Archivi categoria: Documenti dalle carceri e dai processi

La frattura fra Stato e movimento di classe. Roma: Documento di Susanna Berardi, Vittorio Bolognese, Lorenzo Calzone, Luciano Farina, Domenico Giglio, Natalia Ligas, Giovanni Senzani

Stiamo assistendo da qualche tempo al rumoroso manifestarsi di iniziative e prese di posizione di vario genere ancora una volta centrate sul carcere e sulle aree di comunisti prigionieri.

Il fatto che questo frenetico agitarsi di partiti e mass-media abbia come epicentro il carcere di Rebibbia e il processo «Moro-ter» non è certo un caso: quale migliore occasione della chiusura della stagione dei processi alle Brigate Rosse per portare a fondo l’attacco all’esperienza rivoluzionaria e guerrigliera italiana?

Lo scopo di questa iniziativa è molto chiaro: chiudere definitivamente il ciclo di scontro rivoluzionario sviluppatosi dagli anni ’70 ad oggi, porre fine alla lotta armata come prospettiva rivoluzionaria e di liberazione del proletariato metropolitano.

La necessità di intervenire nel merito di questa questione nasce soprattutto dai contenuti che si cercano di affermare, rispetto ai quali ogni rivoluzionario non può evitare di esprimersi, anche a fronte dell’intreccio di prese di posizione che provengono dalle forze e soggetti più disparati.

Come prigionieri in particolare, e perciò toccati direttamente da questo problema, riteniamo che nessuno oggi possa arrogarsi il diritto di parlare a nome di «tutti i prigionieri» e in nome di un’esperienza rivoluzionaria che appartiene a tutto il proletariato.

In questo intervento, quindi, vogliamo esprimere il nostro punto di vista rivolgendoci al movimento rivoluzionario e alle situazioni di classe.

Non siamo ancora di fronte ad un progetto politico preciso e definito, ma l’obiettivo di «pacificazione sociale» e di «soluzione politica del problema della lotta armata» ha già dei riferimenti molto solidi e un arco di forze politiche istituzionali ben determinate a realizzarlo.

Il dato che abbiamo davanti è il carattere marcatamente politico della questione e il suo svilupparsi dentro la complessità dello scontro di classe in questa fase.

Il progetto che si sta delineando infatti non è circoscritto e limitato alla ennesima operazione di svendita del patrimonio della guerriglia e «al rientro nella società» di qualche gruppo di prigionieri, ma è più ambizioso e di ben più vasta portata.

La borghesia oggi si propone di «ricomporre e sanare la frattura fra stato e movimento di classe» determinatasi negli ultimi vent’anni: questa operazione passa per la liquidazione della lotta armata e della prospettiva rivoluzionaria che le OCC hanno affermato anche contro il riformismo, il revisionismo e il pacifismo, che ingabbiavano la lotta di classe in Italia togliendole respiro strategico.

In questo modo, la borghesia tenta di delegittimare la prospettiva rivoluzionaria aperta dalle forze guerrigliere come possibilità e necessità di distruzione e trasformazione dei rapporti sociali esistenti, ricacciando indietro il movimento di classe, distruggendone le conquiste e il sapere accumulato in tanti anni di lotta, con il fine di ricondurre in un quadro compatibile e «democratico» lo scontro di classe.

Non a caso questa strategia viene a concretizzarsi in una fase molto delicata ed importante per il movimento rivoluzionario, in cui pur perdurando uno stato di grossa debolezza, cominciano a manifestarsi nuovi segnali di ripresa dell’antagonismo di classe e dell’iniziativa guerrigliera.

La posta in gioco è estremamente alta e trova già una convergenza di interessi in un vasto arco di forze politiche istituzionali, Democrazia Cristiana in testa.

È questo partito che si è incaricato più di ogni altro di preparare il terreno politico necessario: dai sondaggi informali nei confronti dei prigionieri alla anticipazione, altrettanto informale, di proposte di soluzione politica selettivamente indirizzate e molto indicative, fino alle dichiarazioni di disponibilità della DC per bocca dello stesso De Mita «di fronte al fatto che le BR vogliono ridiscutere il loro passato». A cui corrisponde, per quanto riguarda il PSI, l’affermazione di Formica sul fatto che «la prossima legislatura dovrà affrontare la questione dei detenuti politici».

Ovviamente nel quadro delle forze borghesi non mancano le contraddizioni, e tutta la fumosa battaglia sulla «fermezza» o «trattativa» che i mass-media amplificano a dismisura è un segnale di quanto la questione della lotta armata sia una contraddizione cruciale dello scontro di classe in Italia.

In un progetto di pacificazione sociale per gli anni ’80-’90, per la DC e le altre forze politiche può trovare un senso preciso e concreto una qualche forma di soluzione politica e di riciclaggio sociale nei confronti di chi ha partecipato ad un «ciclo di lotta ormai chiuso» – come piace dire alla borghesia – ma che ha profondamente segnato la società italiana.

Nell’iniziativa a largo raggio che la DC sta portando avanti per riconquistarsi un peso e una centralità che erano stati messi in discussione in questi anni, e che è essenziale per riproporsi ed affermarsi come forza politica capace di «rifondare lo stato» su basi più solide e su più moderne coordinate «democratiche», rientra a pieno titolo anche la capacità di questo partito di presentarsi come interlocutore valido capace di chiudere politicamente con la lotta armata in Italia.

Questa capacità e forza di «chiudere i conti» con il passato, nel tentativo di riportare il conflitto di classe dentro i binari compatibili del «gioco democratico», può diventare un grosso elemento di rafforzamento politico di questo partito, come degli altri che in questa fase sono impegnati nel processo di rifondazione del sistema di potere della borghesia.

Da un punto di vista più generale, la pacificazione sociale è un elemento importantissimo per assicurare alla borghesia imperialista e ai capitali multinazionali dominanti quello spazio e clima sociale necessari per portare avanti i processi di ristrutturazione produttiva e di ridefinizione dell’assetto sociale iniziati negli ultimi anni.

Il carattere antiproletario e sempre più aggressivo dei processi di ristrutturazione e guerra imperialista richiede una classe e un movimento sempre più annichiliti e ingabbiati negli spazi della «società civile».

Per questo la borghesia, di fronte alle contraddizioni aperte dalla crisi capitalistica, si propone di rompere la continuità strategica tra l’esperienza rivoluzionaria degli anni ’70 e quella attuale.

La massiccia campagna di guerra psicologica lanciata dallo stato dopo le ultime azioni della guerriglia italiana e l’improvvisa accelerazione del dibattito pubblico sulla soluzione politica si inscrivono in questo quadro, e hanno come obiettivo dichiarato: quello di destituire di legittimità storica e svuotare di progettualità rivoluzionaria la ripresa del movimento di classe e della guerriglia.

È a fronte della crisi della guerriglia e del movimento rivoluzionario, in una situazione molto instabile, che questo progetto controrivoluzionario comincia a prendere corpo tentando di penetrare nel tessuto di classe, acutizzandone e accelerandone le contraddizioni.

La condizione di partenza è la possibilità di portare l’attacco «dall’interno della classe», servendosi e dando spazio a chi nell’abbandonare il campo rivoluzionario si fa portatore di queste linee di resa e pacificazione sociale dentro il movimento proletario.

L’offensiva che lo stato ha portato avanti dall’80 in poi contro la guerriglia non si è fermata allo scompaginamento militare delle Organizzazioni Comuniste Combattenti e delle avanguardie di classe attraverso il «progetto pentiti». Essa è continuata e si è sviluppata nel «progetto di dissociazione» mirato ad insinuare, in vaste aree del movimento antagonista e rivoluzionario, contenuti di resa e pacificazione, cercando di mettere in discussione i presupposti soggettivi della coscienza rivoluzionaria in una situazione di debolezza e disgregazione.

Oggi questo progetto si misura con la diversità e specificità della congiuntura che stiamo attraversando.

Per tutta una prima fase, la borghesia ha finalizzato il suo attacco all’indebolimento di una prospettiva radicata e capace di porsi come punto di riferimento della classe.

Oggi cerca di conseguire una «vittoria strategica» cancellando la possibilità stessa della rivoluzione con l’attacco alla soggettività rivoluzionaria esistente e all’antagonismo di classe nel suo complesso.

Il perdurare della debolezza e contraddittorietà nel movimento di classe favorisce le condizioni per ridefinire la strategia controrivoluzionaria. L’attacco non è più delegato esclusivamente ai soli apparati giudiziari, magistratura, carcere, ecc., ma è assunto in prima persona dalle forze politiche istituzionali che lo sviluppano verso tutte le articolazioni dello scontro, all’insegna della «riconciliazione» tra stato e movimento di classe.

Anche nella congiuntura attuale il punto di partenza di questa iniziativa continua dello stato è il carcere, in particolare l’area dei prigionieri della lotta armata, in quanto settore oggi più attaccabile dalla borghesia per sviluppare il suo progetto.

Su queste basi, le forze politiche, DC in testa, stanno cercando di trovare tra i prigionieri interlocutori convinti dell’impossibilità attuale della lotta armata, disponibili a dialettizzarsi con questo progetto e a veicolare nel movimento precisi segnali di dissoluzione e di pacificazione.

Proprio per questo, il via vai di politici, giornalisti e gente varia dentro il carcere di Rebibbia e intorno al processo «Moro-ter» si è fatto più intenso, è diventato di dominio pubblico e il «dibattito» ha cominciato ad occupare massicciamente le pagine dei giornali.

C’è una tesi di fondo che si cerca di introdurre, negli ultimi mesi, nel dibattito del movimento e che molto più concretamente è «d’interesse» per la borghesia.

Lo scontro sociale apertosi negli anni ’70 sarebbe «storicamente esaurito» e, di conseguenza, «sarebbero esauriti» – cioè relegati ad un passato irripetibile e fuori dalla storia oggi – «gli specifici progetti di organizzazione rivoluzionaria che lo avevano attraversato».

Per questo si tratta di rendere possibile «la conclusione di questo complesso fenomeno storico-sociale creando gli strumenti culturali e politici per un oltrepassamento».

Secondo i sostenitori di questa tesi bisogna anche costruire le condizioni (!) della liberazione di tutti i soggetti che hanno partecipato alle lotte e alla guerriglia degli ultimi vent’anni. Liberazione dal carcere, dall’esilio, dalla latitanza…

La «fine di un ciclo» potrebbe diventare possibile superamento reale di quel ciclo solo con la soluzione di questa contraddizione specifica ancora aperta. Secondo questa tesi, anche la sinistra di classe e il movimento rivoluzionario dovrebbero farsi carico responsabilmente di questo problema e «conto in sospeso»!

Noi pensiamo che la questione della «liberazione dei prigionieri della lotta armata», così come viene proposta al movimento di classe in abbinamento al tema della pacificazione sociale assuma un carattere chiaramente strumentale e finalizzato a far acquistare maggior peso e legittimità ai sostenitori della soluzione politica nella trattativa con lo stato.

Da sempre questo è stato un terreno di mobilitazione del movimento, ma nel quadro di debolezza e disgregazione di questi anni, hanno spesso avuto buon gioco proposte e tendenze che ponevano la liberazione dei prigionieri in termini di capitolazione e svuotamento dell’identità rivoluzionaria (dalla proposta Scalzone ai fautori delle varie amnistie).

In un campo così inquinato da iniziative resaiole e di svendita, è quindi tutto da ricostruire un affrontamento rivoluzionario del nodo politico della liberazione e della lotta al carcere imperialista, e non si può certamente pensare di porlo a partire da una qualsiasi forma di trattativa con forze politiche «interessate», DC in testa.

Anzi, questo tipo di impostazione non fa che favorire l’azione della borghesia tendente a «criminalizzare» chiunque si pone fuori da un’ottica di pacificazione, tanto all’interno del movimento rivoluzionario che dentro il carcere.

Ci sembra importante ribadire con chiarezza alcune cose sulla questione della «liberazione dei prigionieri» e sui «termini» con cui oggi viene proposta al movimento di classe.

Per noi la liberazione dei prigionieri, come la lotta al carcere imperialista, è sicuramente un terreno irrinunciabile di iniziativa per tutto il movimento rivoluzionario e la guerriglia. Come tale pensiamo che non debba essere mai abbandonato e che vada costantemente praticato dentro la realtà e la complessità dello scontro e dentro lo sviluppo dell’iniziativa rivoluzionaria. Esso si lega direttamente all’affermazione nel movimento rivoluzionario di un punto di vista di lotta al carcere imperialista e alla ricostruzione, dentro le galere, di un tessuto di rapporti di solidarietà e di un confronto tra le diverse componenti rivoluzionarie e proletarie prigioniere, che si ponga lo scopo di un affrontamento di questo terreno nelle nuove condizioni dello scontro di classe.

Trasformare invece la liberazione dei prigionieri fin da subito in un obiettivo principale e «separato» dalla crescita del movimento rivoluzionario può significare soltanto o la sua assunzione ideologica astratta o, peggio ancora, la sua adozione in termini di svendita o trattativa con lo stato in contropartita alla pacificazione sociale.

Tutto questo potrebbe diventare un pericoloso «cul de sac» in cui il movimento di classe finirebbe per imbrigliarsi nel momento in cui cominciano a vivere inequivocabili segnali di ripresa dell’antagonismo e dell’iniziativa rivoluzionaria.

Per ogni comunista liberazione e rivoluzione sono poli inscindibili di una stessa dialettica di trasformazione sociale!

Ci sembra comunque – è importante ribadirlo – che il problema principale, davanti al dispiegarsi del progetto di soluzione politica dello stato, e all’attivarsi a suo sostegno di precise tendenze riformiste dentro e fuori dal carcere, sia quello di portare la critica rivoluzionaria sul terreno politico concreto in cui si colloca.

Non può bastare tirarsi fuori da esso, né la critica può essere portata in termini puramente ideologici.

Di fronte ad un progetto di questa portata e peso politico – destinato a dispiegarsi sul lungo periodo e mirato a riconquistare il monopolio dell’uso della violenza alla borghesia e al suo stato – è indilazionabile per le forze rivoluzionarie cominciare ad affrontarlo in modo adeguato per battere quei contenuti di «lealizzazione del conflitto sociale» che da qualche tempo si stanno manifestando nel movimento rivoluzionario.

Uno di questi contenuti è certamente il disfattismo. Prendendo a prestito le analisi borghesi e riformiste sulla scomparsa delle figure e delle contraddizioni che hanno generato lo scontro degli anni ’70, si vogliono confondere le acque, trasformando la necessità per le forze rivoluzionarie di riqualificare la loro progettualità nello scontro attuale in liquidazione della lotta armata e della prospettiva rivoluzionaria in generale.

Non è la prima volta che in questi ultimi 5-6 anni sentiamo ex rivoluzionari e neoriformisti affermare contenuti simili. Il tema è sempre lo stesso: rinunciare alla lotta armata, alla reale opposizione rivoluzionaria e accettare le regole del «gioco democratico» distruggendo l’idea dell’organizzazione autonoma del proletariato nello scontro di classe.

Da sempre uno dei più importanti fattori di rafforzamento del sistema di potere borghese risiede nella capacità di assorbire le contraddizioni del conflitto sociale, di ridurre l’antagonismo di classe a una variante del sistema borghese, svuotando del carattere rivoluzionario i suoi protagonisti e le sue espressioni organizzate. Essi verrebbero reimmessi nella cosiddetta «dialettica democratica» per valorizzarne il contenuto, perché anch’essi avrebbero contribuito a far avanzare l’attuale «società democratica»!

Questa manovra è micidiale per il movimento di classe, perché non è altro che un’indiretta apologia del capitalismo, della sua possibilità di «superare la crisi» e dell’impossibilità di abbatterlo: è un invito ai proletari a ritagliare la propria esistenza negli spazi che la cosiddetta «società postindustriale» concede.

È importante oggi affermare il senso dei contenuti di rottura, di trasformazione sociale e di potere di un ciclo di lotte che hanno realmente spostato in avanti la prospettiva rivoluzionaria in questo paese e, contemporaneamente, lavorare per contribuire a ricostruire e rilanciare l’iniziativa di classe dentro la complessità dello scontro attuale.

Le idee forza, la scienza rivoluzionaria che il proletariato nel suo insieme ha costruito in vent’anni di lotte, sono un patrimonio di classe che non va disperso e che può essere valorizzato solo rifondendolo nella progettualità e pratica rivoluzionaria che oggi emerge nello scontro di classe e nella crescita reale del movimento di lotta.

In questo senso, si può parlare di memoria rivoluzionaria riappropriandoci dell’insieme delle esperienze della lotta armata di questi anni.

Le Brigate Rosse, e la guerriglia italiana in generale, sono nate a ridosso dei grandi movimenti di massa che a livello internazionale hanno rilanciato l’offensiva contro l’imperialismo e hanno posto in essere una radicale critica rivoluzionaria al rapporto sociale capitalistico nella sua globalità. Fin da subito hanno teso ad affermare per linee interne al proletariato metropolitano i contenuti della rivoluzione proletaria attraverso la lotta armata per il comunismo. E col tempo sono riuscite ad affermarsi nella pratica come un punto di riferimento essenziale dell’intero movimento di classe e rivoluzionario.

Questa legittimità storica e sociale dell’uso della violenza proletaria per la distruzione del capitalismo e la trasformazione rivoluzionaria della formazione economico-sociale, in questa fase di debolezza del movimento di classe, viene attaccata direttamente dalla borghesia per essere definitivamente cancellata.

Così può essere spezzata la continuità di prospettiva strategica con un’esperienza rivoluzionaria che, al di là delle contraddizioni e sconfitte subìte, è riuscita a porre al centro della lotta del proletariato la questione del potere e lo sviluppo della rivoluzione nella metropoli imperialista.

Sotto questa luce, è palese e grossolana la falsificazione della memoria delle Brigate Rosse operata da chi in interventi pubblici tende ad accreditare una chiave di lettura distorta e riduttiva dell’esperienza della lotta armata, come risposta e reazione proletaria alle trame eversive e golpiste della borghesia per tutto un periodo storico. Da cui discende, ovviamente, che in presenza di una «democrazia consolidata» come quella attuale… l’uso della violenza proletaria sarebbe destituito di qualsiasi legittimità e senso!

Dopo l’offensiva dello stato contro le Organizzazioni Comuniste Combattenti nell’82, il riferimento strategico della sinistra rivoluzionaria di classe costituito dalle Brigate Rosse e dalla guerriglia in generale, è stato largamente ridimensionato dalla controrivoluzione e dalla crisi di progetto che ha investito l’intero movimento rivoluzionario.

Ciò non è stato senza conseguenze nel movimento di classe e nella organizzazione autonoma del proletariato, e ha finito per favorire la disgregazione dell’opposizione rivoluzionaria e il parallelo ripresentarsi sulla scena del «lealismo» che le tendenze riformiste vanno predicando da qualche anno.

Questo dato acquista un certo peso nel progetto di soluzione politica, perché consente di sviluppare al massimo le politiche controrivoluzionarie di isolamento sociale e politico delle soggettività antagoniste e rivoluzionarie.

