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Necessità della rottura rivoluzionaria. Carcere di Cuneo – Documento di Renato Bandoli

«Non si giunge mai tanto oltre come quando non si sa più dove si vada»
Goethe

È ormai noto il contenuto del dibattito, delle dichiarazioni e delle prese di posizione che da qualche mese a questa parte, successivamente cioè alla pubblicazione delle famose «lettere aperte» di Bertolazzi, Curcio, Iannelli e Moretti, hanno attirato l’attenzione del mondo politico e istituzionale, trovando ampia «audience» presso gli organi d’informazione, intorno alla proposta di una «soluzione politica» del problema costituito dall’esperienza della lotta armata in Italia e della grande stagione di lotte che ha caratterizzato gli ultimi decenni di vita politica e di scontro sociale del paese.

Alla critica di ciò che con diverse formule viene indicato come «battaglia di libertà», «sbocco sociale e politico» del ciclo di lotte degli anni ’70, sono dedicate le considerazioni che seguono. Tuttavia non solamente di una critica s’intende qui trattare, ma bensì di mettere anche in luce alcuni nodi, degli interrogativi, che a parere di chi scrive sembrano rivestire un qualche interesse…, non fosse altro che per mostrare le contraddittorie e inaccettabili conseguenze a cui necessariamente conducono le premesse dalle quali muove la proposta della cosiddetta «soluzione politica». Premesse che, come cercheremo di chiarire, sono gratuite tanto sul piano logico quanto su quello storico di una disincantata e non strumentale considerazione dell’esperienza di lotta degli anni passati.

Diciamo anche che non mette conto qui addentrarsi in quella che sarebbe una fin troppo facile polemica circa la genesi e il modo con cui quella proposta è maturata ed è stata avanzata. Né interessa sottoporla ad un esame di ordine ideologico o moralistico, che avrebbe come unico risultato quello di lasciare le cose come stanno, non facendo comprendere una briciola del senso e del significato autentici della «soluzione politica» in questione, così come di ogni «soluzione» di carattere istituzionale.

Fatti questi brevi accenni introduttivi si ritiene necessario anzitutto prendere in considerazione per così dire la «costruzione» del discorso avanzato dai promotori, per cercare di evidenziare il contenuto delle tesi a cui essi appendono, come ad un chiodo, quadro e cornice del loro progetto.

I presupposti da cui muovono sono concentrati in poche proposizioni. Tre sono le enunciazioni perentorie che dovrebbero sostanziare la «legittimità» della proposta, ma che tuttavia mostrano il loro vero significato non appena si scenda un tantino sotto la superficie ambigua che avvolge le parole.

Esaminiamone dunque la sequenza.

In primo luogo si sostiene che sarebbero…“di interesse generale ma in modo specifico della sinistra di classe, promuovere uno sbocco politico e sociale” del ciclo di lotte degli anni ’70.

In secondo luogo si afferma che quel ciclo…“ha ormai esaurito il suo corso ma che si potrà dire realmente concluso solo quando tutti i compagni che vi hanno dato impulso saranno usciti di prigione”.

In terzo luogo, infine, si istituisce la singolare equazione per cui «sbocco politico e sociale» significa «oltrepassamento» e per il cui tramite si deduce che ciò…“vuol dire prendere atto della irripetibilità dell’esperienza compiuta…” “vuol dire, insomma, riconoscere una discontinuità tra quell’esperienza e il nostro presente”, giungendo poi alla «fulminante» conclusione che…“Mentre dunque prendiamo atto della fine di un ciclo, dobbiamo nello stesso tempo affermare l’impossibilità del suo oltrepassamento senza la liberazione dei soggetti che ne sono stati protagonisti”.

Siamo in presenza qui di un ragionamento soltanto apparente, che dissimula le grossolane contraddizioni a cui va incontro dietro categorie quali l’«oltrepassamento» e dietro formulazioni quali l’«esaurirsi» ma non di «concludersi» di un ciclo di lotte. La contraddizione è «sottile» solo per chi fabbrica sofismi!

Vediamo ora di chiarire nelle grandi linee in che cosa consiste l’apparenza di tutto il ragionamento.

Prima di tutto è falso che esista attualmente nel paese uno «spazio culturale e politico», a cui gli autori si richiamano e a cui vorrebbero richiamare il «senso di responsabilità» di ognuno al suo «potenziamento», allo scopo di promuovere la cosiddetta «battaglia di libertà», che non sia lo «spazio» consentito e sovradeterminato dallo stato, «spazio» in tutto dipendente dagli interessi di mediazione politica, di rifondazione e di stabilizzazione degli apparati e delle strutture istituzionali del regime democratico.

Le espressioni di autonomia e di autodeterminazione della classe, là dove esistono e nelle forme in cui esistono, infatti attualmente non sono dotate di quella forza necessaria per «aprire» un effettivo spazio di potere nella prospettiva di condurre una battaglia che si faccia carico anche dei «destini» dei prigionieri, all’interno dei riferimenti ideali, dei valori, delle aspirazioni e del patrimonio della storia della lotta di classe proletaria.

È questa mancanza di forza collettiva e organizzata che consente allo stato di occupare, quando non di fabbricarli addirittura, gli «spazi» possibili e di farne luoghi propri di mediazione dei conflitti sociali.

Ma procediamo.

È falso poi che esista un «interesse generale» alla promozione di una «soluzione politica». E ancor più falso è che esista «in modo specifico» per la «sinistra di classe».

Quale sarebbe il soggetto di un tale «interesse»?

Di quale «sinistra di classe» si va cianciando? Di quella che, come il Partito Comunista Italiano, ha apertamente sostenuto lo stato all’epoca della scellerata «solidarietà nazionale» e che da sempre è compromessa con le «esigenze» della «ragione di stato» di delegittimare quei fenomeni di antagonismo che sfuggano al suo controllo? Oppure ci si riferisce a quell’area politica e di opinione, unita sotto il celebre slogan «né con lo stato né con le BR» che prima ha accettato imbelle le leggi speciali e la cultura dell’emergenza sostenendo che la lotta armata avrebbe… “messo in crisi il rapporto fra classe operaia e democrazia” e che successivamente, essendo innegabile che la «lotta al terrorismo» è il veicolo anche per la rottura della «rigidità operaia» e per la repressione dell’autonomia di classe, è tornata sui propri passi scandalizzandosi per gli effetti dell’emergenza, attraverso il sostegno incondizionato alla dissociazione?

