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Scheda storica Prima linea

Le origini

Nel corso degli anni Settanta in Italia si acuisce lo scontro sociale e politico. Alla diffusa volontà di trasformazione radicale, in senso comunista, della società, alcuni settori dello Stato rispondono con il terrorismo della strategia della tensione. Bombe e minacce di golpe all’apparenza destabilizzanti, miranti in realtà a stabilizzare un potere che stava perdendo credibilità agli occhi di ampi strati della popolazione. Nel frattempo il Pci, in forte avanzata nelle elezioni amministrative del 1975 e ancor più nelle politiche del 1976, delude le aspettative di una parte del suo elettorato, che considera un tradimento il compromesso storico, la politica di solidarietà nazionale e della difesa delle istituzioni borghesi, gli appelli ai sacrifici e all’austerità.

Negli stessi anni si moltiplicano nel mondo gli esiti vittoriosi delle guerriglie, dei movimenti di liberazione nazionale contro il colonialismo, mentre il drammatico golpe in Cile del 1973 a buona parte della sinistra rivoluzionaria appare come una conferma dell’impossibilità di una via pacifica per la conquista del potere da parte delle masse popolari.

Nella seconda metà del decennio c’è la definitiva dissoluzione dei gruppi extraparlamentari. Lotta continua si scioglie in modo informale nell’autunno 1976. Un numero sempre maggiore di giovani si convince che l’uso della lotta armata sia necessario per concretizzare quell’offensiva che, negli anni precedenti, era stata patrimonio condiviso di tutta la sinistra più radicale, e si esprimeva nella durezza degli slogan gridati nei cortei. Se le Brigate rosse rappresentano l’esempio di organizzazione centralizzata, volta a costruire un partito in linea con la teoria e la prassi marxista leninista, in continuità con la storia del movimento comunista internazionale, altri settori sostengono l’ipotesi di una guerriglia diffusa in stretto contatto con le lotte di massa. Non il partito armato, dunque, ma il movimento armato. Il referente principale è il proletariato metropolitano. Precari, senza casa, lavoratori che la ristrutturazione ha espulso dai cicli produttivi, giovani ghettizzati negli hinterland delle città che rivendicano i propri bisogni. L’«operaio sociale» teorizzato da Toni Negri, fortemente conflittuale nei confronti dell’alleanza Dc-Pci tanto da scontrarsi, anche fisicamente nelle piazze, con le organizzazioni storiche del movimento operaio.

Nasce così un’area formata in primo luogo da militanti usciti da Lotta continua a varie riprese nel 1974, dopo la «svolta legalitaria» dell’anno precedente, con la quale il gruppo rinnegava gli appelli all’organizzazione della violenza rivoluzionaria contro lo Stato. Ad essi si uniscono orfani del disciolto Potere operaio confluiti nell’Autonomia operaia, che diviene una sorta di rifugio delle posizioni più radicali. Comitati di fabbrica, del terziario, di quartiere, che teorizzano l’armamento di massa e attuano pratiche di combattimento diffuso. In questo contesto vengono creati i Comitati comunisti per il Potere operaio e, nel 1975, l’area e la rivista «Senza tregua», che raccoglie chi ha partecipato al Sessantotto e ai gruppi extraparlamentari, ma anche giovanissimi che si avvicinano alla politica, talvolta attratti dal mito della Resistenza tradita. Quest’area si esprime con un doppio livello, legale e clandestino. Mentre sul giornale si discute di armamento di massa, di milizia operaia, di un percorso di organizzazione proletaria in un quadro di guerra civile di lunga durata, ci sono occupazioni, espropri, azioni di autofinanziamento, irruzioni nelle associazioni di industriali, ferimenti di dirigenti di fabbrica.

Nell’ottobre 1976 a Salò, in provincia di Brescia, all’interno di «Senza Tregua» avviene il cosiddetto «golpe dei sergenti». I quadri intermedi, provenienti da Lotta continua, si impadroniscono del gruppo estromettendo gli «intellettuali», ex di Potere operaio, che dirigono la rivista. Dopo un periodo di sospensione, le pubblicazioni riprendono come «Seconda serie».

Nell’ambito dei militanti espulsi si formano le Unità comuniste combattenti (Ucc) e i Comitati comunisti rivoluzionari (Cocori).

La nascita

È difficile stabilire un punto preciso di inizio. La denominazione Prima linea compare il 30 novembre 1976 a rivendicare l’irruzione a Torino nella sede del Gruppo dirigenti per prelevare gli schedari dell’associazione. Nel volantino è scritto tra l’altro: Prima linea non è un nuovo nucleo combattente comunista, ma l’aggregazione di vari nuclei guerriglieri che finora hanno agito con sigle diverse. Prima linea non è l’emanazione di altre organizzazioni armate come Br e Nap. L’unica direzione che riconosciamo sono i cortei interni, gli scioperi selvaggi, i sabotaggi, gli invalidamenti degli agenti nemici, l’esuberanza spontanea, la conflittualità extralegale.

Il corpo militante attivo negli anni precedenti con varie sigle è quello che fa riferimento a «Senza Tregua». Fra il 1976 e il 1977 vari membri del futuro vertice politico-militare dell’organizzazione finiscono temporaneamente in carcere. A questa fase, poi chiamata pre-Prima linea, è stato attribuito, tra l’altro, l’agguato mortale al consigliere provinciale del Msi Enrico Pedenovi, in risposta all’omicidio da parte dei neofascisti di Gaetano Amoroso, il 27 aprile 1976 a Milano. Un’azione che riceve il consenso di larghi settori della sinistra rivoluzionaria.

Prima linea viene costituita ufficialmente in un congresso a San Michele a Torri, nei pressi di Scandicci, nell’aprile 1977. Ci sono una trentina di rappresentanti di Milano, Bergamo, Torino, Firenze, Napoli. Il nucleo promotore proviene in buona parte da Sesto San Giovanni. Stalingrado d’Italia, era chiamata. Per il suo contributo alla Resistenza, poi alle lotte di fabbrica. Forti sono le realtà bergamasca e torinese. Uno Statuto di 31 articoli enuncia i principi di quella che è definita una «organizzazione volontaria di combattenti per il comunismo». Caratterizzata da due livelli distinti. Il primo è una rete di appoggio e di stimolo ai comportamenti illegali e al combattimento proletario, costituita da Ronde e Squadre, che assumono diverse denominazioni (Squadre armate proletarie, territoriali, operaie) ed effettuano sabotaggi, incendi, espropri, attacchi a capi reparto. Il secondo è una struttura centralizzata alla cui guida c’è un Comando nazionale che deve rispondere del proprio operato alla Conferenza di organizzazione.

Gli inizi, nel movimento

Prima linea muove i passi iniziali in un percorso legato all’eterogeneo movimento del Settantasette, puntando a innalzarne i livelli di conflittualità. Già nel nome sono specificate queste caratteristiche. La prima linea è infatti quella dei servizi d’ordine dei cortei. L’organizzazione vuole essere alla testa delle forme di critica radicale del sistema. In un documento datato 1977 si legge: Le giornate di marzo sono state una grande lezione: da condizioni oggettive che massificavano bisogni e caratteri politici del proletariato si è passati alla lotta di massa contro lo Stato. In essa si sono esplicitate le diverse ipotesi politiche che vivono nell’area rivoluzionaria tra le organizzazioni combattenti. […] La domanda politica sviluppata in questi mesi, la ricerca di una chiarezza, di un progetto lucido di prospettiva e di organizzazione, impone di rompere tutte le nozioni di area: da quella autonoma a quella armata, di scatenare la battaglia politica, riconfrontare proposte politiche con la tensione rivoluzionaria che vive nel proletariato e nella classe operaia.

Nella primavera del 1977 il clima in Italia è rovente. Il livello di violenza nelle piazze altissimo. I manifestanti usano armi da fuoco e ci sono caduti da entrambe le parti. L’11 marzo a Bologna viene assassinato da un carabiniere Francesco Lorusso, militante di Lotta continua. Il giorno successivo a Roma e Bologna scoppiano duri scontri. Nelle stesse ore a Torino è ucciso per rappresaglia il brigadiere dell’Ufficio politico della Questura Giuseppe Ciotta. Compagni, non è più tempo di azioni esemplari e di propaganda. La dichiarazione di guerra dello Stato va raccolta. Sul terreno della guerra dispiegata si devono verificare oggi, subito, le formazioni combattenti: chi sottrae a questa pratica la propria organizzazione non ha diritto di parola nell’area combattente. La rivendicazione è delle Brigate comuniste combattenti, area Prima linea. Il 21 aprile a Roma e il 14 maggio a Milano nel corso di cortei rimangono uccisi due poliziotti. Il 12 maggio a Roma muore una manifestante, Giorgiana Masi, colpita da agenti in borghese. Nell’autunno inizia il riflusso del movimento. Molti giovani vanno ad alimentare le fila delle organizzazioni armate. Nei primi tempi Pl agisce prevalentemente in un’ottica di supporto alla lotta nelle fabbriche e al combattimento proletario, con incendi, ferimenti di capi reparto e dirigenti, ma effettua anche azioni nel sociale, contro il lavoro nero e il carovita, e di attacco alla Democrazia cristiana e alle forze di polizia. I militanti, tra cui molti giovanissimi, conducono spesso una doppia vita. Sono semiclandestini, con un ambito di lavoro politico pubblico e uno illegale. Non hanno basi, tengono le armi in casa e le esibiscono nei cortei.

La lotta armata viene considerata transitoria, reversibile, una forzatura necessaria in alcuni momenti storici per indurre le masse a un’offensiva contro le varie articolazioni del comando capitalistico. Si ritiene fondamentale un rapporto diretto tra masse e organizzazione, perché nella classe si sviluppi parallelamente il dibattito sull’organizzazione combattente proletaria e sul partito […]. Il processo di costruzione dell’esercito proletario in un paese a capitalismo avanzato passa per l’intreccio tra organizzazione combattente e istituti di potere della classe.

Contro il comando capitalistico

Secondo Prima linea lo Stato non ha un solo «cuore». L’obiettivo quindi non è la presa del potere, ma una sua progressiva disarticolazione e dissoluzione e la creazione di un contropotere radicato e diffuso. Nel 1977 l’organizzazione scrive: Se lo Stato rappresenta l’assunzione centrale della regolamentazione dei rapporti di produzione capitalistici, ogni cosa è parte dello Stato, tutta la vita sociale si fa Stato, amministrazione violenta delle necessità del capitale. La socializzazione del comando è la fonte di legittimità per il comando stesso. […] La classe operaia comincia proprio in questi mesi ad esprimere lotte orientate esplicitamente contro il comando capitalistico e contro la produzione come strumento di comando. […] Questo salto politico è fondamentale poiché permette una generalizzazione di indicazioni politiche di combattimento, di iniziativa di lotta, dall’organizzazione combattente al quadro combattente proletario e agli istituti della lotta di massa.

I membri di Pl trasgrediscono spesso le regole di una formazione clandestina. Alcuni sono gruppi di amici che si incontrano nelle osterie con le famiglie, si identificano con i fuorilegge rivoluzionari dei film western, tanto da autodefinirsi Mucchio selvaggio. Nel luglio 1977 si trovano a fare i conti con il primo lutto. Romano Tognini viene colpito a morte durante un esproprio in un’armeria di Tradate, successivamente danneggiata con esplosivo per rappresaglia.

Il 2 dicembre 1977 una Squadra, supportata da Pl, ferisce nel suo studio l’«elettricista di Collegno», il medico del manicomio, rimasto impunito pur essendo stato condannato per le torture contro gli internati. In molti plaudono all’azione.

La vigilia di Natale Prima linea attacca il penitenziario Le Vallette ancora in costruzione. Il carcere, la repressione, la liberazione dei prigionieri hanno un ruolo centrale in tutta la storia del gruppo. Evasioni tentate e riuscite, ferimenti e uccisioni di magistrati, tecnici, agenti di custodia, esplosivo contro istituti di pena. All’inizio del 1978 viene creato un comando unificato delle due principali organizzazioni armate «movimentiste», Prima linea e le Formazioni comuniste combattenti (Fcc), nate nell’estate del 1977 da una scissione delle Brigate comuniste, operanti nell’area illegale costituita intorno alla rivista «Rosso». L’esperienza dura pochi mesi, durante i quali vengono effettuati alcuni ferimenti e una esercitazione militare in Francia organizzata dai baschi di Eta. Nel marzo dello stesso anno, le Brigate rosse rapiscono Aldo Moro. Prima linea non approva l’azione, che considera disarticolante nei confronti del movimento oltre che dello Stato. In quel periodo innalza comunque il proprio livello di scontro militare, anche grazie a un rifornimento di armi pesanti provenienti dal Libano.

Alzare il tiro

L’11 ottobre 1978 per la prima volta Pl rivendica ufficialmente un’uccisione. La vittima è Alfredo Paolella, docente di diritto criminale all’Università di Napoli, consulente del Ministero di Grazia e giustizia incaricato dell’osservazione criminologica nel carcere di Poggioreale.