La ricomposizione della frattura tra stato e movimento di classe, che le forze politiche, dalla DC al PSI fino a il manifesto, vanno patrocinando per il prossimo futuro, è uno scenario politico chiaramente finalizzato a fare terra bruciata intorno alle iniziative rivoluzionarie.

Per la borghesia imperialista è necessario imporre un quadro politico-sociale pacificato nei rapporti e nelle relazioni tra le classi per spianare definitivamente la strada ai processi di ristrutturazione e riassetto capitalistico. Processi di ristrutturazione che, riaffermando a livello strutturale la centralità dell’impresa, del profitto, della produttività, richiedono una maggiore stabilità nel governo delle contraddizioni sociali che si generano e moltiplicano incessantemente, e un pesante ridimensionamento dei rapporti di forza conquistati in decenni di lotta proletaria.

In questa prospettiva, la borghesia non esita a concentrare un attacco globale a quelle forze rivoluzionarie e a quelle istanze autonome del movimento di classe che contribuiscono a rilanciare il movimento di lotta antagonista e la guerriglia metropolitana per il comunismo.

Si può dire che il progetto di pacificazione sociale procede di pari passo con l’intensificarsi della controrivoluzione preventiva e serve a creare uno scenario direttamente legato al modello imperialista di intervento della «guerra al terrorismo», che ha determinato specifiche «politiche di sicurezza» in Europa occidentale, sempre più omogenee ed integrate, per combattere l’organizzazione e le lotte del proletariato internazionale.

Oggi chi non sta alle regole del gioco e si pone fuori del quadro di compatibilità/stabilità della borghesia diventa per ciò stesso «un criminale terrorista»: da chi combatte con le armi a chi manifesta contro la guerra e il nucleare, fino a chi lotta per la casa e contro la disoccupazione…

Questa riduzione delle lotte proletarie e rivoluzionarie a «fenomeno criminale terroristico» operato dalla controrivoluzione preventiva trova in Europa occidentale un immediato terreno di applicazione. Nel senso che dà legittimazione alle campagne di repressione dei movimenti di lotta «con metodi moderni».

Su queste coordinate gli stati imperialisti fondano l’integrazione delle strategie di prevenzione, repressione e annientamento dell’antagonismo di classe che informano le loro «politiche di sicurezza», e ne sono un segnale i vertici e gli accordi che in materia di «antiterrorismo» si stanno susseguendo in Europa occidentale. Lo stato italiano, da questo punto di vista, proprio per l’alto livello di scontro sociale che lo ha attraversato, ha affinato al massimo le sue strategie controrivoluzionarie.

Dopo l’azione di esproprio di Roma e l’esecuzione del generale Giorgieri stiamo assistendo ad una violentissima campagna di guerra psicologica (proiettata a livello internazionale) contro le organizzazioni guerrigliere, tendente a veicolare un’immagine di «terroristi residuali, sbandati e allucinati», che cerca di dare spazio alla contrapposizione mass-mediata tra le «vecchie BR», in qualche modo radicate nel proletariato, e le «nuove BR» completamente esterne a qualsiasi dinamica di classe.

Inoltre si rinnovano ed appesantiscono gli attacchi della sbirraglia contro le mobilitazioni del movimento antinucleare, e si fa più frenetico l’attivismo poliziesco, con perquisizioni a tappeto, controlli e provocazioni sempre più frequenti contro singoli compagni, situazioni di movimento e realtà proletarie organizzate.

È la complessità attuale dello scontro di classe che la borghesia vuole negare ed è in questo contesto specifico che il progetto di soluzione politica trova una sua più forte ragione di esistenza. Più che la chiusura di un ciclo passato si vuole impedire la ripresa di un nuovo ciclo rivoluzionario dagli sviluppi poco prevedibili e certamente sfavorevoli per la borghesia imperialista, tenuto conto della natura delle contraddizioni che lo scontro rivoluzionario sta producendo in questi anni.

Il processo di polarizzazione delle classi in questa fase sta subendo una evidente accelerazione, sotto la spinta delle strategie del capitalismo. L’internazionalizzazione e concentrazione del capitale multinazionale italiano, l’incessante ristrutturazione dell’apparato produttivo, la scelta nucleare, le strategie del complesso militare-industriale, l’adesione al progetto SDI, il ruolo dell’Italia nel quadro Nato e nei piani di guerra dell’imperialismo occidentale e USA, sono dinamiche che si collocano organicamente nel quadro dello scontro internazionale, e generano risposte e lotte di larghi strati proletari, e una ripresa dell’iniziativa dei movimenti di massa.

Questa realtà pone nuovi compiti e problemi ai rivoluzionari in questo paese.

Noi pensiamo che assuma un’importanza vitale, in questa fase, l’intensificazione di una dialettica unitaria tra i rivoluzionari intorno ai problemi politici che pone a tutto il movimento rivoluzionario la ripresa del processo rivoluzionario in Italia, e il superamento, in questo, del settarismo che spesso in passato ha immobilizzato il dibattito e la pratica rivoluzionaria.

Secondo noi, la costruzione e la riqualificazione della progettualità rivoluzionaria non potrà darsi che dal convergere di forze ed esperienze diverse in un percorso unitario, capace di rilanciare l’iniziativa di classe nel quadro mutato dello scontro tra borghesia e proletariato e di affrontare i nodi strategici che oggi esso pone.

Questo per noi è il significato concreto, in questa congiuntura, dell’unità dei rivoluzionari nello scontro di classe, come momento fondamentale ed indispensabile alla costruzione della strategia rivoluzionaria e della ricomposizione di classe.

Mentre la borghesia cerca di sanare la frattura tra stato e movimento di classe, i segnali di ripresa del movimento antagonista e dell’iniziativa guerrigliera mostrano che in questo paese esistono reali possibilità di sviluppo del processo rivoluzionario.

Dentro questa realtà concreta si tratta di dare un contributo per spostare in avanti il dibattito politico, ponendo al centro le contraddizioni principali che il proletariato si trova di fronte nello sviluppo della sua lotta.

La dimensione internazionale che caratterizza lo scontro di classe porta a collocare queste contraddizioni e ad affrontarle in un quadro necessariamente internazionale che rompe con prospettive legate ad una superata dimensione .“nazionale” e localistica.

Da questo punto di vista, il movimento rivoluzionario e la guerriglia in Europa occidentale costituiscono un punto di riferimento molto importante, proprio perché hanno saputo cogliere questo aspetto fondamentale dello scontro e realizzare una pratica antimperialista che si muove verso la ricomposizione del proletariato internazionale e la costruzione di un nuovo internazionalismo.

In questa prospettiva, come collettivo rivoluzionario intendiamo lavorare, assieme a tutte le forze rivoluzionarie, per rilanciare il patrimonio della lotta armata e del movimento di classe nel suo complesso e, contemporaneamente, per affermare i nuovi necessari livelli di coscienza e organizzazione rivoluzionaria.

In questo senso, è importante capire che le iniziative volte alla trattativa con lo Stato, alla soluzione politica e alla pacificazione sociale si pongono materialmente anche contro la ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria, perché oltre a voler frantumare la continuità tra il ciclo rivoluzionario degli anni ’70 e le lotte attuali, possono incidere sui processi reali di connessione che si stanno sviluppando tra i movimenti di lotta e le forze rivoluzionarie, dentro il più generale processo di ricomposizione del proletariato internazionale.

Per questo, anche la critica rivoluzionaria e la lotta al progetto di soluzione politica costituiscono un terreno unitario a cui nessun rivoluzionario può sottrarsi per battere il liquidazionismo e il disfattismo nel movimento di classe.

 

Susanna Berardi, Vittorio Bolognese, Lorenzo Calzone, Luciano Farina, Domenico Giglio, Natalia Ligas, Giovanni Senzani

 

Roma, giugno 1987

Un’iniziativa da riprendere. Documento del militante delle BR-PCC Francesco Sincich allegato agli atti del processo di Genova

Oggetto di questo processo è la rivendicazione, fatta in quest’aula, di un’azione condotta dalle BR per il PCC nel febbraio ’84 contro il direttore generale della Forza Multinazionale per il Sinai, quella forza preposta a tutela degli accordi di Camp David. È utile allora vedere meglio cosa hanno rappresentato e cosa rappresentano tuttora questi accordi.

Il trattato tra Israele ed Egitto, sottoscritto nel ’79 in un paesino americano, tanto per non lasciare dubbi su chi ne fosse padrino ed ispiratore, non è semplicemente un trattato tra due paesi che dovevano risolvere una questione di confini. Non lo è innanzitutto perché i due paesi sono appunto lo stato sionista, sorto artificialmente nel ’48 per volontà delle potenze imperialiste di allora, ed uno stato arabo, moderato quanto si vuole, ma parte fino ad allora integrante della Lega Araba e di un mondo islamico che aveva cercato, negli anni passati, di coalizzarsi per affermare i diritti nazionali di ciascuno stato dell’area contro il dominio imperialista occidentale.

Ma soprattutto questo accordo non si presenta come un episodio, ma vorrebbe essere un modello delle relazioni che dovrebbero intercorrere, nei progetti dell’imperialismo americano, tra gli stati di quest’area del mondo. Un’area il cui controllo riveste un carattere strategico per l’imperialismo: sia perché dalle sue risorse petrolifere dipende per il 65% l’Europa e per l’80% il Giappone, sia soprattutto per motivi geopolitici, in quanto si trova al centro di tre continenti e controlla tre mari di enorme valore politico, militare ed economico, nella prospettiva della guerra imperialista.

L’accordo di Camp David è appunto un primo sostanziale passo verso quella «pax americana» che cerca di ripristinare il dominio dell’occidente imperialista, ed americano in particolare, su un’area del mondo che era in qualche modo sfuggita al suo controllo dopo l’inevitabile fine del vecchio colonialismo fino alle più recenti impennate nazionaliste delle borghesie locali.

In questo quadro il ruolo della presenza stessa e della politica militarista ed espansionista dello stato di Israele ha certo un’enorme importanza, ma non può bastare a ricondurre sotto il dominio occidentale l’intera regione, limitandosi di fatto, fino ad oggi, al ruolo di cane da guardia, foraggiato a questo scopo, e senza badare a spese, dal tutore americano. Un ruolo, quello del cane da guardia, che Israele ha adempiuto e adempie tuttora, con una dedizione esemplare, all’esterno e all’interno dei suoi confini statali che, su un piano di diritto internazionale, sono davvero i più arbitrari del mondo: insediamenti sionisti originari imposti dalla Gran Bretagna, estensione militare degli stessi fino al ’48, nel ’56 occupazione del Sinai, di Gaza, Cisgiordania e Golan nel ’67 e del Sud Libano dall’82… senza contare le puntate su Beirut e le varie incursioni contro stati arabi vicini e lontani.

Tuttavia questo non può garantire la pacificazione imperialista dell’area; ma non perché, come sostiene anche una certa sinistra, questi atti di guerra vadano contro la pacificazione, bensì perché ad essi devono seguire, ed essere complementari, iniziative politiche ed economiche tese al dominio dell’economia e del conseguente sviluppo sociale e politico degli stati arabi dell’area, annientando le forze politiche rivoluzionarie o semplicemente nazionaliste e rafforzando le componenti filo-imperialiste delle borghesie locali.

Non c’è dunque alcuna contraddizione tra l’aggressione alla Giamahirja libica, con lo scopo di annientarne la direzione politica, e i massicci aiuti economici che gli USA hanno elargito al regime egiziano dopo la firma dell’accordo di Camp David. Così come non c’è contraddizione tra l’operazione «Pace in Galilea» (leggi: invasione del Libano) o i bombardamenti quasi quotidiani sui campi profughi palestinesi e l’attuazione di quel «Piano Marshall» per il Medio Oriente sponsorizzato da USA ed Israele, e che dovrebbe dare a quest’ultimo un ruolo anche economico nella regione, a tutto vantaggio di una pacificazione imperialista che interessa in primo luogo gli USA, ma che darebbe anche all’Europa la possibilità di espandere i propri settori economici in quest’area.

Di questo progetto, che dovrebbe interessare l’intera regione, comincia già a marciare una prima parte che riguarda direttamente i territori occupati da Israele nel ’67 e che prende il poetico nome di «piano per migliorare la qualità della vita dei residenti nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza».

In realtà la riuscita di questo piano migliorerebbe innanzitutto lo stato dell’economia israeliana, consentendole di sfruttare, più razionalmente e massicciamente di quanto già non faccia, le risorse e la forza-lavoro a basso costo palestinese.

Ma l’obiettivo è ancora più ambizioso: eliminare gli ostacoli che sbarrano il passo agli sviluppi previsti dall’accordo di Camp David, per arrivare ad un’amministrazione congiunta israelo-giordana dei territori occupati nell’ambito di una relativa autonomia locale, dentro una cintura militare israeliana. È questo l’aspetto politico del piano, sovrapponibile a quel «piano Reagan» per il Medio Oriente, che non è altro che la riproposizione, sotto altro nome, degli accordi del ’79.

Ma per fare questo occorre distruggere il ruolo politico dell’OLP; o cooptandone una parte per porla sotto tutela giordana, cosa che americani e giordani hanno tentato inutilmente di fare fino ad oggi, o costruendo un’alternativa ad essa, cosa anche questa già tentata (e fallita) da Israele con le «leghe di villaggio» negli anni scorsi. Tuttavia questa seconda strada viene oggi riproposta attraverso la corruzione di settori palestinesi dei territori occupati che possono vedere nella sottomissione al regime giordano una soluzione conveniente ai loro personali interessi. Si vuole insomma creare una struttura-fantoccio a livello economico-amministrativo per far passare una soluzione che escluderebbe tutti i diritti storici del popolo palestinese.

Di questo le masse palestinesi hanno ormai coscienza e stanno a dimostrarlo la loro eroica resistenza contro le forze militari di occupazione e le operazioni politico-militari condotte dalle organizzazioni combattenti palestinesi contro l’esercito israeliano in Libano e nella Palestina occupata, e contro i collaborazionisti locali di un’altra Camp David, stavolta israelo-giordana.

È una lotta che ha raggiunto ormai una generalizzazione ed un’intensità che non vengono messe in discussione neppure dalla bestiale repressione israeliana che colpisce quotidianamente la popolazione dei territori occupati e che, al pari di quella del regime di Pretoria contro la popolazione non bianca, non si fa scrupolo di incarcerare, torturare ed uccidere anche i bambini.

Una lotta che rende ingovernabile la Palestina occupata e sempre meno realizzabile qualsiasi soluzione liquidazionista perseguita dai regimi israeliano e giordano.

Qual è invece il ruolo dell’Italia in questa area del mondo?

Appena firmati gli accordi di Camp David, era stata subito allestita una forza multinazionale da inviare nel Sinai per sovrintendere alle varie fasi del ritiro israeliano, ma soprattutto per sottolineare la tutela imperialista su quegli accordi.

L’Italia ne fa tuttora parte e ne ospita anche il comando politico, il cui responsabile, Leamon Hunt, è stato l’obiettivo dell’azione condotta dalla nostra organizzazione e rivendicata a suo tempo anche in quest’aula.

Nel 1982 il governo italiano partecipa ad un’altra forza multinazionale, quella istituita col compito ufficiale di garantire l’evacuazione dei combattenti palestinesi da Beirut assediata dai carri armati israeliani.

Non si trattava di un’operazione umanitaria. In realtà era molto conveniente allontanare l’unica forza combattente che poteva rendere impossibile l’ingresso a Beirut dell’esercito israeliano, a meno che non si accettasse la preventiva distruzione della città ad opera dell’aviazione e dell’artiglieria delle forze di occupazione.

Di lì a poco la forza multinazionale si ritirò per permettere i rastrellamenti ad opera di israeliani ed esercito libanese, dei nazionalisti libanesi e dei palestinesi rimasti, rastrellamenti che si conclusero poi con il massacro di Sabra e Chatila.

Tornata sul posto, la forza multinazionale diede copertura militare alla sparizione di centinaia di libanesi nelle mani della polizia di Gemayel: gli ultimi ritocchi all’opera intrapresa dagli israeliani con l’invasione.

Ma alla fine il costo della presenza della forza imperialista rischiava di diventare davvero troppo alto; e i marines americani, per la prima volta dopo il Vietnam, sono costretti ad una ritirata precipitosa, seguiti dal contingente italiano ed incalzati dai nazionalisti e dalla sinistra libanese.

Da questo momento il governo italiano (ma anche la cosiddetta opposizione di sinistra) si impegnerà in una politica di mediazione tra gli interessi americano-israeliani e quelli di settori dell’OLP, sostenendo questi ultimi in tutte le loro pericolose scelte politiche degli ultimi anni.

Ma l’obiettivo di portare dalla parte dell’imperialismo una parte dell’OLP si è allontanato sempre più fino a diventare praticamente irrealizzabile; e al governo italiano non è rimasto altro da fare che dare la sua disponibilità al piano di sviluppo dei territori occupati, alla ricerca di un’alternativa minimamente credibile all’OLP, e legare ancora di più la sua politica per l’area a quella americana e dei laburisti israeliani.

L’Italia è, insomma, parte in causa; e lo è non solamente come agente dell’imperialismo USA, ma anche come soggetto imperialista alla ricerca di uno spazio di penetrazione economico-politico. Questo perché, nell’occidente imperialista, c’è una identificazione politica generale, su un piano strategico, tra i diversi soggetti imperialisti e, insieme, la logica concorrenza tra i diversi capitali alla ricerca di proprie occasioni di espansione. L’Italia è a pieno titolo un paese imperialista e persegue quindi una politica che cerca di conciliare una propria autonomia con gli interessi generali dell’occidente, identificati con quelli del paese più forte: gli USA.

Si tratta di una politica che può avere diversi accenti a seconda delle forze politiche considerate, ma sarebbe fantasioso cercare differenze di sostanza, strategiche, tra le posizioni di Andreotti (un tempo definito, con molta fantasia «filo-siriano») e quelle di Spadolini (fulgido ed ingombrante esempio di atlantismo e razzismo filo-israeliano). Entrambi rappresentano una borghesia che si è sempre richiamata ai cosiddetti «valori occidentali», pretendendo così di legittimare lo sfruttamento coloniale, il genocidio, il razzismo, l’annientamento culturale di interi popoli.

Sono i valori della borghesia, i valori di cui fascismo e nazismo non furono aberrazioni, ma solo le forme politiche storicamente determinate. Le democrazie imperialiste non sono certo state meno feroci in Vietnam, Algeria, Sudafrica e in mille altri luoghi dove il colonialismo e l’imperialismo si sono trovati di fronte alla resistenza eroica di popoli che difendevano la propria identità o anche la propria esistenza pura e semplice.

Non molto diversa è oggi la posizione della sinistra riformista, e del PCI in particolare. Il PCI sembra avere, sulla questione mediorientale, un solo problema: quello di scrollarsi di dosso le accuse che gli imperialisti hanno sempre fatto ai comunisti di essere antisionisti e perciò stesso antisemiti.

Difficile credere che si tratti solo di una revisione culturale, ed è più realistico pensare che dietro le attuali posizioni politiche del PCI sul Medio Oriente ci sia l’adeguamento coerente ad una posizione di internità costruttiva al sistema imperialista, con lo scopo di racimolare qualche briciola di potere e qualche spazio nello scenario politico nazionale (quello che conta).