O, ancora, il rinvio è alla «idea» di una «sinistra» che in quanto a forza di movimento, energie, identità, espressioni di antagonismo, ecc., è pressoché inesistente poiché confusa dall’avanzata della selvaggia ristrutturazione capitalistica, dei suoi valori sociali, della sua aggressiva ideologia?

Va da sé che comunque lo consideri, qui il riferimento alla «sinistra di classe» e ad un «interesse» generale o specifico che sia, verso la «soluzione politica» è soltanto una concione demagogica.

Nel migliore dei casi sostenere l’affermazione di quell’«interesse» significa identificarlo con se stessi e con i propri particolari interessi di «ceto politico» di conseguire la libertà, e la cessazione dell’azione repressiva dello stato. Nel peggiore dei casi, invece, esso si identifica con lo stato stesso, cioè con l’esigenza del regime democratico di ristabilire il proprio «diritto» monopolistico all’esercizio della violenza e di ripristinare una «cultura della convivenza» dopo gli anni della «cultura dell’antagonismo».

In un caso come nell’altro ciò che si mostra è l’abbandono di qualsiasi riferimento che valorizzi in una prospettiva futura il senso autentico delle esperienze di lotta di massa e di avanguardia, spontanee e organizzate, armate e non, che si sono fin qui espresse.

Dal punto di vista del potere ciò che è in gioco risulta piuttosto chiaro: conseguire la capacità di mostrare l’immagine di uno stato che non solo «tiene» di fronte a fenomeni di rivoluzione sociale, ma che dà prova di «civiltà» e di «sicurezza», di «fermezza» e «umanità» quanto più esso sia in grado di percorrere la strada del «recupero» della «reintegrazione sociale» di tutti quei soggetti politici che si sono ribellati anche con le armi. L’immagine cioè di uno stato che tenta di coniugare i principi del liberalismo paternalistico con le moderne concezioni che ispirano le strategie di dominazione nei paesi capitalisticamente più avanzati.

Qualunque «sbocco politico e sociale» che apra spazi alla pacificazione e alla mediazione con le istituzioni va combattuto.

I «destini», l’esistenza e la resistenza dei prigionieri, così come il nodo della loro liberazione, sono questioni che possono essere assunte solamente in un ampio schieramento sociale antagonista, che individui nella liberazione dal carcere una delle condizioni irrinunciabili per il superamento degli attuali rapporti sociali.

Qui non è questione del “…pericolo… che un’esperienza così ricca e polivalente come quella da tutti noi compiuta… finisca dispersa nel silenzio o perda ogni contatto con le sensibilità del presente…”, ma bensì di fissare delle linee di demarcazione entro (e non «oltre») le quali la liberazione dei prigionieri appartenga ai contenuti di classe espressi nell’esperienza fin qui maturata e all’interno delle quali lavorare all’individuazione di quei processi che siano in grado di rompere il «rumoroso silenzio» sotto cui la si vorrebbe seppellire.

Al di fuori di questo orizzonte la liberazione può costituire un «problema» solo nella misura in cui la «libertà» venga assolutizzata ed eretta a valore astratto, solo cioè se essa venga separata dal contesto storico sociale in cui la lotta tra le classi si svolge. Può essere un «problema» solo se si recidono i legami che uniscono i propri «destini» individuali al senso collettivo che da sempre fonda e raccoglie le speranze e le istanze di emancipazione degli oppressi.

Ma veniamo ora ad uno dei nodi cruciali di tutto il ragionamento avanzato nelle «lettere aperte». Nodo gordiano che, come appunto nella leggenda, viene tagliato anziché sciolto.

Secondo gli estensori sarebbe necessario “… prendere atto della irripetibilità dell’esperienza compiuta” e si dovrebbe “… riconoscere una discontinuità tra quell’esperienza e il nostro presente”. (Sia detto per inciso: paradossalmente a questo riguardo sembra pertinente l’opinione espressa da P.L. Onorato sulle pagine del «manifesto» del 26/27 aprile, proprio a commento di queste dichiarazioni. “Il dubbio che sorge – egli scrive – è che la discontinuità non sia nelle cose, ma nelle persone, e che abbia a che fare con una sopraggiunta consapevolezza dell’inadeguatezza degli strumenti politici e culturali messi in campo allora e con la percezione della complessità della formazione sociale italiana che è di oggi come di allora”. Provenendo da un esponente della Sinistra Indipendente queste parole non sono certo sospettabili di «irriducibilismo» e sono piuttosto quelle del mentore che «illumina» di «coscienza democratica» ciò che rimane implicito e non detto in quelle «lettere aperte»).

Tornando all’ipotesi della «discontinuità» occorre dire subito che qui si pretenderebbe di rendere equivalenti l’esistenza delle forme in cui si è espressa la stagione di lotte degli anni ’70 e l’essenza che scorre nel sottosuolo della struttura stessa della società e in ogni sua relazione, così come scorre in ogni forma di organizzazione sociale dell’Occidente e ormai di tutta la terra: ossia la «necessità» del rapporto di alienazione, di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di manipolazione e falsificazione della vita di milioni e milioni di essere umani.

È esattamente questa essenza, quest’anima sotterranea, a costituire la inevitabile, ma non eludibile continuità, il tratto unificante che lega passato e presente, e che impone con la forza della necessità di fare i conti con la violenza, con il suo esercizio da parte delle classi dominate.