Ma l’azione che crea più clamore è compiuta il 29 gennaio 1979, quando a Milano viene colpito a morte Emilio Alessandrini. È un giudice considerato democratico, ha indirizzato verso i neofascisti le indagini sulla strage di piazza Fontana, mettendo in luce il ruolo dei servizi segreti e le coperture istituzionali. Per Prima linea Alessandrini rappresenta una punta avanzata della controrivoluzione. Appartiene al settore di magistrati interni a quella sinistra che si è «fatta Stato», gestisce le leggi di emergenza, razionalizza gli apparati di giustizia per ridare credibilità ed efficienza alla struttura di potere. Alessandrini stava indagando sui movimenti e le organizzazioni armate, doveva assumere la direzione di una sezione dell’Antiterrorismo nel tribunale milanese, realizzare una banca dati e coordinare una ricerca sulla violenza politica. È un periodo di forti lacerazioni nella sinistra. Pochi giorni prima le Brigate rosse hanno colpito il sindacalista del Partito comunista Guido Rossa. Molti militanti sono disorientati.

Il Pci, da parte sua, collabora attivamente con lo Stato, anche con un proprio lavoro investigativo. Nel febbraio 1979 a Torino lancia un questionario antiterrorismo che suscita perplessità in vari ambienti. Prima linea decide di dare una risposta. Il 28 febbraio, in seguito a una segnalazione, il commando viene sorpreso in un bar da alcuni poliziotti. C’è una colluttazione, spari, raffiche di mitra. Rimangono uccisi due militanti, Barbara Azzaroni e Matteo Caggegi. Ai funerali partecipano molti settori di movimento. L’emozione è forte, come il desiderio di vendetta.

Prima linea effettua due azioni di rappresaglia. Il 9 marzo tende un agguato a una volante. Nel conflitto a fuoco muore accidentalmente un giovane passante. Il 18 luglio viene colpito il barista Carmine Civitate, in base all’errata convinzione che sia il responsabile dell’intervento della polizia.

Questa tragica catena di eventi provoca un lungo dibattito interno. Nella Conferenza di organizzazione del settembre 1979, a Bordighera, in provincia di Imperia, si sviluppa una battaglia politica fra due posizioni. C’è chi ritiene necessario tornare a radicarsi nel territorio e praticare il combattimento diffuso e chi intende invece verticalizzare lo scontro con gli apparati istituzionali. Il nodo non viene sciolto. Si decide una ristrutturazione organizzativa, con la creazione di un Esecutivo nazionale, ma si verifica anche la prima scissione. Alcuni militanti, convinti che la situazione esiga una ritirata, costituiscono il gruppo Per il comunismo. Presto si rifugiano in Francia, dove vengono arrestati ed estradati.

L’organizzazione lancia una campagna centrata sulla fabbrica, oggetto di pesanti ristrutturazioni. La parola d’ordine è Colpire il comando d’impresa. Nel settembre 1979 Prima linea uccide a Torino Carlo Ghiglieno, ingegnere responsabile del Settore pianificazione e presidente del Comitato guida del settore logistico della Fiat. In risposta ai ripetuti attacchi operati dai vari gruppi combattenti contro dirigenti e alla solidarietà di cui godono fra gli operai le organizzazioni armate, l’azienda adotta una linea dura. A ottobre, dopo consultazioni con i sindacati, vengono licenziati 61 operai, a cui l’azienda contesta un comportamento «eversivo». La successiva mobilitazione di massa è forte e decisa. L’anno successivo la Fiat annuncia quasi quindicimila licenziamenti, poi trasformati in cassa integrazione per circa ventitremila lavoratori. Dopo 35 giorni di lotta, il 14 ottobre si svolge la cosiddetta «marcia dei quarantamila». Dipendenti Fiat, colletti bianchi, quadri, capi reparto che chiedono la fine del blocco delle fabbriche e la possibilità di tornare al lavoro. Il sindacato accetta una resa senza condizioni.

L’11 dicembre 1979 un gruppo di Pl occupa militarmente a Torino la Scuola di formazione aziendale della Fiat, dove si formano i nuovi manager. Quasi duecento studenti vengono riuniti nell’auditorium, dove una militante spiega che l’istituto è stato attaccato in quanto centro nevralgico nella struttura del comando di impresa. L’irruzione si conclude con il ferimento alle gambe di cinque professori, dirigenti Olivetti, e cinque studenti. Tre giorni dopo, il 14 dicembre 1979, un nucleo dell’organizzazione viene sorpreso mentre sta preparando un attentato contro una fabbrica di Rivoli. In uno scontro a fuoco i carabinieri uccidono il giovane militante Roberto Pautasso.

Il 5 febbraio 1980, in una campagna sulla qualità della vita e la salute, a Monza è colpito a morte l’ingegnere Paolo Paoletti, considerato tra i responsabili del disastro avvenuto a Seveso nel 1976, quando dall’azienda chimica Icmesa si sprigionò una nube di diossina altamente tossica.

Il 19 marzo 1980 viene ucciso il giudice Guido Galli, docente, membro della commissione del Ministero di Grazia e giustizia per la riforma del Codice penale e collaboratore dell’Istituto di Prevenzione e difesa. Appartiene alla frazione riformista dei magistrati milanesi, individuata come strumento di repressione dell’antagonismo. Continua la campagna delle organizzazioni comuniste di disarticolazione del potere giudiziario e con essa del progetto di riorganizzazione di elementi di comando nel nostro paese. […] Si tratta di produrre un intervento per cui lo schieramento capitalista esca da questa fase pesantemente indebolito, destabilizzato, e su questo si costituisca stabilmente lo schieramento proletario rivoluzionario.

I pentiti e il crollo

Agli inizi del 1980 Prima linea si trova a fare i conti con la delazione, un problema che poco dopo contribuirà in modo decisivo alla rapida fine del gruppo. William Waccher, un giovane della rete dell’organizzazione, inseguito da un mandato di cattura, si consegna agli inquirenti e collabora con i magistrati. Il suo ruolo e le sue dichiarazioni sono marginali, ma è la prima volta che accade e il fatto appare inaccettabile. Viene colpito mortalmente da un nucleo dell’Esecutivo nazionale il 7 febbraio in un campo alla periferia di Milano. Le indicazioni di Waccher avrebbero permesso l’identificazione del «comandante Alberto», ovvero Marco Donat Cattin, ma rimangono prive di conseguenze. È Patrizio Peci, pentito delle Br, a svelare poco dopo l’identità del figlio del senatore democristiano, che riesce a espatriare in Francia. Le polemiche provocate dalla vicenda costringono il potente uomo politico a dimettersi dalla carica di vice segretario del partito. Lo stesso Peci fa il nome di Roberto Sandalo che, appena arrestato, inizia una confessione fiume. Accusato di alcuni omicidi, dopo due anni di carcere esce in base alla legge sui pentiti, approvata nel maggio 1982. È di nuovo arrestato nel 2002 per rapina e nel 2008 per attentati a moschee e centri culturali islamici.

Prima linea prosegue le azioni. Il 2 maggio 1980 viene gravemente ferito Sergio Lenci, docente universitario e architetto, autore del progetto di ristrutturazione del carcere di Rebibbia, definito «tecnico dell’antiguerriglia urbana». Il 26 giugno è effettuata una spettacolare iniziativa di propaganda sul treno Susa-Torino, con la distribuzione di volantini che incitano alla lotta armata e alla guerra civile.

Nell’agosto 1980 il vertice di Prima linea discute della nuova condizione, caratterizzata dagli arresti a catena e dalla rottura della solidarietà interna, con l’estendersi del pentitismo. Non si raggiunge un accordo e poco dopo alcuni militanti escono dall’organizzazione. A ottobre viene catturato Michele Viscardi. Inizia subito a parlare accompagnando i carabinieri in giro per l’Italia. Si mette in moto una catena che porta velocemente allo smantellamento dell’organizzazione.

Nell’aprile 1981 viene ratificato il superamento di Prima linea e la formazione di un Polo organizzato, punto di riferimento per i militanti ricercati. Dalle ceneri dell’organizzazione nel 1981 nascono i Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp) e il Nucleo di comunisti messo in piedi dal latitante Sergio Segio, il «comandante Sirio».

I due gruppi si limitano a qualche rapina di finanziamento, ad azioni contro la repressione e per la liberazione dei prigionieri. Il 3 gennaio 1982, in collaborazione, effettuano un’operazione eclatante. Un commando guidato da Sergio Segio fa evadere dal carcere di Rovigo quattro detenute, tra cui la sua compagna Susanna Ronconi. Per infarto, muore incidentalmente un passante, un pensionato iscritto al Pci. Pochi giorni dopo Lucio Di Giacomo, uno dei partecipanti all’evasione, viene ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Il Nucleo e i Colp sono presto smembrati dagli arresti.

Lo scioglimento e la dissociazione

Nel 1982 inizia la stagione dei maxiprocessi. Prima linea è l’organizzazione armata italiana con il maggior numero di inquisiti: 923, tra cui 201 donne. A Pl e alle strutture collegate sono riferibili centinaia di azioni. 23 con conseguenze mortali, oltre a un agente ucciso da un gruppo di fuoriusciti. 11 sono morti accidentali, non premeditate.

La definitiva chiusura dell’esperienza, dopo un percorso di discussione fra i militanti detenuti, è annunciata durante un’udienza a Torino nel giugno 1983. Nel documento Sarà che nella testa avete un maledetto muro, scritto nel carcere Le Vallette e considerato l’ultimo di Prima linea, si dichiara delegittimata socialmente la pratica di lotta armata per il comunismo in Italia.

Viene quindi criticata la dissociazione degli imputati del 7 aprile rinchiusi a Rebibbia, basata su un’«ablazione di memoria» e sulla «negazione di responsabilità» e l’«irriducibilismo continuista» di chi non ritiene conclusa l’esperienza combattente.

Formalizzato lo scioglimento, quasi tutti gli ex militanti di Prima linea avviano il percorso della dissociazione, del reinserimento sociale, della trattativa con lo Stato, creando le cosiddette Aree omogenee in alcune sezioni maschili e femminili dei grandi giudiziari metropolitani. Posizioni che contribuiscono a rompere la solidarietà, lacerare la comunità dei prigionieri politici, sottoposti in quegli anni a dure condizioni detentive con l’applicazione dell’art. 90 della riforma del 1975, che sospendeva il normale regime carcerario lasciando spazio a divieti, limitazioni, colloqui con vetri e citofoni. Gli effetti disgreganti della dissociazione si inseriscono in un clima che nelle carceri speciali era già stato reso molto pesante dal fenomeno del pentitismo e aveva portato nel dicembre 1981 e nel luglio 1982 all’uccisione da parte di detenuti di area brigatista di Giorgio Soldati, ex militante di Pl, e del Br Ennio Di Rocco, ritenuti delatori. Lo scontro fra dissociati e prigionieri che rifiutano il dialogo con lo Stato è duro.

Anche una parte della sinistra antagonista esterna al carcere conduce un’aspra battaglia contro la dissociazione, considerandola liquidazionista dell’intera lotta di classe, oltre che della pratica combattente. Per motivi opposti, ovvero la persistenza del «pericolo terrorista», settori consistenti dello Stato e della magistratura si oppongono allo smantellamento dell’impianto giuridico dell’emergenza, del regime di trattamento duro nelle carceri speciali, e all’allargamento per i dissociati della legislazione premiale prevista per i pentiti.

I detenuti delle Aree omogenee proseguono il dialogo con le istituzioni, in un percorso che definiscono di «mediazione conflittuale». Nel giugno 1984 Prima linea consegna le armi che le sono rimaste al cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, mostratosi aperto al tema della riconciliazione sociale.

Nel 1986 viene approvata la legge n. 663, la cosiddetta Legge Gozzini, che prevede misure alternative alla detenzione introducendo una logica basata sul binomio premio-punizione in funzione del comportamento del recluso. Nel febbraio 1987 arriva a compimento il lungo iter della legge n. 34, che concede sconti di pena a chi si dissocia dalla lotta armata. Queste due leggi, combinate, consentono ai dissociati di lasciare progressivamente il carcere, mentre i prigionieri che rifiutano ogni forma di dissociazione e soluzione politica, etichettati come «irriducibili», rimarranno ancora a lungo nelle carceri speciali.

Scheda tratta da: Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, Roma, DeriveApprodi 2015.