E così dirigenti di questo partito partecipano a dibattiti sulla pace in Medio Oriente per parlare innanzitutto della sicurezza di Israele, per riaffermare l’identità di vedute del loro partito con il MAPAM israeliano, un partito in prima linea, insieme ai laburisti di Peres, nella politica di insediamento coloniale nei territori occupati.

Non ci interessa qui discutere della questione ebraica nella storia (che, del resto, è tutt’altra cosa), ma di fronte ad equazioni del tipo: antisionismo=antisemitismo, costruite dalla borghesia per rendere praticamente inattaccabile e legittimare l’esistenza e l’operato dello stato di Israele, è opportuno dire qualcosa sul sionismo oggi, sulle conseguenze che questo impianto ideologico ha avuto per la popolazione arabo-palestinese e sul ruolo che esso ha al servizio dell’imperialismo.

La confusione tra politica e religione, l’uso della seconda per giustificare le scelte della prima, è spesso servito all’imperialismo e, ancor prima, al vecchio colonialismo, per giustificare l’oppressione e lo sfruttamento in diverse aree del mondo. È allora opportuno smascherare queste squallide affermazioni di comodo chiarendo che oggi il sionismo è razzismo. Non solo perché lo afferma una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del’75, ma perché risulta evidente da qualsiasi analisi delle condizioni in cui vengono tenute le masse arabe dentro i confini di Israele, e soprattutto nei territori occupati, dove si sta realizzando una mostruosità istituzionale pari a quella generata dall’apartheid in Sudafrica: un bantustan sulle rive del Giordano, completamente dipendente su un piano economico, politico e militare dallo stato di Israele. Non è evidentemente un caso che tra questi due stati esista oggi una delle più robuste e convinte alleanze in campo internazionale, non meno solida di quella che lega entrambi questi stati agli USA. Alleanza di carattere economico e militare, che trova cemento nella necessità comune di difendere gli interessi dei «bianchi», dell’imperialismo, contro le rispettive colonie interne (cioè le popolazioni residenti), e giustificazione ideologica in compiacenti interpretazioni religiose.

È bene essere chiari: i comunisti sono contro il razzismo, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mascherato dalle più squallide motivazioni ideologiche o religiose. I comunisti sono contro quei «valori occidentali» che hanno dato copertura all’oppressione della maggior parte del mondo da parte di un pugno di paesi imperialisti. I comunisti devono spazzare via qualsiasi compromesso con l’imperialismo e perseguire l’unità con i comunisti e i rivoluzionari di tutto il mondo.

È proprio la lotta antimperialista insieme alle organizzazioni rivoluzionarie e comuniste dell’Europa occidentale e del Mediterraneo che la nostra organizzazione persegue attraverso la proposta e l’attuazione del Fronte Combattente Antimperialista. Un fronte che non vuole essere la riproposizione di una concezione solidaristica dell’internazionalismo, ma la condizione stessa della vittoria del processo rivoluzionario di qualunque paese di quest’area, in quanto persegue l’indebolimento del sistema imperialista a livello generale e nella nostra area geopolitica in particolare, senza il quale ogni tentativo rivoluzionario sarebbe votato al fallimento. Non solo perché ogni singolo processo rivoluzionario si troverebbe a scontrarsi con un nemico compatto e quindi enormemente più forte, ma anche perché la stessa rivoluzione proletaria, in ambito imperialista, deve esaltare il suo carattere antimperialista; nella periferia, perché si rivolga contro il suo vero nemico che sostiene le borghesie locali, e nel centro perché spezzi il coinvolgimento oggettivo del proletariato delle metropoli nello sfruttamento dei popoli della periferia, creando, nello stesso percorso del processo rivoluzionario, quell’unità tra il proletariato del centro e le classi oppresse della periferia indispensabile per la vittoria.

In questo quadro rimane fondamentale in tutto l’occidente imperialista la scelta strategica della lotta armata per il comunismo, che ha come unica alternativa il riformismo e la subordinazione agli interessi imperialisti. Strategia della lotta armata che, insieme all’attacco al cuore dello stato, e cioè alle politiche dominanti che nella congiuntura oppongono borghesia e proletariato, e alla centralità del proletariato metropolitano come soggetto rivoluzionario, costituisce l’ossatura strategica su cui fondano la loro linea politica, fin dagli inizi, le Brigate Rosse per la costruzione del PCC.

Si tratta di principi di strategia che le Brigate Rosse si sono date fin dalla loro nascita e che rimangono oggi fondamentali perché uguale nella sostanza è rimasto il quadro di riferimento internazionale e nazionale in cui ha cominciato a svilupparsi la lotta armata nel centro imperialista. Una strategia rivoluzionaria non nasce sulla base di presupposti politici congiunturali, ma dall’analisi della struttura stessa del sistema imperialista e dal patrimonio politico del movimento comunista internazionale e non può venire messa in discussione se non mutano le ragioni di fondo che l’hanno resa necessaria e possibile, a meno che, chi lo fa, non ritenga utile falsificare la storia e la realtà per tornaconto personale.

Per concludere, l’evoluzione politica e militare cui abbiamo assistito nell’area mediorientale mette in risalto la giustezza delle scelte politiche assunte dalle Brigate Rosse per la costruzione del PCC, in particolare l’attacco alla forza multinazionale di Camp David nella persona del suo direttore generale; in quanto gli accordi di Camp David informano ancora oggi tutti i modelli di rapporti tra gli stati dell’area mediorientale che l’imperialismo propone per rideterminare il suo dominio. Così come questa, tutte le altre azioni rivendicate dalle BR per il PCC dimostrano la validità e anche l’enorme potenzialità, ancora inespressa, della strategia della lotta armata nella lotta contro l’imperialismo e per la rivoluzione proletaria nel nostro paese.

 

Attaccare il cuore dello stato nelle sue politiche dominanti!

Rafforzare il campo proletario per attrezzarlo allo scontro con lo stato!

Guerra all’imperialismo!

Guerra alla NATO!

Promuovere e consolidare il Fronte Combattente Antimperialista!

 

Il militante delle Brigate Rosse per la costruzione del PCC Francesco Sincich

 

Genova, 28 maggio 1987

Il processo di costruzione del PCC attraverso la direzione strategica della guerra di classe. Firenze, Aula Bunker Santa Verdiana – Processo alla “Brigata Luca Mantini”. Documento dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello e Fabio Ravalli allegato agli atti

Il processo alla Brigata Luca Mantini vuole essere da parte di questo tribunale un’ulteriore criminalizzazione nei confronti di tutte quelle avanguardie che hanno fatto proprio, seppure al loro livello, il terreno rivoluzionario e nel contempo servire da deterrente per l’ambito proletario, nello specifico verso quelle espressioni dell’antagonismo che vogliono dialettizzarsi con la lotta armata. All’interno di ciò l’esperienza della Brigata Luca Mantini viene presentata qui come una sommatoria di reati, nel tentativo di spoliticizzare, attraverso la loro traduzione in termini giuridici, atti politici inerenti lo scontro di classe in cui la Brigata Luca Mantini vi ha rappresentato il piano rivoluzionario.

Dal punto di vista proletario e rivoluzionario – e soprattutto come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – ribaltiamo questo piano di lettura per evidenziare al contrario un fatto politico incontrovertibile: la capacità della guerriglia e segnatamente della proposta politica e strategica delle BR di costituire il riferimento nel processo di aggregazione delle avanguardie di classe che vogliono misurarsi con i problemi posti dallo scontro rivoluzionario; in altri termini, i processi di aggregazione delle forze proletarie che maturano sul terreno rivoluzionario passano attraverso l’assunzione della guerriglia come solo modo di esprimere adeguatamente la politica rivoluzionaria, il solo modo per definire la risposta strategica di classe ai progetti borghesi.

La storia politica della Brigata Luca Mantini è tutta interna a questo processo generale, in questo senso ne rivendichiamo la valenza politica, poiché ha rappresentato uno dei tanti momenti d’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, mettendone al contempo in rilievo limiti e propositività.

La Brigata Luca Mantini si è formata nel difficile periodo della controffensiva dello Stato e la sua storia è tutta interna a quella fase politica. Una fase politica che ha attraversato in modo non uniforme la complessa realtà del Movimento Proletario di Resistenza Offensivo e le sue espressioni organizzate.

I primi anni ’80 hanno segnato una fase politica nello scontro di classe che sul piano rivoluzionario prefigurava la necessità di reimpostazione politico-organizzativa delle avanguardie e della resistenza proletaria. Questa esigenza avvertita in primo luogo dalle BR ed esposta nel documento pubblico sulla Ritirata Strategica ha attraversato nel contempo il movimento rivoluzionario e le composite formazioni dei Nuclei Comunisti e di Resistenza in termini oggettivi (cioè come causa di contraddizioni nel proprio impianto politico) prima ancora che soggettivi.

Per meglio caratterizzare il quadro politico di riferimento in cui la Brigata Luca Mantini si è costituita non bisogna dimenticare che, oltre al ricentramento politico operato dalle BR con la critica al soggettivismo, la centralità dell’attacco allo Stato, la centralità operaia, la centralità della costruzione del PCC, la controffensiva dello Stato aveva prodotto dinamiche ed indirizzi estremamente contraddittori nelle formazioni combattenti in quel tempo presenti a livello nazionale. Da indicazioni ultrasoggettiviste di progressiva capacità di volume di fuoco, a teorizzazioni “complottarde“, a dichiarazioni di resa totale.

La considerazione di merito sulla Brigata Luca Mantini sta nel fatto che essa, pur rientrando all’interno dell’esperienza dei Nuclei e di tutta la complessa realtà del Movimento Proletario di Resistenza Offensivo e dei Nuclei Comunisti Rivoluzionari, si differenziava muovendosi obiettivamente verso il superamento di quelle forme politico-organizzative. Infatti questa struttura si proponeva, e nei fatti ha praticato, un piano differente, superiore a quello dei Nuclei, e ciò perché si è relazionata ad indicazioni di carattere generale e non settoriale. In questo senso la Brigata Luca Mantini ha avuto il pregio di svolgere la funzione di battaglia politica contro quelle posizioni liquidatorie, movimentiste e settoriali radicate nel polo da Prima Linea; ma la valenza politica più significativa che ha assunto questa esperienza, sia in termini oggettivi e in parte anche soggettivi sta nel fatto che ha incarnato, in un periodo duro e confuso, la necessità di assumersi in prima persona i problemi dello scontro rivoluzionario e in questa ottica si è immediatamente attivizzata nel convogliare il proprio contributo all’interno delle tematiche più mature che si dibattevano nel movimento rivoluzionario relazionandosi in termini positivi alle direttive che il processo autocritico delle BR-PCC aveva prodotto, inserendosi a pieno titolo nel processo di unità dei comunisti. Una dinamica e una prassi politica che ha rappresentato un significativo momento di aggregazione del movimento proletario nel polo.

I limiti della brigata Luca Mantini vanno riferiti ai caratteri specifici di quel momento politico e ricercati nel carattere prevalentemente spontaneo che era a base dell’aggregazione politica e che inevitabilmente produceva spinte contraddittorie le quali, dato il momento politico generale, non potevano essere governate confacentemente e linearmente. Spinte contraddittorie tra spontaneismo e tensione organizzativa che hanno provocato l’esaurirsi della brigata Luca Mantini come struttura con un’identità politica propria. La contraddittorietà tra gli elementi di avanzamento espressi dalla Brigata Luca Mantini e i suoi limiti che risiedevano nella teorizzazione della spontaneità è un insegnamento pratico che rimanda ai problemi posti dalla Ritirata Strategica e del come riadeguare la direzione dello scontro rivoluzionario, e la relazione dialettica che deve intercorrere tra le BR e le strutture o istanze di compagni rivoluzionari, in ultima istanza come concretamente costruire l’unità dei comunisti, la costruzione del Partito Comunista Combattente.

All’apertura della Ritirata Strategica la parola d’ordine dell’unità dei comunisti è soggetta a contraddizioni politiche che ne fanno un termine non correttamente interpretato, nella misura in cui si pensava che il bilancio politico relativo al percorso rivoluzionario fin lì svolto e gli errori prodottisi poteva essere rimesso a tutto il movimento rivoluzionario; un bilancio invece che competeva alle sole BR in quanto direzione di questo scontro. Un’errata interpretazione che ha favorito l’immissione nel dibattito di tesi estranee alla guerriglia, nel contempo ha significato svuotare di contenuto la stessa valenza della parola d’ordine dell’unità dei comunisti. L’unità dei comunisti ha valore se intesa come un processo che ruota intorno alla costruzione del Partito Comunista Combattente, in questo senso è una parola d’ordine che attualmente non può essere intesa come unità generica sulla lotta armata, salvo ricondursi alla fase di propaganda armata, ma va intesa come un processo che ha il suo riferimento concreto intorno all’indirizzo politico e programmatico delle Brigate Rosse.

Il riadeguamento di questi anni ha permesso di stagliare maggiormente il senso dell’unità dei comunisti ancorandolo fermamente agli obiettivi politici che l’approfondirsi dello scontro ha posto sul terreno della disposizione e organizzazione delle forze in campo; un terreno che riguarda in prima istanza proprio i comunisti a partire dal difficile contesto controrivoluzionario con cui deve misurarsi l’organizzazione della guerriglia. Ma a maggior ragione essa risulta lo sbocco obbligato della maturazione delle avanguardie di classe, un processo in cui deve essere fatto proprio il patrimonio teorico, politico e organizzativo che la prassi delle BR ha sedimentato sul terreno dello scontro rivoluzionario. Proprio perché la questione dell’organizzazione della guerriglia, in questa fase dello scontro rivoluzionario, è problema prioritario, ribadiamo qui di seguito gli elementi di linea politica inerenti ai termini dell’impianto politico-organizzativo, termini scaturiti dagli insegnamenti pratici di vent’anni di prassi rivoluzionaria; la loro più precisa definizione ha reso necessario un parziale aggiornamento dello Statuto delle Brigate Rosse (Risoluzione della Direzione Strategica n.2) di cui ne riportiamo una sintesi.

La definizione di alcuni aggiornamenti allo Statuto si è resa necessaria alla luce del complessivo riadeguamento operato dalle Brigate Rosse in questi anni di Ritirata Strategica, quindi degli insegnamenti conseguiti nel percorso pratico sul carattere della guerra di classe, e come questi si riflettono sull’impianto politico-organizzativo. Parliamo di aggiornamento in quanto si tratta di quegli aspetti dell’impianto politico-organizzativo che sono soggetti a mutamento con il mutare delle fasi rivoluzionarie e del conseguente indirizzo politico, ovvero della parte relativa alla disposizione e organizzazione delle forze in campo.

Mentre risultano valorizzati dalla verifica pratica i nodi centrali facenti parte dell’impianto strategico descritti nello Statuto, ovvero i criteri di clandestinità e compartimentazione che permettono il carattere offensivo della guerriglia e, per lo specifico funzionamento dell’Organizzazione, la sua strutturazione nel modulo politico-organizzativo e i principi di costruzione del Partito Comunista Combattente.

Inoltre l’esperienza fin qui accumulata permette di mettere a sintesi e precisare, rispetto alla parte generale contenuta nello Statuto, il contesto storico e politico dello sviluppo della lotta armata nei paesi a capitalismo maturo che, seppure ne sottointende e ne traccia la sostanza di fondo (lo Statuto), risente ancora di un certo ideologismo. Questo è palese nella caratterizzazione dell’autonomia di classe in cui viene dato all’antirevisionismo un peso maggiore di quello politicamente avuto nella formazione della stessa. Invece va ricordato, e il dibattito di allora lo aveva ben messo in risalto, che il carattere principale dell’autonomia di classe è dato dall’essere antistituzionale e antistatuale, solo secondariamente e di riflesso al ruolo assunto dalle sue rappresentanze istituzionali è antirevisionista.

L’affermazione quindi «…il nodo che si poneva alle avanguardie era la risoluzione del problema della violenza in ogni fase del processo rivoluzionario…» deve trovare la sua giusta collocazione nelle ragioni storiche della lotta armata e non solo nella rottura con la politica del PCI (…perché aveva alimentato false speranze…).

Già sul finire degli anni ’60 il ricco dibattito che si era sviluppato tra le avanguardie rivoluzionarie sia nel centro che nella periferia si coagulava intorno ai nuovi termini che assumeva la politica rivoluzionaria, dell’affermarsi della lotta armata, della guerriglia, quale suo modo di esprimersi adeguatamente. Le espressioni più mature di tale dibattito sintetizzarono le prime linee teoriche e politiche di quello che va considerato, sul piano dell’esperienza rivoluzionaria, uno sviluppo del marxismo. Un dibattito – sintesi dell’attività rivoluzionaria di forze come i Montoneros, i Tupamaros, la Gauche Proletarienne, le Brigate Rosse, la Rote Armee Fraktion e, per quanto particolari, i Black Power e i Weatherman.

Le ragioni storiche e politiche dell’affermarsi della lotta armata sono date dai mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo, con il secondo conflitto mondiale, ha posto in essere, sia sul piano storico-politico che economico-sociale.

Sul piano storico-politico tali trasformazioni già emergevano all’interno degli sconvolgimenti operati dalla guerra stessa, a partire dalla necessità per l’imperialismo di assestare a suo favore gli equilibri che configureranno il bipolarismo. Un contesto questo in cui si sviluppò una controrivoluzione imperialista alla cui testa stavano gli USA, con l’intento di pacificare l’Europa, attraversata dai risvolti rivoluzionari che si erano formati durante il conflitto, questo a partire dal punto critico costituito dalla Germania. Controrivoluzione imperialista e Piano Marshall furono il binomio con cui fu normalizzata l’Europa: aiuti economici e interventi militari, pur rispondendo ad esigenze diverse, costituirono il necessario complementarsi di un duplice piano. Da un lato preparava il terreno alla penetrazione del capitale finanziario USA, dall’altro lato doveva garantire le condizioni politiche dei paesi per la ripresa del ciclo economico, dato che il permanere di condizioni “sfavorevoli” agli investimenti si sarebbe tradotto in una grave recessione per l’economia USA. In che modo sia passata la “normalizzazione” è storia recente, nello specifico del nostro paese i proletari sanno bene cosa ha significato il disarmo politico e militare della Resistenza, date le spinte rivoluzionarie e proletarie che vi dominavano. Un disarmo che ha preparato il terreno agli anni di Scelba e alla restaurazione borghese. Quello che importa qui rilevare è come il “ripristino” dell’ordine imperialista, le condizioni dettate dalla controrivoluzione, andranno a formare l’ossatura stessa della controrivoluzione preventiva come un elemento permanente che caratterizzerà il rapporto politico tra le classi.