Lo stato, il sistema dei partiti, gli apparati della cultura, ecc., in questi anni non hanno lesinato energie nel tentativo di ridefinire i criteri stessi in base ai quali ogni manifestazione di dissenso, di opposizione, di antagonismo, debba essere considerata quantomeno potenzialmente un atto di violenza, tentando di imporre, insieme, come unica strada percorribile quella della non-violenza, quella della cosiddetta «umanizzazione del conflitto sociale», e a tal fine non si sono risparmiate formule roboanti quali «secolarizzazione», «laicizzazione» «deassolutizzazione» delle identità e dell’impegno politici. (Qui mette conto rilevare appena di sfuggita come il «confronto» sugli anni ’70, da più parti auspicato, avvenga all’insegna dell’astrazione politica, della politica intesa come «arte del possibile» cioè del «mediabile»).

Ciò che è decisivo per il potere in quanto tale, cioè per ogni potere, è di possedere e mantenere il «monopolio della forza». Uno stato il cui «monopolio della forza» venga contrastato e messo in discussione da forze politiche e sociali ad esso antagoniste, cessa di essere propriamente un potere «legittimo» giacché la «legittimità» gli proviene solo e nient’altro che dalla forza e dal consenso che essa è in grado di riscuotere nella società. Ovviamente non s’intende qui la forza bruta, ma ad esempio quelle forme di potenza che il linguaggio della civiltà chiama «forza del progresso», «forza della libertà», «forza delle idee» …per giungere a quella forma più potente di forza che è oggi l’organizzazione della «razionalità scientifico-tecnologica» ormai presente nel «senso comune» e nella vita dei popoli e sulla cui operatività basano la loro azione gli stati e i grandi apparati amministrativi dell’esistenza umana sulla terra.

La «legittimità» del monopolio statale della violenza è la capacità della violenza di ottenere il consenso dei sudditi. All’interno di questa capacità si colloca l’esigenza delle istituzioni di ridurre all’uno, cioè all’unica «ragione» dell’organizzazione statale, la molteplicità di forme in cui si esprimono le spinte e le tendenze rivoluzionarie di trasformazione della società.

È precisamente questa «esigenza» a far sì che lo stato cerchi di recuperare, per così dire di «metabolizzare» organicamente tutto ciò che si è espresso nel corso di vent’anni di lotta di classe. In questa direzione il tramonto delle forme politiche rappresentative della lotta armata – che niente ha a che vedere con il permanere, ancor più radicale del suo senso rivoluzionario e di liberazione sociale – si cerca di identificarlo, in primo luogo, con l’esaurirsi delle ragioni e del diritto dei proletari all’esercizio collettivo e organizzato della violenza.

Non è certo con il ricorso ad espedienti linguistici che si traccia “… una demarcazione netta con qualsiasi forma di abiura e di rinnegamento”. Al contrario, è con l’essenza di cui si diceva precedentemente che si tratta di fare i conti, è di essa che si deve discutere. «Oltre» questo orizzonte i riferimenti alla «trasformazione sociale» e al «comunismo» sono farisaici. Così come ridurre il peso dei gravi problemi dell’oggi ad una questione riguardante il «patrimonio rivoluzionario» o l’invito ad un confronto «collettivo» per la «ricostruzione della memoria» degli anni ’70, insomma così come l’ordine di un discorso sul passato che non sia insieme lavoro, indicazione, apertura e impegno rivolti al futuro, è una «ripresa di parola» omologa alla «presa di distanza» dai propri percorsi di lotta.

Non è ulteriormente eludibile il compito in cui consiste l’impegno alla considerazione del senso della violenza all’interno dei processi di liberazione sociale. Un compito che, nella teoria come nella pratica, si colloca al di là dell’esplicitazione delle «ragioni» della violenza, giacché il suo esercizio non è senza verità alla condizione che, insieme, giunga ad esplicitarsi la consapevolezza del vero senso dell’alienazione in cui consistono le radici della violenza e in cui consiste questo sistema sociale.

Infine occorre rilevare che il «chiodo» a sostegno dell’ipotesi di una «discontinuità» tra passato e presente, è costituito dalla «evidenza» delle modificazioni intervenute nel corso degli ultimi anni nel paese e nel quadro internazionale.

Si vuole proprio indicarle richiamando la «complessità della formazione sociale italiana»? E sia. Ma in assenza di un qualsiasi tentativo, da parte dei sostenitori di questa ipotesi, di argomentazione al riguardo, non è facile liberarsi dal dubbio che qui si tratti semplicemente di un presupposto infondato ma eretto a criterio giustificativo al fine di abbellire la proposta della «soluzione politica», che verrebbe così ad assumere l’apparenza non di una resa allo stato ma alla «evidenza delle cose»!

Ma una tale decisiva questione da nessuno può essere liquidata frettolosamente.

Quali sono, infatti, i tratti che contraddistinguono i mutamenti avvenuti nella vita politica, economica, sociale e culturale del paese?

Quali le «differenze» tra ieri e oggi che consentirebbero di decretare la «chiusura» di un ciclo di lotta?

Quali i valori, i contenuti, il senso, i processi e le tendenze che questi mutamenti esprimono relativamente ai «destini» di milioni di uomini e donne?

Non è certo questa la sede per tentare di avanzare qualche indicazione al riguardo, s’intende solo da un lato sottolineare le incongruenze e la gratuità di certe formulazioni e dall’altro di richiamare l’attenzione di coloro che non abdicano né alla «critica delle armi», né alle «armi della critica» alla considerazione analitica di questi interrogativi.

Se è inevitabile che la rivoluzione più autentica e radicale non sia una semplice negazione dell’esistente ma, al contrario, ciò che conduca al tramonto l’orizzonte stesso al cui interno si costituiscono i grandi antagonismi del nostro tempo e al cui interno il lavoro umano, lo sfruttamento del lavoro ma anche la liberazione dallo sfruttamento, appartengono alle stesso senso di ciò che chiamiamo e che soprattutto viviamo come «costruzione» e «distruzione» di tutte le cose, allora non è solo questione della semplice «coscienza» del dominio e dell’alienazione prodotti dal capitalismo, ma è questione riguardante un’alternativa globale, un sapere e una critica cioè che siano in grado di mostrare in che consista il «nuovo ordine» capace di condurre al tramonto il pensiero, le opere, gli uomini e del dominio. In questa direzione allora è necessaria una ricerca e una riflessione collettiva intorno a ciò che conferisce senso e significato alle caratteristiche stesse del «cambiamento», della «trasformazione rivoluzionaria».

