amministrazione Reagan, lo Sdi ne riassume aspetti essenziali dell’impostazione ideologica e politica, nonché in materia di relazioni internazionali. Lo scandalo dell’Irangate ha messo dinanzi agli occhi dell’opinione pubblica mondiale quel sottobosco melmoso di associazioni private o semi-pubbliche a cui aderiscono miliardari, marcanti d’armi, mercenari e veterani del Vietnam che costituiscono i circoli più aggressivi della Nuova Destra americana, i quali hanno esercitato un’influenza decisiva sulle scelte di fondo dell’amministrazione Reagan. Del resto, in gran parte il personale politico del gruppo dirigente reaganiano proviene da quegli ambienti ultrareazionari, da cui il Presidente ha mutuato l’anticomunismo viscerale e la retorica sciovinista. Dal giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, Reagan ha espresso in modo chiaro l’obbiettivo primo della sua politica estera e di difesa: ristabilire il primato politico e militare dell’imperialismo americano nel mondo. E’ stata così impressa una brusca svolta in senso reazionario e militarista alla politica estera americana, giustificando le tendenze yankee in ogni angolo del mondo con la pretesa di difendere gli interessi vitali americani nei punti strategici del globo. Le relazioni internazionali sono state congelate in una nuova guerra fredda, caratterizzata dall’aggressività imperialista e dalla sua insofferenza ad ogni vincolo e ostacolo. E’ stata rilanciata la diplomazia delle cannoniere con il bombardamento di Libia e Libano, il minaggio dei porti del Nicaragua, l’occupazione militare con conseguente abbattimento del regime rivoluzionario di Grenada. Si è rafforzata l’opera di destabilizzazione aperta ed occulta di governi legittimi e democratici di paesi liberi, ricorrendo a forme di ricatto e sabotaggio economico ed al sostegno ad organizzazioni mercenarie come l’Unita in Angola o i Contras in Nicaragua. Si è accresciuto in misura notevole il sostegno ai regimi più reazionari della terra come: Sud Africa, Israele e Turchia. Un disegno globale quindi, teso a ricostruire il predominio americano attraverso il ridimensionamento dei Paesi dell’Est e la mortificazione della volontà d’indipendenza politica ed economica dei paesi liberi o in lotta per la loro liberazione. Anche agli alleati europei si è cercato di imporre un ritorno ad una situazione di (…) quale quella patita nel ventennio successivo al Piano Marshall. E’ evidente che una parte della retorica violentemente reazionaria e bellicista di Reagan si è lievemente stemperata. E’ che le conseguenze dello scandalo dell’Irangate lo obbligano ad atteggiamento più cauto. Ma l’obbiettivo di riaffermare in modo netto la supremazia yankee e di impiegare ogni mezzo a tal fine rimangono inalterati.
  2. Lo Sdi costituisce una parte essenziale delle scelte reazionarie e belliciste realizzate dall’Amministrazione Reagan. Di esso sono sostenitori i settori più oltranzisti della Nuova Destra americana, quelli animati dall’isteria anticomunista e da un radicalismo ideologico che fa della riconquista del primato militare americano sull’Unione Sovietica un obbiettivo irrinunciabile.

Malgrado la retorica pacifista con cui il Presidente Reagan propose nel suo discorso iniziale lo Sdi, l’obbiettivo reale che l’imperialismo persegue attraverso la militarizzazione dello spazio è così riassumibile: rompere l’equilibrio strategico nucleare con l’Unione Sovietica, riconquistare il diritto del ‘primo colpo’ senza il pericolo di vedere il territorio americano sottoposto ad una rappresaglia devastante. Ecco la sostanza del fantascientifico progetto reaganiano: rendere la guerra termonucleare possibile, mettendo gli Usa in condizioni di scatenarla e vincerla ad un costo in termini economici ed umani accettabile. La realizzazione dell’ombrello spaziale, quindi, creerebbe una situazione di squilibrio sul piano internazionale gravida di pericoli per la pace, in cui le tentazioni belliciste dell’imperialismo americano troverebbero un terreno favorevole. Lo Sdi è una minaccia per la pace, è lo strumento centrale attraverso il quale l’imperialismo vuole riconquistare il primato politico-militare ristabilendo la sua supremazia sul mondo. Nell’attuale situazione, il progetto americano di guerre stellari rilancia la corsa agli armamenti, estendendola allo spazio. Ciò implica una straordinaria mobilitazione di risorse fisiche ed umane nel settore bellico, ed evidente appare il tentativo yankee di obbligare l’Unione Sovietica ad una folle ed inutile rincorsa nello spazio, sfiancandone l’economia, soggetta in questa fase ad un delicato processo di modernizzazione ed incapace di far fronte in modo adeguato alla sfida americana. Il rilancio della corsa agli armamenti è, in sé, un ulteriore fattore di instabilità per la pace mondiale.

 

Il complesso militare industriale alla base della politica aggressiva americana.
All’accrescimento delle spese militari sono interessate forze decisive dell’imperialismo americano, in particolare quel ristretto numero di grandi compagnie multinazionali che si spartiscono la maggior parte dei finanziamenti che attualmente il budget statale americano destina alla Difesa. Occorre tener presente che il mercato delle armi presenta un grado di stabilità della domanda e possibilità di profitto più elevate rispetto al settore civile, ed in tempo di crisi ed accentuata concorrenza sui mercati è di fondamentale importanza per i monopoli premere sull’apparato statale affinché accresca le dimensioni dei finanziamenti alla Difesa. I monopoli con interessi nel settore bellico sono di conseguenza, accesi sostenitori di una politica estera aggressiva, presupposto essenziale per un modello di sviluppo economico centrato in gran parte su un enorme settore bellico. Ai vertici delle multinazionali si affianca il Pentagono ed importanti settori della burocrazia statale americana, completando il quadro del cosiddetto militare-industriale alla base della svolta reazionaria che ha contraddistinto la politica americana dall’ascesa di Reagan ad oggi. Riguardo al Pentagono occorre rilevare che sebbene esso sia un partigiano tradizionale e naturale di una politica estera aggressiva, lo Sdi rappresenta per i militari americani qualcosa di più. Per la massa di risorse che esso mobilita, per il ruolo che attribuisce ad organismi scientificamente militari, per il tipo di controllo che assicura loro sul mondo accademico e la comunità scientifica, dato il peso che la ricerca tecnico-scientifica ha nella progettazione ed esecuzione dell’ombrello nucleare, con lo Sdi in Pentagono riacquista un peso nella società e nell’apparato statale americano perso e mai più riacquistato dopo la lezione del Vietnam.

E’ da sottolineare che la crescente influenza del complesso militare-industriale sulla formazione e la gestione del corso politico generale dei paesi occidentali e degli Usa in particolare, costituisce una delle cause principali della crescente tensione internazionale e della diretta minaccia alla pace nel mondo. E’ proprio a questo intreccio di interessi economici e di potere raccolti nel complesso militare-industriale che l’Amministrazione Reagan ha dato piena rappresentanza politica. La relativa perdita d’iniziativa politica seguita allo scandalo dell’Irangate non ha scalfito la determinazione spavalda con cui gli uomini di Reagan difendono lo Sdi. Nelle principali capitali europee arrivano inviati del Presidente americano con il compito di vincere eventuali resistenze o tentennamenti da parte degli alleati nel seguire gli Usa nella militarizzazione dello spazio. Il ‘principe nero’ Richard Pearle, il criminale della guerra del Vietnam Vernon Walters, il generale Abrahamson, responsabile di tutto il progetto Sdi, sono gli emissari più celebri, e danno un’idea di quali siano i settori della classe dirigente americana che hanno scommesso sullo Sdi. L’Amministrazione Reagan ha poi deciso di accelerare i tempi della ricerca, al fine di trasformare l’ombrello nucleare in un dato di fatto che alleati ed avversari devono accettare. Proprio questa irrinunciabilità dello Sdi da parte americana ha costituito per lungo tempo un ostacolo enorme alla realizzazione di accordi improntati a realismo e moderazione in tema di controllo degli armamenti. Inoltre in nome dello Sdi vogliono dare un’interpretazione estensiva del trattato ABM con un’autentica violazione dei principi del Diritto Internazionale, creando un clima di generale sfiducia e sospetto che renderebbe impossibile ogni politica di distensione internazionale. Insomma, lo Sdi è una minaccia immediata per la pace e la distensione. Qualsiasi accordo parziale sugli euromissili e le armi convenzionali avrebbe un effetto estremamente ridotto, anche se positivo, fino a quando gli americani concentreranno risorse per la costruzione di un ombrello nucleare che altera in modo profondo l’equilibrio strategico alla base di sistema di relazioni internazionali del dopo guerra.
La lotta per la pace e la distensione, la lotta ai rinnovati progetti di supremazia imperialista hanno punto irrinunciabile nella lotta allo Sdi. No al progetto americano di militarizzazione dello spazio.
Il neo-autoritarismo dei governi borghesi, i monopoli e la crisi della democrazia italiana.

Il protocollo d’intesa firmato a Washington il 26-9-1986 consente alle industrie italiane di partecipare alla fase di progettazione dello Sdi. In sostanza il governo, allora presieduto da Bettino Craxi, ha deciso l’adesione dell’Italia al progetto delle ‘guerre stellari’, assumendosi così una responsabilità politica gravissima. La decisione di aderire allo Sdi è stata presa senza che si svolgesse alcun dibattito parlamentare e gli esponenti del vecchio governo si sono sforzati di minimizzare la portata dell’accordo facendo calare il silenzio sulla questione. Insomma una decisione fondamentale riguardo al futuro del nostro paese è stata presa in modo rapido in circoli ristretti del potere, tenendone all’oscuro le grandi masse.

Da tutto il procedimento che ha condotto alla decisione di aderire allo Sdi emerge con forza quella filosofia di fondo che ha animato il metodo d’azione del passato governo Craxi: il neo-autoritarismo. Questo è un atteggiamento di insofferenza verso istituti e prassi consolidate della stessa democrazia borghese italiana che è sfociato un un’accelerazione ‘di fatto’ dei meccanismi decisionali. Nella struttura istituzionale il governo ha visto il suo peso specifico accrescersi in misura notevole, mentre il Parlamento è stato nettamente ridimensionato, ridotto a luogo di ratificazione di decisioni prese altrove o, addirittura, in luogo esibizione del presidente del Consiglio. La svolta reazionaria portata avanti dal Pentapartito ha pesantemente trasformato il sistema democratico borghese dandogli un volto autoritario, e preparando il terreno politico e culturale a modificazioni della struttura istituzionale in grado di approfondire la svolta reazionaria stessa, concedendo maggiore libertà di movimento alla classe dominante. Lo stesso meccanismo che ha condotto alla crisi del governo Craxi e che presiede alle consultazioni sulla formazione di un eventuale nuovo governo prova ulteriormente che i partiti al potere hanno un atteggiamento di insofferenza verso i procedimenti democratici tradizionali ed assumono modi di azione impregnati di autoritarismo. L’eredità principale del Pentapartito, che sarà senz’altro raccolta dal nuovo governo, è proprio questo incremento sostanziale del ‘tasso di autoritarismo’ che porta ristrette oligarchie a prendere decisioni fondamentali riguardo alla vita del nostro paese.

Non saremo certo noi a piangere sulla nuova piega che assume la democrazia borghese, ma le tentazioni autoritarie ormai evidenti nei gruppi dirigenti borghesi saranno da noi costantemente denunciate e combattute in modo durissimo. Conosciamo, inoltre quella retorica sull’occupazione dello Stato e della società civile da parte dei partiti che è la diagnosi sulla crisi della democrazia borghese che mette tutti d’accordo, dagli ultrareazionari ai riformisti. Noi, da marxisti-leninisti inguaribili, riteniamo che scelte politico istituzionali autoritarie siano il frutto della dura lotta combattutasi nei primi anni ’80, che ha visto il ridimensionamento delle forze del proletariato. E’ stata la grande borghesia a guidare il ‘fronte della reazione’, ristabilendo l’ordine nelle fabbriche, eliminando la resistenza operaia ed il potere sindacale che si basava su essa. I vertici dei grandi monopoli sono poi passati a premere sulla classe politica, spingendola a modernizzarsi e ad assumere atteggiamenti e scelte ‘all’altezza dei tempi’. L’insorgere degli uomini forti come Craxi, De Mita e Spadolini, l’emergere di un certo ‘cesarismo’ nell’ambito dei principali partiti borghesi, il ricorso a metodi di governo autoritari, l’insolito protagonismo in politica estera, sono altrettanti segnali di un autentico fiancheggiamento che la classe politica, pur con tutte le sue particolarità, ha realizzato nei confronti della grande borghesia finanziaria, prendendo decisioni che hanno contribuito a creare un quadro economico e sociale estremamente favorevole agli interessi dei grandi monopoli. Il neo-autoritarismo vuol dire anche e soprattutto una enorme capacità da parte dei monopoli di incidere sul corso politico generale del nostro paese. Gli indirizzi fondamentali di politica economica e sociale e di politica estera sono stati ritagliati sulla centralità degli interessi del monopolio, a danno delle aspirazioni e delle richieste della stragrande maggioranza della popolazione.
Industriali e militari paladini dell’adesione italiana allo Sdi

L’adesione allo Sdi era per la grande borghesia assolutamente irrinunciabile, non tanto per l’entità dei contratti attualmente stipulati, quanto per il timore di rimanere fuori dal grande giro delle commesse militari, la cui importanza in tempo di crisi diventa enorme. La massa di risorse destinate allo Sdi non farebbe che accrescere le dimensioni del settore bellico e proprio ora che l’aggressività finanziaria e la competitività industriale della grande borghesia italiana è lodata sulle riviste di tutto il mondo sarebbe stato un suicidio precludersi un mercato così vasto quale quello che la militarizzazione dello spazio apre. Di qui la necessità assoluta per la grande borghesia di superare qualsiasi tentazione attendista riguardo all’adesione italiana, premendo sulla classe politica perché decidesse in tutta fretta l’adesione italiana alla fase di progettazione. Il ‘protocollo d’intesa’ ha soddisfatto i monopoli, ed ha contemporaneamente dimostrato qual è il grado d’influenza di queste ristrette oligarchie al momento delle decisioni che contano. Il fronte dei favorevoli allo Sdi (…) settori di piccola e media imprenditoria impegnati nella produzione di beni tecnologicamente avanzati e suscettibili di impieghi militari. Quindi è possibile affermare che la parte decisiva del padronato ha spinto perché l’Italia aderisse allo Sdi.