 

Rivendicazione azione contro sorvegliante carcere Le Nuove

Questa mattina un gruppo di fuoco dell’Organizzazione Comunista Prima Linea composto di sole compagne ha colpito una sorvegliante della sezione femminile delle Nuove Rossella Napolitano che si è particolarmente distinta per zelo e solerzia nel compiere il suo sporco mestiere di spia e di guardiana e che fa parte di quel personale non direttamente militarizzato che non si sporca le mani con le torture o i  pestaggi che vengono invece delegati alle solite figure come Cotugno e Lorusso, anche per le sezioni femminili, quando i ricatti delle sorveglianti e delle suore non bastano più a mantenere la normalità.
Il personale che gestisce le sezioni femminili ha solo una funzione di controllo, di assopimento delle tensioni, di riproposizione alle proletarie detenute dei modelli che da sempre garantiscono la soggezione delle donne: il lavoro domestico, la preghiera, l’asservimento alle gerarchie, la passività. Queste “dame di carità” bigotte e riformiste come la signora Cabrini dovrebbero essere nella mente del potere il nostro esempio di virtù. Le sorveglianti, le suore, le assistenti sociali che all’interno di un progetto complessivo si prestano a gestire le sezioni femminili come momento di ricatto e di divisione e come anello debole dentro al processo di socializzazione e di organizzazione del proletario detenuto, devono cominciare a stare attente: le lotte all’interno del carcere hanno identificato il loro ruolo e posto questi personaggi nel mirino dei proletari e dei loro reparti organizzati.
L’attacco contro di loro sarà calibrato alle loro responsabilità: morte ai torturatori, ai delatori, al personale strategico e direttivo: disarticolazione dei collaboratori, di chi accetta di servire lo stato “per un piatto di lenticchie” a prescindere se uomo o donna. Da tre mesi a Torino la sezione femminile delle Nuove è in lotta e da tre mesi le compagne si riprendono spazi di libertà e di socializzazione imponendo alla direzione e al personale di guardia di accettare quello che il movimento dei proletari prigionieri si è ormai preso ovunque. L’elemento che rende questa lotta esemplare non sta solo nell’aver ribaltato i rapporti di forza esistenti finora nelle sezioni femminili facendo propria l’indicazione emessa dal lager di Messina ma soprattutto nell’essere riuscita a coinvolgere le proletarie detenute e a porre nei fatti un processo di ricomposizione.
L’invalidamento della spia Napolitano è la risposta ai trasferimenti con cui ora la direzione cerca di attaccare i livelli organizzati nati da questa lotta ed è un avvertimento a questo personale ricordandogli che il fatto di essere donna non gli garantisce l’immunità. Solo la collaborazione con i detenuti in lotta può garantirgli la sopravvivenza, chi invece si fa strumento delle repressioni e serve lo Stato con “onestà e efficienza” verrà colpito secondo le sue responsabilità. Il livello strategico delle lotte dei proletari prigionieri è indicazione per tutto il proletario delle forme di lotta generali su cui assestare l’attacco al comando: è quindi ampia indicazione rispetto al movimento delle donne su come debba essere affrontato il rapporto con le proletarie detenute perché non rimanga ancora una volta un generico discorso di solidarietà che cade inevitabilmente o nell’intellettualismo dei “gruppi di studio” o nel movimento militante. La lotta di Messina e delle Nuove ha definitivamente fatto chiarezza su cosa si debba intendere per autonomia: lotta contro la propria condizione specifica che si fa solo all’interno della pratica di programma su cui si fonda l’esercizio del contro potere proletario e non pratica separata che ripropone anziché distruggere la subalternità della condizione della donna.
La qualità comunista delle lotte di questi anni, l’antagonismo espresso dai bisogni proletari e le contraddizioni materiali della crisi che si abbattono in prima persona sulle donne, costringendole a confrontarsi con i reali livelli di comando, hanno infatti sancito la fine del movimento femminista come movimento generico, ricco ma contraddittorio, hanno definitivamente rotto la falsa unità che nascondeva condizioni materiali differenti e punti di vista assolutamente inconciliabili. Chi oggi pretende ancora di riproporre una pratica separata e di mantenere su questa una falsa ideologia femminista si pone oggettivamente al di fuori del movimento rivoluzionario e finisce con il legittimare chi in questo movimento ha una funzione di delazione e controllo. La legge di liberazione dell’aborto è stata la risposta istituzionale ad una giusta esigenza delle donne e come tale è stata usata dai cosiddetti partiti di sinistra e dalle loro sezioni femminili per penetrare nel movimento: ma questa operazione è stata possibile grazie alle ambiguità che hanno caratterizzato sempre il movimento femminista. Questo significa che oggi, sul territorio delle donne proletarie si contrappone un apparato di controllo, che nasconde dietro una apparente partecipazione popolare, la realtà della pianificazione scientifica antiproletaria: la funzione dei consultori, degli asili, delle unità sanitarie locali, gestite nell’ambito del decentramento amministrativo, è la schedatura e il controllo capillare del corpo proletario. Ma lo sporco gioco di questi infiltrati è già stato smascherato dai percorsi reali, misurati sui bisogni complessivi, sia materiali che politici, che le donne più che mai si danno e che possono riproporre anche momenti di organizzazione parziali e specifici per la pratica di questi bisogni. Nelle fabbriche, nei territori, ovunque esiste proletariato femminile riconoscersi come soggetto politico per la lotta può voler dire infatti la costruzione di propri momenti organizzati, per i quali però non c’è possibilità di esistenza al di fuori dell’esercizio complessivo di contro potere proletario.
Oggi infatti autonomia femminista non può significare altro che il ribaltamento della propria condizione subalterna e pratica di liberazione all’interno di un programma comunista.
Tutto questo vuol dire porre nei fatti il superamento della propria specificità organizzativa da parte delle donne, è la capacità dei reparti avanzati di classe e delle sue forme di milizia di esprimersi su questa contraddizione fondamentale.
L’opportunismo con cui il movimento rivoluzionario ha sempre rifiutato di assumersi questa contraddizione, lasciando che a gestirla fossero solo le donne, ha finito per avallare l’ideologia del ghetto: oppure, quando ha cercato di assumerla, non ha saputo uscire da una logica terzainternazionalista, in cui il problema della ricomposizione di classe viene affrontato in termini di “fronte” e di alleanza tra vari settori del proletariato. Il gruppo di fuoco composto di sole compagne che ha colpito oggi Raffaella Napolitano è una scelta tattica con cui Prima Linea ha inteso affrontare il problema per imporre nel movimento la discussione su esso; per togliere le ambiguità che ancora persistono, per indicare una pratica corretta. Non c’è quindi nessun tentativo di  fondare stereotipe “sezioni femminili” che appunto rimandano ad una teoria di pratica frontista che non ci appartiene ma volontà politica di assumere anche questa contraddizione dentro un’ottica complessiva di potere, per ribaltarla in una logica di guerra e di attacco al comando nemico.

Organizzazione combattente
“Prima Linea”
Febbraio 1979

Il dibattito che l’operazione compiuta contro Alessandrini…

Il dibattito che l’operazione compiuta contro Alessandrini ha scatenato all’interno del movimento rivoluzionario è stato in gran parte privo di una analisi sul quadro generale dello scontro di classe in questa fase, e caratterizzato invece rispetto a schemi interpretativi della realtà e dell’iniziativa rivoluzionaria assolutamente inutilizzabili. Non mette conto, evidentemente, prendere in considerazione per il dibattito le interpretazioni, gli isterismi dei riformisti, stile: “più morti più caos, i terroristi sparano sulla sinistra, nel mucchio, sulle persone perbene non gli sfruttatori, servono alle destre e sono al soldo dei servizi segreti”. Ci interessa molto di più invece riportare il dibattito, il confronto, lo scontro se si vuole, su questioni riguardanti in maniera pertinente una prospettiva rivoluzionaria e la definizione in questo quadro di riferimento, di giudizi sullo sviluppo dell’antagonismo di classe, sulla tattica e la strategia del proletariato e delle sue organizzazioni rivoluzionarie nel suo percorso di liberazione. La mole dei problemi sollevati dalla discussione – dalla questione della legittimità delle organizzazioni rivoluzionarie ad eliminare dei nemici al rapporto fra lotta armata e movimento di massa – non può essere affrontata fuori da un quadro generale che tenga conto delle tendenze dello scontro, dei rapporti di forza fra le classi, della reale posta in gioco in questa fase storica, della maturità rivoluzionaria del proletariato moderno, della mostruosità della macchina che il capitale tenta di sperimentare sulla pelle dei proletari. È di questo che vogliamo discutere, cominciando a fornire alcuni parziali elementi al dibattito con questo intervento che, per il suo carattere di urgenza, ci ripromettiamo di arricchire o di proporre al più presto in maniera più definita ed articolata.

La dimensione nuova dello scontro di classe.

Si tratta di proporre e verificare dei riferimenti precisi che definiscono la dimensione attuale dello scontro di classe, la posta in gioco, e cioè quella capacità di cooperazione sociale, quel livello di rapporto uomo-natura che pone l’attività sociale dell’uomo in grado di modificare tutte le condizioni della sua esistenza. Oggi più che mai ci troviamo di fronte all’alternativa tra un percorso di riappropriazione capillare e globale da parte della classe di tutte le condizioni che permettono l’esistenza e la crescita di un individuo sociale ricco di bisogni e la distruzione da parte del capitale, in maniera drammatica, della vita e dei bisogni dei proletari. A questa dimensione generale dello scontro, che ha come esito il destino dell’intera umanità, è necessario riferirsi: una dimensione che ha come protagonista un proletariato nuovo che lotta per esistere e crescere, che combatte per non essere distrutto, frantumato dall’evoluzione del modo di produzione capitalistico, che nella lotta e nel combattimento esprime una propria socialità antagonista, una propria soggettività dentro e contro un modo di produzione in continua riconversione e riorganizzazione. A colpo d’occhio l’iniziativa proletaria in Italia ha prodotto spezzoni di lotta e momenti di pratica soggettiva che hanno evidenziato e combattuto ogni aspetto della società del capitale: ha evidenziato nella storia delle lotte di questi anni il maturare delle contraddizioni, la risposta del capitale allo sviluppo dell’antagonismo sociale, il saldarsi di questa risposta su scala internazionale, il modificarsi della composizione di classe in questo processo di trasformazione dei rapporti di forza mondiali, il ridefinirsi del proletariato dentro questa nuova situazione: l’imparare ad esistere e a confrontarsi con questa nuova realtà da una parte, e il prodursi, dall’altra, di forme complesse di organizzazione ed iniziativa soggettiva, che sono strumento per la riproduzione dell’antagonismo di classe, ma ancora ben lontane dall’aver offerto alla sezione di classe di questo paese una presa di coscienza, un’indicazione iniziale del peso delle sue lotte nei nuovi processi di trasformazione sociale, che non siano le ciance sull’”anello debole della catena imperialista”, vera panacea per ogni problema politico, definizione universale di ogni speranza rivoluzionaria. In passato si sono elevate alcune esperienze politiche (la rivoluzione bolscevica e quella cinese) a paradigma generale, a definizione perfetta della prassi rivoluzionaria. Successivamente non è esistito alcun soggetto rivoluzionario in grado di compiere un suo specifico percorso di rottura di assetti della società capitalistica e di definire una legge generale di movimento delle contraddizioni di tutta la società dell’uomo. La storia ci ha consegnato più modestamente, ma più utilmente, percorsi completi di sezioni di proletariato mondiale, di soggetti politici che si muovevano nella loro specifica situazione, dentro le contraddizioni generali di questa fase storica. Oggi il grado di sviluppo delle forze produttive, il dispiegarsi dell’antagonismo di classe, da una parte, definiscono il grado di interconnessione, di raggiunta omogeneità fra le diverse sezioni della società dell’uomo, dall’altra il modo di produzione che nasce come risposta del capitale alle contraddizioni di classe di questa fase, si dispiega su tutto il complesso della società: non si dà attività economica e produttiva che possa essere definita isolatamente dalla realtà dei rapporti di produzione complessivi. La semplice conseguenza di questa affermazione è che esistono limiti invalicabili alla lotta rivoluzionaria di una sezione del proletariato che non affronti esplicitamente lo scontro, misurandosi da subito con la lotta che le altre sezioni di classe conducono, producendo effetti determinanti sugli assetti di comando che su di esse pesano. In questa tendenza va sottolineato il rapporto di identità fra la lotta rivoluzionaria e transizione, la distruzione della definizione di una società futura verso la quale comincia la transizione in una qualche par-te del mondo: la società di transizione assume i caratteri della socialità antagonista, oggi da subito: la classe comprende la possibilità di una società nuova unicamente entro un percorso di lotta in continua evoluzione, ma che ha sempre come riferimenti precisi le forme e i contenuti di una socialità antagonista al capitale che il proletario si dà nella sua lotta, da un lato, e le forze che in termini distruttivi si contrappongono alla sua esistenza di individuo sociale ricco e antagonista. Si tratta di un processo enorme di innovazione della composizione di classe, che è realizzato e prodotto proprio dai processi di lotta, di organizzazione politica della classe: è la nascita di un proletariato nuovo che vive e si sviluppa nell’unica dimensione oggi possibile, quella della guerra. Lo schieramento rivoluzionario oggi vive nell’esperienza di lotta delle diverse sezioni di classe e dei diversi movimenti di guerriglia — dalle concentrazioni metropoli-tane del capitalismo maturo, ai paesi emergenti, agli Stati socialisti — che rappresentano riferimenti e fasi concrete della formazione di una cooperazione sociale internazionale e di una coscienza di classe del proletariato internazionale. E con ciò non ci riferiamo tanto a rapporti più o meno diplomatici tra istituzioni politiche, siano essi stati o organizzazioni rivoluzionarie, quanto alla circolazione della critica di massa alle società dominanti, alla circolazione su scala mondiale delle esperienze più o meno transitorie di lotta armata e di esercizio del potere operaio e proletario. Dai cicli di lotta in Italia e in Europa, alle rivolte nei paesi socialisti, ai movimenti popolari e proletari nei paesi emergenti di quest’ultimo anno, alle esperienze di guerra popolare e di guerriglia: si tratta di un tessuto di esperienze che è poi della classe nel suo complesso, che ancora non è vissuta come esperienza unitaria, profondamente contraddittoria, per un’ideologia della lotta rivoluzionaria che sta lentamente andando in pezzi mentre preme per emergere la nozione nuova del processo di transizione rivoluzionaria di tutto il proletariato, come processo complesso che può essere attuale a partire da alcuni riferimenti precisi: dall’antagonismo delle diverse sezioni di proletariato alle esperienze di lotta e di combattimento che oggi si giocano nel mondo. E torniamo così al concreto, cioè il rapporto da costruire tra soggetti politici esistenti, agenti nella dimensione dello sviluppo complessivo della contraddizione fra le classi.