Al di là degli inevitabili rischi di equivoco a cui tutte le parole si prestano, si tratta di comprendere che soltanto c’è qualcosa di positivo nella prassi, nella nostra vita, allorché gli atti vengano pensati e vissuti come irrevocabilmente necessari.

Fin tanto che il solo significato possibile di ciò che viene indicato con l’espressione «prendere il destino nelle proprie mani» da parte delle classi dominate, consisterà nella necessità di contrapporsi energicamente all’esistenza di una classe politica e di un sistema sociale come quelli conosciuti nella storia di questo paese, nessuno si può illudere che ogni pur minima trasformazione sostanziale della struttura sociale possa evitare di essere un rivolgimento violento.

Renato Bandoli

Carcere di Cuneo, agosto 1987

Movimentisti incalliti e falsi ingenui. Documento di alcuni prigionieri BR di Rebibbia

«La situazione è cambiata», «un ciclo di lotte si è chiuso», «non siamo più negli anni settanta», «la situazione non è più come prima» e così via. È il motivo ricorrente con cui da tempo i liquidatori incominciano i loro monologhi.

Il motivo della loro introduzione spinge alcuni compagni a obiettare che «non è vero che la situazione è cambiata» o che «la divisione di classe e lo sfruttamento sono oggi quelli di ieri se non peggio». Quest’ultima affermazione è vera, ma non coglie il punto del problema. La prima è priva di significato, come lo è il motivo dei liquidatori di cui è la semplice negazione. Infatti si tratta di vedere in concreto cosa è cambiato, con quali effetti. Se non si ragiona sul concreto, le affermazioni restano frasi vuote. Ai liquidatori le frasi vuote fanno buon gioco, a noi no.

Certo, da anni è cessata la mobilitazione di massa che si esprimeva su mille temi e in mille forme, durata gran parte degli anni ’70. Non è questa constatazione che ci divide dai liquidatori. Ci dividono il bilancio che traiamo dalla mobilitazione di massa di quegli anni e dal ripiegamento di oggi e l’obiettivo che ci proponiamo.

Lasciamo qui da parte i favori, le delazioni e i tradimenti che i liquidatori, detenuti o latitanti, dovranno trattare con la classe dominante, i suoi esponenti politici e i suoi poliziotti, in cambio della scarcerazione o della rinuncia a perseguirli. Lasciamo stare questo contesto inevitabile di ricatti, pressioni, mercanteggiamenti, contorcimenti e predicazioni da zombie e da cortigiani e veniamo alla sostanza delle analisi e delle tesi con cui i liquidatori giustificano e propagandano la liquidazione.

«Si è esaurito un ciclo di lotte antagoniste al cui interno era stato possibile far vivere un progetto di potere. Non resta che concludere quanto è rimasto delle manifestazioni di quel fallito progetto di potere, creando gli strumenti culturali e politici per riaprire lo spazio per un confronto tra tutti i soggetti che si sono battuti e si battono per un cambiamento. Gli strumenti culturali e politici sono anzitutto la scarcerazione dei prigionieri politici che costituiscono un ostacolo per ogni dibattito e percorso che non rinunci (sic!) alla prospettiva di una trasformazione radicale della società e la cessazione della riproduzione di quegli stereotipi che alimentano nel movimento rivoluzionario illusioni di continuità».

Queste le tesi dei liquidatori, riassunte prendendo a prestito le frasi dalle loro «lettere aperte» e dai loro documenti di questi ultimi mesi. Quindi via i prigionieri politici la cui esistenza imbarazza e intralcia quanti vogliono tranquillamente riprendere a chiacchierare di un mondo migliore e via i militanti BR ancora attivi. I nuovi liquidatori assicurano che essi riusciranno dove «la sciagurata ricerca di dissociazioni varie, alla quale abbiamo fin qui assistito, ha dimostrato ormai tutta la sua impotenza», a liquidare cioè quanti ancora perseguono il «progetto di potere», i continuatori della lotta armata e dell’iniziativa delle BR.

I liquidatori sostengono che la lotta armata degli anni ’70, «il progetto di potere», sono stati principalmente l’espressione più radicale, più estrema di un ciclo di lotte, una specie di punto di arrivo di un processo nel quale si passava dalla protesta alla dimostrazione, allo sciopero, al picchetto, alla spazzolata, all’«esproprio proletario», all’illegalità diffusa, alla ronda, alla violenza organizzata, in un crescendo di determinazione e di forza. Quindi per essi la lotta armata delle BR è stata la forma di lotta più estrema di un movimento di massa. Ovvio quindi che anch’essa scompaia quando il movimento di massa ripiega e la mobilitazione diminuisce.

Ma furono davvero questo le BR o l’interpretazione degli attuali liquidatori è solo una riproposizione della concezione movimentista della nostra storia?

È un dato di fatto che alcuni compagni sono arrivati alla lotta armata sulla spinta della mobilitazione di massa. È innegabile che per alcuni la lotta armata è stata solo la forma di lotta più radicale alla quale sono arrivati «spontaneamente» in un crescendo di forme di lotta. Nel crescere del movimento, man mano che i suoi obiettivi si approfondivano e che nuove masse venivano coinvolte, le forme di lotta fin lì praticate non bastavano più e molti scorgevano la possibilità di forme di lotta più efficaci e di più sicuro effetto. I compagni più generosi ed audaci vi ricorrevano.

 

È vero che alcuni compagni hanno condotto per un lungo periodo la lotta armata senza mai andare, nella loro coscienza, nelle modalità pratiche di attuazione e nel complesso della loro attività politica, oltre il livello della lotta armata come forma di lotta di massa. Basta ricordare il variegato mondo di Prima Linea e di varie organizzazioni minori, le tesi sugli Organismi di Massa Rivoluzionari. Che si producessero di continuo fenomeni di questo genere, che ci fosse una tendenza molecolarmente diffusa tra gli elementi più attivi delle masse proletarie a prendere le armi, a colpire risolutamente i nemici di classe, a far pagare caro a poliziotti e stragisti i loro crimini, questo era un indice della forza, vastità e profondità della mobilitazione.