A questo settore sociale si affiancano i vertici delle Forze Armate italiane, che dimostrano di avere un atteggiamento nettamente diverso rispetto ai propri predecessori. Finito il tempo del servilismo e delle umiliazioni di fronte alla classe politica, per contare di più nel mondo e, in primis nel Mediterraneo, l’Italia ha bisogno di un esercito solido ed efficiente. Generali e colonnelli educati alla scuola dell’ufficiale manager lo sanno e chiedono di più. Non solo più soldi per sé e per la modernizzazione dell’esercito, ma più considerazione che gli permetta di esprimere e far pesare il proprio punto di vista sulle questioni che li riguardano direttamente o indirettamente. L’attivismo italiano in politica estera ne ha accresciuto il peso specifico, e così dalle questioni strettamente attinenti l’esercito, i vertici militari estendono i loro consigli alle questioni di politica estera, rinforzando le tendenze scioviniste e reazionarie. Dietro alla decisione di aderire allo Sdi ci sono gli interessi di quelle oligarchie che sono state alla base della svolta reazionaria realizzata dal Pentapartito.
La politica estera italiana tra atlantismo e nuova vocazione imperialista nel mediterraneo

  1. L’intreccio di interessi delle ristrette oligarchie ha trovato piena rappresentanza nella classe politica borghese del nostro paese e nelle scelte di politica estera attuate dai governi che si sono succeduti in carica a partire dalla fine degli anni 70. L’attività italiana sullo scenario internazionale è stata caratterizzata da un crescente protagonismo, che ha esaltato il ruolo del nostro paese quale potenza regionale nel mediterraneo e che contrasta in modo stridente con l’abulia che ha contraddistinto la politica estera italiana nel trentennio precedente. Sulle forme di questo nuovo ruolo italiano esiste un consenso diffuso nei gruppi dirigenti borghesi riguardo agli aspetti centrali, ed un contrasto a volte aspro, su aspetti che pure hanno una loro importanza. Il consenso riguarda l’incrollabilità della fedeltà atlantica del nostro paese, la dimensione regionale della potenza italiana la cui ‘giurisdizione’ è limitata al mediterraneo ed al Medio Oriente, la necessità di creare tutte le strutture militari necessarie all’Italia per assolvere al suo nuovo ruolo. Quindi le tendenze di fondo della politica estera del nostro paese sono chiaramente tracciate e questa classe dirigente non le rimetterà certo in discussione: atlantismo, accrescimento delle spese militari e ‘gendarmeria’ del mediterraneo.
  2. Ai settori più reazioni e sciovinisti della borghesia italiana hanno dato voce politica il senatore Giovanni Spadolini e la sua cricca. E’ lui il fautore più acceso del ‘nuovo corso’ del ‘militarismo tricolore’ all’interno del Palazzo. Del resto il Pri di cui è segretario, è un partito tradizionalmente sensibile agli interessi della grande borghesia italiana, animato da un filo-americanismo esasperato. Nel passato governo, come ministro della difesa ha spinto per un cospicuo accrescimento delle spese militari e per un rilancio in grande stile del ruolo dell’esercito, con toni fortemente bellicisti. Il suo attivismo sul piano internazionale ha trasformato il Ministero della Difesa in un secondo Ministero degli Esteri, di cui ha portato avanti una linea di politica estera centrata sul ruolo imperialista dell’Italia sul mediterraneo e sul sostegno del nostro paese a tutte le iniziative militari e avventuriste dell’Amministrazione Reagan. E’ lui, quindi che incarna una politica estera marcatamente reazionaria, che ha reso il nostro paese disponibile ad avventure militari in nome della ‘crociata contro il terrorismo internazionale’, e che ha premuto per una politica medio-orientale filo-israeliana. La stessa battaglia per l’adesione allo Sdi è stata un’occasione in cui il senatore ha mostrato di voler dare una piega nettamente più reazionaria alla politica estera, più vicina almeno a quella dei circoli imperialisti che dello Sdi sono i ‘padrini’. Il senatore è ambizioso e ambiziose sono le forze politiche e sociali che su di lui fanno affidamento. Mettere Spadolini, i suoi uomini e la politica estera da lui patrocinata sul ‘banco degli accusati’ è un obbiettivo essenziale di ogni mobilitazione coerente contro il ‘bellicismo’ della classe dominante.
  3. Con il decaduto governo Craxi si è fatta spazio una linea politica estera che pur condividendo gli assunti comuni all’insieme dei gruppi dominanti, si distingue da quella esasperatamente filo-americana di Spadolini. E’ la linea della ‘autonomia mediterranea’ di Andreotti e soprattutto, del ‘sussulto Sigonella’ di Craxi. A questa linea di politica estera noi prestiamo grande attenzione e la combattiamo con determinazione per varie ragioni tutte estremamente rilevanti. In primo luogo perché è fonte di una pericolosa illusione che il Pci vorrebbe alimentare nelle masse italiane, ossia: sulla base dell’episodio di Sigonella si vuol far credere alle masse che esistono settori della classe dirigente borghese i quali, animati da una diversa concezione della sovranità nazionale potrebbero riconsiderare la collocazione internazionale del nostro paese e in particolare i rapporti con gli Usa, facendo dell’Italia la promotrice di una politica pace e distensione. E’ una maledetta illusione da sradicare con forza prima che consolidi le proprie radici. L’atlantismo dei craxiani e dei settori della Dc è incrollabile quanto quello di Spadolini, cementato da un anticomunismo gretto in cui Craxi e la Dc non prendono lezioni da nessuno, e da un profondo disprezzo per i popoli liberi. La seconda ragione della pericolosità di questa linea di politica estera, che si vuole più vicina agli interessi nazionali, è legata alla sua genesi, ai motivi del suo successo nei gruppi dirigenti borghesi del nostro paese ed agli obbiettivi reali che persegue. L’attivismo italiano nel mediterraneo deriva dalla convergenza di diversi fattori: l’Italia è un paese imperialista in ascesa le cui ambizioni si riflettono all’estero, il deteriorarsi della situazione internazionale per effetto dell’aggressività imperialista ha spinto tutti i paesi dell’alleanza atlantica su un diverso (…). La collocazione geografica a ridosso di una zona strategica altamente infiammabile come il Medio Oriente, ed altri motivi ancora hanno concorso a spingere verso un nuovo ruolo italiano. La linea di Craxi riflette le ambizioni di una borghesia rampante che all’interno del quadro di alleanze occidentali vuole giocare un ruolo di maggior rilievo, e pretende si tenga conto in misura maggiore dei suoi interessi e del suo prestigio soprattutto nell’elaborazione delle linee di intervento occidentale nel Mediterraneo. E’ di fondamentale importanza tenere presente la relazione tra atlantismo, che rimane il caposaldo della collocazione internazionale, e le rinnovate ambizioni nazionali che spingono a ricercare una qualificazione più autonoma dell’intervento italiano, pur nel rispetto dei vincoli imposti dall’alleanza atlantica. Il parere favorevole all’installazione degli Euro-missili, malgrado la massiccia mobilitazione popolare, l’adesione allo Sdi, mostrano che il nostro paese non ha nulla da guadagnare da una simile linea di politica estera. Dietro la sua retorica che riecheggia il tono ‘dell’interventismo democratico’ e riaccende i miti di un certo nazionalismo, spuntano le ambizioni di una borghesia alla ricerca di un ampio riconoscimento internazionale della sua nuova forza, e preme sulla classe politica affinché nella regione mediterranea faccia giocare all’Italia un ruolo politico-militare all’altezza delle sue possibilità attuali. Nessuna frazione dei gruppi dirigenti borghesi potrà fare del nostro paese un attivo fattore di pace nel mediterraneo e nel Medio Oriente. Le loro scelte ancorano il nostro paese al ‘fronte della reazione’ mondiale guidato dagli Usa, e fanno del nostro paese un gendarme imperialista. Sulla base delle nuove ambizioni della borghesia italiana si è innescata una pericolosa rincorsa nella classe politica a mostrare chi è in grado di interpretare nel miglior modo la novità del ‘protagonismo italiano’ nel Mediterraneo. Si è creato un clima politico e culturale che rende la classe politica disponibile ad impegni ed avventure di chiara marca bellicista e reazionaria.

Il Pci: crisi ed ambiguità del riformismo nazionale

Il Pci è stato incapace di opporsi in modo efficace alla svolta reazionaria voluta dalla grande borghesia e realizzata dal Pentapartito, e la questione dell’adesione italiana allo Sdi ha mostrato ancora una volta la totale inconsistenza dell’opposizione riformista. Il Pci ha rinunciato a fare dello Sdi l’oggetto di una massiccia mobilitazione di massa, limitandosi a protestare (…) di fronte al modo autoritario con cui la decisione è stata presa. La ragione fondamentale del suo atteggiamento rinunciatario sul piano della mobilitazione di massa è da ricercare nell’ambiguità di fondo della sua posizione riguardo alla collocazione internazionale ed alla politica estera del nostro paese. In particolare il Pci considera l’appartenenza alla Nato come rispettosa degli interessi nazionali. E allora come può opporsi in modo risoluto allo scudo stellare un partito che non fa dell’uscita dalla Nato da parte dell’Italia un punto irrinunciabile del suo programma? Com’è possibile combattere il nuovo corso militarista senza combattere i monopoli che ne sono i principali ispiratori? In realtà, l’immobilismo sostanziale del Pci e la sua incapacità di opporsi efficacemente alle tentazioni autoritarie e reazionarie del blocco dei partiti borghesi, è la forma italiana della più generale crisi del riformismo in occidente. Di fronte all’ondata reazionaria di Reagan, della Thatcher e degli altri leaders conservatori, tutto il riformismo, socialdemocratico e revisionista, è stato incapace di fare argine. Al neo-liberismo in politica economica ed all’aggressività in politica estera, le forze riformiste non hanno saputo opporre alcuna prospettiva alternativa, poiché una volta accettate le priorità della crisi, quindi riconosciuta la centralità degli interessi della grande borghesia le soluzioni sono in una certa misura obbligate. Analogamente in politica estera, accettando la partecipazione alla Nato e rinunciando alla lotta aperta alle forze del monopolio, il Pci si trova completamente disarmato di fronte alle scelte reazionarie delle varie coalizioni di governo. E con lui disarma le masse.
Il documento sulla sicurezza:bibbia delle illusioni inutili

Il Documento sulla sicurezza recentemente elaborato dalla direzione del Pci è un capolavoro di quell’ambiguità che rende il Pci un ‘pachiderma immobile’ e mostra il carattere illusorio delle ipotesi politiche su cui il Pci punta e vorrebbe e vorrebbe far puntare le masse. Stabilita la necessità di restare nella Nato per il nostro paese, il Pci sembra avere l’obbiettivo di ‘umanizzare’ questa alleanza reazionaria attraverso l’accrescimento ‘dell’autonomia europea’ rispetto agli Usa. E’ questa un’illusione tipica di un certo pacifismo includente: attribuire alle borghesie europee uno spirito di pace più alto di quello yankee. E’ la stessa illusione che spinge il Pci a sostenere quel residuo della ‘grandeur’ francese che è il progetto Eureka e l’ipotesi di uno scudo spaziale europeo. In realtà occorre considerare che le borghesie europee non sono ‘colonizzate’ ma hanno una convergenza di interessi economico-finanziari con gli usa tali da dare un fondamento strutturale all’alleanza politico-diplomatica e militare. L’esistenza dello stesso sistema sociale capitalista sulle due sponde dell’atlantico crea un vincolo che nessuna ventata pacifista può spezzare, senza prima mettere in discussione il dominio delle singole borghesie all’interno dei rispettivi paesi. Nella difesa dei sacri valori occidentali, a cominciare dalla proprietà privata, le borghesie europee sono impegnate con lo stesso accanimento di quella americana. Considerazioni umanitarie non peseranno sulla coscienza delle borghesie europee più della materialità dei loro interessi che le pone strategicamente al fianco del materialismo yankee. Portavoci autorevoli dei partiti borghesi hanno sbeffeggiato il Documento del Pci mettendo in luce tutta la sua inconsistenza proprio riguardo ai rapporti tra Italia ed Europa da un lato, e Stati Uniti dall’altro. Quali che siano le velleità di dare un carattere nazionale ed europeo alla difesa, la difesa del capitalismo in occidente, alla fin fine richiede la copertura nucleare americana. Il tono caramelloso del documento del Pci deve inchinarsi a questa realtà che nessun gioco di parole può nascondere. Del resto persino il Pci ne prende atto riconoscendo l’intangibilità della partecipazione italiana alla Nato. Le contraddizioni del Pci e i lori riflessi sui temi e l’intensità delle mobilitazioni di massa rappresentano un aspetto essenziale della situazione politica italiana. L’atteggiamento rinunciatario, compromissorio ed immobilista del Pci negli ultimi anni è il riflesso dell’assenza di un coerente disegno di rinnovamento profondo della realtà sociale e politica italiana. Malgrado ala sua storia il Pci non è più il gruppo dirigente della classe operaia, da lui la borghesia non teme più di essere scalzata dalla sua posizione dominante. Privato del riferimento di un più alto progetto di trasformazione della società italiana, l’opposizione del Pci alla svolta reazionaria diviene necessariamente frammentaria, piena di ambiguità e contraddizioni negli obiettivi, timorosa e rinunciataria nei confronti delle mobilitazioni di massa. Sulle questioni di politica estera ciò appare evidente. L’installazione dei missili a Comiso, il nuovo ruolo imperialista italiano nel mediterraneo, e l’adesione allo studio stellare sono tutte decisioni di una gravità enorme, contraria agli interessi della stragrande maggioranza della popolazione, volute da quelle ristrette oligarchie economiche e militari che detengono il potere reale nel nostro paese. A tutto ciò cos’ha opposto il Pci? Niente di efficace. In realtà, siamo in presenza di una autentica crisi di progettualità politica del riformismo, di una sua subordinazione alle tesi politiche e culturali della Nuova Destra.

Fondare il Pcc: gruppo dirigente della rivoluzione proletaria in Italia

L’incapacità del Pci di rappresentare in modo adeguato gli interessi della classe operaia e dei settori sociali colpiti dalla svolta reazionaria, crea un ‘vuoto politico’ che rende la classe operaia la ‘grande assente’ della sfera della politica nazionale. Solo il Pcc è in grado di riempire questo vuoto politico. La nostra Organizzazione lavora alla fondazione del Pcc; soggetto politico che solo può guidare quello schieramento di forze sociali, con al centro la classe operaia, in grado di operare una trasformazione profonda della società italiana, partendo dalla conquista rivoluzionaria del potere politico. Il Pcc si pone di fronte allo Stato e alla classe dominante quale forza politica rappresentativa di un’alternativa rivoluzionaria basata sulla conquista del potere politico, l’instaurazione della dittatura proletaria e la trasformazione socialista del nostro paese. Il Pcc deve rappresentare la capacità dirigente nazionale della classe operaia. Quindi, è portatore di un coerente disegno di trasformazione rivoluzionaria che si basa sulle questioni centrali della società italiana, e raccogliendo le aspirazioni delle grandi masse propone un’organizzazione della società italiana che permette di affrontare e risolvere squilibri e contraddizioni che il modello di sviluppo capitalista, ritagliato sugli interessi delle classi dominanti nel nostro paese, ha creato e approfondito. Le questioni dell’occupazione, della collocazione internazionale del nostro paese e della pace, la questione della democrazia, assumono nel contesto della lotta politica e sociale tra le classi un ruolo di ‘banco di prova’ di ogni opzione politica.