Centralizzazione internazionale del comando capitalistico

La scelta del comando capitalistico per la prossima fase è quella di dare forma istituzionale più precisa, di dare regole più determinate all’assetto sociale, così come si è realizzato dopo un lungo processo di ristrutturazione, di riconversione dei rapporti sociali. È una scelta compiuta a livello europeo, con una forte accelerazione dell’iniziativa capitalistica di concentrazione del potere. Effetti di questo tentativo di ripresa di comando da parte del capitale sono la distruzione della valorizzazione del proletariato come classe antagonista, la ridefinizione dei costi di riproduzione della classe tornata ad essere solo forza-lavoro disciplinata e la ridefinizione del tempo di lavoro necessario. Si tratta, banalmente, dell’operazione contraria a quella compiuta dalla lotta proletaria, che ha dilaniato i costi di produzione, che ha reso impossibile al capitale fare i suoi conti con uno stravolgimento dei ritmi produttivi, del reddito, del salario e dei servizi per la propria riproduzione. La definizione dei nuovi contratti di lavoro, la ridefinizione della scala mobile, la riorganizzazione delle istituzioni che governano il mercato del lavoro con una istituzionalizzazione della mobilità della forza-Iavoro e della molteplicità di rapporti di lavoro a tempo parziale, a tempo determinato sono passaggi necessari per il capitale per sanzionare la frantumazione di ogni lotta operaia, necessità molto chiara dopo la prova di forza dei lavoratori ospedalieri e molti settori del pubblico impiego, cui si risponde con la trasformazione del loro contratto in legge dello Stato. È il tentativo di reimposizione della vigenza della legge del valore, della proporzione determinata di lavoro necessario e pluslavoro, misura assurda della produzione sociale. La capacità di confrontare istantaneamente le condizioni di produzione di ogni parte del mondo è la condizione necessaria per la ricostruzione della macchina sociale del capitale, con il diretto obbiettivo di distruggere soggettività proletaria, la socialità antagonista alle regole di questa macchina. D’altra parte, è un errore politico la sottolineatura esclusiva di questo obbiettivo, poiché il capitale non è diventato un puro mostro sadico: resta vero – e oggi più di prima – che l’unico linguaggio, l’unica descrizione di sé comprensibile a questa macchina sociale sono le qualità della sua valorizzazione, indubbiamente diventate il sogno folle di una macchina impazzita.

E infatti proprio nei paesi socialisti si scopre oggi, dentro una forma di comando totalizzante, che l’unica forma di programma che si contrappone allo sviluppo della soggettività proletaria è quella dell’imposizione delle proporzioni necessarie alla riproduzione del capitale. Questi passaggi si presentano profondamente contraddittori per il capitale, costretto ad accelerare la riorganizzazione degli istituti fondamentali della società, dei ceti sociali che gestiscono il comando: questa accelerazione di un processo di trasformazione attraversa in primo luogo i partiti politici e l’apparato giudiziario, ed il rapporto complessivo tra apparato centrale e decentrato dello Stato. È in questa fase che si manifesta la necessità di esprimere ad un esecutivo in grado di dare forma e forza alla volontà collettiva del ceto capitalistico di reimporre in pieno il proprio comando, anche in presenza di contraddizioni che lo lacerano nei passaggi più difficili di questo processo. Si capisce bene quale sia il significato in cui il comando capitalista sulla società si realizza per una sua estensione ad ogni momento della vita sociale e per l’esistenza momenti di comando sempre più alti cui compete definire i vincoli generali della riproduzione sociale. Si capisce bene quale sia il significato di un nuovo esecutivo a livello nazionale e sovranazionale: mantenere il più possibile compatti i diversi momenti del comando in presenza di un quadro di rapporti di forza tra le classi e tra i centri di potere capitalistico – poli di riproduzione del rapporto sociale di capitale – in trasformazione per un lungo periodo ed in presenza di un polarizzarsi dello schieramento tra le classi. In particolare la necessità di concertare le diverse forme di azione del comando capitalista nasce dal manifestarsi della iniziativa proletaria in forma combattente. Il capitale ha incorporato nel suo esistere una capacità di distruzione delle condizioni che conducono allo scontro di massa, senza peraltro impedire che esso si manifesti, ma limitandone sostanzialmente la tenuta e la continuità, questo ha reso sempre più evidente ai proletari la necessità di trasformare ogni momento della lotta in momento di attacco alle gerarchie di comando, di costruzione di forza proletaria combattente. Mai come in questo momento sono esistite le condizioni per un dibattito di massa sulla guerra di classe, sulla condizione dello scontro di classe con altri mezzi: questa è la condizione per l’apertura di una fase in cui le forze del combattimento proletario siano concentrate e dirette alla realizzazione di una tattica unitaria.

L’esercito antiguerriglia

L’apparato di comando capitalistico si sta concentrando sull’obbiettivo di una sconfitta proletaria che mostri perdente ogni scelta di combattimento come forma dello scontro di classe e sull’annientamento delle forze dei comunisti, che lavorano a rendere possibile questo passaggio nella vita sociale dei proletari, nella loro lotta quotidiana contro lo sfruttamento, a preparare in esso le condizioni per la costruzione dell’esercito proletario, della sua direzione strategica operando da subito per la costituzione di vasti settori della classe in movimento comunista in atto, in forza rivoluzionaria organizzata, in sezione combattente del proletariato internazionale. Dopo aver misurato l’estraneità del proletariato ai suoi progetti, alle sue necessità, l’azione controrivoluzionaria del comando del capitale è profondamente impegnata ad impedire i processi di trasformazione dello scontro di classe capillare in combattimento, in forza comunista capace di organizzare, dirigere e promuovere la guerra di classe in tutta la sua (…) e ad ogni livello di scontro necessario. Il centro delle capacità di elaborazione strategica del comando capitalistico nelle società multinazionali, nei loro momenti di elaborazione coordinata a livello internazionale, lavora a produrre un’amministrazione centrale e decentrata dello Stato, un personale della controguerriglia con un tipo di intelligenza analogo a quello che ha guidato la prima fase della riconversione capitalistica. In particolare tutto l’apparato delle leggi della magistratura che le applica è in trasformazione nel tentativo di dare forma definitiva a nuovi rapporti sociali, a nuove relazioni tra strati che emergono dalla riconversione a nuove forme del governo e dello scontro di classe. In Italia l’Arma dei CC si è evidenziata come l’unico centro sul terreno dell’antiguerriglia capace di indirizzare il lavoro per tutti e sotto la sua supervisione si stanno costituendo gli altri elementi che garantiscano il procedere di questo progetto. Il lavoro di Dalla Chiesa — ormai riconosciuto da tutte le forze politiche — filiazione diretta di tutte le massime esperienze europee sull’antiguerriglia stimola tutte le strutture dello Stato ad adeguarsi: la formazione in tutte le città di nuclei di CC e di magistrati che hanno imparato a lavorare insieme, la creazione della banca dei dati sul terrorismo, la centralizzazione alla procura di Roma di tutte le inchieste e le informazioni che riguardano i comunisti, il controllo sociale, la schedatura generalizzata delle masse, risultano lo scopo principale di tutte le riforme in discussione. La logica della guerra — di cui CC e magistratura si fanno protagonisti – diventa la logica generale in cui regolare i rapporti sociali. In questo progetto si risolvono le contraddizioni fra le varie correnti della magistratura unite nel salvare comunque e a qualunque costo, il “quadro democratico”, la funzione del magistrato (e la sua incolumità fisica) nella logica dell’inchiesta e del processo, messi in discussione dalla guerriglia. In questa logica, alcuni magistrati accettano definitivamente di assumersi responsabilità dirette di costituire e dirigere una struttura di guerra. Interi strati di funzionari “civili” diventano di fatto dei militari; la loro funzione, la loro stessa vita è regolata come quella degli ufficiali in guerra anche se questa è solo una tendenza: non è certo facile proteggere dall’iniziativa dei rivoluzionari tutti questi personaggi. Questo mentre Pertini, il presidente che garantisce l’unità antifascista dei partiti e delle forze sociali, sceglie come consigliere militare il gen. Ferrara, vero governatore dei CC, svolgendo un ruolo che assicura la continuità del potere politico e la centralizzazione degli istituti fondamentali dello Stato. In questa fase, particolarmente rilevante è il ruolo dell’Istituto per i problemi dello Stato del Pci: Pecchioli è di fatto l’alter-ego di Dalla Chiesa, e il suo lavoro garantisce ai CC l’intelligenza e la copertura politica di fronte alle masse. Ma questo personale, alla cui selezione e formazione il comando capitalistico sta lavorando, non è collocato interamente in partiti o associazioni: attraversa in maniera orizzontale tutto lo schieramento politico e sociale e per la sua individuazione non servono classificazioni come “destra” o “sinistra”, conservatori o riformisti, autoritari o progressisti: anche se evidentemente, la penetrazione riformista che le organizzazioni riformiste hanno nel corpo della classe fornisce loro maggiore lucidità, una più alta comprensione politica dei percorsi rivoluzionari. È assolutamente evidente come Alessandrini si collocasse organicamente rispetto a questo ceto politico-militare: da tempo stava lavorando a Milano alla banca dei dati sul terrorismo, guidava un gruppo di magistrati che aveva cominciato a studiare i problemi della lotta armata non solo a Milano e che si occuperà dei processi ai comunisti e alle Organizzazioni rivoluzionarie: il tutto nella completa “clandestinità” , tenendo ad occultare agli occhi (e quindi all’iniziativa) dei rivoluzionari uomini e strutture addette a tale compito, secondo i più stretti insegnamenti dei nuclei speciali di Dalla Chiesa.

I compiti dei rivoluzionari

Non si possono nascondere le difficoltà dei rivoluzionari a colpire le strutture fondamentali dell’antiguerriglia, tenendo presente la necessità di operare una selezione degli obbiettivi secondo criteri di subordinazione ad azioni di guerra, a fronti di combattimento di individuazione dei centri di direzione delle forze nemiche. Va condotto un attacco intelligente che spezzi le articolazioni del comando, che unifichi l’azione di combattimento della classe nelle sue diverse espressioni, che costringa lo Stato a misure prive di respiro strategico e di radicamento nel corpo della società, incapaci di coordinare l’azione capillare di governo dei rapporti sociali di cui la moderna società del capitale ha bisogno. È necessario andare avanti: come ad ogni proletario la prospettiva della lotta pone la prospettiva dei colpi che il nemico di classe porta alle sue possibilità di sopravvivenza, così i servi zelanti del comando capitalistico debbono avere costantemente davanti agli occhi ciò che il proletariato d’ora in avanti riserverà loro. Lo sforzo delle organizzazioni combattenti comuniste deve essere orientato a organizzare il combattimento proletario secondo questi criteri. Il rapporto dei militanti comunisti, dei proletari, con tutta la macchina della giustizia non sarà quindi altro che l’assunzione di una logica di guerra di classe, subordinata al ruolo che ogni proletario, ogni militante gioca nell’organizzazione dello scontro, secondo il criterio di coordinazione crescente di ogni azione di combattimento, di formazione di obbiettivi generali da attaccare e da distruggere, di rovesciamento dei tentativi di frantumazione del fronte proletario in momenti di riaffermazione dell’unità strategica dell’iniziativa rivoluzionaria di lotta, di combattimento di attacco della classe. Organizzare in esercito rivoluzionario i reparti avanzati degli operai e dei proletari comunisti. Costruire il partito della guerra civile di lunga durata.

Milano 1979

Prima Linea

Fonte: PROGETTO MEMORIA, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

Sarà che nella testa avete un maledetto muro

Il documento che segue, scritto in carcere e firmato da alcuni imputati al processo che si è svolto nel 1983 a Torino contro Prima linea, esprime le conclusioni del dibattito interno nell’ultima Conferenza di Organizzazione, che si è tenuta alle Vallette dal momento che i militanti erano ormai quasi tutti detenuti. Può quindi essere considerato l’ultimo documento di organizzazione.