Ma i liquidatori di oggi riducono l’attività delle BR solo a questo, negano che esse sono nate da un «progetto di potere». Negano cioè che le BR non impugnarono le armi nella foga euforica del momento, in uno slancio di ribellione. Le impugnarono come strumento essenziale, determinante, decisivo, finalmente scoperto, di un partito proletario che vuole guidare, nelle condizioni attuali, le masse proletarie alla conquista del potere politico, all’abbattimento dello stato borghese, all’instaurazione della dittatura del proletariato, verso il comunismo.

Le BR vennero costituite perché tutta l’esperienza della lotta di classe dell’epoca imperialista insegnava che un partito comunista che non padroneggia la lotta armata si ritrova impotente (nonostante le migliori intenzioni e i più grandi eroismi individuali) a dirigere gli avvenimenti anche nelle situazioni rivoluzionarie, perché l’esperienza della lotta di classe nell’epoca imperialista insegna che la lotta armata diretta dal partito comunista è uno strumento indispensabile, anche al di fuori di una situazione rivoluzionaria, come fattore determinante per impedire una concentrazione delle forze politiche dell’avversario tale da soffocare lo sviluppo delle forze rivoluzionarie e quindi che la lotta armata è essenziale all’accumulazione delle forze rivoluzionarie.

Non fu la vastità della mobilitazione di massa a giustificare la linea delle BR, a rendere consapevoli che non si sarebbe fatto un passo avanti se non si imboccava un nuovo sentiero, che non si sarebbe usciti dalle secche in cui si erano arenati tutti i movimenti e partiti comunisti europei in tutto questo secolo: fu invece l’analisi della natura della società borghese nella fase imperialista, dei rapporti politici ed economici di essa, dell’esperienza dei partiti socialisti e comunisti europei dall’inizio del secolo in avanti.

L’ampiezza della mobilitazione di massa, la tendenza diffusa alla lotta armata, non potevano non influire sull’ampiezza delle nostre operazioni militari e delle formazioni militari. L’ampiezza del sostegno di massa influiva sulle modalità operative delle organizzazioni comuniste combattenti. Ma il «progetto di potere» nasceva dal bilancio della lotta proletaria in tutta la fase imperialista nella metropoli imperialista. Questo mostrava e mostra che un partito che non padroneggia la lotta armata, che non usa questo strumento per indebolire le forze politiche della classe dominante e rafforzare le proprie, è condannato all’impotenza e alla sconfitta. Questa è una lezione non tratta dal ciclo di lotte degli anni ’70, ma dalle lotte di classe degli anni ’20 in Europa Occidentale e Centrale, dalla sconfitta del proletariato tedesco degli anni venti e trenta, dalla guerra civile spagnola, dalla resistenza al nazifascismo, dalle lotte proletarie del secondo dopoguerra. È una lezione universale. Un partito che si forma e cresce sul solo terreno delle lotte rivendicative e parlamentari, che si contiene nell’ambito delle espressioni della lotta politica proprie della democrazia borghese, che si limita a cercare di usare le istituzioni della democrazia borghese contro la borghesia, che non adotta conseguentemente la lotta armata (ovviamente in relazione allo stato reale del movimento di massa e all’obiettivo della conquista del potere politico da parte del proletariato), vota se stesso e le masse che dirige alla sconfitta e al massacro.

 

Cosa c’entra con questo l’esaurirsi del ciclo di lotte degli anni settanta?

L’esaurirsi del ciclo di lotte pone per la lotta armata (come per tutte le altre attività di noi comunisti) condizioni diverse da quelle precedenti, di cui i comunisti devono tenere tutto il conto.

Resta però fermo il grande significato storico del fatto che per 15 anni, nonostante gli errori di impostazione e l’inesperienza, la lotta armata si è mantenuta ed è diventata il polo di attrazione, di riferimento e di organizzazione per gli elementi più avanzati del proletariato; del fatto che ancora oggi, nonostante lo scotto pagato ai nostri errori, la sua sola continuità nella esistenza dei prigionieri politici che non si arrendono e nei ridotti organismi che tengono alta, nell’attuale difficile passaggio, la bandiera, basta ad impedire quella ripresa dell’impotente chiacchiericcio rivoluzionario che i liquidatori e i loro padroni governativi auspicano. Resta il fatto significativo che in tutta la metropoli imperialista i comunisti sono andati e si vanno impadronendo dell’arte della lotta armata per il comunismo e sul terreno creato da questa tessono i loro legami con i movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo e ricostruiscono l’organizzazione del movimento proletario della metropoli (ancora tra grandi difficoltà e con risultati ancora modesti, certo, ma non vi è né ci può essere altra strada!). Resta il grande ruolo esercitato nella vita politica del nostro paese dal fatto che, nonostante il riflusso del movimento di massa e nonostante anche le sconfitte da noi subite a causa dei nostri errori, le BR hanno continuato ad esistere, a riprodursi.

È proprio a causa di questo ruolo politico, a causa dell’ipoteca che la resistenza dei prigionieri comunisti esercita contro l’espansione dell’opportunismo, a causa del pericolo incombente dell’incontro tra il crescente malcontento e disagio delle masse e la lotta delle BR, che la DC e i suoi alleati sono disposti a pagare un prezzo pur di liquidare le BR e la resistenza dei prigionieri comunisti.

È questa liquidazione la moneta con cui Curcio e C. intendono pagare la loro liberazione. Lo schieramento dei prigionieri politici contro le BR e la creazione di un movimento culturale movimentista (cioè senza progetto di potere, solo rivendicazioni e proteste) e interclassista (cioè di «soggetti che si battono» anziché di classi) – i «Comitati di Sostegno» – nelle aree e nei gruppi politicamente più attivi, sono le gambe su cui cammina il progetto liquidatorio di Curcio e C.