Le scelte di fondo dei gruppi dirigenti reazionari legati alla grande borghesia monopolista costringono il nostro paese ad un modello di sviluppo economico che penalizza le grandi masse e le stesse potenzialità dell’economia nazionale, ad una collocazione internazionale nel campo della reazione mondiale e ad un sistema politico che limita l’esercizio della democrazia da parte delle masse, attribuendo il privilegio delle scelte fondamentali a ristrette oligarchie economiche e politiche. Il Pcc fa leva sulle grandi questioni per promuovere l’unità di tutti gli interessi colpiti dalle scelte del capitale monopolista intorno alla classe operaia. Una soluzione ai problemi delle grandi masse ed alle contraddizioni di fondo del nostro paese può avvenire solo attraverso un cambiamento radicale dell’organizzazione sociale e politica italiana che abbia quale protagonista primo la classe operaia. Il Pcc ricerca le strade concrete perché ciò avvenga, date le condizioni economiche, sociali politiche e culturali che caratterizzano il nostro paese. Tutta l’attività della nostra organizzazione mira a dare vita a questa alternativa rivoluzionaria attraverso la fondazione della forza politica centrale: il Partito Comunista Combattente, dotandolo di una progettualità politica che gli permette di assolvere al ruolo di ‘gruppo dirigente’ della rivoluzione proletaria nel nostro paese.

Portare l’attacco al cuore dello Stato

La lotta armata costituisce per la nostra organizzazione il metodo di lotta fondamentale che contribuisce con tutto il suo peso al raggiungimento degli obiettivi politici da noi perseguiti. Con l’attività combattente la nostra Organizzazione acquista di ‘forza’ un posto nello schieramento politico nazionale, facendosi il portavoce della opposizione intransigente e risolutiva alle scelte politiche essenziali della classe dominante. La lotta armata, quindi, è assolutamente irrinunciabile per la nostra O., poiché ci permette di rompere lo stato di emarginazione politica, conquistando lo spazio necessario per rappresentare l’interesse generale della classe operaia di fronte alle altre classi ed allo Stato, nelle concrete battaglie politiche nazionali. Chi nel movimento rivoluzionario mette in discussione la necessità della lotta armata si prenota un posto in quel circo pittoresco ed inconcludente che è una certa sinistra extraparlamentare italiana. Ma noi non ci limitiamo alla semplice propaganda, abbiamo la ferma volontà di pesare sugli equilibri politici che si installano tra i vari partiti, e che presiedono alla formazione dei governi in carica, alla elaborazione dei programmi e dei metodi d’azione che li contraddistinguono. La sostanza dell’attacco al cuore dello Stato è per noi data dalla nostra decisione di premere sul quadro politico nazionale; e sui rapporti di forza che si instaurano tra le stesse forze politiche borghesi e quelle riformiste, colpendo certe forze e le linee politiche di cui esse sono portatrici, concentrando su esse e sulla loro politica il peso della nostra opposizione e dei settori sociali a cui diamo ‘voce politica’ nell’obiettivo di ridimensionarle e neutralizzarle. Vogliamo partecipare alla lotta politica nazionale, imponendo in modo duraturo l’esistenza di un soggetto politico rivoluzionario, nemico intransigente di governi e programmi reazionari, che metta in luce l’ambiguità di fondo e l’inettitudine del riformismo nazionale e dia voce e riferimento politico nazionale all’interesse dei settori sociali penalizzati dalle scelte reazionarie. L’attacco al cuore dello stato non è indirizzato verso astratti ed improbabili progetti di ristrutturazione, ma è la ‘punta’ della politica rivoluzionaria che mette l’attività combattente al servizio di precisi obiettivi politici, che creano un quadro più favorevole all’attività rivoluzionaria nelle concrete battaglie della lotta tra le classi nel nostro paese. Qualsiasi uso scriteriato della lotta armata, finisce col ‘depoliticizzarla’, impedendole di contribuire al raggiungimento di obiettivi politici favorevoli alle forze rivoluzionarie. La nostra O. ribadisce l’irrinunciabilità dello strumento della lotta armata e la necessità di portare l’attacco al cuore dello Stato favorendo il ridimensionamento e la disgregazione di quelle forze politiche reazionarie la cui alleanza è stata alla base dei governi del Pentapartito e della conseguente svolta reazionaria. Nelle attuali condizioni la nostra iniziativa politico militare mira ad impedire, ritardare, rendere più difficile il coagulo dei partiti borghesi intorno ad accordi e programmi che approfondiscano la svolta reazionaria, in particolare con alterazioni della struttura istituzionale tali da liberare le mani in misura ancora maggiore ai gruppi dirigenti reazionari che tengono in pugno lo Stato italiano.

La nostra posizione

I comunisti combattenti sono assolutamente contrari alla militarizzazione dello spazio e all’adesione italiana allo Sdi. La decisione italiana di estendere gli armamenti allo spazio è una minaccia immediata per la pace e la distensione nel mondo. L’avventurismo dell’amministrazione Regan ed il suo obiettivo di riconquista del primato politico militare devono trovare un’opposizione decisa in ogni angolo del mondo. I comunisti combattenti sono parte di quello schieramento di forze che su scala mondiale si oppongono al riarmo ed alle tentazioni belliciste dell’imperialismo americano. L’imperialismo genera la guerra, è la verità che noi comunisti combattenti ben conosciamo, ed in presenza di un conflitto in cui la borghesia trascini il nostro paese non esiteremmo a combattere sulla parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Ma nelle attuali condizioni che fanno da sfondo alla lotta di classe sul piano interno ed internazionale, non abbiamo intenzione alcuna di limitarci alla ‘educazione ideologica’ delle masse, la lotta alle minacce imperialiste alla pace ed alla pretesa imperialista di supremazia ci vede in prima fila. Lo Sdi è la strada concreta scelta dall’imperialismo per ristabilire il suo primato: questa è la ragione prima per combatterlo. Le forze militariste ricercano costantemente un sostegno di massa alle loro tesi attraverso una violenta pressione ideologica, realizzata in modo principale dai grandi mezzi di comunicazione di massa. Così i sostenitori dell’adesione italiana allo Sdi ed in genere al riarmo, ricercano un appoggio popolare con la divulgazione di tesi propagandistiche che mirano a mostrare il riarmo come fattore positivo per gli interessi delle masse. Due sono le tesi che hanno maggior corso e che devono esser duramente combattute:

    1. La prima argomentazione fa delle spese militari il motore dello sviluppo tecnico scientifico con conseguenti vantaggi in ogni settore. È una tesi falsa e da respingere. La rivoluzione tecnico scientifica apre grandi possibilità per un impegno razionale delle risorse naturali a vantaggio della maggioranza dell’umanità. Piegarla alla logica del profitto la rende appendice dello sviluppo del settore bellico, provocando guasti che riguardano non solo l’impiego delle innovazioni tecnico scientifiche, ma la logica stessa che presiede a tale sviluppo. Aver fatto della scienza il luogo di creazione di armi distruttive è l’esempio più immediato della relazione tra la logica del profitto e rivoluzione tecnico scientifica.
    2. La seconda argomentazione si dimostra estremamente pericolosa poiché fondata sul ricatto dell’occupazione. Il settore degli armamenti ha un peso crescente nella struttura occupazionale e l’adesione italiana allo Sdi, con gli investimenti che implica, accrescerà in misura notevole questo tale peso. Rifiutare questo ricatto vuol dire proporre un modello di sviluppo economico ‘diverso’ da quello concentrato sui monopoli e sulla massimizzazione del profitto. Occorre dare come riferimento concreto un’organizzazione economica e sociale in cui lo sviluppo del settore bellico non sia più una necessità irrinunciabile. Un generico moralismo anti-militarista, per quanto lodevole, non offre un’alternativa solida a quella parte del mondo del lavoro che è sottoposta al ricatto dell’occupazione nel settore bellico. La lotta al militarismo deve ancorarsi ad un coerente disegno di rinnovamento della società, che contrasti i monopoli e le forze reazionarie.

I comunisti combattenti e la collocazione internazionale del nostro paese

L’adesione italiana allo Sdi pone una questione di carattere nazionale. Al momento decisivo, la borghesia e i suoi gruppi dirigenti, hanno dimostrato di non potersi sottrarre ai loro ‘doveri imperialisti’. E noi aggiungiamo che era nel pieno interesse della classe dominante del nostro paese la scelta di allinearsi. I compiti che l’alleanza atlantica attribuisce ai vari membri sono un vincolo ineludibile, quali che siano le singole tentazioni autonomistiche. È evidente che gli interessi delle oligarchie ai vertici della società italiana, condannano il nostro paese nel campo della reazione mondiale costringendolo ad allinearsi alle scelte strategiche dell’imperialismo americano. E sono gli interessi e le scelte delle classi dirigenti del dopoguerra a portare la responsabilità storica della collocazione internazionale del nostro paese, quindi di tutte le conseguenze di ciò nella situazione attuale a cominciare dal sostegno, più o meno deciso, alla politica avventurista di Regan. Lo status di paese imperialista in ascesa che si riflette nella richiesta di una più forte identità nell’alleanza, non risparmia l’Italia del ruolo di paese subordinato riguardo alle scelte fondamentali. È per questo che la lotta alla grande borghesia ed alle sue ambizioni imperialiste ha un punto irrinunciabile nella rimessa in discussione dell’attuale collocazione internazionale del nostro paese. L’uscita dalla Nato è il presupposto ineludibile per un ruolo autenticamente autonomo dell’Italia sul palcoscenico internazionale, che faccia del nostro paese un fattore attivo di promozione della pace nel mediterraneo e nel medio oriente. I comunisti combattenti sono alla testa di tutte le forze che lottano per un diverso ruolo del nostro paese, basato su rapporti di cooperazione e reciproco vantaggio con tutti i paesi liberi dal giogo imperialista, a cominciare da quelli che si affacciano nel bacino del mediterraneo. Fuori l’Italia dalla Nato. Via le basi yankee dal nostro paese. Contro la politica di gendarmeria nel mediterraneo per un’autentica politica di pace e cooperazione.

Le nostre proposte

La nostra O. lavora alla costruzione di un’ampia e massiccia opposizione alla adesione italiana allo scudo stellare. Occorre fare della lotta allo Sdi l’oggetto di una mobilitazione di massa in cui confluiscano l’insieme dei settori sociali colpiti e penalizzati. Sono le tentazioni imperialiste e belliciste della borghesia italiana a dover trovare nella lotta delle masse una barriera insormontabile. In tale lavoro di massa siamo scevri da pregiudiziali ideologiche di qualsiasi genere. La posta in gioco è altissima. Attraverso l’adesione allo Sdi la grande borghesia pone una seria ipoteca sul futuro economico e politico del nostro paese e impedirlo con ogni mezzo è un obiettivo politico essenziale. L’unità di tutti coloro che non si riconoscono in una politica estera sciovinista e filo-americana è una precondizione importante del successo della opposizione. Ci rivolgiamo alla grande massa dei lavoratori che pagano il prezzo economico e politico delle scelte belliciste e della più generale svolta reazionaria. Agli intellettuali ed ai ricercatori scientifici onesti, i quali non possono non vedere quali effetti deleteri abbia la subordinazione della ricerca scientifica a progetti militari avventuristi. Con lo Sdi ciò raggiunge livelli altissimi. La ricerca scientifica viene vincolata a finanziamenti dell’amministrazione militare, con le inevitabili conseguenze riguardo alle finalità della ricerca scientifica stessa. Vengono introdotti i ‘vincoli di segretezza’ per ragioni di sicurezza che impediscono la libera circolazione dell’informazione sulle ricerche scientifiche. Insomma, ogni ricercatore onesto può rilevare che la borghesia vuole ridurre la comunità scientifica ad un insieme di cherubini al servizio di politiche reazionarie e a avventuriste. Una comunità di Edward Teller. Voci autorevoli della comunità scientifica internazionale hanno già detto no a questo progetto, ed anche da noi timide voci si sono sollevate. Occorre dargli un eco all’interno di un fronte di massa più ampio. Così per tutti coloro i quali non accettano di vedere il nostro paese ancorato al fronte mondiale della reazione, in seguito alle scelte della classe dominante. Se non si vuole condividere la responsabilità della militarizzazione dello spazio e del sostegno alle rinnovate ambizioni di supremazia da parte dell’imperialismo americano, occorre combattere decisamente le scelte di politica estera dei gruppi dominanti del nostro paese. Alla convergenza di diversi settori contrari alla svolta in politica estera occorre si accompagni l’incisività dell’opposizione. In questo senso i comunisti mettono avanti obiettivi politici generali che saldino il fronte di massa antigovernativo. L’opposizione al ruolo dell’Italia nella Nato ed all’intero corso militarista e sciovinista della politica estera italiana devono diventare un nuovo spartiacque tra i nemici sinceri delle tentazioni belliciste della borghesia italiana e coloro che tentennano o vi si accodano. Costruiamo una nuova unità dal basso su questi temi, favorendone la base per premere sul quadro politico nazionale. Mettere i partiti politici che hanno avuto responsabilità di governo e che hanno realizzato la svolta reazionaria sul banco degli imputati. La lotta alle alleanze dei cinque partiti borghesi deve divenire una costante dei temi politici delle mobilitazioni di massa. Occorre poi costringere il Pci a prendere posizione facendolo uscire da quella situazione in cui può dire tutto e il contrario di tutto, senza far nulla di concreto per opporsi alla politica reazionaria. La pressione di una nuova unità dal basso contro la svolta reazionaria permetterà di far esplodere l’ambiguità di fondo della posizione dei vertici delle Botteghe Oscure riguardo alla collocazione internazionale del nostro paese. La scissione tra classe politica e società civile è l’altra faccia del distacco tra gli interessi della maggioranza della popolazione. Ma il disinteresse delle masse per i ‘giochetti di potere’ della classe borghese deve trasformarsi in una opposizione attiva, in una pressione dal basso che faccia muro sulle questioni centrali di politica estera e di politica economica, impedendo alle forze borghesi di ricercare con tranquillità un equilibrio al loro interno, che gli permetta di rafforzare il proprio potere impegnando il nostro paese in pericolose avventure. Noi vogliamo rappresentare la forza politico nazionale a tutti quei settori sociali, a cominciare dalla classe operaia, che devono opporsi alle ambizioni imperialiste della borghesia italiana.