C’è di tutto nell’orizzonte presente meno che il rischio della monotonia e della stabilità. Tra tanti episodi significativi ci sono anche timidi, occhieggianti momenti d’incontro e di reincontro, forse si comincia a non riconoscersi solo tra simili o forse è questa similarità ad essersi dilatata. Di certo la sinistra, senza aggettivazioni e specificazioni, sta riflettendo tanto su questi ultimi quindici anni di storia e di lotta quanto sui propri fondamenti, sulle proprie istituzioni ideologiche e politiche. Si tratta di rendere consapevole questo movimento, di motivare il faticoso riattraversamento critico delle esperienze compiute. Si tratta di chiarire la comunanza dei presupposti anche semplicemente passando materiali dalla non coscienza alla coscienza: per tutti diventa importante comprendere che le mille motivazioni delle frazioni forse sono un onere minore delle mille simiglianze d’ordine metodologico, politico, storico, ecc. Non ipotizziamo dei punti di arrivo, delle sintesi, per tutta la sinistra; piuttosto pensiamo ai punti di partenza, alle tesi fondanti, alla rifondazione delle differenze, se questo sarà l’esito. Non pensiamo neppure di porci al centro di questo percorso, piuttosto vogliamo rendere esplicita la nostra volontà di prendervi parte, portando tutta la consapevolezza della sconfitta della nostra particolare esperienza organizzata, ma anche la chiarezza di idee a proposito di quanto questa esperienza fosse debitrice alla tradizione ed alla prassi viva della sinistra intera. C’è un problema di strumenti, di linguaggio, di categorie, tutti usurati dalla scomparsa o dal ridimensionamento dei riferimenti e dei nessi sociali e politici che li avevano originati ed ordinati gerarchicamente: bene, l’abitudine e la consuetudine ci costringono a correre il rischio che è presente nel trattare, con una lingua morta e con una sintassi impazzita, una attuale configurazione sociale e politica che è attraversata da rapidi e sostanziali momenti di trasformazione. Noi, del resto, già anni fa abbiamo deciso di affrontare il mare aperto anche se le carte erano quelle di un mondo passato; già sconvolte le correnti ed i fondali da formidabili eruzioni. La finalità di questo testo è però molto più parziale, vi sono implicati solo alcuni temi che a noi preme affrontare immediatamente, una sorta di gradino solido dal quale sarà possibile accedere ad un ambiente più vasto. Dissociazione politica e irriducibilismo continuista non sono per noi speculari, non intendiamo restaurare alcuna sorta di teoria degli ‘opposti estremismi’, anzi nessuna estremizzazione è presente in queste due posizioni; più conseguentemente esse muovono dalle tesi di una sconfitta epocale del movimento di rivoluzione e di trasformazione positiva della società. Nel primo caso questa sconfitta è consumata e si tratta di salvarsi le brache e il loro contenuto, nel secondo essa è immanente e solo nello spirito – opzione ideologica – e nella penitenza – prosecuzione della lotta armata anche se socialmente isolata e demotivata – è la salvezza; dei principi, ovviamente.

Noi invece vogliamo partire dalla constatazione della sconfitta delle forme assestate, politiche e politico-militari, delle ipotesi organizzate e delle pratiche e degli obbiettivi concretati in una fase delle espressioni soggettive del movimento per il comunismo, legate in un modo diretto ad una esperienza sociale determinata e ad una particolare lettura dell’esperienza storica. Per noi questi anni trascorsi non vanno né rigettati col disprezzo e l’orrore di facciata dei dissociati, anche se abbiamo davanti tutti i nostri errori e peggio, né incensati e giustificati con la logica di tradizione staliniana di riscrittura accomodata della storia. Per noi all’opposto è centrale il nodo della memoria, strumento prioritario di ogni opzione critica, possibilità di comunicazione di sapere e di esperienza tra soggetti diversi; tra noi ora, e le soggettività politiche della sinistra da noi diverse ed anche opposte, tra noi e altri, nuovi, soggetti. All’opposto di un’operazione critica il dissociazionismo politico spiega le sue ragioni nella discontinuità, nella disconnessione, nella negazione di responsabilità, queste sempre addebitate ai ‘fraintendimenti’ o delegate ad altri: il suo obbiettivo, il risultato appetibile al potere, è la non-fruibilità sociale della intelligenza accumulata in questi anni, la sua rimozione. Se il messaggio immediato dei ‘pentiti’ è quell”homo homini lupus’, per i dissociati vale poi che nell’idiozia, beata di sé, della loro area omogenea, si valida il privato delle ragioni particolari, il privilegio delle relazioni del singolo con le istituzioni: essi si vogliono differenziare dagli altri e tra sé. Per noi opposta è la questione delle omogeneità, strumenti di riflessione critica, di pratica solidale che non punta a rinnovare questo o quel particolare fatto associativo ma a rendere partecipato e volontario il percorso trasformativo. Vogliamo però aggiungere che la ‘grande stagione’ della dissociazione ci pare finita, che il suo tentativo di costituirsi in Movimento è abortito, che ha avuto vita larvale solo per l’incapacità di affrontare i bisogni nuovi e le prospettive da parte della frazione politica della popolazione detenuta. Se la dissociazione opera all’ablazione di memoria (e non solo di quella militare-operativa!) l’irriducibilismo ne tenta il travisamento. Si danno due varianti, entrambe perniciose; il continuismo e l’immobilismo, variamente frammischiati. Continuista è quel Sisifo che ora spinge se stesso in guisa di pietra (abbozzo di monumento equestre) su per la china. Immobilista è quello che aspetta che la Storia gli dia ragione, almeno per il momento, per poter ricominciare ad affliggere gli altri con argomenti, ormai archiviati, che gli diano fiato per altri anni. Se i `mediocrates of pedestrium’ (di Saffiana memoria) della dissociazione costituiscono area omogenea sottraendosi a, gli irriducibili lo fanno continuamente sottraendo da sé, attraverso la chiusura settaria, la scomunica del ‘libero pensiero’, l’adorazione del passato reinventato, la prosecuzione di una pratica invalidata dalla carenza di proteine sociali. Tragica l’endemizzazione ormai raggiunta dai frantumi di lotta armata, grottesca la stupidità dell’individuazione del nuovo `cuore’ del progetto imperialista. L’irriducibilismo è ablazione del presente (ovvero di sé dal presente), è la versione dell’autismo dal campo psicologico a quello politico. Noi quindi riteniamo oggi delegittimata socialmente la pratica di lotta armata per il comunismo in Italia; ma questo è il punto di arrivo di un giudizio articolato che in parte si origina da una valutazione degli effetti perversi della sua praticazione residuale ma che comprende il riesame critico proprio di quel patrimonio teorico, ideologico e politico comune a tutta la sinistra, patrimonio da noi variamente tradotto in procedura di sistematizzazione della lotta armata e che ha originato l’espropriazione dei contenuti e dei saperi dei movimenti antagonisti, origine prima della crisi conclusiva delle O.C.C. Non si tratta di un giudizio storico ma pertinentemente politico, immediato, efficace; riteniamo si debbano esaminare criticamente i limiti fattuali che hanno pesato negativamente su presupposti ed esperimenti concreti negli anni ’70, hanno portato l’Italia ad essere quel laboratorio rivoluzionario in cui si sono sviluppati, per qualità e quantità, i livelli più significativi di guerriglia, non nazionalista o regionale, nei paesi ad alto sviluppo capitalistico. La posta in gioco è la ripresa adeguata di un processo rivoluzionario finalmente sgravato da ogni tesi totalizzante che depauperi l’enorme ricchezza e complessità delle pratiche antagoniste.

Non intendiamo porre alcuna ipoteca sugli esiti di questo dibattito, ma vogliamo che il tavolo di questa discussione sia sgombro di cadaveri eccellenti. Del resto più che l’illustrazione di ipotesi generali o metodologiche vale il fatto di aprire il discorso sui temi di attualità. Oltre alla L.A. per il C. è andato in saturazione un altro pilastro portante della tradizionale ipotesi del Movimento rivoluzionario, tra l’altro un’ipotesi vissuta molto più largamente, se non più intensamente: la grande lotta economica. Ad un’altra occasione (e del resto ciò è stato già fatto) spetta illustrare il travaglio profondo che ha portato a consunzione lo Stato Sociale (o Assistenziale) e la pratica di mediazione conflittuale nel campo economico. La ristrutturazione si è prodotta come rapido colpo di mano, evento catastrofico che colpisce localmente o settorialmente abrogando le consuete condizioni di vita, gli assestamenti e soprattutto ciò che prima appariva garantito. La crisi prima latente ed ora esplosiva del contrattualismo colpisce al cuore il potere sindacale sia nei confronti delle controparti padronale e governativa, sia rispetto al controllo della ‘forza di lavoro’. Anche in questo campo l’instabilità, prima procedurale, prodotta da frazioni minori di operai, che contestano politicamente ed operativamente la pratica delle centrali sindacali, ora diviene fatto intrinseco alla pratica di lotta economica, lotta formalmente economica, in cui grandi esplosioni sono tutte affidate al riverbero di fatti politici anziché al crescere sotterraneo di contraddizioni oggettive. Così, detto per inciso, ogni valutazione sul futuro, basata su una simile metodologia oggettivamente è destinata alla bancarotta. Così, il problema della pace e della guerra, problema ecologico, problema della ridondanza merceologica della produzione (merceologica! La fame c’è e rimane), problema della produzione di merci che non sono valori d’uso altro che ai fini del potere (armi, calcolatori…) tutti questi problemi hanno un impatto drammatico sulla vita degli uomini prima per la loro carica politica e solo dopo come determinazioni economico-strutturali. Non si tratta più di ragionare sul grado di politicità delle lotte economiche ma, al massimo, sul grado di contaminazione economica di lotte politiche settoriali. Così è anche all’interno del potere statale o del sistema dei poteri di oppressione, legalizzati o non, là dove le corporations non si costituiscono più per interessi settoriali aggregati (i ‘baroni dell’acciaio’ ecc.) ma per confluenze soggettive di interessi particolari non contrastanti o comunque mediabili nella scalata al potere denaro (P2). Da qui migliaia di morti nella guerra per l’eroina a Napoli, in Sicilia; da qui decine di cadaveri eccellenti, da Pecorelli a Calvi, ultimo il Procuratore Generale di Torino Bruno Caccia. Da qui ancora, la completa devalorizzazione della morte, dopo la devalorizzazione della vita, che questa organizzazione sociale e politica ha prodotto. Da qui, ancora e ancora, il nostro rifiuto a frammischiare la nostra lotta di liberazione con questa guerra tra bande. Tutti i riferimenti e le categorie della sinistra cominciano ad essere obsoleti, a partire dal suo orizzonte culturale. In primo luogo il riferimento alla giustizia economica, come presidio della giustizia politica, mostra la corda quando non vi è più alcun criterio di economicità a governare l’economia stessa. Anche il rovesciamento dell’assioma che viene operato da una parte della Magistratura, dalla parte meno compromessa col potere politico, sia essa di sinistra o di cultura liberale, ovvero: fondare sulla certezza del diritto, della giustizia legale, un generale movimento di equità nella ripartizione sociale della ricchezza, anche questo rovesciamento viene ridicolizzato dalle corporations interne e dalle cointeressenze politico-economiche. In realtà si tratta proprio di rovesciare tutto il sistema di pensiero e operativo basato sulla giustizia come valore affermativo, si tratta di capire il desiderio profondo di libertà, delle libertà personali e collettive che percorre il corpo della società, di capire come già oggi questo riferimento sia alla base di quanto di vivo è per le strade e per le piazze di questo e di altri paesi.

Via via che si chiariscono i contenuti attorno a cui vogliamo lavorare ci si ripresenta il problema dei luoghi e delle occasioni per cui questo dibattito possa decollare. Crediamo che oggi questi luoghi e queste occasioni siano i grandi processi in corso e quelli prossimi. Essi vanno usati come spazi collettivi di riflessioni e di esplicitazione di proposte e salti innovativi, come ‘congressi straordinari’ dei comunisti imprigionati. Ma questi spazi vanno dilatati fino a configurarsi come ‘convegni permanenti’ aperti all’intervento di tutte le forze politiche e sociali, in primo luogo a quelle che fanno variamente riferimento all’autonomia di classe, ma senza preconcette preclusioni nei confronti di quanti, con tutta la loro specificità, identità ed originalità, con le loro competenze anche disciplinari e professionali, sono interessati all’utilizzo di questi ‘convegni’ come occasione di:

1) Riflessione attorno a quindici anni di storia di lotta di classe in questo paese. 2) Lotta all’emergenza.

 

1) Noi siamo fermamente intenzionati a fare del riattraversamento critico del nostro passato un elemento di socializzazione utile alla rifondazione di un progetto di radicale trasformazione sociale di questo paese. Strappare la nostra storia dalle mani dei partiti e dei vari uffici istruzione, operare contro la devalorizzazione dei processi per lotta armata che si vorrebbero ridotti a mera ratifica amministrativa di anni di galera, ciò non è nostro privato affare perché per questa via passa una gigantesca azione di rimozione dei bisogni, delle aspettative, delle speranze di una intera generazione. Si vuole sancire l’inutilità della ribellione e forzare i tempi e le forme di una pacificazione coatta che cancelli per sempre il sogno della modificazione dello stato di cose presenti. Tutti hanno giocato pesante su di noi, caricandoci addosso la responsabilità della precipitazione degli scenari, delle condizioni e delle regole dello scontro. Eppure se la Lotta Armata negli ultimi anni non è stato strumento utile alle lotte di massa, ancora più grave è la responsabilità di chi ha rimosso l’orizzonte del conflitto di classe per sostituirlo con la disarmante pratica del patteggio istituzionale, qualificandosi come gendarmeria nei confronti di qualsiasi lotta e comportamento non compatibile con i precari equilibri perseguiti dal compromesso storico. Allora, ridefinire le regole del gioco vuol dire oggi riattivare il grande volano della lotta sociale, nelle determinazioni attualizzate dai movimenti emergenti.