Ma anche l’alto valore che la borghesia annette a questa liquidazione comprova una verità. Che le BR e la loro linea sono tutt’altro che fallite. Falliti sono anzitutto il revisionismo e il suo programma di riforme nel capitalismo ed è saltata la cappa di piombo che esso faceva gravare sulle masse annettendo ed isterilendo le potenzialità di sviluppo politico delle lotte rivendicative. In nessuna delle questioni su cui per decine di anni i revisionisti hanno costruito movimenti di massa è stata raggiunta una soluzione stabile: ciò conferma a chiunque vuol vedere che gli operai e i proletari troveranno una soluzione ai loro problemi di lavoro, di pace, di qualità della vita e dell’ambiente, di giustizia e di eguaglianza, solo in una guerra vittoriosa contro i tutori e guardiani dell’attuale sistema economico e politico.

Sono state sconfitte le illusioni di un passaggio senza traumi e discontinuità dal revisionismo alla lotta armata, le illusioni di unire le masse sul terreno della lotta armata solo per virtù della linea e dell’attività del partito, l’esaltazione derivante dalla scoperta dell’efficacia politica della lotta armata e la prostituzione della lotta armata a unico strumento risolutore di tutto (il militarismo dei Franceschini e Curcio che ancora pochi anni fa proclamavano che «la guerra è padre e madre di ogni cosa»), la sopravvalutazione unilaterale della potenza della lotta armata e del ruolo politico dell’avanguardia rispetto al contributo dato alla lotta per il comunismo dallo sviluppo delle condizioni oggettive economiche e politiche e delle condizioni soggettive delle masse. Insomma sono state sconfitte le illusioni di chi pensava che bastasse aver scoperto la lotta armata per arrivare alla vittoria: è stata sconfitta cioè la malattia infantile di un movimento ancora giovane, ai primi passi della sua storia.

Tutti quelli che sono decisi e convinti partigiani della rivoluzione proletaria e del comunismo devono operare in modo che la «battaglia di libertà» lanciata congiuntamente da Piccoli e da Curcio si rovesci contro la borghesia, in un passo avanti della coscienza politica e della forza organizzativa dei comunisti.

Oggi tra noi esistono divergenze serie e profonde sul bilancio della nostra esperienza e sulla linea da seguire. È inevitabile che un’impresa come la nostra, che apre strade nuove, si sviluppi tra contrasti e lotte. Ma il dibattito in cui siamo inevitabilmente coinvolti (e starsene fuori è già venir meno al proprio ruolo di comunista) sarà fecondo se farà emergere una linea ancora più aderente alla realtà delle condizioni delle metropoli imperialiste e un partito ancora più deciso a guidare la lotta del proletariato per il comunismo alla vittoria.

 

Alcuni prigionieri BR di Rebibbia

Quale «ciclo storico» si è chiuso. Carcere di Novara

Da diverse parti sentiamo dire che un «ciclo storico» avrebbe esaurito il suo corso, che occorre riflettere sul recente passato ed infine trovare una «soluzione» al problema dei prigionieri politici per contribuire alla pacificazione della società italiana.

Rispetto a tali «teorizzazioni», visto che non sono per niente «neutrali», diventa sempre più urgente sviluppare una critica di segno rivoluzionario e noi, come compagni prigionieri, con questo breve scritto intendiamo soltanto contribuire ad essa.

Ma è proprio vero che un «ciclo storico» ha esaurito il suo corso?

A cavallo degli anni ’60 e ’70, mentre emergevano i primi sintomi della crisi del «modello di sviluppo» affermatosi dopo la seconda guerra mondiale, i paesi a capitalismo avanzato sono entrati in un periodo storico contraddistinto dalla rivoluzione tecnologico-industriale incentrata su microelettronica, biotecnologie e nuove fonti energetiche. Tutto ciò vale anche nel caso dell’Italia, nel paese a capitalismo avanzato in cui negli anni ’70 abbiamo avuto uno dei più alti livelli di conflittualità sociale e di radicamento della guerriglia. Quest’ultima è nata in un contesto ben determinato, ma i fattori fondamentali che ne hanno favorito l’emergere sono elementi caratteristici del presente periodo storico attraversato dal capitalismo.

Nel quadro di rapide e violente trasformazioni degli aspetti principali della società, si verificano periodiche esplosioni sociali che, mentre risultano antagoniste ai valori della civiltà capitalistica, alimentano una dinamica rivoluzionaria di cui la lotta armata è l’espressione più avanzata e matura. In Italia, insomma, si sono prodotte e si riproducono le precondizioni che rendono possibile, oltre alle periodiche esplosioni sociali, l’esistenza della lotta armata.

Se perfino dopo il pesante ridimensionamento subìto nel 1982 la lotta armata ha potuto continuare ad esprimersi è per due motivi: da un lato perché si accavallano vecchi e nuovi squilibri sociali, nonché vecchie e nuove contraddizioni fra il sistema politico e le masse popolari; dall’altro lato perché esistono forze rivoluzionarie che, ragionando sulla questione della rivoluzione nella società a capitalismo avanzato, ritengono impraticabile la via pacifica per poter superare il capitalismo.

Le forze rivoluzionarie, pur entro impostazioni generali diverse, puntano a rafforzare i legami con il proletariato, con il mondo degli oppressi e degli sfruttati. Al tempo stesso considerano impossibile la rivoluzione senza una lotta prolungata che, di fatto, rompa il monopolio statuale della violenza e della forza e si incammini nella prospettiva di spezzare la macchina burocratico-militare del moderno stato capitalistico, di eliminarne i vincoli politico-militari internazionali e di operare una radicale rottura anticapitalistica.