No all’adesione italiana allo Sdi. No alla politica di gendarmeria nel mediterraneo. Fuori l’Italia dalla Nato. Costruiamo l’unità dal basso intorno alla classe operaia di tutte le forze contrarie al neo-autoritarismo dei governi borghesi.

UNIONE DEI COMUNISTI COMBATTENTI

Roma 20-3-87

 

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996 pp. 559-572

Autointervista

  1. Un’organizzazione comunista combattente che nasce a quindici anni di distanza da quando, nel 1970, le Brigate Rosse iniziarono la lotta armata in Italia: volete spiegare sinteticamente i motivi che vi hanno indotto a fondare l’Unione dei Comunisti Combattenti?

Come tutti sanno dall’inizio degli anni ’80 la lotta armata ha conosciuto in Italia non poche difficoltà. Specialmente dal 1982 le circostanze si sono fatte innegabilmente critiche; ai molti arresti si sono assommate le dissociazioni ed i cosiddetti “pentimenti”; anche esperienze politiche del tutto negative,come quella del Partito Guerriglia, hanno contribuito a deteriorare la situazione. Insomma, si è delineata sempre più chiaramente la realtà della crisi politica del movimento rivoluzionario. Ad un brusco ridimensionamento della forza politica ed organizzativa della lotta armata ha corrisposto, ad un dato momento, una diffusa consapevolezza dell’insostenibilità delle tesi politiche difese fino a quella data dalle organizzazioni rivoluzionarie. In questo contesto si è resa necessaria per evidenti motivi una riflessione complessiva sul significato, sui limiti e sui meriti dell’attività svolta negli anni trascorsi.

Orbene, per un verso noi riteniamo che questa crisi sia, per cosi dire, una crisi di “crescita” della rivoluzione italiana, una crisi che non mette assolutamente in discussione la lotta armata come scelta fondamentale da compiere per i rivoluzionari oggigiorno; per l’altro, tuttavia, siamo persuasi che per rilanciare veramente questa lotta, per mettere a frutto il cospicuo patrimonio di esperienze accumulate nel corso di questi anni, sia necessaria una visione organica e solida dei compiti dell’avanguardia comunista nella nostra rivoluzione, una visione che superi definitivamente le deficienze dell’impostazione politica passata. In sostanza, noi pensiamo che l’esigenza prioritaria sia oggi quella di una lotta d’avanguardia, di una lotta armata, fondata veramente sul socialismo scientifico. E questo, in breve, è il motivo che ci ha condotto a costituirci in Unione dei Comunisti Combattenti.

 

  1. Molti però, e non si tratta sempre di “dissociati” ritengono definitivamente chiusa l’esperienza della lotta armata, molti considerano impraticabile questo terreno di lotta stanti gli errori commessi e le attuali condizioni generali presenti nel nostro paese. Cosa dite a questo riguardo?

Conosciamo queste posizioni, naturalmente, non siamo affatto d’accordo. Ciò nondimeno non ci stupiamo della loro esistenza: si tratta di tendenze che riflettono in modo del tutto speculare lo stato di disorientamento e l’assenza di prospettive pesanti oggigiorno in svariati ambienti che si dicono rivoluzionari: la lotta armata viene rifiutata più per il timore d’incorrere nuovamente nelle difficoltà del passato, che per effettivi motivi politici. A ben guardare, infatti, queste posizioni si basano su una equazione stabilita in modo affrettato nonché arbitrario: gli errori passati, si sostiene, sarebbero connaturali alla scelta stessa della lotta armata, l’opzione del combattimento condurrebbe, cioè, necessariamente ad un’azione politica velleitaria e controproducente. Sono punti di vista palesemente deboli, palesemente opportunisti. Non soltanto è assente da tali considerazioni ogni elemento di propensione dialettica nei confronti della storia che viene vista come successione di fasi tra loro giustapposte, incomunicanti ed autoescludentesi reciprocamente; ma molto più significativamente, si tace sul fatto che nessuna rivoluzione è mai progredita veramente se non attraverso esperienze difficili, esperienze costellate talvolta anche da errori. Eppoi, a nostro parere, il bilancio dell’ultimo quindicennio di lotta è largamente positivo; pur tra mille ostacoli un dato fondamentale è comunque emerso: la lotta armata costituisce il metodo decisivo della lotta comunista contemporanea, mediante essa è possibile rappresentare gli interessi generali del proletariato di fronte allo Stato e realizzare una chiara indicazione politica, un’ indicazione rivoluzionaria, nei confronti delle più vaste masse. Ci sembra che, in rapporto a ciò, gli errori innegabilmente commessi dai comunisti nel corso degli ultimi anni si presentino tutto sommato come un dato inevitabile, a suo modo necessario, per un’esperienza politica giovane ed anche originale come quella della lotta armata nei nostri paesi.

Vogliamo poi aggiungere che, nel campo di quanti titubano verso la lotta armata, va operata attualmente una distinzione; un conto sono le perplessità esistenti nei settori più giovani e inesperti del movimento di massa, un altro conto sono le ben precise posizioni politiche sostenute da altrettanto precisi gruppi politici, da sempre contrari all’azione combattente. Se i primi sicuramente si convinceranno col tempo e con l’esperienza della giustezza della lotta armata e vedranno i loro migliori elementi organizzarsi nei ranghi comunisti combattenti; sui secondi ha già indubbiamente giudicato la storia. Sull’autonomia operaia organizzata, sui vari gruppi cosiddetti “emmelle” si confermano una volta di più valutazioni già consolidate tra i rivoluzionari: trasformati dalla storia in piccole corporazioni, in sette assolutamente incapaci di un’azione realmente politica, essi si ostinano a condurre, nel movimento una campagna di demoralizzazione e d’inquinamento.

A sentir costoro, gli anni ’70 avrebbero confermato la giustezza del loro “nullismo”, del loro codismo, della loro estraneità (questa sì “strutturale”) alla vicenda italiana! Nei loro confronti noi non possiamo che ribadire il netto giudizio negativo espresso dalle BR già nel primissimo periodo della loro attività: la scelta della lotta armata divide i rivoluzionari dagli opportunisti; questi gruppetti, arroccandosi su posizioni dogmatiche ed opportuniste, non rappresentano l’interesse storico del movimento proletario: pertanto sono e saranno sorpassati dallo sviluppo inevitabile degli eventi.

 

  1. Potete chiarire meglio cosa intendete quando parlate della lotta armata come metodo decisivo dell’azione di partito?

È importante far precedere, per discutere il problema, la considerazione di almeno due fondamentali caratteristiche attualmente presenti nelle società capitalistiche avanzate. La prima è sicuramente costituita dal fenomeno del revisionismo moderno, quello dei partiti comunisti provenienti dal Komitern. In breve, a questo proposito ci sembra che la parabola compiuta dai partiti citati abbia inequivocabilmente provato che, nelle attuali condizioni storiche la presenza nei parlamenti, l’accettazione dei vincoli istituzionali propri della società borghese, conducono in modo ineluttabile a recedere dalla lotta per la dittatura del proletariato.

D’altra parte, ed è la seconda caratteristica che volevamo rilevare, questo significativo fatto, ha evidenti ed intimi legami con un processo ben più generale, ben più complicato, consistente in definitiva nel massimo sviluppo e consolidamento, avvenuto, ormai da tempo nei nostri paesi, del contenuto reazionario della democrazia borghese. E’ un processo difficile da schematizzare e che non si presta a facili o ideologizzanti generalizzazioni, ciò nondimeno esiste e vive evolvendo in forma via via più precisa. E’ cosa innegabile, per esempio, che il centro di gravità della vita politica si è spostato nei nostri paesi in modo definitivo oltre i confini del parlamento, nelle lotte e negli accordi tra le oligarchie dei partiti e nei mille vincoli e sollecitazioni che provengono dagli esponenti del grande capitale monopolistico e finanziario. Risulta incontestabile che non è più nell’assemblea elettiva che le singole volontà particolari – riflesso dei diversi interessi di classe – si mediano nella cosiddetta “volontà generale” rappresentata dall’esecutivo, dal governo borghese. E’ facile arguire allora che il parlamento viene sempre più relegato alla funzione meramente reazionaria di vincolo alla legalità ed agli istituti borghesi, di ratifica dell’impossibilità di superare gli angusti limiti della produzione capitalistica. Per un verso questo fatto rende ragione della bancarotta del pacifismo parlamentare del PCI, conferma dell’ inutilizzabilità del parlamento in quanto terreno di possibile svolgimento di una lotta comunista; per l’altro tutto ciò getta nuova luce sull’esigenza – venuta a creare in un determinato momento storico – di metodi di lotta atti ad affermare il socialismo nei nostri paesi e nelle attuali condizioni.

Ed è proprio in questo contesto che si spiega la nostra scelta della lotta armata come metodo decisivo dell’azione di partito.

La lotta per la dittatura del proletariato, in ogni tempo ed in qualsiasi luogo, non può che fondarsi sull’avanguardia politicamente riconosciuta, sull’attività di un’avanguardia capace di lottare per il potere statale e di influire nondimeno sull’andamento politico dei rapporti tra le classi. E ai nostri giorni, nel momento in cui il revisionismo si è trasformato in un’appendice vischiosa della vita politica borghese, quest’attività non può che essere fondata sulla scelta della lotta armata, sulla scelta di contrapporsi a tutti i partiti borghesi e principalmente allo Stato attraverso il combattimento.

Siamo fermamente convinti che solo cosi la classe operaia possa recuperare la sua indipendenza politica, che solo in questa maniera si possano rappresentare in ogni circostanza ed in ogni svolta del conflitto tra le classi gli interessi generali e storici del proletariato di fronte a tutta la società.

Tra l’altro, un dato indicativo a sostegno delle nostre tesi ci sembra proprio quello dell’inconsistenza politica ripetutamente dimostrata dall’opzione “extra-parlamentare”. La storia ha infatti confermato che tutti i gruppi i quali, rifiutata correttamente l’azione parlamentare, non si sono posti il problema della lotta armata, sono rimasti in realtà delle sette impotenti oppure sono stati riassorbiti dai partiti della sinistra borghese. Le BR, al contrario, attraverso la lotta armata sistematicamente condotta giunsero in breve tempo a rappresentare l’unica valida alternativa al sistema politico borghese, non solo di fronte al movimento rivoluzionario ma anche nella coscienza istintiva delle più vaste masse proletarie.

Intendiamoci però bene: dire che la lotta armata costituisce un metodo decisivo dell’azione di partito non significa certo esaurire i compiti d’avanguardia nella sola azione militare. Per quanto essenziale ed in grado di orientare le masse verso il compito della dittatura, senza una visione adeguata alla reale dinamica della lotta di classe nei nostri paesi, senza una linea di massa capace di una direttiva comunista su tutte le grandi questioni politiche al centro della vita del paese, senza una presenza costante nella battaglia che si sviluppa anche sul fronte teorico, la lotta armata rimane un po’ come la testa staccata dal corpo.

Gli anni che ci sono alle spalle ci hanno certamente consegnato questa inestimabile indicazione pratica, la lotta armata come arma della politica rivoluzionaria, ora è bensì necessario perfezionare l’insegnamento, è necessario inserirlo in un concetto di azione rivoluzionaria realmente comunista, realmente marxista.

 

  1. Avete ripetutamente citato le BR: che genere di rapporti intercorrono tra l’Unione dei Comunisti Combattenti e questa organizzazione?

Molti dei nostri militanti sono stati membri delle BR e quasi tutti hanno partecipato alla lotta armata degli anni trascorsi sotto la loro direzione. La stessa costituzione dell’ “Unione” si è resa possibile per mezzo dell’iniziativa e dell’impulso politico impresso da alcuni ex militanti delle BR, fuoriusciti da questa organizzazione in seguito alla loro battaglia per l’adozione delle tesi politiche enunciate della cosiddetta “seconda” posizione. Sicché, va almeno preliminarmente distinto il nostro rapporto con la tradizione delle BR dalle nostre relazioni con le BR attuali, quelle, per così dire, della “prima” posizione.

Si deve infatti subito dire che il nostro rapporto con la tradizione delle BR è estremamente forte ed intenso. Semplicemente, noi giudichiamo l’opera svolta storicamente da questa organizzazione né più né meno alla stessa stregua dei compagni che attualmente militano nelle BR: si tratta di un’opera giusta, di un’azione necessaria ed indispensabile sul piano storico nonché di inestimabile e duraturo significato politico. Forse alcuni potrebbero pensare che essere d’accordo con la «seconda» posizione significhi bene o male rifiutare quanto fatto negli anni passati, «criticare» il lavoro svolto dalle BR. Niente di più sbagliato, niente di più opportunista. Chiunque può constatare che le BR, nella Italia degli anni ’70, concretizzarono in massima misura la storica aspirazione all’indipendenza politica propria del proletariato rivoluzionario; è facile osservare come, in teoria ed in pratica, si riferirono ai cardini, ai principi del marxismo leninismo. L’idea del partito, della lotta politica al governo ed allo stato, della centralità operaia, dell’importanza della centralizzazione e della disciplina nel conflitto di classe, sono tutte cose che nel nostro paese furono riaffermate, come ognuno sa, proprio dalle BR. Ancora loro, nel corso di significative battaglie politiche, difesero la giusta linea da deviazioni movimentistiche ed estremiste, non di rado particolarmente pericolose ed ambigue come quella rappresentata dal tristo «Partito Guerriglia». Infine, la sostanza della formula politico organizzativa atta a condurre la lotta per la dittatura del proletariato nelle attuali condizioni storiche, l’idea del Partito Comunista Combattente che fa politica con le armi, si delineò per merito dell’azione svolta dalle BR. È possibile, diciamo noi, aspirare a dirigere il proletariato verso il socialismo prescindendo da questi fatti incontestabili? Si può far politica oggi senza un preciso riferimento all’organizzazione che fu in grado di organizzare la campagna di primavera nel 1978, che fu in grado di assestare il più duro colpo politico all’insieme della classe dominante italiana dal secondo dopoguerra in poi? L’ «Unione», se cosi si può dire, proviene, «scaturisce» dalle BR ed è senz’altro orgogliosa di questo rapporto di diretta continuità con la maggiore organizzazione comunista italiana degli ultimi anni; nostro dichiarato obbiettivo è proprio quello di valorizzare compiutamente gli insegnamenti politici che derivano dalla lunga lotta e dalla tradizione di militanza delle BR.