La nostra storia e la nostra volontà di rivisitazione critica ci consentono di ritenerci partecipi importanti al lavoro di rifondazione delle ipotesi di trasformazione a sinistra; meglio, sosteniamo che nessuno possa lavorare in questo senso pensando di riaprire dinamiche trasformative, fondate su cicli di lotta offensiva, non diciamo contro di noi ma neppure senza di noi, non solo per il significato generale e paradigmatico che possiede il problema della nostra carcerazione, ma anche per l’impossibilità di disattivare quanto di memoria, esperienza e storia noi rappresentiamo! Attorno al problema della liberazione dei prigionieri politici si va delineando una significativa area di dibattito e di iniziativa politica. Intanto va valutato positivamente questo segnale politico. Ci importa però rilevare l’impossibilità di affrontare la questione in termini di `moratoria’. In nessun caso la liberazione dei prigionieri può essere una opzione per la pacificazione, intendendo la ‘soluzione politica’ come una sorta di atto finale che retribuisce coloro ‘che ci hanno provato’ ma hanno perso. Il problema va posto in tutte le sue articolazioni possibili di lotta e praticazione, come passaggio fondamentale per la ripresa dell’iniziativa antagonista e non può essere disgiunto dalla necessità di rideterminare nuovi rapporti di forza attraverso l’applicazione della pratica trasformativa ed una complessa serie di Fronti di Lotta.

2) L’emergenza non è una semplice escrescenza repressiva; non è la reazione dello Stato alla lotta armata e, più in generale, ai movimenti antagonisti degli anni 70. Essa si configura come strategia complessa che vorrebbe dare vita ad un sistema sociale fortemente corporato ed informatizzato: una versione aggiornata dell’incubo Orwelliano. Siamo, per ironia della sorte, proprio alla vigilia del 1984! Ma questo scenario non è che uno dei futuri possibili, la realtà è più complessa e contraddittoria. Non solo per la quota di resistenza operaia e proletaria che incontra questo disegno, ma anche perché non abbiamo di fronte un cervello del capitale in grado di programmare ogni singola mossa, di sovradeterminare e captare con eleganza o con forza e ferocia le dinamiche dei movimenti e della materia sociale. Siamo in una delicata fase in cui la capacità delle istituzioni di esercitare comando e controllo sociale è soggetta a processi di inflazioni. L’emergenza come totalizzante ‘solidarietà nazionale’ è ormai un lontano ricordo e le istituzioni sono incapaci di mediare alcunché attorno ad un ipotetico ‘interesse generale’. Eppure, di fronte alla insopportabilità ed alle pericolosità del vivere, nuovi movimenti e nuove forme di aggregazione (contro la guerra, contro il nucleare, per una diversa qualità della vita, ecc.) si connotano come movimenti trasformativi capaci di impattare gli elementi costitutivi dell’emergenza ed anche veicolare e sedimentare propri elementi ricompositivi e costitutivi; capaci di ridefinire nuovi valori positivi di autonomia, di sovranità, nuove forme cooperanti e di relazioni sociali. Diciamo con chiarezza che il nostro riferimento va assai più a questi movimenti piuttosto che a fenomeni di marginalità che, per quanto portatori di pratiche di violenza, interiorizzano e rappresentano la medesima crisi di integrazione e produzione di senso che viene proposta dall’alto dal Capitale.

Il nostro orizzonte di senso trasformativo va al di là della lotta all’emergenza. La ricchezza di bisogni, di relazioni, di tensioni alla trasformazione delle determinazioni concrete della vita degli individui, di ridisegno dei loro rapporti con l’ambiente e con la natura, è troppo forte per pensare di realizzarla con il ripristino delle condizioni di esistenza precedenti. Eppure l’emergenza è un ostacolo formidabile per la possibilità di ripresa ampia dei movimenti di lotta; essa combina ogni spazio societario, chiude ogni spazio di iniziativa, lavora a quell’assenza di lotta ‘che sembra pace e invece è soltanto deserto di vita e di idee’. Definire oggi battaglie e schieramenti di un Fronte Sociale e Politico articolato, in grado di sconfiggere quella che è l’ipotesi epocale di governo, significa intervenire subito sulle componenti immediate dell’emergenza. Non possiamo attendere la battaglia definitiva, dobbiamo dare ora spessore e forza ai movimenti politici di lotta (contro la protervia del padronato che vorrebbe cancellare la classe operaia come soggetto forte e protagonista della lotta di questo paese contro le scelte di guerra e gli insediamenti militari strategici; contro la legislazione e la carcerazione speciale, ecc.) per ricostruire la capacità di incidere, di far pesare nuovi rapporti di forza anche nei luoghi più opachi del potere, più chiusi all’iniziativa di massa.

Su questo terreno rifiutiamo ogni settarismo; su questi obbiettivi va ricercata la massima ampiezza di schieramenti sociali e politici, di tutte le forze che come noi considerano la fine dell’emergenza come preliminare alla ripresa di qualsiasi progetto di trasformazione di questo paese. Il senso ed il successo della mobilitazione rispetto al carcere di Voghera concorre doppiamente a chiarire i significati di queste cose che andiamo affermando: per un verso prosegue in modo naturale le caratteristiche di mobilitazione proprie dei movimenti contro l’installazione dei missili a Comiso, contro le centrali nucleari, contro la guerra, prosegue le mille forme di mobilitazione per nuovi spazi di vita per affermarsi come possibilità generale, non semplicemente economica; d’altro lato si sviluppa immediatamente contro la pratica d’emergenza. La stessa reazione da parte del Ministero degli Interni di un Governo al tramonto, di un pentapartito dominato da una futura instabilità strutturale, non più solo politica, mette in linea Comiso e Voghera.

Vive oggi una sostanziale ambivalenza dei movimenti che, se da una parte si aggregano su contenuti, desideri, opzioni sul futuro su cui fondano la propria indipendenza, dall’altra compiono incursioni, attraversamenti, intrecci con l’assetto istituzionale della società, portando anche al suo interno critica radicale, interagendo con esso per reimporre modificazioni o ‘estorcere vittorie’. È il caso concreto dei movimenti nord-europei, esperti in ‘mediazione conflittuale’ con lo Stato e ricchi di momenti di rottura di alcuni assetti societari: in cui la battaglia si dà non certo sul ‘quantum’ di distanza si riesce a mantenere dalla trama istituzionale, ma sulla capacità di occupare spazi di autodeterminazione sulle scelte fondamentali, sul futuro, sulla libertà, sulla qualità della vita, sottraendo progressivamente allo Stato terreni e luoghi di vita sociale collettiva, ma anche condizionando i processi decisionali in sede amministrativa-istituzionale; è il caso di alcune esperienze alternative di vita e di produzione, ma anche delle grandi opzioni popolari in tema di libertà sociali e di destini umani (aborto, divorzio, centrali nucleari, ecc.), che hanno sotteso alcune grandi vertenze sociali e prassi referendarie, di cui oggi si tratta di riscoprire l’efficacia e l’importanza. Per noi il problema è come partecipare dentro il carcere ma soprattutto dal carcere a questa nuova crescita di spazi di autodeterminazione di lotta, di autogestione non solo del proprio, privato ‘piccolo campo’, ma dei riferimenti generalmente umani, sociali, di libertà: pensiamo ad un movimento che rapidamente prescinda, rispetto alle questioni della carcerazione, tanto dalla ormai logorata esperienza delle organizzazioni combattenti comuniste quanto dalla logica specialistica dei ‘detenuti politici’. Si tratta di avviare un discorso generale sulla socializzazione della carcerazione e sulle condizioni generali di libertà che strappi questi temi dalle mani dell’area della dissociazione, che ne fa strumento di privati fatti, per ristabilire dinamiche conflittuali, vissute largamente da ampi strati sodali, mirate ad uno scontro con l’istituzione carcere che ponga in tempo reale ed in termini realistici il problema di una soluzione di libertà. Per questo obbiettivo indichiamo una lista di temi che non vogliono essere un programma rivendicativo ma una sorta di work-in-progress da consegnare direttamente nelle mani di chi, dentro e fuori dal carcere voglia intervenire:

– Abolizione della carcerazione speciale e di tutte le articolazioni di differenziazione (braccetti, carceri punitive, ecc.).

– Abrogazione immediata dell’art. 90 dal testo di legge di riforma carceraria del 1975.

– Abrogazione di tutte le aggravanti messe in atto dalla legge Cossiga, della legge Reale e di tutte le leggi di emergenza.

– Ritorno alla legge Valpreda rispetto alla carcerazione preventiva e sviluppo di nuove forme di garanzia.

– Depenalizzazione dei reati associativi (associazione sovversiva, a delinquere, banda armata).

– Soppressione delle pene relative ai reati cosiddetti strumentali ed ai reati c.d. di mezzo.

– Abolizione dell’ergastolo ed immediatamente delle barbarie degli anni di isolamento normalmente comminati con esso.

Su questi temi chiediamo ogni forma di contributo, dall’intervento interlocutorio alla sottoscrizione pubblica di questo testo, consapevoli che comunque non è che l’inizio.

 

TORINO
Carcere Le Vallette, 1983.

 

L’antagonismo totale tra il sistema dei bisogni…

L’antagonismo totale tra il sistema dei bisogni del proletariato – critica ai rapporti sociali di produzione capitalistici – e la necessità del capitale di imporre le proprie regole a tutta l’organizzazione sociale, di sottomettere a sé ogni potenzialità di cooperazione, rende la lotta operaia lotta sovversiva, distruttiva dei rapporti sociali esistenti. Il capitale si arma contro la lotta operaia, proletaria sovversiva; irrigidisce ogni rapporto sociale, ogni articolazione del suo modo di produzione nella difesa della propria necessità di valorizzarsi e di espandersi; allinea figure di comando che presidiano ogni più piccolo passaggio dei rapporti di produzione, ogni più recondita piega del vivere sociale; sentinelle, trincee successive – percorsi di guerra imposti alla lotta proletaria – che la lotta proletaria deve aggredire. L’esplosione di comportamenti autonomi da parte del proletariato ha provocato una proliferazione incredibile di figure di comando, di regolamento per ognuno dei passaggi della vita sociale. Ciò che il capitale cerca di imporre è una pratica tremenda di terrore, di distruzione fisica del proletariato, di logoramento di ogni briciola di potere politico.

Dalla fucilazione dei militanti rivoluzionari, alla tortura, al sequestro dei militanti della lotta operaia, alla sanzione del diritto di esproprio del reddito proletario a favore del blocco sociale antioperaio, fino all’azione quotidiana del più sconosciuto capo officina, ogni giorno il capitale produce una montagna di provvedimenti, sanzioni, ingiunzioni, decreti che applicano le sue regole generali. Se lo Stato rappresenta l’assunzione centrale della regolamentazione dei rapporti di produzione capitalistici, ogni cosa è parte dello Stato, tutta la vita sociale si fa stato, amministrazione violenta della necessità del capitale. La socializzazione del comando è la fonte di legittimità del comando stesso. La nuova democrazia è una foto di gruppo delle gerarchie sociali di comando che sono garanti del regolare sviluppo del capitale. Dopo la confusione generata dalla trasformazione degli istituti di contrattazione e di mediazione dei conflitti – consigli di fabbrica, decentramento amministrativo, organismi territoriali – in puri organismo di comando. Questo salto politico è fondamentale poiché permette una generalizzazione di indicazioni politiche di combattimento, di iniziativa di lotta, dall’organizzazione combattente al quadro combattente proletario e agli istituti della lotta di massa. L’iniziativa capitalistica ha chiuso una fase di lotte in cui era immediata la conquista di obbiettivi, l’imposizione di una pratica di programma con la semplice lotta di massa; il capitale risponde con la guerra, con il funzionamento rigido delle leggi della società. Le giornate di marzo sono state una grande lezione: da condizioni oggettive che massificavano bisogni e caratteri politici del proletariato si è passati alla lotta di massa contro lo stato. In essa si sono esplicitate le diverse ipotesi politiche che vivono nell’area rivoluzionaria tra le organizzazioni combattenti, si sono manifestati i limiti della rete organizzata che ha diretto queste lotte e ha fatto pratica di combattimento in quella fase. La domanda politica sviluppata in questi mesi, la ricerca di una chiarezza, di un progetto lucido di prospettiva e di organizzazione impone di rompere tutte le nozioni di ‘area’: da quella autonoma a quella armata, di scatenare la battaglia politica, di confrontare proposte politiche con la tensione rivoluzionaria che vive nel proletariato e nella classe operaia.

Ciò che va puntualizzato prima di tutto per il dibattito – che in maniera parziale e interlocutoria cominciamo ad introdurre in questo numero zero del giornale di PL – è la natura del processo di ristrutturazione complessiva degli assetti capitalistici. Va capito non solo come si moltiplicano le figure di comando, se ne serrano i ranghi, ma si esplicita il carattere politico di dominio della struttura produttiva. La forma della produzione non ha niente di naturale, ha la natura del capitale, della distruzione – in ogni suo passaggio – della forza politica, sovversiva della classe; ha il carattere della espropriazione di ogni scintilla di forza creativa del proletariato. Il capitale non produce più singole merci e macchine ma strutture generali di comando sulla produzione, assetti produttivi territoriali in cui garantire il profitto. Il comando sul meccanismo di accumulazione, la sottomissione di ogni capacità produttiva. Si vendono assetti territoriali, macchine, tecnologie, scienze, tecnici per svilupparle.