Sul piano economico-sociale, il processo di sviluppo monopolistico dell’imperialismo, il piano di internazionalizzazione e interdipendenza economica che lo caratterizzano, ha dato luogo al formarsi di una frazione dominante di borghesia imperialista aggregata al capitale finanziario USA (quest’ultimo si è innervato nella composizione dei gruppi monopolistici dominanti) e nel contempo al formarsi del proletariato metropolitano. Questo movimento economico ha prodotto una tendenza alla polarizzazione fra le classi che ha scompaginato le figure di piccola e media borghesia rurale e cittadina spingendole all’interno di un processo di proletarizzazione. Questo non ha significato la scomparsa degli strati intermedi, ma la modifica di quegli strati che nel periodo fra le due guerre avevano la loro base materiale nella fase del capitale monopolistico a base nazionale. I mutamenti delle condizioni economico-sociali determinate dallo sviluppo dell’imperialismo sono le ragioni di fondo dell’inadeguatezza della strategia terzinternazionalista dell’insurrezione, il fallimento delle tattiche dei partiti comunisti di allora (i “due tempi“), prima che essere dati dal tradimento e dallo sciovinismo dei capi, era determinato da questa situazione di fondo.

In sintesi le nuove condizioni storiche possono essere così riassunte:

  1. a) il quadro del bipolarismo che, stante le ragioni per cui si è formato e le caratteristiche assunte, rende improbabile il riprodursi delle condizioni per un conflitto interimperialistico come la seconda guerra mondiale, questo per il conseguente grado d’integrazione politico-militare fra gli Stati della catena: un quadro storico che muta il dato del “momento eccezionale“ che nel passato era riferito alle condizioni create in termini di contraddizioni dalla guerra interimperialista, ciò riferito alle caratteristiche assunte allora da queste contraddizioni, le quali non sono affatto scomparse né diminuite, ma il loro manifestarsi sul piano politico è condizionato nelle forme e nei modi dalle relazioni che l’imperialismo ha determinato col suo sviluppo fra gli Stati della catena;
  2. b) la diversa caratterizzazione delle forme di dominio e quindi del rapporto classe/Stato con l’affermarsi della controrivoluzione preventiva. Un dato generale questo che rende impraticabile, sul piano rivoluzionario, i “due tempi“, ovvero accumulare forza politica da riversare in un secondo tempo (quando maturano le condizioni eccezionali) sul terreno militare.

Questi i dati storici che, unitariamente a quelli economico-sociali, hanno costituito il terreno oggettivo su cui si è misurata la soggettività rivoluzionaria sino ad affermare la lotta armata come il solo modo di operare in queste condizioni e, specificatamente per il centro imperialista, nella necessità di operare nell’unità del politico e del militare (superamento del “doppio livello” e dei “due tempi”), presupposto che si confermerà come indispensabile per la guerriglia nelle metropoli unitamente al carattere di lunga durata della guerra di classe.

Questo quadro complessivo è quindi il riferimento generale su cui si afferma la lotta armata, la guerriglia, nei centri imperialisti; lo specifico contesto dello scontro di classe in cui si inserisce, ne determina il tipo di strategia da seguire e le particolarità di sviluppo. Per questo affermiamo che le ragioni dello sviluppo della lotta armata in Italia non risiedono nel ciclo di lotte sviluppato dall’autonomia di classe a cavallo degli anni ’70; la qualità maturata dalle avanguardie operaie in quel periodo, che ponevano all’ordine del giorno la questione del potere, ha costituito invece il terreno della specificità dello sviluppo del processo rivoluzionario in Italia, caratterizzando la proposta strategica della lotta armata alla classe da parte dell’avanguardia rivoluzionaria.

Operare un tale riduzionismo, oltre a declassare la funzione dell’avanguardia rivoluzionaria (in questo caso la guerriglia) a mero prolungamento della lotta di massa e la stessa natura dello scontro a un succedersi lineare di flussi e riflussi, si è poi rivelato il terreno di gestione dell’opportunismo di gran parte del movimento rivoluzionario, nonché il medesimo utilizzato dagli “esperti” dell’antiguerriglia e dagli ex militanti che con loro collaborano.

L’acquisizione della complessità dello sviluppo del processo rivoluzionario è un dato che per molti versi solo la verifica pratica poteva mettere in luce, non solo per quanto riguarda gli aspetti generali, ma anche per quanto riguarda l’originalità in parte assunta dallo specifico percorso del nostro paese. In questo senso l’approssimazione e gli errori che la prassi ha poi evidenziato sono anche il naturale portato di un processo che non ha ancora precedenti compiuti da cui trarre esempio, forza e insegnamenti generali. Quello che possiamo affermare, indipendentemente dalla nostra relativa originalità, è che i caratteri generali e fondamentali della guerriglia validi in ogni Stato a capitalismo maturo determinano un processo di maturazione nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione che obbligatoriamente si generalizza in ogni contesto, in ogni Stato.

Cosicché lo sviluppo di nuove Forze Rivoluzionarie che possono formarsi anche in paesi che non hanno avuto precedenti, deve misurarsi per forza di cose con il livello dato nel contesto generale del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. In altri termini, le “nuove” Forze Rivoluzionarie devono prendere atto di cosa è stato già determinato, sul piano generale, dall’attività di altre Forze Rivoluzionarie. Relazionarsi a ciò non significa travalicare il necessario calibramento politico che ogni Forza Rivoluzionaria è tenuta a misurare nel radicare la sua proposta politica e strategica, né tantomeno non tener conto del tipo di mediazione politica tra le classi entro cui si racchiudono le specifiche forzature, ma significa relazionarsi anche al livello che si è stabilito sul piano generale tra rivoluzione e controrivoluzione.

L’esempio delle Cellule belghe (CCC) dimostra come una nuova Forza Rivoluzionaria si sia dovuta misurare con un piano di controrivoluzione dello Stato belga in cui vi hanno influito, seppure in termini relativi, le esperienze maturatesi negli altri Stati europei.

L’accerchiamento strategico. È una condizione generale e immanente che sovrasta lo sviluppo del processo rivoluzionario data dal fatto che, essendo il potere nelle mani del nemico fino al suo abbattimento, questo determina una situazione di perenne accerchiamento, per cui i rapporti di forza, intesi in termini generali, sono sempre favorevoli al nemico di classe. La rottura nei rapporti di forza a favore del campo proletario operata dall’avanguardia rivoluzionaria è quindi sempre relativa. Nel contempo vige il principio che la guerra di classe è strategicamente vincente poiché, se il nemico di classe non può distruggere il proletariato, la sua avanguardia rivoluzionaria può distruggere il nemico di classe. Va messo in evidenza che l’accerchiamento strategico, nel contesto dello scontro che si sviluppa negli Stati a capitalismo maturo, si carica di significati politici riconducibili in ultima istanza all’aumentato peso della soggettività nello scontro di classe generale, più specificatamente vi influiscono i termini del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che si è prodotto storicamente.

Sul piano del funzionamento della guerriglia, l’esperienza delle BR permette di precisare le importantissime implicazioni che vivono operando nell’unità del politico e del militare, implicazioni che condizionano tutto il modo in cui si sviluppa la guerra di classe. In questo senso possiamo dire che l’unità del politico e del militare agisce come una matrice nel processo rivoluzionario, dai meccanismi che consentono ad una Forza Rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi rivoluzionaria, al processo nel suo complesso. La guerriglia nelle metropoli non è semplice e sola guerra surrogata, essa agisce e può sviluppare la sua efficacia muovendosi ben dentro i nodi centrali dello scontro politico fra le classi. L’attacco al nemico perciò, per essere disarticolante, per incidere e aprire spazio deve riferirsi strettamente a questo piano politico generale. La guerriglia esplicita dunque nella sua attività la natura di guerra che pure vive nello scontro di classe, una natura di guerra fortemente dominata dalla politica; una natura che influenza tutte le dinamiche dello scontro, dal piano generale della lotta di classe al piano rivoluzionario. La guerriglia, essendo direzione dello scontro rivoluzionario, muovendosi dentro ai criteri obbligati dell’unità del politico e del militare, deve affrontare contemporaneamente e globalmente tutti i piani del processo rivoluzionario, quindi la sua direzione è volta a organizzare e disporre le forze in maniera adeguata ai livelli dello scontro e agli obiettivi di fase.

Il processo rivoluzionario è processo di attacco militare al nemico (cuore dello Stato, politiche dell’imperialismo) dentro ai nodi politici centrali che oppongono le classi e nel contempo è costruzione e organizzazione delle forze sulla lotta armata al grado definito dallo scontro e dai diversi livelli delle forze che vi concorrono (compagni rivoluzionari, spezzoni d’avanguardie di classe, ecc.). Questo complesso andamento (la guerra di classe) si muove all’interno dei caratteri che ha assunto lo scontro di classe negli Stati a capitalismo maturo; caratteri che ne influenzano fortemente la dinamica di movimento e ne definiscono le peculiarità.

I caratteri del processo rivoluzionario sopra descritti comportano il fatto che l’avanguardia armata del proletariato si configuri come una Forza Rivoluzionaria che assume i principi di funzionamento di un esercito rivoluzionario, in altre parole le BR sono una Forza Rivoluzionaria che, pur essendo il nucleo fondante il Partito, non sono il Partito Comunista Combattente, questo perché il nodo della direzione rivoluzionaria determinata dal Partito nella guerra di classe non si scioglie con un atto di fondazione, ma essa è un vero e proprio processo di fabbricazione/costruzione del Partito che si configura come tale all’interno del percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe. Nella loro più precisa definizione e progettualità le BR si costruiscono come Partito. In sintesi, la direzione rivoluzionaria dello scontro di classe si realizza agendo da Partito per costruire il Partito.

Questa concezione fondamentale, unitamente al modulo politico-organizzativo secono cui sono strutturate le BR, i criteri di clandestinità e compartimentazione, costituiscono gli elementi sempre validi, quindi strategici, affinché la guerriglia possa agire con il suo portato rivoluzionario in queste condizioni storiche dello scontro fra le classi. Nello Statuto vengono giustamente definiti i criteri di clandestinità e compartimentazione che permettono il carattere offensivo della guerriglia, così come si mette l’accento sul pericolo della deformazione di questi criteri a logica carbonara o peggio a spirito di setta, ovvero a una visione capovolta della loro funzione, al limite misurata al piano organizzativo. L’esperienza permette di affermare che tale pericolo può aumentare a causa degli arretramenti, laddove le particolari condizioni dello scontro che subentrano ad un arretramento possono indurre ad una logica difensivistica. Contro questa malattia va posta costante vigilanza politica, sia perché sono oggettive le condizioni per cui si produce, ma soprattutto perché si traduce in errori di comportamento nell’affrontare il lavoro politico.

Tutto il complesso arco di criteri, principi, modo di esprimere prassi rivoluzionaria, caratterizza lo stile di lavoro delle BR. Uno stile di lavoro che in questi anni di esperienza rivoluzionaria si è ben stagliato negli atti politici e materiali delle BR. Esso contraddistingue lo spirito della militanza d’Organizzazione e trae la sua caratterizzazione dalla natura proletaria delle BR e dagli insegnamenti generalizzabili su questo terreno del movimento comunista internazionale.

Critica alla formulazione della Riserva. La prassi ha reso evidente l’inadeguatezza del criterio politico-organizzativo della Riserva così com’è intesa nello Statuto, perché inattuabile, di fatto mai attuata se non nel suo modo più negativo, con la riserva dei dirigenti. Essendo la guerriglia nelle metropoli una guerra senza fronti per eccellenza e operando essa nel cuore del nemico di classe, niente e nessuno è esente dall’essere colpito dal nemico, né strutture fisiche né militanti possono essere immuni da questo dato. Nella pratica di un processo rivoluzionario nei paesi a capitalismo maturo che si svolge in perenne condizione di accerchiamento strategico, nell’impossibilità di mantenere zone liberate, ciò che invece necessita è attivizzare tutte le forze disponibili, da quelle militanti a quelle rivoluzionarie e proletarie, nella concreta attività. Un’attività che, all’interno del principio dell’unità del politico e del militare, si esplica globalmente poiché investe tutti i termini dello scontro. Con ciò si intende dire che non è politicamente pagante mantenere delle forze in riserva, in quanto si logorano e si dequalificano per effetto delle condizioni dello scontro. Il loro reinserimento diventa assai problematico poiché la mancata attivizzazione impedisce alle stesse di essere formate adeguatamente. Per cui la riserva per la guerriglia va intesa politicamente come capacità di formare quadri militanti complessivi, in grado di riprodurre il patrimonio politico-organizzativo su cui si basa la guerra di classe in ogni condizione dello scontro. Materialmente essa trova applicazione nel principio della salvaguardia dei militanti responsabili dei servizi essenziali (basi, ecc.), i quali sono tenuti fuori dal lavoro politico attivo.

Critica all’impostazione dei Fronti. Lo sviluppo delle BR per poli a partire da quelli strategicamente centrali costituiti dalle zone industriali a grande concentrazione operaia, risponde alla giusta esigenza politica di innervarsi nell’ambito di classe; questo perché il proletariato metropolitano a dominanza operaia è la base sociale della lotta armata. Le Colonne si sviluppano nei poli di appartenenza sul principio della duplicazione dell’Organizzazione. Le BR colgono la contraddizione che sul piano politico tale sviluppo può potenzialmente favorire, vale a dire l’influenza delle tematiche particolari di polo sulla linea politica. Al fine di superare questa contraddizione presente materialmente, e mantenere l’omogeneità e unitarietà dell’intervento complessivo, si sviluppano i Fronti di Combattimento. I Fronti hanno lo scopo di attraversare orizzontalmente l’attività dell’Organizzazione con i loro campi d’intervento (Fronte delle fabbriche, Fronte della controrivoluzione, Fronte delle carceri). Nella realtà questa soluzione ha approfondito la contraddizione. Infatti i Fronti, lontano dal costituire veicolo d’unitarietà della linea politica nelle Colonne, si sono trasformati per paradosso in settori specializzati d’intervento, favorendo le tendenze particolari dei poli. La giusta concezione dello sviluppo per poli e per Colonne, se da un lato ha favorito l’espansione dell’Organizzazione nel territorio, dall’altro ha potenzialmente posto la contraddizione del frazionamento dell’intervento complessivo. Ciò però è potuto avvenire anche per il persistere della visione linearista e manualistica dello scontro rivoluzionario, il quale pareva preludere ad una rapida conclusione.

Nel momento in cui si rese necessario, in relazione all’approfondirsi dello scontro, esprimere il salto alla direzione centralizzata dell’attività, al fine di consolidare le posizioni ottenute, l’indirizzo politico dei Fronti e la conseguente disposizione delle forze in campo non permise questo salto, poiché forti si erano fatte le spinte al frazionismo, espresse poi dalle deviazioni operaista della “Walter Alasia“ e soggettivista della Colonna napoletana.

Il muoversi della guerriglia si è misurato con la necessità di riadeguare l’impianto politico-organizzativo che risentiva di linearità e schematicità. Una visione (in parte favorita dallo sviluppo di massa sulla lotta armata) che si discostava anche dalla giusta intuizione che lo scontro rivoluzionario nelle metropoli non poteva che essere di lunga durata, e dalla necessità di assestare le forze dinanzi al profilarsi dell’approfondimento nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione. In sintesi, la visione linearista dello sviluppo del processo rivoluzionario, se in parte era anche il naturale prodotto dell’inesperienza e giovinezza politica, in parte risentiva dell’applicazione un po’ manualistica dell’impianto. In tal modo si spiega come la disposizione delle forze e le direttive politiche erano rispondenti al fine di attaccare lo Stato in tutte le sue componenti e nello stesso momento (a tenaglia) allo scopo di paralizzare la macchina statale. Uno schema che non coglieva la complessità del funzionamento dello Stato, e che ha la sua validità nella parte finale dello scontro, appunto in una fase di guerra dispiegata. Questa visione di fatto ha influenzato l’impianto in quelle direttive politico-organizzative che daranno poi vita ai “Fronti di Combattimento“, quale riflesso della visione lineare sia dello scontro che dello Stato.

La realtà dello scontro e l’esperienza stessa del processo rivoluzionario diretto dalle BR ha dimostrato che il rapporto classe/Stato si è modificato negli strumenti e nella sostanza via via che l’attività della guerriglia si inseriva nel contesto politico dello scontro di classe. Di fatto, la proposta strategica della lotta armata alla classe si è imposta come uno spartiacque tra posizioni arretrate (i gruppi, il doppio livello) e la giusta risoluzione della questione del potere. Queste posizioni solo apparentemente sembravano cavalcare le nuove condizioni della lotta, assumendone solo l’estremismo sterile, di fatto rapportandosi al nuovo con occhi vecchi. La guerriglia fa assumere la dimensione rivoluzionaria imposta dall’attualità del rapporto di scontro, realizzando la dialettica con le istanze dell’autonomia di classe, influenzandone di conseguenza le caratteristiche di sviluppo.

Nel contempo lo Stato, misurandosi con la qualità dello scontro di classe, dopo un primo ed inevitabile smarrimento, ha maturato al suo interno la risposta controrivoluzionaria che, come si è verificato, nella sua essenza ha influenzato la mediazione politica fra classe e Stato. Questo perché lo Stato non è una sommatoria di apparati; lo Stato esplica una funzione prevalentemente politica che, nella sua tendenza di sviluppo, centralizza nell’esecutivo un dato che, da un lato, si riferisce alla necessità di dare risposte adeguate all’economia, dall’altro lato al governo del conflitto di classe.

La dinamica tesa all’accentramento dei poteri è solo un aspetto, anche se principale, dello Stato; più sostanzialmente, gli organi esecutivi e politici devono misurarsi con la capacità di esprimere la mediazione politica adeguata al governo dei conflitti di classe. Ciò si esprime con l’affinamento degli strumenti che tendono non solo al contenimento delle spinte della lotta di classe, ma al loro convogliamento nei meccanismi e negli istituti della democrazia rappresentativa.

In sintesi, per quanto il dato di fondo della complessità della macchina statale fosse già presente, si è poi maggiormente sviluppato con l’evolvere dei processi economici e dello scontro di classe, all’interno del quale la dinamica rivoluzione/controrivoluzione ha influito sul carattere del rapporto classe/Stato.

La centralità dell’attacco allo Stato costituisce oggi più che mai per le BR uno dei principali assi programmatici, attorno a cui costruiscono organizzazione di classe sulla lotta armata. L’esperienza su questo terreno ha posto concretamente i criteri su cui si dà attacco al cuore dello Stato, definiti proprio dalla maggiore conoscenza sia delle dinamiche dello scontro che dei caratteri dello Stato. Si dà efficacemente disarticolazione e se ne ha il massimo del profitto politico, incentrando l’attacco sui criteri di centralità, selezione, calibramento.

Centralità, nell’attacco, del progetto politico dominante della borghesia imperialista che si forma all’interno della contraddizione tra classe e Stato.

Selezione del personale che di questo progetto costituisce l’elemento di equilibrio per farlo marciare.

Calibramento ai rapporti di forza interni al paese e tra imperialismo e antimperialismo, e al grado di assestamento delle forze rivoluzionarie e proletarie.