 

  1. E per quanto concerne le attuali BR?

Ecco, noi crediamo che il punto consista proprio nel come si intenda la questione della valorizzazione dell’esperienza passata.

Ad un dato momento, nelle BR, si sono evidenziate due posizioni differenti sotto questo rispetto: da un lato è emersa una decisa riluttanza a mettere in discussione la validità di certe tesi di fondo (la «strategia» della lotta armata, la «guerra di lunga durata», il ruolo «guerrigliero del partito nella rivoluzione proletaria», ecc..) sorte insieme alla lotta armata, dall’altro si è configurata distintamente l’esigenza di una svolta politica sostanziale, di una vera e propria rifondazione teorica dei presupposti generali posti alla base dell’azione politico militare del nostro paese. Com’è noto, il contrasto è sfociato in una divisione organizzativa: le BR restano così oggi un gruppo che sostiene, per altro con argomenti piuttosto deboli ed inefficaci, la validità di alcuni schemi politici invero logori, assolutamente inadatti a rilanciare il combattimento nelle attuali condizioni. Noi, per parte nostra, non possiamo che trarre le conseguenze dell’accaduto: la nostra battaglia per un concetto marxista di politica rivoluzionaria, per un PCC fermo nei principi e deciso nella politica, realmente in grado di guidare le masse proletarie italiane alla presa del potere, continua altrove, nell’Unione dei Comunisti Combattenti, e non certo con minore determinazione.

 

  1. Cosa intendete quando parlate di rifondazione teorica dei presupposti generali della lotta armata?

Intendiamo una concezione dell’attività politica contemporanea che si basi, sommariamente, sui seguenti assunti di fondo:

  1. a) il partito comunista dei giorni nostri deve essere un partito combattente: tutta l’esperienza storica degli ultimi anni sta a dimostrare che solo attraverso l’azione dell’avanguardia armata il proletariato può riaccedere all’indipendenza politica, affermando al contempo la sua vocazione storica alla conquista del potere statale.
  2. b) il partito comunista combattente, per quanto impegnato nella lotta armata contro lo stato, anche in condizioni non rivoluzionarie, per quanto incontestabilmente «originale» rispetto ai PC del passato, differisce da questi ultimi solo in relazione alla forma che il suo modo di operare prende storicamente: il suo ruolo è e rimane quindi un ruolo politico, un ruolo caratterizzato dal compito di rappresentare gli interessi generali e storici della classe operaia in ogni circostanza del conflitto di classe, nonché di guidare le masse appoggiandosi sulla loro esperienza, tenendo conto della situazione nazionale ed internazionale, non perdendo occasione per affrettare la crisi politica delle classi dominanti – all’abbattimento violento dello stato borghese ed all’instaurazione della dittatura del proletariato.
  3. c) nella sua azione politica, nella sua costante opera di opposizione armata al governo della classe capitalistica, il PCC non può prescindere dal fatto che la nostra rivoluzione, che ha luogo in un paese imperialista, attraversa necessariamente una lunga fase nella quale i rapporti generali tra le classi si svolgono in forma essenzialmente «pacifica», essenzialmente mediata dalla realtà operante negli istituti politici borghesi. Questa fase, per quanto lunga e complicata si presenti, genererà ineluttabilmente, come sua «continuazione», la guerra civile tra proletariato e borghesia: proprio qui diverrà attuale e passerà all’ordine del giorno la parola d’ordine dell’insurrezione armata contro lo stato borghese.

In sintesi, noi consideriamo necessario un PCC realmente capace di far politica con le armi: un partito cioè che avendo presente la reale dinamica ed il reale contesto nei quali si sviluppa il conflitto di classe nel nostro paese, sappia nondimeno esercitare un’effettiva influenza nell’andamento politico del rapporto tra proletariato e borghesia ed una guida energica sul movimento di massa.

Giova allora notare come queste pur scheletriche notazioni implichino rilevanti conseguenze almeno in un duplice senso: per un verso esse conducono ad un’aperta, ragionevole ed inevitabile critica degli ormai logori schemi della «guerra di lunga durata» e della «strategia della lotta armata», costituendone anzi un superamento in positivo. Per l’altro, rimandano all’esigenza di una «resa dei conti» ben più vasta, ben più profonda, con l’intero arco delle suggestioni non materialistiche provenienti dal variegato arcipelago teorico del marxismo «occidentale» e, per meglio dire, del marxismo sedicente «critico»; suggestioni che hanno influenzato più di quanto si voglia generalmente ammettere la «vena» soggettivistica delle stesse BR, e che continuano tutt’oggi ad ipotecare negativamente lo sviluppo di un’azione coscientemente comunista.

In ogni caso, resta fermo che la nostra è una battaglia per la fondazione del PCC: è ognor più chiaro che la dimensione del partito, ad oltre quindici anni di distanza dall’inizio della lotta armata, si palesa nitidamente come l’esigenza prioritaria per tutto il movimento rivoluzionario. Ed un PCC che credesse di poter prescindere da quanto sommariamente accennato poco fa, incontrerebbe sicuramente serie difficoltà nell’adempimento dei suoi già complessi doveri politici. Noi riteniamo che si debba iniziare un confronto serio e serrato su questi temi tra tutte le forze e le correnti che riconoscono nella lotta armata il carattere distintivo ed obbligatorio dell’azione comunista contemporanea; l’«Unione», pur basandosi sulle proprie precise posizioni, pur conducendo un’intransigente battaglia per l’adozione di un punto di vista coerentemente marxista, opera nel senso dell’unità dei comunisti in un unico partito combattente in uno spirito alieno da qualsiasi settarismo o interesse di campanile, tenendo presenti sempre e soltanto gli interessi complessivi del movimento.

 

  1. Una delle questioni più scottanti nell’attuale momento sembra essere quella del rapporto tra l’avanguardia combattente e le masse; si sostiene in effetti da più parti che proprio questo sarebbe il punto ove le BR dimostrarono nel passato i maggiori limiti. Potete chiarire la vostra posizione a questo riguardo?

Non nascondiamo di nutrire una certa diffidenza nei confronti di quanti, con tragica insistenza, intonano il ritornello del «ci siamo staccati dalle masse», credendo così di fornire una risposta a problemi che, invero, si pongono in forma estremamente più complessa. Non di rado, infatti, dietro simili affermazioni si celano, nemmeno troppo nascoste, precise tendenze il cui contrassegno consiste proprio nel voler l’avanguardia al medesimo livello di coscienza e di organizzazione delle masse, nel voler annullare la funzione specifica dei comunisti, in altri termini: nel rifiuto della lotta armata. No, questo modo di ragionare ci vede profondamente distanti almeno per due motivi: in primo luogo, in questo caso il problema del «rapporto con le masse» viene chiaramente trattato in termini capziosi e strumentali, con l’unico e deliberato fine di azzerare quindici anni di politica rivoluzionaria, di lotta armata, nel nostro paese. Si vuole qui furbescamente dimenticare che ogni partito riconosciuto come tale deve essere, in un certo senso «staccato» dalle masse, capace cioè di condurre la sua lotta in indipendenza dal sostegno mutevole del movimento di massa e dalle più svariate sollecitazioni che provengono dal corso, sovente estremamente fluido, degli eventi immediati e contingenti.

Ci si scorda volontariamente che spesso la storia ha richiesto ai comunisti di andare controcorrente e di assumere posizioni che li isolavano dai sentimenti prevalenti nella classe operaia. Che partito sarebbe quello disposto a mutare i propri orientamenti di fondo alla prima soffiata di vento contraria? E quanto dimostrerebbe di valere la lotta armata se alla prima vera prova del nove, laddove la storia concede davvero di far intravedere la «meccanica» della rivoluzione, gettasse vigliaccamente la spugna? Gli eserciti sconfitti imparano molto, si è detto. Bisogna aggiungere: a patto che non sciolgano i propri ranghi.

In secondo luogo, chiunque abbia partecipato alla lotta degli anni trascorsi sa bene che le BR «staccate» dalle masse non lo sono state mai: al contrario, esse hanno incontestabilmente dimostrato che si può condurre la lotta armata per lunghi anni anche in un paese come il nostro, senza per questo rinunciare ad estendere costantemente il numero dei militanti e dei simpatizzanti, senza per questo impedire la penetrazione nella classe operaia e nei settori più combattivi del proletariato urbano, senza per questo precludersi il radicamento nelle maggiori città e nei principali poli industriali. Citeremo a nostro sostegno soltanto due esempi: il numero, elevatissimo, di prigionieri politici esistenti attualmente in Italia, la loro composizione sociale prevalentemente operaia e proletaria, il fatto che provengano praticamente da tutte le regioni del nostro paese, non stanno forse a dimostrare palesemente il carattere di massa, la rilevante diffusione sociale dell’azione iniziata e diretta dalle BR? E per quale motivo la stampa di regime, i grandi giornali borghesi, filistei, “opinion-makers” ma anche qualche retorico identificano ormai correntemente gli anni ’70 ( due lustri interi, si noti) con i cosiddetti “anni di piombo”? Forse perché, alla distanza, si può cominciare a dire pudicamente la verità? A dire che la lotta armata in Italia è stata il fatto politico più rilevante e gravido di conseguenze dell’ultimo periodo storico? Persino la borghesia, nelle aule dei suoi tribunali e sulle colonne dei suoi prezzolati giornali, è costretta ad ammettere la verità: le BR non erano “staccate” dalle masse … dovremo noi batterla sul terreno della codardia?

 

  1. Dunque, per voi la questione non riveste interesse alcuno?

Tutt’al contrario. Ma si tratta di discuterla correttamente, da marxisti leninisti coerenti.

Gli è che nelle BR, intorno al ’79-80, quando ormai il periodo della propaganda armata si era giustamente dichiarato concluso ed il combattimento si era bensì imposto nel movimento come la discriminante essenziale fra rivoluzionari ed opportunisti, prevalse una visione del possibile sviluppo della lotta improntata ad una sorta di illusione “gradualista”. Credemmo cioè che il ritmo, sufficientemente rapido, con il quale le avanguardie proletarie, gli elementi avanzati, si erano stretti intorno alla lotta armata organizzandosi in cellule clandestine disposte al combattimento, potesse valere tale e quale anche per le grandi masse. Non si capiva allora, influenzati dalla cospicua e progressiva diffusione della azioni militari un po’ ovunque, che gli strati massicci del proletariato, i milioni di persone, ancorché disposti a giudicare positivamente l’azione delle BR, non erano per questo in grado di seguirla sul terreno dello scontro diretto per il potere. È noto che la parola d’ordine della “conquista delle masse sul terreno della lotta armata” si dimostrò in breve tempo inconsistente ed anzi, foriera di numerose ambiguità, di suggestioni movimentistiche, di speranze e di progetti ingannevoli molti dei quali ritortisi amaramente contro coloro che improvvidamente li adombravano.

È d’uopo allora rilevare come le BR, lungi dall’essere “staccate” dalla classe operaia, lungi dall’aver difettato di addentellati con i settori determinanti del proletariato urbano, il rapporto con le masse l’avevano eccome: ma sbagliarono ad un dato momento nell’impostarne lo sviluppo. Non già quindi, mancanza di contatto con le masse in quanto organizzazione clandestina, ma contatto sbagliato, impostato su valutazioni affrettate e tragicamente ideologizzanti!

Allo stato attuale, nel momento in cui gli eventi citati acquistano – col passar del tempo – una dimensione ed un significato via via più nitidi, è possibile a nostro parere arrischiare qualche elementare considerazione. La prima è che si trattò di errori gravi e lordi di implicazioni negative: molte delle ragioni che conducono alla sonora battuta d’arresto dell’82 si originano inequivocabilmente dalla visione politica alquanto miope invalsa nelle BR intorno al ’79-80 e compendiata nello slogan della conquista delle masse alla lotta armata. Tuttavia, ciò detto, va sensatamente aggiunto che questi errori si collocano chiaramente in un contesto teorico pratico di superficie più vasto, ben illustrato dal libro “l’Ape e il comunista” e le cui fondamenta vanno rintracciate molto innanzi il 1979; per l’altro gravi che siano stati, simili sbagli, non costituiscono certo novità nella storia del movimento comunista. È ben noto che la tendenza a sopravalutare il grado di disponibilità delle masse alla proposta rivoluzionaria si è presentata non di rado, ad esempio, nella storia del Komintern: si pensi alle polemiche suscitate nell’Internazionale fra il ’20 e il ’21 dalla cosiddetta “teoria dell’offensiva”, oppure al fatto che il partito comunista tedesco, ancora negli ultimi mesi del 1932 (a poche settimane dall’avvento del nazismo) si conduceva come se la rivoluzione fosse imminente in Germania. Esiste o meno una relazione tra certe vicende tutt’affatto interne alla storia del movimento comunista internazionale e la linea sostenuta tra il ’79 e l’82 dalla BR? E si può dimenticare che i marxisti leninisti hanno sempre preso atto dei loro errori in uno spirito costruttivo, senza mai rinnegare il significato e l’importanza di esperienze che comunque si andavano ad assommare, come altrettanti tasselli, al patrimonio di conoscenza e di lotta del movimento proletario? Non è dunque il caso di impressionarsi più di tanto: i comunisti, che si appoggiano sul socialismo scientifico, non per questo possono limitarsi ad una semplicistica applicazione di qualche principio pedissequamente mandato a memoria poiché la pratica, per definizione, contiene nel suo svolgersi un elemento di originalità irriducibile anche alla più precisa formula teorica. E proprio sulla comprensione dell’esperienza pratica secondo un metodo scientifico si basa la politica marxista, che non a caso oggi ci consente di considerare le difficoltà incontrate dalle BR nel loro rapporto con le grandi masse a mò di elemento istruttivo per una più matura concezione dei compiti politici del partito combattente.