Tutto ciò è sottomesso ai movimenti del capitale sulla scala del mercato mondiale: dalle armi alla scienza del comando, della produzione, della amministrazione… Produzione e comando sono inestricabilmente intrecciati. Da ciò segue la messa all’ordine del giorno per la lotta operaia e la pratica combattente dell’attacco alla circolazione delle merci come riproduzione del comando sulla classe. Alla socialdemocrazia in questa fase in Italia in particolare è delegata la riproduzione del comando in ogni luogo della società, la costituzione dello stuolo di funzionari del capitale ad ogni stazione della catena di produzione capitalistica. Essi sono i guardiani fedeli dei rapporti di produzione, i fedeli esecutori (i più fedeli di tutti) delle direttive del capitale. Sono i promotori di quel processo di legittimazione e di ricostruzione del comando che passa per la sua socializzazione. Sono i cani lupo più accaniti, i segugi più feroci nel seguire la pista dei rivoluzionari. L’attacco generale alle concezioni fondamentali del dominio del capitale, lo svelamento dell’aspetto politico di ogni condizione del proletariato in questa società è oggi più che mai possibile per la miseria di ciò che la socialdemocrazia ha messo in piedi come adesione operaia al progetto del capitale, come blocco operaio antiproletario. Certo la ristrutturazione ha messo a segno parecchi colpi, la socialdemocrazia e gli istituti sindacali hanno spezzato a più riprese le capacità di mobilitazione della classe, ma è da oggi cha ha inizio il tentativo di consolidare alcuni puntelli fondamentali per il comando capitalistico, sulla base dell’attacco portato in questi anni. Il capitale – recitando lo scontato gioco delle parti nelle trattative istituzionali, secondo i ruoli affidati dopo il 20 giugno – passa all’attacco del cuore della classe operaia, porta lo Stato in fabbrica, stringe i ranghi, rinnova le attrezzature, rilancia i nuovi centri di impresa e finanziari, scarica sul proletariato tutto quanto i nuovi assetti internazionali della produzione e del mercato richiedono, affinché la grande impresa italiana e con essa tutto l’apparato produttivo stia al suo posto nella gerarchia imperialista. Il ruolo conquistato dalla grande impresa italiana pubblica e privata, dai centri finanziari come impresa multinazionale, la competitività sul mercato mondiale di settori produttivi tradizionali, mantenuta con il nuovo decentramento produttivo, sono la base del rilancio che il capitale internazionale è deciso a sostenere nei confronti del suo segmento italiano. Si apre un dibattito fra i comunisti, sul quale ora non ci soffermiamo, sul ruolo che un processo rivoluzionario in Italia gioca nel determinare contraddizioni più vaste nel mercato mondiale. Lo sviluppo di una opposizione operaia alle nuove condizioni determinate nei diversi paesi dalla ristrutturazione (Francia, Spagna, Inghilterra fanno testo), l’applicazione delle regole della produzione capitalistica dal sud-America ai paesi socialisti (richiedono la costruzione di nuovi assetti politici e sociali, il che rende omogenee le diverse situazioni nazionali molto più di prima), la definizione di una maggiore centralizzazione dell’azione del capitale e quindi, per così dire, l’unificazione delle controparti delle diverse sezioni del proletariato internazionale, tutto questo compagni fa nascere nuovi problemi per i comunisti che si sforzano di prevedere i passaggi della guerra civile in Italia, il formarsi degli schieramenti. Fa anche della lotta rivoluzionaria del proletariato italiano un punto di riferimento storico di un processo più generale, che in tutti i paesi vede una crescente politicizzazione dello scontro di classe, e con essa l’esplicitazione dei reali interessi in gioco. A fronte di questo assistiamo ad un processo che va incrementato e guidato, di sabotaggio sociale da parte dei proletari: cresce il combattimento proletario e l’iniziativa dei settori più lucidi delle organizzazioni combattenti. Contro la scientificità, la capillarità, l’estensione dell’attacco capitalistico si deve radicare il combattimento come sviluppo della guerra da parte proletaria, con caratteri di stabilità, di regolarità, di riproduzione di strutture embrionali di esercito proletario.

Sbaglia chi oggi spara a zero contro lo spontaneismo del combattimento proletario e vuole ridurre il combattimento ai soli percorsi verso l’organizzazione ed alla sua pratica diretta. E’ vero invece che si deve radicare una pratica combattente fondata sulla definizione precisa dei terreni di scontro, delle forme di organizzazione, dei rapporti tra disarticolazione del comando nemico, riappropriazione di ricchezza sociale, e costruzione di organizzazione. Lo sviluppo del combattimento proletario è un processo contraddittorio e collettivo: è imperativo il confronto serrato fra le formazioni che lo praticano. Questo non può essere ridotto ad uno schema fisso, comunque oggi lo sviluppo dello scontro deve contemporaneamente arricchire, trasformare, ma anche omogeneizzare un tessuto organizzativo che sia in grado di riprodursi nelle sue caratteristiche fondanti. Deve attuarsi una dialettica tra massimo di scontro politico e sforzo di omogeneizzare la tattica. Del resto l’evidenza dell’iniziativa del nemico di classe, la forza con cui si riproducono elementi di programma nelle lotte proletarie spingono in quella direzione. E’ tale l’esperienza accumulata in questi anni, la legittimità degli obiettivi, degli elementi di programma ad essi collegati, i modelli operativi che per non farlo ci vuole una precisa volontà contraria. Il superamento delle istanze di semplice autonomia, la nascita di una tensione apertamente rivoluzionaria, producono una forte domanda politica che qualcuno confonde con la delega; si tratta in realtà di domanda di intelligenza politica come capacità di cogliere il progetto del capitale, le contraddizioni e l’unità della coscienza proletaria, i passaggi della costruzione, nella guerra civile, dell’organizzazione di combattimento della classe. E’ maturo a questo punto un discorso sui caratteri fondamentali dell’organizzazione comunista combattente, sul programma rivoluzionario.

 

L’organizzazione

Mentre il proletariato tenta di sciogliersi dalla sua esistenza duplice ed ambigua, in questa società, di forza-lavoro socializzata, sottomessa al capitale, e di soggetto politico irrimediabilmente contrapposto ad esso, l’organizzazione comunista esprime la volontà lucida della parte avanzata della classe di abbattere la società e di realizzare un processo rivoluzionario. La delega da parte del proletariato, l’esternità dell’organizzazione, non si basano su una separazione tra una parte maggioritaria della classe passiva ed attendista ed una minoranza superattiva che si sostituisce al compito storico del proletariato, ma sul rapporto dialettico tra lo strumento di lotta rivoluzionaria che è l’organizzazione e lo sviluppo della faccia rivoluzionaria della classe a scapito di quella di forza-lavoro, di merce particolare del mercato capitalistico.

L’intelligenza politica dei comunisti, la loro pratica combattente non sono altro da questo: la riproposizione al proletariato stesso, in forma stabile e lucida, di quanto esso ha prodotto come scienza della rivoluzione. L’organizzazione comunista combattente allora sviluppa la sua opera di promozione e di direzione del combattimento operaio e proletario, per un’articolazione massima dei diversi livelli di maturità organizzativa e politica, per una massima definizione e circolazione dei modelli operativi. Lo sviluppo del combattimento diventa elemento centrale di rovesciamento della vita del proletariato, strumento per la pratica e la permanenza dell’antagonismo verso questa società: si apre una dialettica positiva tra definizione del sistema dei bisogni, programma rivoluzionario e crescita degli strumenti di lotta rivoluzionaria, che si articolano nei diversi modi di esistenza della classe in questo periodo storico.

 

L’azione combattente dell’organizzazione

All’altro polo di queste posizioni politiche stanno coloro che negano la necessità dell’azione di organizzazione, la usa esplicitazione agli occhi delle masse. La lunga storia del combattimento in Italia ha prodotto in una rete di quadri comunisti un dibattito politico, che permette di indirizzare lucidamente l’azione combattente contro i nodi del dominio del capitale, che permette di colpire secondo previsioni politiche precise sullo sviluppo dello scontro, che disarticola la capacità scientifica del capitale di costruire il proprio dominio. Del resto è di fronte agli occhi di tutti la trasformazione continua della pratica di organizzazione per un avanzamento dei terreni di scontro e per uno spessore sempre maggiore del combattimento proletario; l’osmosi continua tra pratica soggettiva d’organizzazione e radicamento di organizzazione combattente nella classe; l’azione dispiegata su tutta l’ampiezza dei rapporti sociali; la dialettica fra proletariato e lo sviluppo e il radicamento delle capacità di combattimento dentro la classe operaia. Si debbono necessariamente esplicitare i nessi tra pratica di programma e crescita di un programma rivoluzionario, tra disarticolazione del comando nemico e crescita di un’esistenza politica sovversiva autonoma combattente della classe. Non faremo qui il lungo elenco degli obiettivi della lotta proletaria che sono assieme proposta di bisogni immediati da soddisfare, critica pratica a questa società, proposta di programma per una nuova società: ampiamente ne dibattono il movimento ed i rivoluzionari. È difficile oggi immaginare una proposizione di programma che non sia frutto della pratica stoica della classe, d’altra parte svanisce nella memoria collettiva della classe il ricordo del programma che ha praticato e resta patrimonio di intellettuali nostalgici, se questi elementi non si trasformano da subito in pratica combattente.

Ci interessa poi il nesso tra distruzione di comando e costruzione di forza collettiva della classe. Il rapporto con le merci, con il prodotto finito, con le strutture sociali, ne è parte fondamentale, esso è determinato dallo scontro, dai rapporti di forza fra le classi. Nelle merci non va letto soltanto il carattere distruttivo dei bisogni proletari ma anche la funzionalità al dominio del capitale. Per definire un atteggiamento corretto nei confronti del prodotto finito non si può operare un’astratta suddivisione fra valore d’uso e valore di scambio, soltanto la conoscenza concreta di come le merci e la produzione comandano sui proletari, di come il possesso della ricchezza nelle mani degli espropriatori ricatta i proletari, può fondare parametri corretti di valutazione. Si può sottolineare la funzione della ricchezza sociale come valore d’uso solo se la forza dei proletari organizzati è in grado di sottrarla al dominio del capitale. Parte del dibattito che si è sviluppato dopo le azioni alla Magneti-Fiat, alla Sit-Siemens di Milano, alla Fiat di Prato, è stato contagiato da forti tentazioni opportuniste: si attribuiva a queste azioni la responsabilità di far arretrare il dibattito ad un periodo in cui la ristrutturazione non aveva ancora piegato il processo produttivo ad una forma adatta a piegare la classe nei suoi nuovi assetti internazionali, nel suo decentramento territoriale, nella concentrazione del potere finanziario che aveva sottomesso a pochi centri di potere il controllo sul ciclo produttivo. Che il nodo da sciogliere sia il potere politico, la capacità di esercitare forza, è evidente per esempio nello sviluppo del combattimento proletario contro il decentramento produttivo, le forme di lavoro nero in cui non si riesce a legare disarticolazione del ciclo produttivo come forma di comando e riorganizzazione della forza proletaria per legare sopravvivenza e lotta. Appare chiaro che si sottovaluta il nesso che esiste tra azione di reparti avanzati della classe che disarticolano per primi il comando nemico e schieramento rivoluzionario che si realizza nello scontro: la parte avanzata della classe nella sua azione pone il resto del proletariato nell’alternativa tra avviarsi ad una strada di lotto e/o legarsi al carro del capitale per ricrearne le condizioni di dominio. Il sabotaggio del funzionamento generale della macchina capitalistica è stato ed è tuttora pratica delle lotte di massa; quando il capitale si arrocca, si arma, consolida i passaggi fondamentali dei processi di riproduzione, allora l’azione politica della classe si deve elevare. A nulla valgono ancora una volta le accuse di sostituzione alla classe, vale invece il principio di articolare i terreni politici di attacco, di fornire alla classe nuovi strumenti per lottare. Vale il principio di rendere pratica la critica allo sviluppo mostruoso del capitale.

Stante l’attacco concentrato in questi mesi al reddito proletario ed alla rigidità del mercato del lavoro, si prevede una ripresa di lotte per la riappropriazione di elementi di ricchezza sociale: ciò si svilupperà ed avrà continuità se, e solo se, l’attacco al comando come lo abbiamo descritto creerà e fonderà le condizioni per cui quelle che fino ad oggi sono state soltanto parole d’ordine di movimento – il contropotere, la milizia proletaria – diventino pratica reale di costruzione di organizzazione. Il nostro punto di vista sull’organizzazione è la negazione della concezione che identifica sviluppo del partito e dell’esercito proletario in un unico soggetto, che poi è l’organizzazione comunista combattente, che punta a forzare i passaggi sulla reazione dello Stato alla iniziativa rivoluzionaria, sulle sconfitte degli strumenti di lotta operaia autonoma, questo nega una dialettica tra masse e partito, una dialettica di scontro politico interno alla classe. Quando evidenziamo la necessità del carattere politico militare della organizzazione proletaria noi intendiamo affermare la dialettica precedente, poiché questa fase di scontro ci ha sì consegnato una serie di vittorie per il capitale, il ricomporsi di un suo blocco sociale, elementi di un suo progetto politico, assieme però ad una tensione operaia e proletaria a contrastarlo, a realizzare il proprio sistema di bisogni con uno scontro frontale, senza mediazioni nella prospettiva di un lungo processo di lotta rivoluzionaria. Non confondiamo alcune ipotesi sconfitte come quella dell’area dell’autonomia: una visione aggregativa della costruzione dell’organizzazione, di fronte alla potenzialità rivoluzionaria della classe ed al radicamento crescente di ipotesi ed elementi di organizzazione in essa.