La prassi di questi anni ha reso evidente la discontinuità del processo rivoluzionario; esso cioè non si svolge in modo lineare ma è fatto di avanzate e ritirate, successi e sconfitte. Il superamento di una visione lineare ha perciò comportato una ripuntualizzazione più concreta delle fasi del processo rivoluzionario; questo veniva compreso, in ultima istanza, in due sole fasi: quella dell’accumulo di capitale rivoluzionario e il suo dispiegamento nella guerra civile. La realtà ha dimostrato, soprattutto a fronte della controrivoluzione degli anni ’80, come sia più complesso questo procedere e come il succedersi delle fasi rivoluzionarie non sia definibile a priori dall’inizio alla fine, fatto salvo l’indirizzo strategico entro cui si collocano. La connotazione della fase rivoluzionaria dipende quindi anche dall’esito della fase precedente e dagli obiettivi definibili nel più generale contesto dello scontro.

Il giusto affermarsi della Ritirata Strategica, oltre a dimostrare ciò, dimostra come all’interno del processo prassi-teoria-prassi sia possibile imparare dagli errori. Questa acquisizione ha comportato l’adeguamento nella disposizione e organizzazione delle forze in campo e quindi dell’impianto politico-organizzativo a ciò relativo. In altri termini, fermo restando la disposizione generale strategica delle forze sulla lotta armata, muta la disposizione e l’organizzazione delle forze in campo in relazione al mutare dello scontro e alle finalità della fase rivoluzionaria. All’interno di ciò vanno distinti due livelli, uno riguardante le forze militanti nelle BR, l’altro le forze che si dispongono attorno alla loro attività.

Sulla Ritirata Strategica. Le condizioni politico-generali in cui fu aperta la Ritirata Strategica rimarcavano una sostanziale inadeguatezza dell’impianto e della linea politica dell’Organizzazione ai termini dello scontro. Da una parte l’incapacità di cogliere i mutamenti che a livello dell’imperialismo andavano a modificare il quadro degli equilibri generali, stante l’affacciarsi della profonda crisi economica; dall’altra, per quanto riguardava l’analisi dello Stato e della situazione interna, si riteneva che l’attacco all’Unità Nazionale aveva lasciato la borghesia e lo Stato incapaci di ricompattare le proprie fila e di riformulare nuove intese politiche.

Questo era anche il prodotto di una visione dello Stato schematica che, se da un lato assolutizzava il piano soggettivo, dall’altro ne schematizzava le funzioni ad articolazione locale del “sistema imperialista multinazionale”. Non si coglieva il movimento partito all’interno della borghesia e dello Stato teso a sferrare una controffensiva politica e militare alla classe a partire dalle sue avanguardie di lotta e rivoluzionarie, col fine di operare una rottura a favore della borghesia nei rapporti di forza fra le classi esistenti nel paese, ridimensionando così il peso politico acquisito dalla classe operaia e dal proletariato. Una controffensiva senza precedenti, la quale non poteva che partire infliggendo un duro colpo alla guerriglia in modo che si riversasse sull’intero corpo di classe attraversandolo orizzontalmente: dai settori più maturi dell’autonomia di classe che si sono dialettizzati con la guerriglia, al movimento rivoluzionario, fino a pesare sulle condizioni politiche e materiali di tutto il proletariato.

Una controffensiva che, per proporzioni e modi di dispiegamento, ha assunto carattere di vera e propria controrivoluzione. Le posizioni inadeguate prodotte principalmente dalla giovinezza politica sono state battute nelle battaglie politiche contro il soggettivismo idealista e l’operaismo. Il ricentramento operato dall’Organizzazione (esplicitato con l’azione Dozier per quanto riguarda l’antimperialismo e l’azione Taliercio per quanto riguarda il piano classe/Stato), non impedì l’accumularsi critico delle contraddizioni e dei ritardi; ma il ripristino del corretto metodo dell’analisi materialista permise l’apertura della Ritirata Strategica nonostante i limiti di comprensione che l’Organizzazione aveva della stessa, ma che le permise di ritirarsi e proseguire nel riadeguamento pur all’interno della pressione esercitata dalla controffensiva dello Stato.

La giustezza della scelta della Ritirata Strategica ha dimostrato nel tempo tutta la sua validità, poiché interpretando opportunamente le leggi della guerra rivoluzionaria ha permesso alle BR di ripiegare da posizioni non avanzate collocando correttamente la sconfitta tattica dell’82 nell’andamento discontinuo dello scontro all’interno del percorso di lunga durata.

Una scelta che ha permesso di aprire una fase rivoluzionaria in cui le BR, ritirandosi, hanno sottratto per quanto possibile le forze al dissanguamento causato dalla controffensiva dello Stato, senza cadere così nell’avventurismo: in tal modo hanno iniziato un lungo e difficile processo di riadeguamento complessivo, a fronte delle modifiche avvenute nel contesto dello scontro, con la conseguente durezza delle condizioni politiche e materiali venutesi a determinare nel tessuto proletario e dell’autonomia di classe.

Un processo di riadeguamento che, dovendosi misurare con la materialità degli effetti prodotti dalla controrivoluzione nel campo proletario, è avvenuto e avviene in maniera non lineare per le contraddizioni che la dinamica controrivoluzionaria ha immesso, in maniera differente, sia nel movimento di classe che nelle stesse Forze Rivoluzionarie.

La Ritirata Strategica, per adempiere sostanzialmente alla sua funzione, deve aderire concretamente alle caratteristiche dello sviluppo della guerra di classe, così come si sono formate nello scontro rivoluzionario del nostro paese. Per questo motivo essa non si risolve con la sola chiarezza teorica e politica dell’impianto, in questo caso le risultanze del processo autocritico, ma il suo procedere è legato strettamente alla ricostruzione delle condizioni politiche e militari della guerra di classe, alla capacità delle BR di articolare un processo di attivizzazione e organizzazione delle forze proletarie a partire dalle condizioni create dall’arretramento, tenendo conto che per la guerriglia anche il riadeguamento si realizza nell’unità del politico e del militare, implica quindi che l’avanguardia combattente stabilisca una “condotta della guerra rivoluzionaria” i cui termini sono interni ai presupposti della Ritirata Strategica, sino a che l’evolvere successivo dei livelli di ricostruzione, compattamento e direzione delle forze proletarie sul terreno rivoluzionario non abbiano maturato l’assestamento necessario per superare le posizioni di relativa debolezza nel complesso dei rapporti di forza tra le classi.

Per questo la Ritirata Strategica è una fase rivoluzionaria di lungo termine il cui superamento implica un salto e una rottura delle attuali condizioni di scontro. La Ritirata Strategica, poiché va a contrassegnare un lungo periodo del processo rivoluzionario, procede attraverso la risoluzione dialettica di diversi passaggi sostanziali; all’interno di ciò le BR già lavorano alla ricostruzione delle condizioni per attrezzare la classe, in questa fase, allo scontro contro lo Stato.

Per sostanza, modi e tempi politici a cui deve essere finalizzata l’attività complessiva della ricostruzione, si deve parlare di essa come fase rivoluzionaria e non di semplice momento congiunturale, tenendo conto che prende forma e consistenza all’interno della Ritirata Strategica, ma essa costituisce al tempo stesso il primo passaggio, la prima base su cui modificare i rapporti attuali tra campo proletario e Stato.

Le BR hanno lavorato e lavorano per porre le basi alla fase di ricostruzione. Queste poggiano sui passaggi effettivamente compiuti dall’avanguardia rivoluzionaria in termini di ricentramento teorico, politico e organizzativo attraverso la prassi concretamente messa in campo per portare l’iniziativa rivoluzionaria al punto più alto dello scontro fra le classi. Se queste basi consentono di definire l’indirizzo politico su cui s’incentra il lavoro rivoluzionario, è però vero che la fase di ricostruzione è un passaggio problematico e difficile per i molti fattori di contraddizione a cui l’avanguardia combattente deve dare soluzione.

A fronte della qualità richiesta all’intervento rivoluzionario, quindi delle condizioni complessive per espletarlo, vi è la continua necessità di operare ricostruzione dei mezzi e delle forze che devono essere disposte; questo comporta un andamento avanzate-ritirate per via dell’equilibrio da mantenere fra i due fattori, il quale deve confrontarsi con l’intensa attività antiguerriglia e controrivoluzionaria dello Stato, e per altro verso per il necessario processo di formazione delle stesse Forze Rivoluzionarie.

Ecco perché questa fase è soggetta ad un andamento fortemente discontinuo che comporta il procedere tra continue avanzate-ritirate, condizionando in tal modo l’atteggiamento tattico del momento.

In sintesi, da ciò nasce la necessità per le BR di una complessa “manovra politica” tesa a bilanciare da un lato il ricucimento delle condizioni fondamentali all’azione rivoluzionaria, dall’altro il suo elevamento al grado richiesto dallo scontro.

Le mutate condizioni dello scontro tra le classi scaturite dall’offensiva controrivoluzionaria degli anni ’80 sono alla base del difficile e problematico procedere della fase di ricostruzione, poiché essa si misura con il dato politico su cui sono andati a stabilirsi gli attuali rapporti fra classe e Stato, un dato politico che evidenzia i processi di rinfunzionalizzazione dei poteri dello Stato e il loro riflettersi concreto nel rapporto col proletariato, processi che per la loro natura e per il contesto contraddittorio entro cui si svolgono producono effettivi passaggi verso una Seconda Repubblica.

Sullo sfondo l’aggravamento della crisi economica, resa maggiormente acuta dai processi di approfondimento dell’imperialismo, la quale scarica i pesanti costi economici e sociali sul proletariato; d’altro lato l’acutizzarsi delle contraddizioni interborghesi quale riflesso dell’aspra concorrenza prodotta dalla formazione dei nuovi termini monopolistici, ancor più perché essa avviene all’interno di mercati capitalistici saturi nell’ambito dell’attuale divisione internazionale del lavoro e dei mercati.

Il grado di approfondimento dello scontro e le sue caratteristiche sono il metro principale su cui si misura la portata dell’intervento rivoluzionario, relativamente ai rapporti di forza esistenti. Ciò mette in luce una questione ineludibile per le Forze Rivoluzionarie, ossia per quanto un arretramento ponga problemi d’assestamento dello stato stesso delle Forze Rivoluzionarie, questo assestamento solo in termini relativi può influire sulla portata dell’intervento rivoluzionario, al contrario è questo Stato che deve ricostituirsi e attrezzarsi per essere adeguato al grado raggiunto dallo scontro, al livello delle contraddizioni politiche dominanti che maturano fra classe e Stato da un lato e fra antimperialismo e imperialismo dall’altro.

Per questa ragione la fase di ricostruzione è tanto difficile e complessa, poiché le BR devono esprimere la capacità di operare la funzione di avanguardia nel rapporto di scontro compreso a partire dalle modifiche che le medesime Forze Rivoluzionarie apportano con il loro intervento nella dinamica rivoluzione/controrivoluzione. Va precisato che il livello dell’intervento rivoluzionario va inteso nel suo complesso: l’attacco messo in campo dall’avanguardia combattente costituisce il punto di partenza e di arrivo su cui ruota la linea di condotta generale che è politico-militare, volta alla direzione delle forze e delle modalità specifiche alla fase per concretizzare le parole d’ordine.

In sintesi, sono queste le caratteristiche dello scontro su cui devono misurarsi le avanguardie di classe che vogliono contribuire al processo rivoluzionario in atto nel nostro paese, su cui deve relazionarsi ogni processo di aggregazione delle componenti proletarie più mature; le apparenti stasi e le condizioni provocate dall’arretramento non significano ritorno indietro del processo di scontro, poiché ciò presupporrebbe la riproposizione di condizioni politico-generali che sono state proprie di periodi precedenti (i quali tra l’altro hanno dato luogo alla nuova situazione), questo perché l’andamento dello scontro procede sempre verso il suo approfondimento, un movimento discontinuo che nel suo complesso è un processo ininterrotto per tappe.

Da qui l’impraticabilità di forme d’intervento politiche che hanno avuto una loro validità in fasi di scontro precedenti, oppure interventi che mettono in campo livelli deboli di organizzazione rivoluzionaria o di semplice supporto a situazioni di lotta.

La disposizione tattica relativa alla fase di ricostruzione ruota intorno al salto di qualità operato dalla centralizzazione.

L’adeguamento nella capacità di esprimere la direzione idonea alle mutate condizioni dello scontro è dato dal salto alla centralizzazione delle forze in campo nell’attività generale delle BR. Ovvero emerge la necessità politica che l’attività delle BR si muova in termini di forte centralizzazione politica, che nell’accezione leninista significa centralizzazione delle direttive politiche sull’intero movimento delle forze e decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse sedi e istanze organizzate. Più precisamente la centralizzazione deve rispondere alla capacità di far muovere le forze dentro un piano organico di lavoro come un corpo unico; vale a dire la capacità di responsabilizzare il movimento delle forze dentro un piano di lavoro le cui direttive siano un patrimonio di tutti, ma non interpretabili spontaneamente dai diversi livelli organizzati. La centralizzazione, nell’attività, del movimento delle forze è perciò una necessità politica imposta dall’approfondimento dello scontro, una condizione che richiede il massimo dell’utilizzo politico delle medesime, all’interno di una disposizione volta a farle muovere come un cuneo intorno all’iniziativa delle BR, il che può avvenire solo dentro un piano di lavoro definito, all’interno del quale tutte le forze concorrono, non per spontaneo apporto ma disposte e organizzate in modo da contribuire confacentemente. Una dinamica politico-organizzativa che può avvenire appunto nel duplice movimento centralizzazione politica-decentralizzazione delle responsabilità. Questo perché non è più sufficiente disporsi spontaneamente sulla lotta armata pensando di ritagliarsi in piccolo i problemi posti dallo scontro; in altri termini, una riproposizione dell’esperienza dei Nuclei che al proprio livello riprendevano le indicazioni delle BR in questo contesto non è politicamente praticabile. Ecco perché necessariamente le istanze di compagni rivoluzionari e di proletari coscienti che si rapportano alla linea politica delle BR, vengono disposti fin da subito all’interno del piano di lavoro generale; così pure la stessa costruzione delle reti proletarie non ha una funzione solamente locale. Una disposizione che comporta al contempo il calibramento delle diverse responsabilità politiche ai differenti livelli di coscienza, ma tutti egualmente funzionalizzati al piano di lavoro generale.

Non si tratta di far fare al proprio livello esperienza alle forze che si relazionano, ma si tratta fin da subito di formarle all’interno di una disposizione che permetta di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro richiede, la dimensione del senso organizzato del lavoro rivoluzionario per rispondere alle necessità che assume questo livello di sviluppo della guerra di classe all’interno dell’esigenza di operare politicamente e militarmente alla ricostruzione degli strumenti politico-organizzativi per attrezzare il campo proletario, in questa fase, allo scontro prolungato contro lo Stato.

Il problema delle istanze di compagni rivoluzionari non significa inglobamento di esse nell’Organizzazione, ma la dialettica, il rapporto che si forma, deve rispondere all’obiettivo politico di contribuire all’avanzamento del processo rivoluzionario a partire dalle necessità poste dallo scontro. Al di fuori di questo dato politico c’è solo un’interpretazione fumosa dell’unità dei comunisti, poiché muovendosi in ordine sparso non si può che trascendere dalle condizioni che lo scontro stesso impone, al limite ritagliandosi un proprio spazio d’intervento ininfluente ad incidere su di esso, di fatto favorendo la dispersione delle forze e delle iniziative in quanto su di esse grava, indipendentemente dalla coscienza con cui si sono poste verso lo scontro, tutto il peso delle sue condizioni politiche.

Questo adeguamento allo scontro implica la capacità di esprimere un livello di direzione politico-organizzativa adeguata alla centralizzazione nella disposizione delle forze sull’attività dell’Organizzazione, un livello di direzione che nel suo complesso muove verso un avanzamento del processo di costruzione del Partito Comunista Combattente.

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Maria Cappello, Fabio Ravalli

 

Firenze, 6 dicembre 1989

Il ruolo politico del Fronte Combattente Antimperialista. Firenze, Aula Bunker Santa Verdiana – Processo alla “Brigata Luca Mantini”. Comunicato dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello e Fabio Ravalli letto e allegato agli atti

Come militanti delle BR-PCC, nel quadro della politica di alleanze praticata e promossa dalla nostra Organizzazione nel Fronte Combattente Antimperialista, rivendichiamo l’iniziativa combattente della RAF contro il Presidente della Deutsche Bank, Alfred Herrhausen.

Essa è mirata a disarticolare uno dei nodi principali del potere economico e politico ricoperto dalla Deutsche Bank e incarnato dal suo Presidente Herrhausen, al livello svolto dal capitale finanziario in questa fase dell’imperialismo nella formazione delle nuove concentrazioni monopolistiche che sono a base del processo di coesione (formazione) politica dell’Europa Occidentale.

Mette in evidenza il ruolo cruciale sostenuto dalla Deutsche Bank nei principali processi di concentrazione economica (finanziaria e industriale) dei più importanti trusts sia tedeschi che europei, e come da tale posizione si aggiudichi la possibilità di penetrazione e sfruttamento dei paesi in via di sviluppo e dell’Est europeo.

Si comprende così come la RFT, anche in questa fase storica, assuma un ruolo preminente nei processi di coesione dell’Europa Occidentale influenzandone pesantemente gli indirizzi politici, una funzione tutta interna al rafforzamento della catena imperialista.

In questo senso Herrhausen è stato elaboratore e ha pesato su tutte le decisioni riguardanti le politiche economiche concertate, soprattutto quelle relative al futuro mercato europeo nelle normative per favorire le condizioni alle nuove aggregazioni monopolistiche.

La fase internazionale che va ad aprirsi risente fortemente dei sommovimenti economici prodotti dalle ondate di crisi/recessione e dallo sviluppo imperialistico del capitale, scuotendo gli equilibri stabiliti; i vari accordi di concertazione economica per ammortizzare gli effetti della crisi (intervenendo sui cambi e sulle monete) sono tanto instabili quanto più forti si fanno le spinte della concorrenza intermonopolistica.

In questo quadro il ruolo politico dell’Europa Occidentale, e in essa della RFT, risalta fortemente nelle posizioni tese in ultima istanza a ricucire l’interesse della catena pur tra forti strappi e lacerazioni.

Questo permette all’Europa Occidentale di avere un ruolo “normalizzatore” sia verso la contraddizione Est-Ovest che verso le aree di crisi periferica, a partire dall’area mediorientale-mediterranea, per la presenza delle lotte di liberazione che prepotentemente rompono con il potere dell’imperialismo.

L’attacco della guerriglia nella politica del Fronte rompe la patina “pacificatrice e demagogica” dell’imperialismo, a partire da quello che è considerato il nerbo dell’Europa Occidentale – la RFT – a partire dal potere economico e finanziario, poiché quest’ultimo determina in ultima istanza lo schieramento degli interessi imperialisti; strappa il velo alle false campagne di “disarmo e distensione”, le quali mistificano i reali processi di riarmo e aggressione dell’imperialismo; e dimostra come l’attività rivoluzionaria della guerriglia nel Fronte permette di costruire la forza politica e pratica per attaccare le politiche centrali dell’imperialismo.

Lavorare a rafforzare il Fronte è possibile e necessario per ogni Forza Rivoluzionaria che combatte l’imperialismo, per incidere adeguatamente al livello raggiunto dallo scontro.