In ogni caso, pare a noi assodato che una visione del rapporto da stabilirsi tra l’avanguardia combattente ed il proletariato nel suo insieme, non possa oramai prescindere dalle seguenti considerazioni:

  1. a) tutta l’esperienza storica della lotta di classe svoltasi nei paesi imperialisti, ed anche la nostra di BR, attesta inequivocabilmente che l’organizzazione delle masse sul terreno della lotta armata è un compito storico obbiettivamente assolvibile solo in condizioni insurrezionali. Prima di quel momento, la lotta di massa del proletariato, i conflitti che necessariamente scaturiscono dalle contraddizioni economiche presenti nella società borghese, non si presentano, salvo rare occasioni e spazi molto brevi di tempo, sotto la forma risolutiva della lotta armata.
  2. b) il partito rivoluzionario, che è un partito combattente e che non fa dipendere punto la sua scelta di combattere dal fatto che le masse siano già armate o in procinto di farlo, non può comunque limitarsi alla sola propaganda nella presa del potere o lotta per il socialismo. Esso deve bensì collegare quest’opera costante, che si esprime attraverso il combattimento contro il governo e lo Stato, con la partecipazione ai movimenti generali del proletariato, con la loro guida secondo una direttiva comunista. Ponendosi alla testa di tali movimenti, combattendo e prendendo posizione su questioni non già astratte ma realmente centrali e perciò stesso comprensibili da ogni singolo lavoratore, indirizzando puntualmente la lotta contro il governo, mettendo sempre in rilievo l’elemento che lega l’aspetto e il tema parziale alla questione del potere politico (che è e rimane in ogni caso la questione centrale e distintiva per il partito), l’avanguardia combattente saprà dunque collegarsi alla vita politica ed alle esigenze reali delle masse senza per questo recedere dal proprio compito specifico, che è quello di elevarle alla coscienza comunista, di guidarle all’abbattimento dello stato borghese.
  3. c) eccezionalmente importante si presenta allora la consapevolezza della distinzione che esiste tra il lavoro del partito verso le avanguardie politiche e la sua linea di massa. Se il primo ha per obbiettivo l’organizzazione degli elementi avanzati del proletariato nei ranghi disciplinati e clandestini del partito combattente, e non può che basarsi perciò sulla piena accettazione del programma del partito e del suo metodo di lotta distintivo, la lotta armata; la seconda si prefigge lo scopo di conquistare (tendenzialmente – si capisce) un’influenza predominante del partito nelle masse, di farlo da loro riconoscere come l’unico reale difensore degli interessi vitali nonché storici del proletariato. Di conseguenza, entro il secondo contesto si dovrà tener conto di numerosi e molteplici fattori sinora alquanto negletti, primi dei quali la pesante influenza revisionistica ed il carattere, pubblico e “legale”, che le forme di organizzazione politica e sindacale delle masse prendono nella fase che precede la conquista del potere.

In conclusione è nostra profonda convinzione che un rapporto proficuo tra partito combattente e masse proletarie non solo non si presenti a priori impossibile, ma sia anzi doverosamente costruibile proprio partendo dalle numerose indicazioni che ci provengono dall’esperienza e dalla storia delle BR. In questo lavoro, che trova la sua prima ragion d’essere nella persuasione, propria dei marxisti, dell’impossibilità della rivoluzione proletaria senza un’adeguata opera di conquista delle masse alla linea comunista, sarà sempre comunque necessario guardarsi da un duplice pericolo: da un lato bisognerà evitare ogni schematismo superfluo, ogni tentazione precostituita nell’esame dell’andamento della lotta proletaria (troppo spesso, infatti, si è creduto di poter giudicare in questo campo partendo dal grossolano criterio “clandestino e combattente uguale positivo, pubblico e legale uguale negativo”); dall’altro non si dovrà con ciò, per la errata preoccupazione di stare “attaccati alle masse”, rinunciare a svolgere il proprio ruolo specifico: quello di avanguardia politico militare che agita i propri temi, consolida ed estende i propri ranghi in ogni realtà sociale e con la propria azione spinge avanti la situazione politica generale, modificandone gli equilibri a favore della rivoluzione e rappresentando l’interesse storico del proletariato alla dittatura in ogni circostanza del conflitto di classe.

 

  1. Come vedete la situazione politica?

La situazione politica attuale ci sembra caratterizzata dal prevalere di una spiccata tendenza reazionaria e conservatrice nella classe politica governativa, nelle oligarchie dei partiti della maggioranza e, in generale, in tutta la grande borghesia monopolista e finanziaria. Il fatto saliente degli ultimi anni consiste certamente nel progressivo profilarsi di un indirizzo conservatore ed autoritario via via più netto sia in materia di politica economica che nel campo della politica estera. Due anni e mezzo di governo Craxi hanno ben illustrato quali siano gli interessi e le esigenze attuali della grande borghesia italiana: compressione del salario operaio e taglio dell’occupazione in economia, rafforzamento dell’esecutivo sul parlamento e degli apparati dirigenti dei partiti sull’insieme dei corpi sociali in politica interna, filo atlantismo esasperato e servile in politica estera.

Naturalmente, si tratta di un quadro niente affatto isolato dal contesto generale dei paesi capitalistici avanzati; ormai da parecchi anni, infatti, si è delineata la “via capitalistica” all’uscita della recessione: licenziamenti di massa, taglio delle spese sociali, accentuata competizione tra grandi monopoli, aggressività e sciovinismo su scala internazionale, sono solo i principali ingredienti della ricetta reaganiana, accolta febbrilmente un po’ ovunque come il nuovo vangelo del capitalismo. Gli è che non sono percorribili altre strade: la crisi economica spinge per una sua soluzione, i grandi gruppi finanziari e monopolistici, bisognosi di nuovi mercati ove esportare capitali e merci, divengono i migliori alleati della reazione e delle caste militari, sicché la realtà della produzione mondiale, lo sviluppo del conflitto di classe, si inseriscono in un quadro generale più caratterizzato da un’accentuata aggressività dei paesi imperialisti. L’eventualità di una terza guerra mondiale, di un immenso macello di energie umane causato ancora una volta da un sistema sociale anarchico e classista, dal gruppo delle ipotesi passa a quello delle probabilità reali. Ecco fuori da ogni catastrofismo, distanti da qualsiasi indebita visione che vorrebbe gli eventi attuali altrettanti momenti di un disegno complesso premente in modo cosciente e predeterminato verso la guerra, pare a noi chiaro che la posta in gioco sia comunque alta, sostanziale. Pur nella specificità nel nostro paese, pur entro i defatiganti giuochi di partito ineliminabilmente propri della classe politica italiana, in questo scorcio di secolo una tendenza di fondo, un orientamento segnatamente reazionario si va ormai delineando: si è diffusa in numerosi ed influenti ambienti capitalistici l’idea che l’Italia, al pari di altri paesi, vada “bonificata” dalla lotta di classe; in campo politico nonché economico, nelle opzioni cruciali di governo e di “management” (come si dice), le posizioni conservatrici hanno l’ultima parola; nelle relazioni internazionali il nostro paese viene sistematicamente coinvolto nelle scelte scopertamente guerrafondaie ed imperialistiche del “grande fratello americano”. No, non si tratta di fatti incidentali, di vicende prive di un nesso reciproco, ma di un movimento che, quantunque di natura impersonale ed obbiettiva, prende forma generale, di un attacco su tutti i fronti, da quello ideologico (ove i più vieti luoghi comuni reazionari trionfano con clamore certamente inopinato sino a poco tempo addietro) a quello economico (con l’infatuazione collettiva per la “deregulation” e per il “vento del Lingotto”), da quello politico (riforma istituzionale) a quello militare (ove si sta preparando in sordina la sporca adesione alle “guerre stellari” di Reagan). Si dovrà continuare a chiudere gli occhi? O si preferirà riporre le speranze nel “governo di programma” untuosamente proposto dagli eterni orfani del compromesso storico? Noi dell’“Unione” intendiamo lottare con intransigenza contro questa vera e propria ridefinizione reazionaria della società italiana, noi intendiamo organizzare la mobilitazione d’avanguardia e di massa contro il governo della borghesia. In questa critica situazione, nel momento in cui si preparano battaglie decisive, la lotta armata dimostrerà con dovuta chiarezza quale sia la forza politica in grado di opporsi fermamente alla mene della classe dominante e con la sua giusta azione diverrà un chiaro punto di riferimento per le più vaste masse italiane.

 

  1. Il 21 di questo mese, la vostra organizzazione è apparsa pubblicamente con l’azione da Empoli, ma nel corso dell’operazione la vostra militante Wilma Monaco è rimasta uccisa. Considerate ciò come un fallimento?

Abbiamo già dichiarato che il nostro nucleo armato in Via della Farnesina aveva consegne precise: invalidare, e non già uccidere Da Empoli, lasciare in vita l’agente di scorta. Questa decisione derivava da una precisa e consapevole valutazione politica: tenuto conto della carica occupata dal Da Empoli e del momento politico generale, si trattava di dimostrare la necessità di saper diversificare il grado di intervento militare a seconda delle circostanze. “Far politica con le armi”, infatti, significava anche calcolare precisamente le forze e gli elementi in campo: significava tener conto dell’andamento generale dei rapporti politici tra le classi, dello stato del movimento operaio, del grado di prestigio conseguito dall’avanguardia nelle masse. Un partito combattente che afferma la sua linea politica, tramite il combattimento contro lo stato, nella sua azione non può prescindere da tali valutazioni, pena il decadere in un orientamento indistinto, inefficace, strutturalmente incapace di “dosare” l’iniziativa in modo proficuo per l’avanzamento della causa. E in questo senso s’inseriva l’azione Da Empoli. Ma questa nostra scelta è stata pagata ad un duro prezzo: Wilma è rimasta uccisa, mentre quasi inutile è il sottolineare che l’annientamento del Da Empoli e del lurido sbirro sarebbe stato, al confronto, un gioco da ragazzi. È proprio in questi momenti che va fatto il massimo sforzo di razionalità: nonostante il peso immenso della morte di Wilma, dirigente della nostra organizzazione e comunista impegnata da anni nella lotta armata, nonostante la rabbia per l’indegna sceneggiata di regime orchestrata dal suo sacrificio, sull’azione Da Empoli s’impongono, a nostro parere, almeno tre considerazioni. In primo luogo, la diversificazione dell’intervento, la capacità di scegliere diverse forme di attacco militare a seconda dell’obbiettivo e delle condizioni generali, non è per noi criterio revocabile in dubbio a causa della morte di Wilma. Tutto il corso degli ultimi anni dimostra inequivocabilmente la necessità politica di questo atteggiamento: il partito combattente non può banalizzare l’annientamento, gravi conseguenze sono derivate dal passato e deriveranno dal futuro da una mancanza di sensibilità verso questo problema. Quel che è certo, però, è che tale volontà di “diversificare” l’intervento non potrà non appoggiarsi nel futuro su una più ferma determinazione ad eliminare eventuali resistenze: il bilancio dell’azione del 21 Febbraio è per noi chiaro, per gli agenti di scorta che vorranno reagire non vi sarà esitazione alcuna: verranno annientati.

In secondo luogo, l’azione non può non considerarsi “fallita” proprio poiché il suo significato politico è risultato oltremodo chiaro. L’attacco a Palazzo Chigi, al governo ed alla sua politica economica, è questione quanto mai attuale nell’odierna realtà italiana; inoltre, ci sembra che il problema del giusto indirizzo da dare alla lotta armata – la lotta armata come lotta politica comunista contro il governo borghese – sia stato ben evocato dall’azione Da Empoli. Invero, si può parlare di fallimento quando un’ iniziativa non corrisponde ai fini prefissati: l’azione di Via della Farnesina ha invece corrisposto esattamente alle esigenze poste sia dal contesto politico generale, che dalla situazione interna al movimento rivoluzionario. È il prezzo pagato che è immenso, non l’azione che è “fallita”.

In terzo luogo noi non abbiamo paura di riconoscere che facendo la lotta armata si può morire. È importante ricordare questo a quanti si avvicinano oggi alla militanza comunista combattente. La lotta armata implica numerosi sacrifici: tra questi vi è sovente quello estremo, quello della vita. Non si tratta qui di conclamare fatalmente inevitabile la morte dei compagni; si tratta di mettere in guardia il movimento dall’illusione di poter non pagare un costo che invece è e rimarrà salato, altissimo sul piano umano e politico. La lotta si farà sempre più dura, molti altri di noi morranno con le armi in pugno lottando per la libertà; ma quale vera impresa, quale lotta per l’emancipazione, son realmente progredite senza pesanti sacrifici? Noi pensiamo che il sacrificio di Wilma Monaco “Roberta” debba servire a tutto il movimento rivoluzionario per rinsaldare le fila e avanzare più speditamente sulla via di una lotta armata realmente marxista. Questo sacrificio serve innanzitutto a noi, della “Unione” che, nel ricordo dell’indimenticabile figura di “Roberta” della sua umanità e della sua determinazione, procederemo senza esitazione pel nostro cammino.

 

  1. Se non sbagliamo avete citato il PCI: vi sembra che negli ultimi anni la posizione generale di questo partito sia in qualche modo cambiata?

È mutabile a livello sostanziale un orientamento di fondo che riconosce esplicitamente l’insuperabilità degli angusti confini della società borghese? È mutabile una politica che da anni persegue sistematicamente la conciliazione di interessi tra lavoro salariato e capitale? No, la posizione del PCI non è cambiata e non è bensì cambiato il giudizio dei veri comunisti su questo partito: si tratta dell’ala sinistra della borghesia, di una componente ormai organica del sistema politico che si erge sui rapporti sociali capitalistici. Piuttosto, proprio le ultime vicende che hanno coinvolto il partito di Natta ci paiono quanto mai indicative della totale subordinazione di questi uomini alla logica dell’attuale sistema sociale: dalla rinunciataria e remissiva gestione del referendum sul Decreto di San Valentino alle ineffabili discussioni precongressuali su “migliorismo” e dintorni, dalla servile proposta del “governo di programma” alla orgogliosa rivendicazione di internità al campo puzzolente delle socialdemocrazie europee, è tutto un susseguirsi di “iniziative” che mettono scopertamente a nudo l’anima profondamente “occidentale” e borghese degli eredi di Berlinguer. Con la sua ferma determinazione a distruggere quanto rimasto al suo interno delle tradizioni di lotta della classe operaia italiana, con il suo cadaverico pacifismo parlamentare, il PCI contribuisce oggi in modo determinante ad illudere le masse sulla reale natura della democrazia borghese e costituisce in definitiva uno dei principali puntelli del sistema capitalistico. È vero, infatti, che l’influenza del revisionismo sulla classe proletaria rimane pesante. A tutt’oggi gli uomini di Botteghe Oscure detengono forti posizioni nel movimento operaio e con i loro potenti apparati politici e sindacali, rigidamente in mano ad una filistea burocrazia di partito, sono in grado di decidere tempi e modi della mobilitazione di massa. Certamente in questa circostanza pesa la realtà dei paesi imperialisti, ove cospicui settori di proletariato possono beneficiare in una minima ma non sottovalutabile misura dei sovraprofitti che il monopolio multinazionale realizza nel mercato mondiale; ma pesano anche i nostri ritardi, ritardi del movimento rivoluzionario italiano che troppo spesso ha creduto di surrogare la necessità della battaglia antirevisionista con l’esaltazione acritica di un ipotetico “altro” movimento operaio, ponendosi con ciò fuori dai reali dibattiti e dagli effettivi problemi vissuti dai settori massicci e determinanti della classe operaia.