Oggi è sufficientemente maturo un ceto politico rivoluzionario, con conseguente radicamento di idee rivoluzionarie nella classe, perché si imponga un rapporto diretto tra masse ed organizzazione, perché nella classe si sviluppi parallelamente dibattito sull’organizzazione combattente proletaria e sul partito, perché appaia chiaro il nesso tra sviluppo del combattimento e del programma, perché l’azione intelligente dell’organizzazione costruisca la figura del combattente, dell’agitatore del programma, del dirigente dei nuovi processi di organizzazione delle masse. Il processo di costruzione dell’esercito proletario in un paese a capitalismo avanzato passa per l‘intreccio tra organizzazione combattente e istituti di potere della classe.

 

Sulla rappresaglia, sull’attacco alla figura di comando

La storia di atti di rappresaglia in Italia, l’intensificazione nell’ultima fase dell’attacco alle figure di comando impone di dare precise indicazioni politiche a questo proposito. L’intensificazione dello scontro armato in Italia, il precisarsi dell’azione controrivoluzionaria con l’obiettivo di annientare i quadri combattenti – l’ultimo episodio della fucilazione del compagno Lo Muscio insegna – e insieme di sbaragliare la rete operativa e proletaria di movimento, tutto questo fa si che l’eliminazione di un nemico non è più un atto isolato di rappresaglia, ma un’azione precisa contro i corpi più efferati delle truppe della controrivoluzione, contro i centri di comando dell’attacco antiproletario. L’organicità al progetto capitalistico di tutte le forme di attacco controrivoluzionario rende la rappresaglia parte dell’azione generale delle forze combattenti.

Al di là di punte più o meno alte dello scontro, in cui si intensifica l‘azione di guerra, l’azione combattente ha carattere di continuità in ogni suo aspetto: proprio per questo è molto grave quanto è accaduto a Roma nel tentativo di colpire la guardia carceraria Velluto, non è ammissibile l’errore in una azione simile, ai compagni che l’hanno compiuta va la responsabilità di aver fatto arretrare nei proletari la comprensione della necessità dell’attacco, di confondere i contenuti di cui è portatrice l’azione combattente. La decisione di eliminare un nemico oggi è più attuale parallelamente al fatto che lo scontro diviene più duro in ogni suo aspetto, infatti all’altro polo dello scontro di classe l’opera di delazione dei vari momenti del comando decentrato rende necessaria un’azione più dura contro di esso, sia pure calibrata alle necessità. Rispetto all’invalidamento delle figure di comando va detto che all’organizzazione combattente compete la promozione del combattimento proletario su questo terreno e la definizione della sua azione ad un livello di intelligenza e di attacco più alto, e che queste due cose vanno nettamente differenziate, che non vale più la sostituzione del combattimento proletario con l’organizzazione o l’appiattimento di questo tipo di azione ai suoi livelli medi consolidati. Va detto anche qui che l’organizzazione combattente quando sbaglia provoca grossi danni politici a se stessa ed agli altri. In queste settimane ci siamo assunti la responsabilità di alzare il livello di attacco alle figure di comando, parallelamente ad un livello di promozione del combattimento proletario su terreni che in passato erano propri dell’organizzazione: questa è indicazione che vale per tutta la prossima fase. La suddivisione tra i terreni di combattimento dell’organizzazione e del combattimento proletario va definita in modo preciso anche nello scontro con le forze armate della controrivoluzione, dello Stato, in azione complessiva che cominci a rendere impraticabili i modelli con cui esse controllano i territori, bloccano città, entrano nelle fabbriche. La disarticolazione complessiva dell’apparato di comando è indicazione che nasce dalle lotte di questi mesi, passaggio necessario al proseguimento di ogni iniziativa proletaria.

 

Prima Linea

 

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. 263-269.

 

Carla e Charlie sono due comunisti. Stralci

Carla e Charlie sono due comunisti, militanti della nostra organizzazione. Il Gruppo di Fuoco di cui facevano parte era in quella zona per compiere un attacco contro Michele Zaffino, attivista del PCI e presidente del consiglio di quartiere. Costui si è distinto a Torino per alcune azioni tipicamente poliziesche nei confronti del movimento di lotta proletario, delle sue avanguardie combattenti.
Ha promosso nel quartiere un «questionario» che è in realtà una massiccia raccolta di dati e di informazioni sui proletari della zona (le domande sono sui vicini di casa «strani», con orari irregolari e movimenti sospetti, e cosi via).
(….) Barbara Azzaroni «Carla»: è una compagna che a Bologna conoscono tutti. Ex dirigente della sede bolognese di Potere Operaio, a partire dallo scioglimento di questo gruppo comincia un percorso di iniziativa politica che, da una parte la rende un punto di riferimento della lotta di massa contro l’amministrazione rossa (il Coordinamento lavoratori enti pubblici, le lotte del marzo ’77), dall’altra pone la questione dell’organizzazione del combattimento proletario e della costruzione del partito rivoluzionario. Dirigente nazionale delle Formazioni Comuniste Combattenti, confluisce poi con un gruppo di compagni di questa organizzazione in Prima Linea. Il suo contributo è lucido, la sua determinazione e la sua capacità operativa molto alte. A Torino fa parte del Comando e del Gruppo di Fuoco. Ha partecipato a molte e importanti operazioni, da Mazzotti (capo personale della Menarini) a Bologna, a quelle contro Lorusso e la Napolitano (rispettivamente torturatore e «vigilatrice» delle Nuove) a Torino.
Matteo Caggegi «Charlie»: nonostante la giovane età – ha 20 anni – anche Charlie è un compagno noto a Torino. Si distingue per la sua capacità di aggregare compagni, per la sua militanza nei circoli giovanili, nelle iniziative che questi promuovono, nelle manifestazioni del marzo ’77. L’anno scorso viene assunto alla FIAT Rivalta dove gli operai, i compagni ricordano il suo ruolo nelle lotte contro gli straordinari, la sua presenza assidua ai picchetti, i suoi scontri politici con i burocrati sindacali. La sua disponibilità , la sua generosità sono enormi, come eccezionali sono le sue capacità di combattente dimostrate in varie operazioni.
(…) Ogni volta che lo scontro fa un salto di qualità, in particolare nei momenti in cui il nemico di classe infligge duri colpi ai rivoluzionari, e per farlo concentra la sua capacità di fuoco determinato a distruggere uomo su uomo la forza rivoluzionaria, in cui i proletari riconoscono con particolare chiarezza i caratteri odiosi del proprio nemico ed esprimono il massimo dell’odio nei suoi confronti, dei compagni caduti, colpiti, torturati, proprio in questi momenti va sviluppato il massimo dell’iniziativa politica e di combattimento, ma anche, col massimo di lucidità si debbono definire i propri compiti, i rapporti di forza da modificare, i limiti e le contraddizioni dello schieramento proletario.
(…) E’ chiaro quali sono i punti di partenza della risposta a questo salto dell’azione del nemico:
– precisazione del rapporto fra azione combattente, rappresaglia e schieramento rivoluzionario di massa;
– determinazione delle funzioni e delle contraddizioni dello schieramento nemico, delle istituzioni democratiche rappresentative, delle truppe di occupazione e in modo significativo degli strumenti della controguerriglia psicologica, che ha lanciato la campagna sui rapporti fra «terrorismo» e «criminalità».
(…) Lo schieramento rivoluzionario tra i proletari, mentre si identifica nei compagni caduti, ne riconosce la pratica, la sua efficacia, si trova più unito e più forte – contro tutti i corvi che hanno blaterato di contraddizione tra lotta armata e sviluppo di una coscienza di massa; ciò significa che il combattimento in questi giorni e in questi mesi supera definitivamente una prima fase di accumulo di esperienza nel disarticolare le gerarchie e le forze nemiche per diventare espressione di un movimento rivoluzionario stabilmente radicato ed espresso da settori proletari di massa.
Abbiamo detto che il capitale si dà strumenti per distruggere ogni possibilità di un movimento di lotta di massa che si estende con continuità: oggi abbiamo verificato che lo sviluppo della guerra di classe non si limita a rendere possibile qualche lotta in più, ma crea le condizioni di un movimento di lotta come espressione diretta di una volontà rivoluzionaria.
E’ quanto hanno capito sbirri e padroni che fanno un salto nella loro ferocia esprimendo una rabbia vigliacca.
L’azione delle forze combattenti ha spesso sottovalutato l’estensione delle forze di controllo, di divisione all’interno della classe, che abbiamo visto agire in modo strettamente collegato sia a Torino che a Milano, e ha quindi sofferto di non essere altrettanto continua ed articolata nei loro confronti; spesso l’iniziativa di nuclei combattenti ha praticato azioni esemplari come nel caso del duplice attacco di Milano e Venezia – sottovalutando sia l’organicità dello schieramento che si trovavano di fronte, sia lo schieramento proletario che si poteva realizzare con un’azione più chiara nelle sue discriminanti e nella sua continuità.
L’iniziativa di combattimento può evidenziare, colpire e quindi mettere in crisi quanto nel blocco nemico è strumento determinato all’azione di controguerriglia, può separarlo dal magma dei settori di classe che lo compongono.
(….) Con la sua feroce determinazione il nemico di classe ha imposto ai comunisti di estendere a tutto il fronte dello scontro il senso e il peso delle ultime campagne contro le carceri, che hanno intaccato in modo significativo il comando carcerario: il nemico di classe sconfitto, messo in crisi, in un punto, cerca di valersi di situazioni che ritiene a lui favorevoli per esercitare il suo terrore, per prendersi la sua rivincita.
La lezione delle battaglie vincenti, la crescita di uno schieramento rivoluzionario mostrano che il nemico si sbaglia, che non esistono per lui territori stabilmente consolidati né gerarchie al sicuro dall’attacco proletario. Non ci illudiamo, essi si sono dotati di un apparato di guerra e di rappresaglia regolato dalle leggi della clandestinità – a partire dagli apparati di Dalla Chiesa – dalla logica del massimo di azione contro ogni obiettivo individuato che è sempre più la logica della tortura e dell’annientamento. Sappiamo che scaricheranno sui proletari le loro contraddizioni, crescenti ad ogni livello – crescita dell’inflazione, attacco antioperaio nelle fabbriche, sono il normale corrispettivo di un’azione antiguerriglia sempre più omicida: ma sappiamo che proprio per tutto questo lo schieramento rivoluzionario crescerà e deve crescere l’intelligenza e la determinazione della nostra azione.
Il combattimento deve necessariamente perdere la sua parzialità: uno schieramento rivoluzionario chiede ai combattenti di lavorare a costruire uno strumento forte, centralizzato, unitario, in cui concentrare la forza combattente della classe.
(….) Il rapporto tra «terrorismo» e criminalità su cui si stanno accanendo gli esperti della controguerriglia è rilevante poiché è semplicemente in gioco l’autorità del processo rivoluzionario, la capacità di concentrare, finalizzare ogni forza che nasce dalla volontà di non stare al gioco di una società che distrugge l’uomo. Il discorso sarebbe lungo e sarà fatto, ma è certo che i comunisti possono avere con mercanti e mercanti di morte di ogni genere, con gli sfruttatori di ogni risma solo un rapporto di guerra. La guerra tra le istituzioni dello stato e le istituzioni della criminalità organizzata multinazionale è un gioco al massacro per le forze del proletariato , una guerra in cui il capitale produce un accumulo formidabile di armamento, di violenza organizzata, a tutto finalizzati meno che all’emancipazione della classe, una guerra destinata ad egemonizzare o a distruggere ogni espressione di violenza sociale che le contraddizioni e le trasformazioni di questa società producono ogni giorno a piene mani.
Per noi l’alternativa è chiara: è tra l’organizzare, l’armare un processo di liberazione di massa delle enormi capacità di cooperazione sociale che la classe ha espresso, e la distruzione della forza, della rabbia, dell’antagonismo proletario in un gioco tutto interno alle forze organizzate del comando del capitale sulla società. Lo sviluppo del potere proletario si pone come unica discriminante, il suo armamento, lo sviluppo dello schieramento rivoluzionario sono le pratiche in cui la nostra azione, questa azione di rappresaglia, si inserisce, e su questa base non c’è spazio di compromesso con nessun altro potere, con nessuna pratica opportunista che settori proletari possono praticare per sopravvivere: la distruzione del comando, l’esecuzione di aguzzini e delatori ha lo scopo di trasformare l’esistenza dei proletari su cui questo comando si esercita. La guerra di classe, se distrugge il nemico, trasforma radicalmente il proletariato.
Lo sviluppo del potere proletario, la costruzione di una identità collettiva dei proletari non più per il posto occupato nella produzione sociale – cosa che il capitale stesso ha distrutto – ma per il ruolo e per i rapporti che si stabiliscono nel processo collettivo di guerra, di trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali, è ciò che aspetta chi ha combattuto, i compagni di coloro che sono caduti o sono stati torturati, i proletari che hanno portato nelle piazze uno schieramento rivoluzionario irriducibile.
Su questo si eserciterà il dibattito, lo scontro politico tra i comunisti, per questo si lavora a costruire l’esercito proletario.
Marzo 1979
Organizzazione comunista
Prima Linea
Stralci di un documento di Prima Linea pubblicati sul quotidiano «Lotta continua» il 29 marzo 1979.