Le differenze storiche di sviluppo dell’impianto politico delle singole Organizzazioni, le differenze secondarie di analisi, non devono e non possono essere d’ostacolo alla necessaria unificazione dell’attività antimperialista delle forze combattenti e delle molteplici lotte, in un attacco cosciente e mirato al potere imperialista.

Non si tratta di fondere le singole Organizzazioni in una sola Organizzazione, il Fronte in Europa Occidentale si sviluppa in un percorso cosciente e organizzato sulla base dell’attacco pratico che matura attraverso successivi momenti di unità.

– Costruire l’unità delle forze combattenti nell’attacco.

– Organizzare il Fronte.

– Lavorare a costruire offensive comuni contro le linee strategiche dell’Europa Occidentale nei processi di formazione (coesione) politica, i quali mirano al rafforzamento dell’imperialismo.

– Organizzare la lotta armata nell’Europa Occidentale.

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Maria Cappello, Fabio Ravalli

Firenze, 6 dicembre 1989

Contro la deportazione e per il definito e incondizionato rimpatrio in Sardegna. Documento di Giacominu Baragliu, Vincenzo Piras, Costantinu Pirisi

  1. Con questa dichiarazione collettiva di lotta noi, P.P.S.D, nati e cresciuti in Sardegna e poi deportati nel continente italiano, intendiamo denunciare alle forze progressiste e anticolonialiste sarde la questione infamante e razzista della deportazione che dura da secoli e, con la lotta popolare, intendiamo mettervi la parola fine!

 

  1. Da quando siamo stati arrestati e imprigionati nelle galere speciali dello Stato coloniale italiano sono passati più di dieci anni. Tolti alcuni periodi durante le istruttorie, che alcuni di noi hanno passato nelle prigioni sarde, tutti noi, subito dopo l’arresto, siamo stati deportati nelle prigioni di massima sicurezza (carceri speciali) del continente e non abbiamo più fatto ritorno in Sardegna, se non per i brevi periodi dei processi (e per il tempo strettamente necessario). Da un po’ di tempo a questa parte stanno dando, molto raramente e in modi molto ambigui, un mese di “avvicinamento per colloqui con la famiglia”. Ciò significa, in sostanza, poter fare 4 colloqui di un’ora ciascuno, per un totale di 4 ore di colloquio all’anno!
    Quelli di noi che sono stati arrestati nel continente, perché lavoravano da queste parti, non sono più stati avvicinati alla famiglia.
    Tutto ciò, se per chiarezza fosse necessario, si può verificare nei registri della matricola del carcere dove sono custoditi i nostri “conti”…

 

  1. Questa pratica barbara e razzista della deportazione dei P.P.S., vecchio residuo coloniale dei signori feudali dell’Occidente, che commerciavano con gli schiavi africani ma non disdegnavano nemmeno gli altri, tra cui i Sardi, perdura nel tempo e non vuole morire.
    Ogni ricambio dei padroni colonialisti, venuti dal mare durante i secoli per depredare la Sardegna, ha mantenuto intatti questi “costumi” mercantili, politici e militari, con tutta la loro rozzezza criminale. E in questo senso si può dire che hanno affinato le tecniche più moderne per una deterrenza aggiornata ai tempi, e hanno adottato ed applicato le più sofisticate tecniche scientifiche sulla comunicazione e disinformazione sociale per legittimare questa pratica razzista.
    In questo contesto, la deportazione è diventata una “scienza” che cerca di mascherare la sua barbarie, ma il contenuto politico resta sempre lo stesso. Forse è venuto meno l’aspetto economico, in quanto si è sostituita la parola schiavo con quella più “civile” di salariato, operaio, baby-sitter, ecc. ecc… Ma l’aspetto politico-militare è rimasto intatto, anzi, si è adeguato ai tempi come abbiamo già detto. E, in questo senso, anche la deportazione intesa come deportazione di forza-lavoro non è scomparsa. Essa si è “civilizzata”, infatti oggi si chiama “emigrazione”. Tutte queste forze proletarie, oggi, non si muovono più coi piedi incatenati nelle stive delle galere da un Oceano all’altro, ma si “trasferiscono” ammassate nei carri-bestiame incolonnati nelle autostrade-mattatoio e nei traghetti di Stato. Ma sempre come poveri “disgraziati”!
    Da questo punto di vista il proletariato è trattato forse peggio di ieri, in quanto ieri per trasferirli dalle loro terre africane li dovevano prima catturare e legare come animali e solo una minima parte di loro resisteva, in quelle condizioni, al viaggio verso la patria della barbarie, l’Amerika! Oggi invece, i proletari sono “lasciati liberi di scegliere” in quale posto andare per “soddisfare” la loro fame. Ma, in pratica, il posto è già destinato… il vicolo è cieco e le scelte sono dettate dai padroni, come ieri. Mentre per noi P.P.S. la deportazione continua come cento anni fa, con le catene.

 

  1. Per legittimare la nostra deportazione dalla Sardegna al continente italiano – e da questo nelle isole-prigione delle quali la stessa Sardegna fa parte – i “nostri” ricorrono agli stravecchi stregoni dei cosiddetti “servizi segreti e di sicurezza” i quali, tramite i loro canali informativi, raccolgono infamie e da queste stabiliscono il grado di pericolosità sociale del prigioniero e ne ordinano l’allontanamento dal proprio ambiente.
    Nella pratica quindi, la “pericolosità sociale” del P.P.S. – o anche del proletario continentale – viene stabilita sulla base di veline dei carabinieri che, come già detto, raccolgono le confidenze degli spioni del territorio, le analizzano in senso politico e ne deducono che il soggetto è da allontanare dall’isola.
    La copertura “legale” di questi atti, mascherati come “amministrativi”, ci pensano gli sbirri a darla con le loro “minute”, il resto lo fanno i cosiddetti “educatori”, “assistenti sociali”, psicologi, ecc. che, coordinati dal direttore, “studiano” a modo loro il prigioniero, e alla fine giungono alle stesse conclusioni. Questi, nella sostanza, stabiliscono il grado di coscienza del proletario prigioniero e – per loro coscienza equivale a pericolosità – in base a questa ne sottoscrivono la deportazione. Naturalmente chi dispone è il direttore della prigione che comunica le sue conclusioni al Ministero di Grazia e Giustizia dove siedono in permanenza gli “esperti” che ne dispongono il trasferimento oltre il Tirreno verso una destinazione speciale.
    Sulle decisioni che vengono prese all’interno della prigione influisce in modo non secondario il comportamento sociale del prigioniero, ossia il suo grado di antagonismo contro l’istituzione in generale e in particolare contro il trattamento violento e le umiliazioni gratuite, personali o collettive, che ci vengono imposte dall’organizzazione sbirresca per misurare la nostra pazienza. In questo senso è naturale che chi ha maggiore coscienza, e non vuole perdere la propria identità, si ribella e risponde nella stessa misura della provocazione. E questo viene usato per legittimare, in termini amministrativi, la deportazione. Al contrario, chi accetta o comunque si adegua alle violenze, ai soprusi dei carcerieri, viene tenuto vicino a casa.
    Non vogliamo dire che sia un premio, ma fatto sta che la cosa, in termini egoistici, “paga”.
    Per questo motivo, la deportazione funziona come deterrente. È un continuo mezzo di pressione, un ricatto che il prigioniero vive sulla sua propria pelle giorno per giorno, e anche su quella della propria famiglia. Se rinuncia ad essere se stesso, o comunque sopporta a denti stretti le angherie quotidiane, ha la probabilità di restare vicino a casa. Se poi, come succede spesso, si lascia andare alla collaborazione, gli si prospettano riconoscimenti premiali… Mentre per chi non riconosce le mediazioni col nemico che ti chiude tutte le sere la cella, e conserva la propria identità di uomo e di classe, di ribelle antagonista alla violenza dei carnefici e allo Stato, c’è aperta la via della deportazione a migliaia di chilometri di distanza dai propri affetti.
    E così il “calvario” della deportazione ha inizio. Parte come provvedimento “amministrativo” ma nella realtà è un atto politico. Non trova alcuna credibilità la tesi che il trasferimento nel continente è imposto da esigenze di sicurezza. Queste sono invenzioni di comodo! Le prigioni-lager esistenti in Sardegna sono il massimo della “massima sicurezza”. Ne hanno da vendere!
    Il “Buon Cammino” di Cagliari, “Badu e Carros” di Nuoro, il “S.Sebastiano” di Sassari e “Fornelli” all’Asinara sono il non plus ultra della massima sicurezza! Infatti in queste prigioni si fa prima a morire che a evadere. Non è un caso che quelle celle siano lastricate di sangue proletario e di croci di morti negli isolamenti senza senso se non quello della cultura patriarcale e fascista degli “educatori” alla Villasanta. Mentre di strade aperte per evadere se ne sono viste assai poche, fino ad oggi. Ciò conferma che quelle strutture sono speciali quanto queste del continente e semmai è vero il contrario, e cioè che in Sardegna – come in tutte le colonie – le carceri speciali sono state sperimentate e poi sono state esportate nel continente come modello di repressione da seguire.

 

  1. La deportazione dei P.P.S. nelle galere italiane è sicuramente l’inizio di un lungo “calvario” perché si sa quando comincia ma non si sa quando avrà fine.
    Ma il “calvario” più grande, e vicino al martirio, lo subiscono i familiari. Per loro infatti ha inizio un “pellegrinaggio”, carichi di borse da un’estremità all’altra dell’Italia e, spesso e volentieri, verso le “isole-prigione” annesse, che non è facile da descrivere.
    Al viaggio si aggiungono tutte le angherie, le vili umiliazioni alle quali vengono sottoposti dal personale carcerario. Perquisizioni personali con spogliarelli provocatori, e salassi a base di metaldetector. Tutto ciò non trova alcuna giustificazione logica se non quella della cattiveria e dell’infamia razzista e antisarda che pullula nella mente e nel cuore dei governatori e dei carcerieri-sbirri. Tra questi ultimi non è difficile trovare la cosiddetta “guardia sarda”… frustrati che scaricano le loro frustrazioni sui familiari nostri, che naturalmente li guardano con compassione e disprezzo totale.
    A questo vile e indegno trattamento, si aggiunge per i familiari la prospettiva di maggiori sacrifici. In particolare per le persone più anziane, come i genitori e gli zii, per i quali, ai disagi dell’anzianità e della mancanza di forza fisica per sostenere simili viaggi, si aggiunge quello della impossibilità economica. In questo senso, per loro, la prospettiva reale è di non rivedere più i propri figli. Il rapporto, sempre più spesso, si riduce alla sola corrispondenza epistolare e alla telefonata quindicinale di cinque minuti. Telefonata registrata e ascoltata dal personale addetto. Ma non basta, il più delle volte si è costretti, pena l’interruzione della comunicazione, a parlare con i nostri genitori in lingua italiana. Se non è violenza e razzismo questo, di costringere persone che non sanno parlare la lingua dei coloni a parlarla, vuol dire che non esistono né violenza né razzismo. Questo è il massimo dell’umiliazione e della beffa. E non ci sono motivi di alcun genere che possano giustificare una simile azione. Questo è fanatismo, l’eccesso della provocazione.
    Fare regolarmente i colloqui, cioè uno alla settimana come stabilisce il “regolamento penitenziario”, non è facile manco per i congiunti più giovani, per le stesse ragioni economiche di cui sopra e perché la gente vive di lavoro e non di rendita. Partire dalla Sardegna per l’Italia e poi da qui proseguire per le “isole-prigione” di Pianosa, Favignana, della Gorgona, dell’Elba dove c’è Porto Azzurro, ecc., diventa materialmente impossibile non solo una volta la settimana, ma neanche una volta al mese. Al massimo il colloquio si fa una volta all’anno per la maggior parte dei proletari.
    In questo modo, per chi ha lunghe pene da scontare, si perdono i rapporti affettivi e la stessa sorte subiscono i rapporti sociali nel territorio e con i propri amici e concittadini.
    Ed è questo il fine strategico e politico della deportazione del P.P.S.

 

  1. Questa pratica, come sappiamo, va avanti da molti secoli. I camposanti dell’isola-prigione di Pianosa, dell’isola d’Elba (Porto Azzurro), della Favignana, di S. Stefano, di Procida, ecc. ecc., sono pieni di tombe “senza nome” e “senza un fiore”. In queste sono stati frettolosamente sepolti molti nostri martiri, morti agli ergastoli e “dimenticati” da tutti perché creano imbarazzo alla società cosiddetta “civile”.
    Questi morti però chiedono a noi di non essere dimenticati per evitare che simili atti di barbarie si ripetano, seppure in forme diverse.
    Infatti oggi chi muore in prigione viene restituito ai familiari (bontà loro…). Anzi, si sono fatti persino “generosi” al Ministero di Grazia e Giustizia nel senso che se la famiglia non ha disponibilità economiche per affrontare le spese di viaggio, gli pagano persino il carro funebre… Bella consolazione… Ma non è questo il punto della “svolta”.
    Il punto della non-“svolta” è che la piaga della deportazione non ha cambiato pelle. Il suo fine resta politico e su questo il potere coloniale e neocoloniale non transige.

 

  1. La deportazione dei P.P.S. ha, come fine, di staccare traumaticamente il proletario dal suo ambiente familiare e sociale. Nella pratica debbono staccare il “cordone ombelicale” che lo lega al suo territorio e isolarlo definitivamente in un ambiente altro e a lui sconosciuto sotto tutti i punti di vista. Qui è costretto, se vuole socializzare, ad apprendere usi, costumi, lingua di un’altra cultura con un’altra storia; il che non è facile, come si può immaginare, anche per una assimilazione solo provvisoria. Ma per sopravvivere è costretto ad adattarsi, senza per questo perdere la propria identità. Le sue radici sono troppo profonde per “seccarsi”, anche perché nel profondo del suo intimo coltiva la speranza del ritorno e questo gli dà la forza di resistere e di reagire con forza. Ma è anche normale che, quando la deportazione si protrae per decine di anni, questa crei dei danni alla salute e alla psiche delle persone, in quanto col tempo si sconvolgono gli assetti familiari e sociali e in questo modo vengono a mancare le basi sulle quali si fondavano le proprie certezze.
    Ma nonostante tutto ciò – e l’abbiamo visto con i nostri occhi in quanto abbiamo avuto la fortuna di conoscere più di un ergastolano sardo che aveva passato oltre vent’anni e anche trenta nelle galere-lager italiane – in loro era rimasto immutato l’orgoglio di essere sardi e quindi avevano conservato intatta la propria identità. Ciò vuol dire che il ceppo, nonostante le angherie dei razzisti, non si secca con la deportazione, anzi!
    E con questa certezza continuiamo la nostra strada insieme con chi è sulla stessa “barca” per raggiungere all’orizzonte la liberazione.
  1. Per quanto detto, e non solo per questo, come collettivo di P.P.S.D. abbiamo preso l’iniziativa di cominciare questa lotta contro la deportazione politica di noi sardi, perché di questo si tratta. Tutto il resto, tutte le veline costruite dagli stregoni coloniali delle emergenze sulle “pericolosità” soggettive, sono fandonie. Tutti i “servizi e servizietti più o meno segreti” non sono altro che delle “teste d’uovo” al servizio del potere politico, che li usa per i propri sporchi giochi di potere e poi, una volta usati e “bruciati”, li butta via come pedalini (calze) vecchi.
    La “questione sarda”, come amano definirla, è molto più complessa di quanto pensano i salottari romani. Chi crede, come fa lo Stato colonialista italiano, di risolvere la contraddizione principale della liberazione nazionale deportando le forze della resistenza e i ribelli sardi, ha fatto male i suoi conti.
    Non saranno né le carceri speciali, né i suoi mercenari armati, a fermare il processo di liberazione del Popolo Sardo e della Sardegna!
  1. Pertanto, con questa dichiarazione di lotta, vogliamo pure allargare il dibattito politico in generale, a partire dalla lotta alla deportazione. In questo senso, chiediamo alle forze sociali e progressiste, alle Organizzazioni politiche anticolonialiste, alle forze antagoniste e ribelli della resistenza sarda, di fare propri i nostri contenuti contro la deportazione e la colonizzazione e di scendere in lotta con i tempi, i modi e le forme che ciascuno ritiene praticabili sulla base della propria coscienza politica e della propria esperienza di lotta.
    Noi, dall’interno, porteremo avanti la nostra lotta in senso collettivo sul contenuto. Quanto alle forme, data la nostra disposizione in piccolissimi nuclei poiché siamo dispersi nelle più disparate prigioni speciali italiane, bisognerà scegliere quelle praticabili, senza fare delle forzature se non siamo in grado di reggerle, date le condizioni particolari di prigionia. Torniamo a ripetere che la battaglia è politica per cui contenuto e forma della lotta non debbono essere assolutamente staccati.
    Il nemico, su questo punto, cercherà di separare le due cose e su questo dovremo essere inflessibili.
    La questione è semplice: noi vogliamo essere rimpatriati in Sardegna e con questo mettere fine alla pratica della deportazione secolare dei sardi!
    Altra cosa importante da tenere in conto è quella della comunicazione della lotta. Nel senso che bisogna mettere in piedi lotte che comunichino il proprio contenuto all’esterno nel movimento sardo e rivoluzionario.
    Naturalmente non trascuriamo il fatto che il nemico interverrà con provvedimenti di censura e altre simili provocazioni, vista la messa in discussione di un così vasto problema. Ma tutto ciò non ci fermerà!

Contro la deportazione dei proletari prigionieri sardi!

Contro la colonizzazione e neocolonizzazione della Sardegna!

Costruire organizzazione!

Per la costruzione del fronte combattente unito di liberazione coloniale e neocoloniale della Sardegna!

Collettivo rivoluzionario e antimperialista “Ospitone”. Giacominu Baragliu, Vincenzo Piras, Costantinu Pirisi

Luglio 1989

Contro una trattativa infame. Documento dei militanti delle BR-PCC Alberta Biliato e Cesare Di Lenardo allegato agli atti del processo presso il tribunale di Venezia

Intendiamo qui denunciare pubblicamente ai compagni, ai comunisti, a tutti i rivoluzionari gli elementi di cui siamo a conoscenza riguardo un’infame trattativa in corso tra lo stato e un raggruppamento di detenuti politici. Rendiamo noto quanto a nostra conoscenza perché nella storia delle Brigate Rosse non ha mai trovato posto alcuna trattativa segreta con lo stato e ogni operazione e tutta l’attività politica e combattente è stata sempre gestita e rivendicata pubblicamente; e perché l’obiettivo specifico di questa trattativa è attaccare la guerriglia alle spalle, portare al suo scioglimento e al disarmo dei combattenti nel quadro della cosiddetta pacificazione nazionale. È perciò necessario, giusto e doveroso denunciarla pubblicamente.

Già avevamo condannato in termini politici («Sui prigionieri politici e la direzione della guerriglia» del 25 aprile ’87) l’operazione che prende il nome di soluzione politica e vede come protagonisti dal carcere il duo Curcio-Moretti e loro soci. Successivamente siamo entrati in possesso di informazioni certe e di alcuni dei termini della trattativa che rendiamo senz’altro noti qui di seguito.