Ciononostante, nonostante si debba registrare un certo ritardo in quell’importante capitolo del lavoro comunista costituito dalla battaglia antirevisionista, esistono a nostro parere ragionevoli motivi per essere ottimisti. Nemmeno due anni fa in effetti, con l’esplosione della lotta di massa contro il decreto “truffa” del governo Craxi, si è avuto un chiaro sintomo del potenziale di autonomia dal revisionismo insito nella classe operaia. Senza cedere a facili quanto errati trionfalismi, sembra comunque a noi innegabile che nel corso di quella massiccia e prolungata mobilitazione, lo strapotere delle burocrazie politiche e sindacali ha forse incontrato per la prima volta da svariati anni serie difficoltà nell’imporsi sulla determinazione alla lotta dei lavoratori. L’esperienza dei cosiddetti “autoconvocati”, per quanto apparentemente sopita, ha lasciato significative tracce nella coscienza collettiva dell’odierno movimento operaio: sicuramente si tratta di indicazioni che la lotta di massa saprà nel futuro sviluppare. D’altra parte, man mano che cresce ed evolve nel movimento rivoluzionario una più precisa consapevolezza dei compiti politici del partito combattente, non può non presentarsi in primo piano la questione del revisionismo e dei modi più adatti a contrastarne l’influenza da un’angolatura realmente maggioritaria, realmente rivolta alle esigenze di milioni di lavoratori. Intendiamoci: si tratta soltanto di sintomi, di fatti che, per quanto significativi, rimangono tuttavia ancora allo stato di indizi di una possibile piega delle cose; ma è quanto basta per far intravedere distintamente un’ampia direzione di lavoro che a nostro parere, se affrontata con la sistematicità e la preparazione adeguata, si rivelerà certamente gravida di implicazioni positive in quanto faciliterà la penetrazione dei temi rivoluzionari nella coscienza della classe operaia.

Insomma, la lotta contro i traditori della classe operaia, contro coloro che hanno insozzato la bandiera del proletariato, rimane per noi una condizione primaria ed essenziale del lavoro rivoluzionario: l’“Unione” ribadisce che l’indifferenza sotto questo rispetto non soltanto arreca grave nocumento alla causa comunista, ma è oltre a ciò chiaro indice di infantilismo politico, di una mentalità minoritaria, settaria ed in ultima analisi perdente.

 

  1. Potete sinteticamente indicare i compiti fondamentali che secondo voi si pongono attualmente per i comunisti italiani?

Abbiamo già parlato della questione partito. Quando si discute dei compiti fondamentali all’ordine del giorno per i rivoluzionari italiani non si può menzionare innanzitutto questo problema, che si staglia all’orizzonte come il principale e più importante fra i numerosi doveri del momento. Per parte nostra, sottolineiamo ancora una volta l’importanza del fatto che l’unità dei comunisti nel partito si basi sulla chiarezza di vedute: da questo punto di vista, per quanto sia giustamente avvertita l’esigenza di un unico centro politico militare realmente in grado di dirigere il lavoro rivoluzionario su scala nazionale, alcune fasi non potranno essere artificialmente saltate. Si tratta cioè di aprire fra le forze realmente rivoluzionarie un serio dibattito intorno alle questioni principali che l’esperienza pratica degli ultimi anni ha posto all’ordine del giorno nel nostro paese; si tratta altresì di alimentare il confronto con l’iniziativa pratica, con un contributo politico organizzativo quanto mai prezioso in questo momento di obiettive difficoltà per la lotta armata. In definitiva, noi siamo convinti che quanto più la tendenza realmente marxista, non soggettivista, rafforzerà i suoi ranghi organizzati e la sua autorità politico militare, tanto più la questione del PCC sarà realmente accostabile in guisa non effimera.

Detto questo, per determinare esattamente i compiti principali del momento bisogna almeno aver presente la situazione generale in cui ci troviamo: da un lato non siamo in una situazione rivoluzionaria, né se ne intravedono i sintomi a breve scadenza e le forze comuniste sono deboli, ancora sotto il peso della battuta d’arresto dell’ 82; dall’altro, le numerose e diverse contraddizioni presenti nell’odierna realtà italiana, la disponibilità alla lotta esistente in consistenti settori operai e proletari costituiscono altrettanti favorevoli punti di partenza per il rilancio di una lotta armata che abbia imparato quel che doveva dall’esperienza passata. Ecco noi pensiamo che da questo pur schematico quadro, si possano far discendere con esattezza, e ragionevolmente, aggiungiamo, i doveri dell’oggi. Il primo ed il più importante è quello di ricostituire quel tessuto di solidarietà, di sostegno e di organizzazione militante che è stato indubbiamente lacerato dalla crisi politica che la lotta armata ha conosciuto. Non si sfugge a questo compito rifugiandosi “nelle masse” , non si può fare orecchie da mercante di fronte al fatto, noto a chiunque si dichiari comunista, che l’esistenza di una forte e solida lotta d’avanguardia è il primo presupposto di qualsiasi rivoluzione. Sì, si tratta di riorganizzare la lotta armata e si tratta di farlo concentrandovi tutte le energie possibili proprio perché la fase che viviamo (che non è rivoluzionaria) impone innanzitutto di rafforzare l’avanguardia, di dotarla di prestigio e di simpatia nelle masse, di inserirla come forza politica riconosciuta nella vita sociale del paese.

Secondariamente, bisogna far si che questa avanguardia sia realmente in grado di prendere posizione costantemente, lottando intransigentemente per affermarla contro il governo ed i partiti borghesi, su tutte le questioni centrali che di volta in volta interessano la nazione nel suo insieme. È tempo infatti di finirla con l’idea che la rivoluzione si compie “ai margini” della società, per l’iniziativa di quei soliti accesi “ribelli” che in tanto si oppongono ad ogni cosa, in quanto sono poi disposti ad accomodarsi in un ghetto dorato, magari “di sinistra”, sapientemente disposto all’uopo dalla borghesia stessa. Un partito politico, un centro dirigente della rivoluzione, dovrà davvero guidare milioni di persone, dovrà davvero saper interpretare le loro più vitali aspirazioni, concrete epperò generali, fuori da ogni schematismo precostituito. Bisogna perciò impostare il lavoro fin da subito cosicché la lotta armata divenga realmente “un modo di far politica”; bisogna sfruttare tutte le opportunità di intervento e di lotta salvaguardando al contempo la natura combattente, politico militare di ogni struttura del partito; bisogna infine saper opporre alla borghesia in tutti i campi fondamentali della società, posizioni nette e precise, posizioni capaci di fornire un orientamento sicuro per il movimento di massa e di interpretarne bensì da un punto di vista rivoluzionario le reali aspirazioni.

In terzo ed ultimo luogo, compito dell’oggi è quello di iniziare a gettare le basi per il lungo e nondimeno irrinunciabile lavoro politico che condurrà il partito rivoluzionario su posizioni di forza nel movimento operaio e proletario; compito dell’oggi è proprio quello di creare le condizioni per la futura guida comunista dei settori determinanti del proletariato italiano. È questo un dovere incondizionato, un incarico storico che pur quanto complicato si presenti, non può certo esser disatteso da quanti si vogliano richiamare coerentemente al marxismo leninismo. Abbiamo appena parlato dell’importanza fondamentale di intervenire su tutte le più rilevanti questioni politiche del paese; bisogna ora aggiungere che, questo essendo il primo presupposto di una reale linea di massa, il secondo è costituito senz’altro dalla realizzazione di una costante presenza politica nelle più significative realtà produttive e proletarie della nazione. Inutile eludere il problema: bisogna esser la dove le masse sono, dove vivono e lottano e dove quotidianamente subiscono la mortificante tutela del revisionismo. È certo un compito difficile, poiché si tratta di far progredire la coscienza di massa, di far riconoscere i nostri militanti come vere avanguardie della lotta comune all’insieme della classe, e si tratta di farlo, beninteso, senza poter proclamare la propria appartenenza al partito combattente nelle ostiche condizioni che il militante legale incontra ogni giorno nei posti di lavoro, nelle fabbriche, nelle scuole e nei quartieri. Cionondimeno è un dovere incondizionato. E già da oggi, con il senso delle proporzioni e delle priorità, in uno spirito comunista che non cada alle lusinghe del codismo e dell’economismo, è un lavoro che a nostro parere va avviato e sul quale le forze rivoluzionarie dovranno compiere la propria esperienza.

Tre compiti dunque per le avanguardie comuniste: riorganizzare la lotta armata anzitutto, riorganizzarla come fattore politico reale della vita del paese ed iniziare a stabilire solidi legami con le realtà più significative del movimento operaio e proletariato italiano. Questi, in sintesi, ci sembrano i doveri del momento.

  1. In conclusione: quali per voi le prospettive della rivoluzione italiana?

Nella storia di questo paese, il proletariato ha saputo affermare numerose e difficili prove: ha saputo reagire energicamente alla tutela del riformismo socialista fondando nel 1921 un forte e compatto partito comunista, e ha saputo affrontare con coraggio la sfida del fascismo nella durezza dell’illegalità e della lotta clandestina; è stata la forza dirigente della lotta di liberazione nazionale dal nazi-fascismo, e si è opposto alla violenta volontà di restaurazione “bianca” della borghesia negli anni ’50 e ‘ 60. Nel 1970 di fronte all’ormai scoperto tradimento del PCI, il proletariato italiano (di nuovo come nel ’21) ha saputo riconquistare la propria indipendenza politica attraverso la lotta armata. Le BR lo fecero intendere bene a tutta la società. Oggi si profila una nuova sfida: le classi dominanti sono animate di rinnovata protervia, i grandi capitalismi premono su già ben disposti ambienti politici, su oligarchie di partito autoritarie e tracotanti, per una svolta apertamente conservatrice: la direzione è già stata presa e, come si vuol dire, l’appetito vien mangiando. D’altra parte, la lotta armata è sensibilmente indebolita, numerosi problemi la investono dall’interno, si avverte chiaramente l’esigenza di un suo rinnovamento, oltreché nei presupposti politici anche nell’azione pratica. Saprà allora il proletariato italiano, sapranno le sue avanguardie politiche, affrontare l’ennesima battaglia trasformandola a favore delle classi oppresse? Noi diciamo di si. E a ragion veduta. Le riserve di energie nelle classi sfruttate sono davvero molto profonde, perché sono continuamente alimentate dalle contraddizioni che inevitabilmente scuotono la società borghese. Ed inoltre il nostro movimento sta velocemente mettendosi al passo: gli eserciti sconfitti, bisogna ricordare, imparano molto. Il parere dell’Unione dei Comunisti Combattenti, all’indomani della morte eroica della sua dirigente Wilma Monaco-“Roberta” è dunque assai preciso: le prospettive della rivoluzione italiana, nonostante le numerose difficoltà attuali e gli immensi sacrifici che si dovranno compiere, restano eccellenti.

Febbraio 1986

Rivendicazione del ferimento di Antonio Da Empoli e ricordo di Wilma Monaco

Venerdì 21 Febbraio, un nucleo armato della nostra organizzazione ha attaccato ed invalidato Antonio Da Empoli, responsabile e dirigente dell’ufficio “affari economici” di Palazzo Chigi. Antonio da Empoli, nella sua veste di coordinatore dello staff di esperti economici di Craxi, ha svolto un ruolo essenziale nella formulazione della legge finanziaria, legge che costituisce uno dei più importanti strumenti della politica economica del governo borghese.

Il nostro nucleo armato aveva consegne precise: invalidare, e non già uccidere, Antonio Da Empoli (ciò è stato fatto); lasciare in vita il lurido sbirro che lo scortava (ciò è confermato dall’aver colpito alle gomme e non l’autista). Nel corso dell’operazione, a causa della reazione dell’agente dei servizi speciali, è rimasta uccisa Wilma Monaco “Roberta”, dirigente della nostra organizzazione, comunista impegnata da anni nella lotta armata del movimento di classe italiano.

L’Unione dei Comunisti Combattenti rende innanzitutto onore e rispetto alla sua militante caduta combattendo per il comunismo ed invita tutto il proletariato rivoluzionario a meditare sul significato del sacrificio di “Roberta”.

Ciò detto, si procede con ordine.

Urla, strepiti e schiamazzi.

Le classi subalterne in Italia sono avvezze da tempo agli spettacoli indecorosi: il ceto politico dei partiti borghesi inscena infatti ogni giorno una nuova pagliacciata. Soltanto negli ultimi mesi, litigate o parapiglia si sono susseguite un po’ ovunque: dalla politica estera alla paternità della bandiera, dall’ora di religione alle scelte economiche, dal Consiglio superiore della Magistratura alla Rai TV , non c’è evidentemente requie per questi uomini abituati alla zuffa, allo sgambetto reciproco, alla lotta intestina. Craxi ferisce De Mita e questi a sua volta lo pugnala alle spalle; Spadolini sgomita ingombrante per sottolineare la sua pingue presenza e di tanto in tanto si leva persino qualche pudico latrato in casa liberale e socialdemocratica.

Esiste un governo in Italia? Al cospetto di tanta sovrana irresponsabilità, di fronte alla generalizzata incompetenza degli uomini politici che occupano posizioni di potere, vien fatto talvolta di domandarselo. Ed è vero, comunque, che la politica borghese nel nostro paese si riduce il più delle volte a scorribande di palazzo, è cosa nota che le classi lavoratrici non si raccapezzano punto in questa bolgia infernale, in questo eterno carosello, e ne rimangono sovente disgustate.

La sensazione prevalente è di essere alle prese con un gran baccano inutile, con un tramestio irritante ed irriducibile ad un qualsiasi ordine: urla, strepiti e schiamazzi, per l’appunto…

I fatti.

Non si può negare che, alla fin fine, sia veramente difficile orientarsi nel panorama dei partiti italiani: mutano così spesso posizione, litigano e fanno pace con tanta velocità, sono talmente privi di qualsiasi dirittura, da lasciar sconcertato anche il più consumato osservatore politico, il più sperimentato addetto ai lavori. Per il proletariato converrà allora attenersi ai fatti, ai fatti nudi e crudi, a fatti testardi che sempre dicon di più di ogni proclama, di qualsiasi dichiarazione d’intenti venduta per buona dall’oratore di turno. Ed i fatti, invero parlano chiaro: parlan talmente chiaro da dissipare in un baleno l’immagine di prevalente frastuono così propria del sistema politico borghese italiano. Inetti e cialtroni, sì: ma al potere. Ignoranti e ruffiani senz’altro: ma con le idee chiare sul da farsi.