Lo sbocco di «civiltà» rappresentato dallo stato moderno solo ora tende ad evidenziare il suo limite intrinseco e storico. Con il dipanarsi della presente rivoluzione tecnologico-industriale, la crisi del Welfare-State ed i processi di rafforzamento del complesso militare-industriale e dell’esecutivo, lo stato a «democrazia rappresentativa» del capitalismo avanzato si erge come comunità illusoria di fronte ad un accresciuto bisogno di democrazia sostanziale e diretta; si staglia in modo più nitido come «capitalista collettivo» che legalizza la disumanizzazione del lavoro salariato e della vita, la crescente marginalizzazione e l’alienazione. A tale riguardo le conseguenze socio-politiche della prima ondata dell’attuale rivoluzione tecnologico-industriale, cioè dell’ondata sospinta fortemente dalle crisi economiche del 1974/75 e del 1980/82, danno solo una pallida immagine di quel che attende la società nei paesi a capitalismo avanzato e del neo-autoritarismo di cui si andranno ad ammantare gli stati occidentali.

Con questa chiave di interpretazione risulta chiaro, allora, il motivo per cui i paesi come l’Italia che negli anni ’70 hanno avuto un duro scontro di classe sono diventati quelli più prolifici nel campo dei sistemi di repressione e prevenzione. Non è un caso, quindi, che nel «laboratorio» italiano venga attualmente dibattuta una proposta di «soluzione» del problema dei prigionieri politici in cambio di contributi alla pacificazione sociale, proposta questa di cui è estremamente importante criticare il significato politico di fondo.

Per comprendere appieno quale sia la «posta in gioco», bisognerebbe prima di tutto essere consapevoli dei ritardi e dei limiti con cui, da parte dell’intera sinistra di classe, è stata affrontata la complessa tematica culturale e politica che la controffensiva della grande borghesia, scatenatasi soprattutto a partire dai primi anni ’80, è andata imponendo nei posti di lavoro e nella società nel suo insieme. Ritardi e limiti resi ancora più gravi dalla contraddittorietà con cui è stata affrontata la critica alla legislazione d’emergenza ed alla giustizia premiale.

In secondo luogo bisognerebbe capire che lo stato, dopo aver usato «pentiti» e «dissociati», ricerca ora nuovi e più sofisticati strumenti per spazzare via qualsiasi progetto rivoluzionario dal nostro paese. Non a caso è stata la DC a sollecitare la discussione del problema dei prigionieri politici esclusi dalle precedenti misure di giustizia premiale e, non per niente, è soprattutto questo partito che, dopo aver lasciato trapelare una precisa proposta di «soluzione politica» (la quale prevede determinate e differenziate riduzioni di pena), strumentalizza apertamente un desiderio di libertà per trasformarlo nella resa ai valori ed alla cultura del blocco sociale dominante egemonizzato dalla grande borghesia.

Oggi le iniziative della DC sono quelle più scaltre all’interno di un più generale indirizzo politico, fatto proprio dall’intero «sistema dei partiti», che persegue l’obiettivo di ingabbiare ogni teoria-prassi di trasformazione sociale nell’ambito dei criteri di compatibilità rispetto alle istituzioni dominanti. Le mosse democristiane, al di là delle cortine fumogene, sono addirittura giunte al punto di ricercare l’avallo dei prigionieri politici ad un processo di pacificazione che lo stato gestirebbe per intensificare l’attacco alle forze rivoluzionarie ed a tutte le forme di autodeterminazione dei movimenti di lotta.

Del resto è già iniziato l’uso strumentale del problema dei prigionieri politici negli scontri interni al «mondo dei partiti» ed agli apparati istituzionali, come è dimostrato senza ombra di dubbio dalle polemiche riguardanti la presunta esistenza di un filmato sulla prigionia di Moro. Inoltre è già incominciata una nuova ed estesa campagna di disinformazione e propaganda controrivoluzionaria che cerca di mettere in contrapposizione le «vecchie» alle «nuove» BR. A tale scopo i mass-media diffondono notizie secondo cui le «vecchie» BR sarebbero rappresentate esclusivamente dagli ex militanti disposti al «dialogo di pacificazione», mentre le «nuove» BR sarebbero, tanto per cambiare, dei mercenari al servizio di potenze oscure, dei trafficanti di droga, degli asociali oppure dei terroristi simili agli stragisti neri.

Di fronte a questa campagna piena di bugie, da un lato è necessario precisare che nessun gruppo di prigionieri è legittimato a «dialogare la pacificazione» a nome di tutti i prigionieri politici, men che meno a nome della sinistra di classe e delle formazioni rivoluzionarie combattenti. Dall’altro lato è necessario riconoscere l’esistenza di un filo rosso che lega tutta la storia delle BR, da quando è nata questa organizzazione fino ad oggi.

Secondo noi bisogna prendere atto che il periodo storico iniziato sul finire degli anni ’60, essendo legato indissolubilmente a quella che si presenta come la seconda grande rivoluzione tecnologico-industriale, è tutt’altro che esaurito. È arrivato il momento, altresì, di ribadire un netto rifiuto nei confronti di ogni forma di avallo alla cosiddetta pacificazione sociale. Quantomeno occorre difendere il diritto al rifiuto dell’ideologia dominante, dell’ideologia borghese nella sua versione «colta» della «post-modernizzazione» o in quella rozza del «post-ciclo storico», e quindi difendere il diritto di tutti coloro che, come noi, non vogliono diventare i consulenti di uno stato desideroso di stabilire il più rigido monopolio della forza e della violenza sulla pelle delle classi sfruttate ed oppresse.

Queste nostre considerazioni intendono forse sottovalutare la questione del carcere? No, non è questo il punto, ma il problema della liberazione dal carcere può essere affrontato correttamente solo all’interno di una ripresa della solidarietà proletaria e della lotta contro i programmi della borghesia imperialista, altrimenti non si farebbe che contribuire al processo di pacificazione auspicato dallo stato ed al corrispondente tentativo di addomesticare, e quindi distruggere, il patrimonio accumulato di esperienza rivoluzionaria.

 

Maggio 1987

Carcere di Novara. Per la ripresa della sinistra di classe. Alcune considerazioni in merito alla «battaglia di libertà» proposta da Bertolazzi, Curcio, Jannelli e Moretti

Da qualche mese quattro prigionieri politici hanno promosso un’iniziativa tesa (apparentemente) ad aprire un dibattito all’interno della sinistra per dare «uno sbocco politico e sociale al ciclo di lotte degli anni ’70».