Lo stato ha avviato da tempo contatti con il gruppo Curcio-Moretti attraverso vari emissari di diversi partiti politici di governo. Vi sono stati anche incontri con esponenti della cosiddetta opposizione. Siamo certi che vi sono stati contatti diretti con esponenti della DC, del PSI, del PCI; di questi soltanto una parte sono stati resi noti tramite stampa.

L’oggetto del contendere è la cosiddetta soluzione politica e la trattativa è in questi termini. Da una parte si richiedono i buoni uffici di Curcio-Moretti affinché premano in modo articolato anche attraverso altri prigionieri, considerati più vicini alla guerriglia in attività, per addivenire ad accordi di scioglimento e alla deposizione delle armi. Dall’altra si chiede la liberazione dei detenuti politici attraverso nuove leggi che oltrepassino la legislazione in vigore su pentiti e dissociati, in modo da comprendere anche loro.

In questo quadro la DC ha istituito negli ultimi mesi un gruppo di lavoro sui problemi della giustizia per definire un progetto tecnico di soluzione politica e di cosiddetta pacificazione generale.

Il tenore e molti dettagli delle dichiarazioni, lettere, interviste e precisazioni rilasciate in questi mesi sia dal gruppo Curcio-Moretti sia da uomini politici democristiani è stato calibrato attentamente di reciproca intesa, in considerazione dei rispettivi problemi di gestione della cosa che i due poli della trattativa avevano con i loro referenti e nel loro ambiente politico.

La DC, in incontri con Curcio e con Moretti in particolare, ha anche indicato l’esistenza di un paese straniero disposto in base ad accordi presi con il governo e i servizi ad accogliere militanti clandestini che fossero disposti a deporre le armi e che eviterebbero in questo modo l’arresto.

L’offerta della DC per la soluzione della questione dei detenuti politici prevede: per i reati di sola banda armata tre anni di carcere più tre di arresti domiciliari; per reati definiti come intermedi cinque anni di carcere più cinque di arresti domiciliari; per i reati per i quali attualmente sono previsti trent’anni, la pena diventerebbe di dieci anni di carcere più dieci di arresti domiciliari; per gli ergastoli è stato detto che si tratterebbe nominalmente di vent’anni di carcere salvo poi diventare dieci più dieci come per chi ha da scontare pene di trent’anni. I dettagli sono ancora in definizione.

Dell’andamento di questo progetto sono stati puntualmente informati gli interlocutori interni al carcere e questi dal canto loro hanno riferito dell’andamento del cosiddetto dibattito interno presso le aree di prigionieri da loro considerati più vicini ed influenti nei confronti della lotta armata.

Questi gli elementi dei quali siamo certi in buona sostanza poiché ne abbiamo verificata la consistenza e trovato puntuale riscontro.

Come militanti delle Brigate Rosse, come combattenti comunisti ed antimperialisti denunciamo questa sporca manovra, anche a dimostrare nei fatti per il massimo di chiarezza che nessuna connivenza ci relaziona, né noi né la nostra organizzazione, a questi loschi traffici.

L’accusa politica, già da noi con coscienza formulata nei confronti di questi personaggi, di essere dei nuovi servi politici dello stato imperialista si va riempiendo di sostanza che nessuna bella parola né le chiacchiere equilibristiche di scuola morotea potranno cancellare. Si tratta di trucchi della peggior specie: discutono con i peggiori nemici del proletariato italiano di sconti di galera, passaporti per transfughi, di come strangolare la guerriglia per portare a casa il proprio sedere.

Non vogliamo ridurre una questione che è anche politica unicamente ad un losco traffico, ma questo è un dato obiettivo, e ciò che lega l’abbandono della lotta rivoluzionaria allo slittamento progressivo nelle peggiori compromissioni è il fatto concreto che qui nel carcere imperialista, nei bracci speciali di massima sicurezza, qui non c’è uno spazio tra stato e rivoluzione: il confronto è diretto, duro, radicale, l’ordinato ripiegamento nel privato non ha luogo dove svolgersi. Fuori dalla disciplina collettiva della rivoluzione c’è la forza dello stato in uno dei luoghi della sua massima concentrazione: distrugge, divora, rimodella a sua immagine e somiglianza chi non comprende la dimensione politico-sociale della solidarietà rivoluzionaria. Produce ciò che ha prodotto con figure come Morucci, Franceschini, Curcio e chi altri prenderà la loro strada: pupazzi, uomini da spettacolo, da usare nella propaganda contro ogni lotta rivoluzionaria; argomenti che i poliziotti delle squadre politiche citeranno durante gli arresti, le perquisizioni, le minacce ai compagni come prova della potenza e della ragione dello stato. Poco o niente di più, e anche questi invecchieranno come gli altri in una breve stagione – perché la lotta continua.

Non intendiamo polemizzare con la gestione politico-ideologica che viene data di questo sporco affare; le tesi di questi individui non sono in alcun modo per noi elemento di dibattito, essendosi essi posti da tempo del tutto fuori della logica della lotta rivoluzionaria e comunista: il dibattito nel movimento rivoluzionario è un’altra cosa.

Se riterremo in futuro di intervenire più approfonditamente sugli aspetti politici di questa vicenda e sulle ragioni politiche per cui continuiamo a sostenere la strategia della lotta armata per il comunismo, sarà per fare maggiore chiarezza sulle nostre posizioni tra i compagni del movimento antagonista. Più chiara di noi sarà in ogni caso la prassi della guerriglia, della nostra organizzazione e ad essa facciamo riferimento.

Diffidiamo infine questi rinnegati dal dire una sola parola a nome dei rivoluzionari prigionieri, come hanno tentato di fare con vari equilibrismi linguistici in queste settimane. Chi nasconde se stesso dietro questi tortuosi e contorti accenni, chi vuole accodarsi a questa trattativa per esserne in qualche maniera interno, lo faccia scopertamente a suo nome assumendosi tutte le responsabilità di ciò che fa. Nel farlo si colloca distante mille chilometri dalle Brigate Rosse, dalla nostra storia, dal nostro progetto rivoluzionario, dall’organizzazione che lotta oggi in clandestinità per il comunismo.

Invitiamo tutti i compagni a prendere posizione con chiarezza su questa vicenda tracciando una linea di demarcazione nei confronti di chi manovra queste trattative; con il massimo di disponibilità e di apertura alla discussione sui problemi con tutti i compagni e con il massimo di chiusura e di isolamento verso chi tratta con lo stato, con la DC e il sistema dei partiti.

La nostra posizione in questo specifico processo deriva dalla posizione politica in cui ci riconosciamo: siamo militanti delle Brigate Rosse e rivendichiamo tutta l’attività politica e combattente della nostra organizzazione. Ai giudici, allo stato, all’imperialismo non abbiamo nulla da dire: siamo combattenti nemici. Appoggiamo la guerriglia e con essa ci identifichiamo.

Attaccare il cuore dello stato nelle sue politiche dominanti!

Rafforzare il campo proletario per attrezzarlo allo scontro con lo stato!

Guerra alla NATO! Guerra all’imperialismo!

Promuovere e consolidare il Fronte Combattente Antimperialista!

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo

Venezia, 1 giugno 1987

La riforma è sempre annientamento. Documento di un gruppo di comunisti prigionieri del processo alla Colonna Napoletana delle Brigate Rosse

Il 21 aprile nella sezione femminile del carcere di Bellizzi Irpino e il 23 nella sezione speciale di Poggioreale abbiamo ritardato di mezz’ora il rientro nelle celle.

Queste iniziative si legano alla mobilitazione che in quest’ultimo periodo hanno attuato i prigionieri e le prigioniere nelle carceri di Novara, Voghera e Ascoli Piceno contro l’art.1 «sorveglianza particolare» della Legge Gozzini. La lotta di ieri, che ha visto uniti tutti i prigionieri della sezione speciale di Poggioreale, segna una piccola ma importante tappa anche contro le condizioni di vita infami imposte in questo carcere a partire dall’opera di «normalizzazione» attivata con pestaggi e violenza sistematica a cavallo fra l’82 e l’83.

Lottare nelle nuove condizioni createsi ultimamente nel carcere significa, prima di tutto, non stare alle regole del gioco che la riforma carceraria cerca di imporre attraverso i mille strumenti di individualizzazione del trattamento. Significa anche riaffermare la pratica di lotta possibile e necessaria, contro l’intero complesso della strategia di differenziazione, senza lasciarsi annichilire da provvedimenti ministeriali che vogliono frantumare sempre più l’identità antagonista e rompere ogni vincolo collettivo.

Oggi è importante rafforzare il fronte di chi lotta in carcere contro il carcere, perché solo muovendosi, con determinazione e lucidità, su questo terreno è possibile opporsi ad una strategia carceraria che attacca direttamente l’identità di classe e i livelli di aggregazione proletaria e organizzazione rivoluzionaria.

La lotta è comunicazione antagonista e rivoluzionaria, perché svela il senso reale di una strategia antiproletaria quale la riforma di Amato, cogliendone il nesso che lega indissolubilmente l’ideologia premiale alla «sorveglianza particolare» ritagliata sul singolo prigioniero. In questa fase dello scontro non si può fare riferimento ad un movimento contro il carcere, è necessario quindi cominciare a praticare quelle rotture significative e quelle iniziative indispensabili per cominciare a costruire nel movimento di classe e rivoluzionario il terreno dell’unità della lotta contro il carcere, per incidere realmente sulle modificate condizioni dello scontro.

Questi passaggi oggi non sono già dati, ma vanno costruiti con intelligenza e determinazione ribadendo il significato di rottura della lotta in carcere e ricucendo il filo delle iniziative proletarie e rivoluzionarie che si vanno sviluppando nei vari poli metropolitani. Questa scadenza unitaria di lotta contro l’art.1 «sorveglianza particolare» è un primo passo che si inserisce dentro quella prospettiva, e la capacità di rilanciarlo ad un livello più adeguato dentro e fuori del carcere può costruire le condizioni necessarie per una mobilitazione più ampia e di largo respiro.

Il processo di trasformazione del sistema carcerario italiano da dispositivo di contenimento in strumento attivo ha reso il carcere assai più funzionale che in passato alle esigenze di rifondazione capitalistica. È un dato che attraversa tutte le strategie di controllo sociale per come in questi anni si stanno dispiegando, creando un complesso di dispositivi antiproletari e controrivoluzionari più adeguati ad incidere sulle contraddizioni attuali.

Il filo conduttore di questa strategia è il tentativo di trasformare le linee dello scontro vissuto in questi 15 anni, come le contraddizioni che emergono oggi nelle diverse realtà di classe, in terreni di dialettica compatibile con l’ordine della borghesia imperialista.

La gestione Amato del sistema carcerario in questi anni ha operato incessantemente in questa direzione coniugando «con lungimiranza» le esigenze di «risocializzazione e sicurezza». Il carattere principale di questo «nuovo corso» espresso formalmente con la Legge Gozzini dell’ottobre ’86 è quello di una razionalizzazione e istituzionalizzazione della strategia del trattamento differenziato e individualizzato e del «reinserimento sociale/risocializzazione» sperimentato negli ultimi anni.

Il principio di base è che l’unico garante ed interlocutore rispetto alle condizioni di vita e alle scelte di ogni soggetto imprigionato è lo stato, a cui ognuno deve rapportarsi individualmente. In questi termini le «aperture» e le varie soluzioni istituzionali, così come il meccanismo dei premi e delle punizioni, sono il terreno su cui marcia la «rieducazione» dei prigionieri e l’unico spazio di rapporto concesso con «la società».

Al contrario, qualsiasi forma di comportamento e organizzazione tendente a porsi al di fuori degli spazi istituzionali va incontro ad una gamma di trattamenti differenziati e di restrizioni.

Questo aspetto ripropone l’irrisolvibile contraddizione di ogni strategia controrivoluzionaria della borghesia.

Riforma è sempre annientamento dell’identità di classe perché per ricondurla dentro la compatibilità istituzionale deve distruggere il suo carattere antagonista.

Il perfezionamento delle politiche e delle tecniche di «risocializzazione e sicurezza», posto in essere dalla Legge Gozzini, rende evidenti le linee di attacco e di annientamento dell’identità antagonista del proletariato prigioniero e, in particolar modo, dei livelli di organizzazione collettiva all’interno del carcere. Lo stato ha creato le condizioni oggettive politiche per porsi come unico interlocutore credibile che offre – con garanzie di legge – la possibilità di modificare le condizioni individuali di detenzione fino a quelle di «liberarsi».

Questa «offerta», con la nuova legge, diviene una imposizione. La tendenza, infatti, che si vuole portare a maturazione è quella dell’inevitabilità per il prigioniero di fare una scelta – prima di tutto individuale – dove l’alternativa è tra l’escalation di premialità (dalle condizioni più «umane», ai permessi, licenze, semi-libertà…) e il suo esatto opposto. È anche in quest’ottica «punitiva» che l’elasticità e flessibilità dell’art.1 consente l’opportunità di graduare le restrizioni a vari livelli, fino all’isolamento periodico in «luoghi adatti» (braccetti). Di fatto oggi non esiste un «terreno neutro», una situazione che funzioni da semplice «contenitore»; il carcere è attivo ad ogni livello, per qualunque figura o soggetto prigioniero.

In pratica per i prigionieri la condizione per ottenere la libertà è quella della perdita della propria identità, il rendersi compatibili alle possibilità di recupero e quindi strumento più o meno diretto di collaborazione con l’istituzione, parte attiva della propria «rieducazione» e immediatamente – di fatto – elemento di rottura dei vincoli collettivi e di autorganizzazione proletaria. L’alternativa deterrente e ricattatoria è l’aumento di repressione attraverso lo strumento flessibile della «sorveglianza particolare».

Il carcere diviene strumento di sperimentazione attiva, al quale nessun soggetto può sottrarsi. Anche la semplice passività diviene di fatto disinnesco delle tensioni antagoniste e dell’identità collettiva. È proprio l’ambito collettivo il bersaglio privilegiato dell’iniziativa dello stato, che vuole distruggere le possibilità di aggregazione e quindi di lotta. Le carceri speciali, l’art.90, hanno avuto in questi anni la funzione di concretizzare la strategia della differenziazione «per aree», con lo scopo di frantumare gli aggregati di proletari antagonisti e di prigionieri della guerriglia.

Ma questa strategia, proprio per l’omogeneizzazione delle condizioni di detenzione per vaste aree di prigionieri che comportava, non eliminava la possibilità di organizzarsi e di lottare collettivamente, come si è verificato in questi anni in molti carceri speciali.

L’individualizzazione del trattamento – cioè il porre formalmente identiche condizioni per tutti ma differenziate in base all’identità e all’atteggiamento individuale – è il tentativo di risolvere questa contraddizione stabilendo un regime differenziato non legato ad una qualche emergenza, ma ad un vero e proprio status di «sorvegliati particolari» destinato a prolungarsi indefinitamente nel tempo. Il «provvedimento a termine rinnovabile», infatti, rappresenta il massimo del potere discrezionale dello stato ed è un mezzo per attivare una differenziazione a tempo indeterminato!

Con l’applicazione sempre più articolata della riforma, è un’unica e complessa strategia che determina ogni livello di condizione e trattamento individuale. E la lotta contro la propria particolare condizione diventa sempre più difficile per il principio stesso della divisione-disgregazione che sta alla base dell’individualizzazione e che rende più precari e discontinui i vincoli di aggregazione collettiva. Dal gennaio all’aprile ’87 il provvedimento di «sorveglianza particolare» è stato applicato gradualmente ad un gruppo ristretto di prigionieri e via via intensificato. Dai prigionieri dei braccetti ad alcuni prigionieri antagonisti o in posizione di rottura con lo stato, dai prigionieri della guerriglia italiana, ai combattenti arabi e palestinesi.

Già in questa prima fase la politica ministeriale ha cominciato ad investire sia il circuito speciale sia i giudiziari sottoponendo singolarmente a questo provvedimento prigionieri che si trovano in condizioni assai diverse (da Novara a Voghera, da Rebibbia a Poggioreale, da Cuneo a Spoleto…). Ciò rivela la complessità della nuova strategia di differenziazione, la sua funzione nel più ampio quadro di ridisciplinamento del proletariato prigioniero e di rifondazione del sistema carcerario.

Comunque il senso concreto di questo aspetto della riforma comincia a manifestarsi in modo sempre più chiaro in alcune situazioni. Una prima direttrice è l’attacco all’identità dei prigionieri della guerriglia italiana. Esso tende a risolvere una contraddizione critica per lo stato, l’esistenza in Italia di una opzione rivoluzionaria guerrigliera e quindi l’area dei comunisti prigionieri che continuano ad essere interni ai processi di organizzazione e costruzione guerrigliera deve essere scremata e ridotta all’osso per poterla ridimensionare come entità politica.

Una seconda direttrice si concretizza nel trattamento speciale e particolarmente duro riservato, nei braccetti e in altri luoghi, ai combattenti arabi e palestinesi prigionieri la cui presenza é sempre più rilevante nelle carceri italiane. Questo é anche il segno tangibile del ruolo dell’Italia nello scontro tra imperialismo e lotte rivoluzionarie in Europa e nel Mediterraneo.

Una terza direttrice è l’attacco a quei gruppi di prigionieri che rifiutano di «farsi rieducare», che si organizzano e lottano per difendere la loro identità antagonista. In questa prospettiva l’art.1 é destinato ad avere un ruolo di punta in ogni ambito carcerario. È una vera e propria spada di Damocle che può colpire chiunque non sta alle regole della gestione del ministero. Questi sono i punti dove il sistema carcerario «riformato» – il tanto sbandierato carcere aperto – mostra con più evidenza la sua reale natura di dispositivo di annientamento dell’antagonismo proletario. È da qui dunque che bisogna partire per contribuire a ricostruire le condizioni di lotta e mobilitazione contro il carcere.

In questi anni nel contesto generale di arretramento dell’iniziativa di classe e di debolezza del movimento rivoluzionario, si è determinata anche la mancanza di un punto di vista rivoluzionario sul carcere. Anzi, si può dire che con l’avanzare del progetto di dissociazione-resa il carcere è diventato un importante veicolo di compatibilizzazione e «recupero sociale». E questa funzione svolgono anche le recenti iniziative di ex-rivoluzionari che affermano «l’oltrepassamento» definitivo della lotta armata, perché il riflesso carcerario di questa nuova svendita è il sostegno evidente della riforma e dei suoi contenuti di «risocializzazione e sicurezza».

Al punto di vista di classe si sostituisce quello dell’individualizzazione di Amato!

Come comunisti prigionieri non possiamo che affermare la critica rivoluzionaria al carcere e far vivere la consapevolezza della necessità della lotta come unica possibilità realmente «pagante» in termini di aggregazione delle varie figure antagoniste e della propria identità di classe e rivoluzionaria su questo terreno.

In questa congiuntura il terreno dello scontro in carcere è diventato sempre più politico, perché ha assunto un livello di complessità mai raggiunto in passato e, contemporaneamente, si è ridefinita la qualità complessiva dello scontro di classe in questo paese.