Un governo esiste: due anni e mezzo di governo Craxi, due anni e mezzo di “stabilità” garantita dallo “strong man”, hanno regalato alla classe operaia tre leggi finanziarie una peggio dell’altra, un “decreto truffa” (quello del febbraio 1984) decurtante d’autorità il salario operaio, varie svalutazioni decise “ad hoc” per favorire i grandi gruppi industriali e penalizzare il potere d’acquisto dei lavoratori, una politica industriale che, quantunque priva di ogni coerenza, ha certo privilegiato il taglio dell’occupazione e la chiusura degli stabilimenti (il nostro Da Empoli ne sa qualcosa), missili americani sul nostro territorio, acquiescenza sistematica nei confronti delle scelte guerrafondaie di Reagan e rafforzamento del ruolo reazionario dell’Italia nel Mediterraneo. Ma non basta: “dulcis in fundo”, Craxi e soci stanno preparando l’adesione in sordina alle “Guerre stellari” degli Stranamore americani. Non è necessario essere profeti per prevedere che, dopo Sigonella, coi “ragazzi” del Pentagono ci saranno ben pochi screzi: il nostro Foster Dulles in sedicesimo, l’asino Spadolini, veglia all’erta sulla solida collocazione “atlantica” del Bel Paese.

Per risibile ed incompetente che sia, la classe politica italiana ha dunque sposato in blocco un indirizzo di governo assai preciso, un orientamento segnatamente reazionario, sia in materia di politica economica che nel campo della politica estera. Sicché, quel che si evidenzia nettamente è proprio il profilarsi di una sorda opera di restaurazione autoritaria e conservatrice che fatalmente porrà in questione molte delle conquiste consolidate del movimento operaio, coinvolgerà vieppiù l’Italia in una politica estera aggressiva ed imperialista, restringerà sostanzialmente i già non copiosi spazi di opposizione sociale.

Il perché.

Il perché è a suo modo semplice. Il capitalismo è in crisi ed alla ricerca di una nuova “identità”: ormai da tempo, si sono irrimediabilmente lacerate le condizioni entro le quali l’accumulazione aveva celebrato i suoi fasti maggiori nel secondo dopoguerra; “riprese” e “ripresine”, per ammissione massima, non hanno menomamente intaccato la sostanziale omogeneità di un pericolo storico profondamente caratterizzato dalla recessione, dalle difficoltà di mercato e dal sovraccumulo di capitale.

Oggi si cerca una soluzione. Ma la soluzione del capitalismo è basata sull’aggressività, sull’accentuazione della competizione fra monopoli, sulla messa a punto di un enorme salto di composizione organica, di una generale riconfigurazione dell’assetto produttivo, il cui costo è rappresentato da migliaia e migliaia di licenziamenti.

Oggi si negoziano gli equilibri mondiali. Ma la contrattazione dei paesi imperialisti avviene sulla base dello sciovinismo, della politica di potenza, di un’aggressione continuata e sistematica a danno delle giovani nazioni impegnate in vie di sviluppo non capitalistiche. Gli USA di Reagan marciano alla testa, ma non si creda che nazioni quali Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia giochino il ruolo di semplice comparsa: dal Libano al Ciad, dalle Falkland al Corno d’Africa, la natura imperialistica della politica estera europea è ben evidente anche al più sprovveduto osservatore.

Tale è la realtà della crisi del capitalismo: i grandi gruppi finanziari e monopolistici, bisognosi di commesse e di mercati, divengono i migliori alleati delle caste militari; le classi politiche si fanno progressivamente sensibili al richiamo dell’autorità, accarezzano disegni conservatori. In generale, si diffonde un sintomatico clima di restaurazione, nel quale valori precedentemente squalificati irrompono con rinnovata protervia nel linguaggio corrente e nelle scelte quotidiane dei ceti dominanti. La società borghese è sempre la stessa: la logica del profitto fa premio sul restante. E nella crisi, in Italia e nel mondo, per far profitto si ha bisogno di governi aggressivi, di spedizioni “punitive” contro paesi e popoli che non si piegano alla logica dell’imperialismo, di bilanci militari più alti ed addirittura delle “guerre stellari”.

Qualcuno ci vorrà convincere che è l’era del post-industriale? L’epoca dell’obsolescenza delle classi? Suvvia, non siamo così ingenui. Dal Nicaragua al Salvador, dalle Filippine al Sud Africa, dalla Palestina occupata al Sud Libano, la lotta di classe arde impetuosa nel mondo; e nel nostro paese nemmeno due anni fa tutta la classe operaia è scesa in lotta per sconfiggere l’autoritarismo governativo e padronale. Davvero la società borghese, l’imperialismo sono sempre gli stessi: il capitalismo, così come produce merci, produce la lotta di classe; l’imperialismo, così come esporta capitali ed oppressione, risveglia la coscienza dei popoli.

Cosa fare.

Innanzitutto cosa non fare. Non fidarsi del PCI, diffidare di questo partito che non soltanto è incapace di difendere gli interessi immediati e primari dei lavoratori, ma, molto di più, per sua esplicita ammissione non ha intenzione alcuna di modificare realmente la società odierna. Cosa ha fatto il PCI di Natta per bloccare la legge finanziaria? Ha premuto i bottoni di Montecitorio ed ha assicurato l’opposizione “costruttiva”. Cosa propone Botteghe Oscure per la situazione italiana? Il governo “di programma” da costituirsi coi gaglioffi della DC, cogli “amerikani” del PRI e con la banda di grassatori che abita in via del Corso. Il PCI è l’ala sinistra della borghesia, la carta di riserva per tener sotto controllo gli operai: sono ormai quarant’anni che questo partito scalda i banchi del parlamento e più passa il tempo, più è evidente agli occhi delle masse che nulla è mutabile rimanendo in quelle fetide stanze. Mobilitarsi allora. Mobilitarsi in ogni posto di lavoro, in ogni fabbrica e in ogni quartiere, contro il governo della borghesia, contro i suoi decreti e le sue leggi, contro la sua politica conservatrice ed antiautoritaria sia in campo economico che internazionale. Tra le classi dominanti, negli ambienti che contano del grande capitale, nei circoli dirigenti dei partiti politici, spira un vento di reazione, è diffusa una volontà di rivincita. I disegni di riforma istituzionale sono parte organica di questa tendenza, proprio in quanto sono rivolti a rafforzare l’autorità, il potere e la libertà di opinione dell’esecutivo sul parlamento. L’approvazione di questa legge finanziaria non è poi che l’ultimo atto, in ordine di tempo, di una lunga sequela di frodi perpetrate da un governo e un patronato ognor più determinati a umiliare gli interessi e le aspirazioni del proletariato.

E’ necessario mobilitarsi, in ogni luogo contro questa tendenza, è necessario opporsi con decisione a questa vera e propria ridefinizione reazionaria della società italiana. Con scioperi, manifestazioni, propaganda ed agitazione di massa bisogna unificare l’intero movimento proletario e mettere con le spalle al muro la burocrazia sindacale e i pompieri di Natta; con tutte le forme di lotta possibili bisogna contrastare le mene della borghesia, far fallire le sue autoritarie ambizioni e colare a picco il suo reazionario governo.

La lotta armata

Ma questa lotta richiede una direzione, il movimento di massa ha bisogno di una guida energica. Tutto il corso politico ed economico degli ultimi anni attesta con straordinaria coerenza quale sia il carattere della svolta che avviene odiernamente in Italia: le classi dominanti slittano man mano su posizioni vieppiù reazionarie. Grandi movimenti di massa sono sorti spontaneamente per contrastare questa tendenza, dimostrando a più riprese il potenziale di lotta insito nel proletariato italiano; ma essi hanno bisogno di una direzione, di una guida capace di orientare la mobilitazione verso obbiettivi generali.

Questa guida è la lotta armata, la lotta armata dei veri comunisti che si oppongono strenuamente al governo della borghesia. In prima fila nella lotta contro la politica economica ed estera del governo; in prima fila nella difesa degli interessi vitali dei lavoratori, nel sostegno d’avanguardia al movimento di massa, i comunisti combattenti non si fermano con ciò alle esigenze immediate del proletariato: con la loro energica e coerente azione, essi indicano la strada per la soluzione reale dei problemi e combattono con i giusti mezzi per coglierla effettivamente. La lotta armata comunista non si limita a “parlare” di come le non cose non vanno; essa attacca lo stato ed i padroni per indebolirne la compagine, incide nell’andamento politico dei rapporti tra le classi, dimostra concretamente alle più vaste masse proletarie che esiste un’alternativa di fondo al marciume parlamentare, allo sfruttamento quotidiano, alla politica aggressiva nei confronti dei popoli oppressi nel mondo e delle giovani nazioni realmente indipendenti dall’imperialismo.

Tale alternativa è il socialismo, la dittatura del proletariato. Per quanto impegno il PCI possa profondere al fine di distogliere le masse da questa imperitura aspirazione, il corso stesso delle cose opera in modo che la classe operaia prenda coscienza del suo ruolo storico. La borghesia imperialista, con tutta la sua arroganza, non ha altro da promettere a milioni di uomini che anarchia nella produzione, insicurezza, sottosviluppo, guerra e morte; il proletariato, guidato dal suo partito combattente, porrà fine a questo indecente scempio di energia umana.

Compagni, proletari:

ormai da molti anni nel nostro paese si svolge una lotta armata contro la borghesia ed i suoi prezzolati governi. Essa è un lotta per il socialismo, una lotta per la conquista del potere politico da parte del proletariato. Numerose esperienze sono state compiute, significativi insegnamenti si sono evidenziati. Oggi bisogna rilanciare questa lotta e bisogna farlo in una prospettiva giusta: bisogna consolidare il suo ruolo dirigente sul movimento di massa e lavorare nondimeno all’estensione dei ranghi disciplinanti e clandestini dei comunisti combattenti in ogni realtà produttiva e sociale.

Ogni elemento avanzato, ogni avanguardia proletaria lottando quotidianamente nelle masse, difendendo coerentemente i loro interessi immediati nonché generali, guidando la mobilitazione in quelle forme avanzate di lotta praticabili dall’intero movimento, non deve con ciò scordare i suoi doveri di comunista: bisogna lottare per il potere politico, per la dittatura del proletariato! Bisogna organizzare innanzitutto la lotta armata, indebolire la compagine del nemico! In ogni fabbrica, in ogni quartiere in ogni posto di lavoro e realtà proletaria, compito dei comunisti è innanzitutto quello di organizzarsi per la lotta d’avanguardia e non già di attestarsi sul livello della massa. La nostra organizzazione chiama risolutamente a raccolta sotto le sue fila organizzate ed illuminate da un punto di vista realmente marxista, tutte le avanguardie proletarie ed operaie, tutti gli elementi avanzati, tutti i rivoluzionari che, nelle attuali condizioni, si pongono il problema di una coerente lotta per il socialismo. Rilanciare la lotta armata imponendone l’indirizzo marxista: ecco il compito attuale per i veri comunisti!

La morte della compagna Wilma Monaco – “Roberta”

Wilma Monaco – “Roberta”, dirigente della nostra organizzazione, proveniva dai grandi quartieri popolari che il proletariato romano ben conosce: Testaccio e Primavalle sono i luoghi che hanno conosciuto la sua infanzia ed accompagnato la sua maturità. Giovanissima, era già in prima fila nelle lotte popolari e proletarie: nelle lotte per la casa, contro la disoccupazione, nella lotta per una migliore condizione di vita da quella che il capitalismo può riservare alle classi subalterne alberganti la metropoli. Queste esperienze rimasero sempre una costante della militanza di Wilma: era vivissimo in lei il problema della classe operaia, della necessità di sapere interpretare le reali aspirazioni di milioni di lavoratori.

Ma Wilma non fu soltanto un’avanguardia di massa: ella fu innanzitutto una comunista combattente. Sin dal 1977, soltanto diciannovenne, s’impegnò nella lotta armata: dal 1979 si legò alle BR operando sotto la loro direzione. Come quella di molti altri militanti, la sua storia personale coincide da allora con quella del movimento rivoluzionario italiano, delle BR.

Di questo movimento, dell’esperienza delle BR, Wilma comprese sempre la fondamentale importanza: giammai, anche nei momenti più cupi, ella mise in forse la scelta della lotta armata; giammai predicò conciliazione con quanti abbandonavano la lotta. Ma nello stesso tempo, Wilma fu una coerente marxista: ella comprese a fondo il rilievo che il socialismo scientifico riveste nella lotta di classe, s’impegnò totalmente nel rilancio della lotta armata in una giusta prospettiva generale. Alla fondazione dell’Unione dei Comunisti Combattenti Wilma portò un contributo essenziale: un contributo fatto di ragionevolezza e determinazione; d’umanità e d’intransigenza; dei nostri ranghi divenne presto una dirigente.

Oggi, nel momento in cui l’informazione borghese specula sfrontatamente sul suo sacrificio, nel momento in cui si tenta di negare addirittura che sono pallottole di stato ad averla uccisa, tutto il movimento rivoluzionario deve meditare a fondo il significato della morte di questa comunista: col suo estremo contributo, Wilma ha indicato una strada, la strada di una lotta armata coerente e marxista. Questa indicazione va raccolta ovunque: che il suo sacrificio serva da esempio per le nuove generazioni rivoluzionarie, che la sua integrità di rivoluzionaria e di combattente possa illuminare quanti si risvegliano oggi alla coscienza di classe!

Compagni proletari:

chi muore lottando per la libertà non muore mai invano, perché verso la libertà si dirige ineluttabilmente la storia. Ma un comunista che muore nell’adempimento del proprio dovere è certo di sacrificarsi ancor meno vanamente, perché il suo partito continuerà la lotta illuminato dagli stessi principi, con la stessa determinazione, con la medesima sistematicità che egli aveva fatto propri.

Gioiscano pure le classi dominanti di questa morte, essa non fa che rinforzare la nostra volontà di lotta e le nostre convinzioni: il ricordo e l’esempio di Wilma Monaco – “Roberta” vivranno imperituri negli anni a venire, si tributi ad ella l’onore ed il rispetto di tutto il proletariato rivoluzionario italiano!

NO ALLA LEGGE FINANZIARIA!

VIA IL GOVERNO CRAXI!

ONORE ALLA COMPAGNA WILMA MONACO – “ROBERTA”

CADUTA COMBATTENDO PER IL COMUNISMO

AVANTI CON LA LOTTA ARMATA PER IL SOCIALISMO!

Febbraio 1986

Unione dei Comunisti Combattenti