Non è possibile per dei comunisti prigionieri concepire la propria internità al processo rivoluzionario astraendolo dalle condizioni concrete in cui si colloca la propria vita e militanza, magari in attesa di «tempi migliori» per riprendere l’iniziativa. È invece estremamente importante dare il proprio contributo alla costruzione di un punto di vista rivoluzionario e di una pratica contro il carcere all’interno del movimento rivoluzionario e di classe.

Innanzitutto perché non si può rinunciare a costruire coscienza rivoluzionaria in una situazione in cui i proletari vivono oggettivamente uno scontro diretto con il potere borghese. In secondo luogo perché il sistema di segregazione carcerario ha sempre avuto ed ha un ruolo di grande importanza nella lotta di classe, proprio perché si pone materialmente contro i processi di organizzazione proletaria e rivoluzionaria.

Con questa consapevolezza si può cominciare a ricostruire nella lotta e nella comunicazione antagonista e rivoluzionaria quel tessuto di rapporti e relazioni collettive che possono spezzare la strategia di isolamento che vuol fare «terra bruciata» nel carcere e attorno al carcere.

Noi possiamo esprimere una pratica rivoluzionaria in primo luogo a partire dalle nostre condizioni di segregazione, di prigionia, per negarle, per liberarci e per impedirgli di funzionare contro di noi, continuamente nel possibile. La capacità di inserire questa pratica nel complesso di tensioni e lotte che caratterizzano il movimento proletario è il primo vettore di internità e contributo attivo al movimento rivoluzionario.

A partire da questa chiarezza, si può sviluppare un processo comunicativo ampio con realtà proletarie, con collettivi e situazioni di compagni con cui costruire momenti di lotta comune contro il carcere e il complesso delle sue strategie antiproletarie. Momenti significativi e di rottura che vadano al di là del terreno della solidarietà, e che riescano a cogliere il nesso profondo che lega il carcere e la società metropolitana. Certamente non si tratta di promuovere una qualche centralità del carcere o di assolutizzare questo terreno specifico di lotta, ma di farlo vivere dentro lo sviluppo dello scontro di classe nella metropoli imperialista.

Con queste iniziative intendiamo affrontare da subito la strategia di rifondazione del carcere metropolitano per rilanciare con forza e determinazione un punto di vista di classe e rivoluzionario su questo terreno.

Per noi lottare significa comunicare con tutti coloro che hanno scelto di criticare lo stato di cose presenti…

Un gruppo di comunisti prigionieri del processo alla Colonna Napoletana della Brigate Rosse

Napoli, 24 aprile 1987

Processo per “Insurrezione” – Secondo troncone. Documento dei militanti delle Br-Pcc Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo, Antonino Fosso, Flavio Lori allegato agli atti

Come militanti delle Brigate Rosse riaffermiamo con forza la centralità che assume l’attacco alle politiche di coesione dell’imperialismo nell’area europeo-occidentale e quindi il nostro sostegno all’attacco portato dalla Rote Armee Fraktion al presidente della Deutsche Bank: Alfred Herrhausen.

Questo “signore del denaro”, dall’85 ai vertici di uno dei maggiori gruppi finanziari tedeschi, era un artefice e tra i più lucidi dirigenti di quel processo di concentrazione e centralizzazione del grande capitale finanziario e industriale europeo-occidentale che dentro la dialettica concorrenza-concentrazione costituisce il punto più avanzato dell’integrazione economica della borghesia imperialista, e quindi la spina dorsale della coesione politica e militare dell’imperialismo nell’Europa occidentale.

Sono esemplari le operazioni che la sua dirigenza mette a segno, pur dentro la feroce concorrenza tra i grandi gruppi monopolistici, e che prefigurano l’assetto integrato di una costellazione multinazionale e multiproduttiva che si configura come il soggetto forte dei nuovi equilibri di concentrazione imperialisti, con un piano di attività che spazia dalla finanza ai grandi gruppi chimici tedeschi, ai trasporti, alla difesa, all’industria aereonautica ed elettronica – cioè quella più tecnologicamente avanzata – con la partecipazione nei colossi Daimler-Benz, Wolkswagen, AEG, Matra nonché FIAT (una partecipazione ottenuta con l’operazione di sostituzione dello “scomodo” partner libico); ancora, in Italia, è la sua presidenza a rilevare le filiali del Bank of America concludendo quello che è definito il più importante investimento di una banca estera nel nostro paese; sino all’operazione da poco conclusa di acquisizione della Morgan-Grengell inglese. Un’attività coerentemente perseguita che ne avrebbe senz’altro fatto il primo banchiere dell’ovest europeo, attento al quadro dell’integrazione europea tanto da essere uno dei più pronti e convinti assertori dell’integrazione monetaria europea, tanto interno alla definizione del piano politico di coesione ed integrazione europeo-occidentale da essere “consulente” di Kohl, o meglio, tra quel pugno di grandi monopolisti che ispirano alle proprie esigenze le scelte politico-economiche generali all’interno degli Stati europei e che mirano al rafforzamento politico-economico complessivo per concorrere all’interno del sistema imperialista.

Dentro le attuali dinamiche, per la supremazia economica e per ragioni storico-politiche, è proprio la Germania occidentale che si va definendo come polo di attrazione forte del processo di integrazione economico-politica e militare dell’Europa occidentale, un’integrazione preliminare alla “lunga marcia verso l’Oriente”.

È dentro queste dinamiche generali dell’imperialismo che secondo noi si inserisce l’attacco dei compagni della RAF, poiché l’antimperialismo è un dovere prioritario di ogni forza rivoluzionaria conseguente, a maggior ragione per le guerriglie dell’Europa occidentale, poiché operano all’interno del cuore dell’imperialismo, sapendone collocare il piano e la portata rispetto all’antimperialismo praticato dalle forze rivoluzionarie nella periferia. Per la guerriglia del centro imperialista si tratta di attualizzare l’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni dello scontro nella metropoli imperialista. Deve essere chiaro che ciò non può e non deve significare la semplificazione del quadro di scontro nel solo piano internazionale, sottomettendo il piano classe/Stato al piano imperialismo/antimperialismo. In altri termini l’internazionalizzazione nella formazione monopolistica, lo sviluppo integrato tra gli Stati e l’interdipendenza economica che ne deriva muovono verso un processo tendenziale di formazione omogenea sia dei caratteri della frazione dominante di borghesia imperialista che del proletariato metropolitano; un processo appunto tendenziale che non dissolve la funzione degli Stati, anzi li esalta all’interno degli organismi sovranazionali, né fa dell’Europa occidentale un territorio politicamente omogeneo. Perché lo specifico percorso rivoluzionario si sviluppa necessariamente all’interno dei singoli Stati ed è caratterizzato dalle peculiarità storiche e politiche del contesto nazionale della lotta di classe.

L’antimperialismo per le Brigate Rosse vive in unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato, costituendo entrambi i perni su cui si ricostruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata. Per le Brigate Rosse l’antimperialismo si materializza nel contributo alla costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo.

Si è reso cioè evidente che, stante l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico-militare, è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo in quest’area geopolitica per realizzare i processi rivoluzionari, sia che si tratti di rivoluzione proletaria che di liberazione nazionale.

In questo senso il consolidamento della politica di Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria.

Per le Brigate Rosse la tematica dell’antimperialismo deve imperniarsi intorno allo sviluppo di politiche di alleanza con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo specificatamente nella nostra area geopolitica – Europa occidentale, Mediterraneo, Medio Oriente – al fine di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo.

Si tratta di lavorare a concretizzare, in successivi momenti di unità, l’attacco all’imperialismo all’interno del criterio politico che l’attività del Fronte non deve essere impedita dalle peculiarità d’analisi e di concezione politica delle diverse forze rivoluzionarie che vi lavorano, né tantomeno si deve discriminare l’attività del Fronte come unica attività rivoluzionaria, ma essa deve stringere l’unità realizzabile nell’attacco pratico.

Per questo affermiamo, insieme alla RAF, che non si tratta di fondere ciascuna organizzazione in un’unica organizzazione, ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo.

Il contributo della RAF e delle Brigate Rosse al Fronte Combattente Antimperialista dimostra come le diversità storiche e di percorso non possono e non devono costituire un ostacolo al praticare un’effettiva politica di alleanza, un contributo questo che costituisce al tempo stesso un salto in avanti nella costruzione del Fronte, perché si inserisce nella necessità di superare il primo periodo sostanzialmente di propaganda della necessità del Fronte stesso, misurandosi invece con la definizione più precisa della sua proposta politica, uscendo dalle secche del genericismo.

L’approdo al testo comune RAF-Brigate Rosse e soprattutto l’attività che lo sostanzia sancisce questo salto di qualità e determina il primo passaggio dell’offensiva comune contro le politiche di coesione dell’Europa occidentale all’interno dell’interesse generale della catena imperialista.

La chiarezza degli obiettivi, il realismo politico nell’impostazione della politica di Fronte ne determinano la valenza che va oltre l’unità immediata raggiunta, perché apre la prospettiva politica dello sviluppo del Fronte sull’attacco all’imperialismo, non solo tra le forze rivoluzionarie europeo-occidentali, ma con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area, avviando concretamente l’unità che già esiste oggettivamente tra le lotte nel centro imperialista e i movimenti di liberazione nella periferia.

L’attacco unificato alle linee strategiche della formazione dell’Europa occidentale scuote il potere imperialista.

Organizzare la lotta armata in Europa occidentale.

Costruire l’unità delle forze rivoluzionarie combattenti nell’attacco: organizzare il Fronte.

Lottare insieme.

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo, Antonino Fosso, Flavio Lori

Roma, 4 dicembre 1989

Il nostro sostegno militante alle compagne e ai compagni della RAF. Documento di Giuliano De Roma, Ario Pizzarelli, Patrizia Sotgiu messo agli atti del processo per “Insurrezione”

Gli apologeti della borghesia, nel loro delirio onnipotente, sono arrivati a sancire la fine della storia, azzerata dalla vittoria su scala planetaria della economia di mercato e della democrazia occidentale. Le stesse contraddizioni aperte dal “superamento di Yalta”, dalla “bancarotta del socialismo reale”, dai “nuovi assetti geopolitici centroeuropei”, vengono liquidate come gli ultimi sussulti di una prospettiva storica in cui la linea di orizzonte del Nord del mondo è ormai destinata a coincidere con il punto di vista della pacificazione imperialista. Ma la storia è ancora e sempre tutta da combattere, anche nel cuore dell’Europa imperiale. Lo hanno esemplarmente dimostrato i militanti della RAF, attaccando il centro di quella enorme ragnatela di interessi e di potere intessuta dalla Deutsche Bank da Francoforte a Tokio, da Londra a New York. Colpendo Alfred Herrhausen la guerriglia non solo ha eliminato il vertice di una delle maggiori concentrazioni finanziarie multinazionali (e la “personificazione dello stesso capitalismo tedesco”, secondo De Benedetti) ma ha portato l’attacco ad un esponente di primo piano di quel personale politico impegnato ad elaborare, pianificare e gestire le direttrici strategiche che governano lo sviluppo dei vari livelli di integrazione del blocco europeo occidentale. «Er War ein guter Kamarad, ein Freund und ein deutscher Patriot». Per Kohl il presidente della Deutsche Bank era senza dubbio “un buon camerata”. Herrhausen, oltre ad ispirare le più significative mosse politico-diplomatiche della RFT volte ad accelerare il processo di unificazione CEE attorno all’asse privilegiato Bonn/Parigi, aveva sempre appoggiato la CDU da vero “amico” e, come un autentico “patriota tedesco”, aveva garantito la trasformazione della Ostpolitik da elemento qualificante del programma socialdemocratico a fattore di rilancio, con i 10 punti di Kohl, della vecchia formula di Adenauer sulla «Germania unita in una Europa unita». Oggi infatti il patriottismo tedesco dei grandi complessi bancari/industriali non contraddice ma esalta l’urgenza di bruciare le tappe intermedie delle politiche di coesione in ambito CEE per giungere ad una effettiva centralizzazione decisionale, preliminare alla massiccia penetrazione nelle aree di mercato apertesi all’Est. In questo senso va vista anche la ridefinizione politica del ruolo e delle prerogative della NATO e, più in generale, dello stesso rapporto fra Europa ed USA. Una concertazione indispensabile, sia per coordinare modi e tempi di intervento delle multinazionali e contenere gli effetti di una corsa concorrenziale agli investimenti e alla concessione di crediti che si ripercuota sugli equilibri monetari alla vigilia della virtuale unificazione monetaria europea occidentale, sia – e soprattutto – per il condizionamento politico delle dinamiche, dagli esiti ancora imprevedibili, scaturite dalla crisi dei paesi del patto di Varsavia. La parola d’ordine è stabilità. Il potenziale dirompente di una situazione economica e sociale in rapidissimo movimento è ben noto alla borghesia imperialista. Ragioni storiche e politiche antiche e recenti stanno facendo convergere sull’Europa centrale una serie di contraddizioni di vastissima portata. In particolare la RFT si va definendo non solo come fattore trainante del processo di integrazione europea, ma come la base di partenza per quella marcia all’Est che impone retrovie politico-sociali assolutamente pacificate. Per questo l’azione della RAF, grazie all’obiettivo e al momento in cui è stata vittoriosamente condotta, ripropone al punto più alto dello scontro l’iniziativa rivoluzionaria e internazionalista della guerriglia in Europa. Per questo l’attacco di Francoforte conferisce alla costruzione del Fronte antimperialista combattente una prospettiva di sviluppo che, disarticolando le politiche di coesione del nemico, rende possibile l’apertura di nuovi spazi al dispiegarsi della lotta di classe nella metropoli, premessa indispensabile alla rottura dell’accerchiamento cui sono sottoposte le lotte di liberazione e i processi rivoluzionari nella periferia.

Tutto il nostro sostegno militante alle compagne e ai compagni della Rote Armee Fraktion!

Tutto il nostro sostegno all’attacco della guerriglia contro Herrhausen!

Lottare insieme!

Giuliano De Roma, Ario Pizzarelli, Patrizia Sotgiu

Roma, 13 dicembre 1989

Lo Stato e il monopolio della violenza. Processo “BR Insurrezione” 2° troncone – Dichiarazione di Renato Bandoli allegata agli atti

È noto, per essere stato oggetto di ampie discussioni e polemiche riportate dagli organi di stampa ai tempi della celebrazione del cosiddetto “1° troncone” di questo processo, che ciò di cui qui si discute non è la configurazione giuridica e penale di un “reato” politico che va sotto il nome di “insurrezione armata“ e “guerra civile”, bensì la questione dell’intera vicenda storico-politica della lotta armata promossa, organizzata e sviluppata dalle Brigate Rosse in questo paese.

Non è questa esperienza storica a dover dimostrare davanti ad un tribunale la propria legittimità. Al contrario, siete voi togati sacerdoti del culto borghese dell’“ordine costituzionale” a dover mostrare che la democrazia reale e il capitalismo reale non sono violenza estrema alla vita e ai destini di milioni di esseri umani.

Non solo le leggi della “giustizia” dell’ordinamento democratico non sono legittimate da niente altro che dalla supremazia della loro forza nella pretesa di processare la lotta armata, ma guardando le cose dappresso, secondo la logica stessa che guida quelle leggi, l’unico “delitto”, l’unico “errore” di cui ci si può accusare è tale da dover essere, contemporaneamente, l’implicita confessione, da parte di quella “giustizia”, di essere sempre aperta al rischio del proprio non riconoscimento e alla irruzione di forze “sovversive” contrapposte alla democrazia.

L’unico “reato”, che giudici e tribunali nemmeno sospettano, del quale perciò non può esservi traccia in codici e sentenze, è quello per cui questa esperienza non è ancora riuscita ad esercitare una violenza ed un potere più efficaci della violenza e del dominio in cui consiste l’operare della democrazia. Questo discorso giunge cioè ad affermare che la legge ha la medesima essenza del “delitto” che essa pretende di proibire e che solo di fronte alla supremazia della potenza della “legge” il “delitto” è “delitto”, ossia una forza più debole.

Non si deve forse ammettere che mentre si pretende di “giudicare” chi ha osato sfidare l’immensa violenza che è questo sistema politico-sociale capitalistico, insieme si confessa anche che non è solo inevitabile che la democrazia venga contrastata, ma che le forze rivoluzionarie che la contrastano col dichiarato fine del comunismo hanno la medesima legittimità e perciò lo stesso diritto di mettere in opera progetti di sovversione sociale?

La legittimità della democrazia reale, inscindibilmente legata ai contenuti costitutivi del capitalismo reale, in quanto impresa istituzionale di carattere politico, cioè in quanto Stato, può fondarsi solo in virtù di ciò che M. Weber definisce come “monopolio legittimo della violenza”. Se tuttavia si cercasse una base positiva, razionale e incontrovertibile di tale legittimità si scoprirebbe che essa può consistere solo nella fede posseduta dai dominati che tale organizzazione statale abbia un carattere di legittimità. Il monopolio della violenza è tale anche in quanto esso si regge su quella fede, quella convinzione che esso sia legittimo. Luigi Einaudi, che certo nutriva una solida fede nelle democrazia, era ben consapevole che essa «…. è un mito, il quale non ha in sé alcuna virtù maggiore di quelli che in passato furono suoi concorrenti».

Ma, ci si dovrà pur chiedere, qual è la verità di questa fede? Non ci si può liberare tanto frettolosamente dalle questioni sollevate da un simile problema.

La “verità” e la “ragione”, invocate dalla cultura liberal-democratica a sostegno della condanna della violenza rivoluzionaria, si costituiscono storicamente e socialmente solo in virtù della forza che hanno di far tacere ogni voce contrastante.

Lo Stato, elevandosi ad unico depositario “legittimato” all’uso della violenza, cerca di esercitare un’ulteriore dichiarata funzione di potere, la quale non muove solo nel senso della repressione di ogni forza sociale che si disponga all’esercizio della violenza rivoluzionaria, ma si innerva lungo i processi integrativi del dominio tentando di ridefinire i criteri stessi in base ai quali ogni manifestazione di antagonismo di classe viene considerata un “atto violento”, cercando così di imporre come unica strada percorribile quella della non violenza, dell’agire politico come “arte della mediazione”, del compromesso e, in sostanza, dell’assoggettamento.

Solo in tempi di idiozia teorica e di filisteismo politico come quelli attuali si può dissertare sulla “fine del comunismo”, sul “valore universale della democrazia” e altre amenità del genere, mentre un pugno di monopoli economici e di potentati politici mondiali estendono ormai all’intero pianeta il loro dominio fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sull’impoverimento di interi popoli, sull’alienazione dell’uomo da sé e dalla natura, sulla distruzione di intere regioni del pianeta. Fin tanto che l’unico possibile significato dell’emancipazione umana e delle classi dominate consisterà nella necessità di contrapporsi risolutamente e – come ebbe a dire lo scrittore Karl Kraus – “disperatamente” – all’esistenza di una classe politica e di un ordinamento economico-sociale come quelli che dominano il mondo, nessuno può illudersi che ogni pur minima trasformazione radicale della struttura di questo sistema possa evitare di essere un rivolgimento violento.

Renato Bandoli

Roma, 12 dicembre 1989