I quattro sostengono che quel ciclo si è esaurito ma non concluso e che per portarlo a conclusione è necessario sciogliere il problema dei prigionieri politici che di quel ciclo sono stati l’espressione. Secondo loro «lo scontro sociale degli anni ’70 si è storicamente esaurito. Esaurito nei presupposti di classe che lo hanno determinato, nelle condizioni internazionali che lo hanno favorito, nella cultura politica che lo ha caratterizzato, negli specifici progetti di organizzazione rivoluzionaria di cui si è servito».

Questo è il presupposto da cui partono i quattro per promuovere la cosiddetta «battaglia di libertà». Ed è a partire da questo che salta agli occhi una contraddizione tra l’obiettivo reale (la «battaglia di libertà») e il mezzo per raggiungerlo (far leva sulla reale necessità della sinistra di classe di uscire dalla crisi).

Il bisogno di aprire un dibattito nella sinistra di classe per contribuire collettivamente alla sua uscita dalle secche della crisi in cui versa da alcuni anni oramai, è un dato di fatto inconfutabile. Ma allora questo deve essere l’obiettivo e non quello di far leva strumentalmente su una condizione reale esistente al fine di risolvere il problema dei prigionieri. Quest’ultimo, benché sia un problema moralmente e politicamente importante, sicuramente non è uno dei problemi principali a cui la sinistra di classe (e in primo luogo la sua parte più cosciente) deve dare soluzione per uscire dall’angolo in cui il «rullo compressore» della controrivoluzione l’ha cacciata.

L’operazione politica promossa dai quattro prigionieri (a cui successivamente hanno aderito altri gruppi di prigionieri, nonché esiliati e altri individui a vario titolo in libertà) trae forza da una situazione realmente esistente e gioca sul filo sottile delle parole per acquisire (in buona e in mala fede) all’interno della sinistra consensi da usare strumentalmente nella contrattazione corporativa con alcuni esponenti significativi dello stato che da quarant’anni garantisce lo sfruttamento e i peggiori crimini a spese del proletariato, a nome del quale i quattro pretendono di parlare e di cui pretendono di interpretare le aspirazioni di classe.

Essi infatti cercano di vincolare la soluzione dei problemi della sinistra di classe (e più in generale del proletariato) a quelli immediati e soggettivi dei prigionieri politici.

Diventa persino ridicolo pensare che, a fronte dell’offensiva della borghesia di questi ultimi anni, sia sufficiente la liberazione dei prigionieri politici per «concludere questo ciclo di lotte esaurito» ed avviarsi ad un suo superamento (e ad una ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria e proletaria… si suppone!).

Sostenere questo in buona fede significa, quantomeno, peccare della più sfrontata presunzione.

Quest’iniziativa, nei termini in cui è stata posta (e svelata dal suo obiettivo strumentale), non si propone di dare uno sbocco politico e sociale al ciclo di lotte degli anni ’70, ma contribuisce di fatto a creare le condizioni per raggiungere un compromesso con lo stato per risolvere un problema corporativo. Oggettivamente contribuisce a rafforzare la posizione di coloro che (anche nella sinistra) perseguono l’obiettivo della liquidazione dell’esperienza rivoluzionaria in Italia, rivalutando la legittimità dei movimenti di contestazione, ma attaccando, isolando e criminalizzando la componente più cosciente che si è espressa sul terreno della lotta armata. Contribuisce a creare notevole confusione nella sinistra (sugli obiettivi prioritari da perseguire) e a delegittimare coloro che, nelle difficili condizioni presenti, intendono dare continuità (sia pure con le inevitabili rotture) ad un processo rivoluzionario iniziato in quegli anni.

Questa operazione, ovviamente, non è determinante per il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria e di classe, ma questo non vuol dire che non sia influente.

Un altro aspetto che emerge da questa operazione è il tentativo di appiattire (a posteriori) la sinistra, senza distinzioni di sorta tra la parte istituzionalmente legittimata, quella parolaia inconcludente (ma con qualche radice nella classe), quella realmente di classe e la parte più cosciente e conseguente che si è misurata sul terreno della lotta armata contro lo stato come reale necessità per dare uno sbocco strategico alle aspirazioni di classe del proletariato, in alternativa alla bancarotta revisionista.

Sull’onda della sconfitta subìta, l’appiattimento delle responsabilità all’interno della sinistra tutta assume il tono di una manovra furbesca e strumentale, proprio perché non sono paragonabili (sia sul piano politico che su quello storico) le responsabilità che, di fatto, si è assunta la parte comunista e rivoluzionaria, operando una forzatura soggettiva per organizzare e dirigere un processo di contestazione del sistema sociale borghese nella prospettiva della guerra civile per il rovesciamento del regime sociale, con quelle della più vasta area dei movimenti che hanno contraddistinto gli anni ’70-’80.

Le BR non sono nate come necessità contingente e tattica.

Le BR sono sì nate sulla spinta di un movimento espansivo (sorto dall’esplosione e concentrazione di contraddizioni internazionali ed interne), ma fin dai primi anni di attività si sono poste come Organizzazione Comunista Combattente (che aspirava a trasformarsi in Partito di tutta la classe) che interpretava gli interessi generali del blocco sociale che rappresentava (o che si proponeva di rappresentare) e intendeva dirigere questo blocco con una strategia finalizzata al rovesciamento del regime sociale esistente, la conquista del potere politico per l’instaurazione di nuovi rapporti sociali.

Esse non si sono poste (come si tenta di far credere) come supporto armato direttamente vincolato alle dinamiche spontanee di flusso e riflusso dei movimenti, dinamiche queste determinate da cause contingenti. Così come è un falso storico sostenere (come fa un gruppetto di nuovi aggregati alla «battaglia di libertà») che «le BR sono l’espressione di una determinata situazione storica e di un assetto socio-economico ormai superati». Infatti, sebbene sia vero che le BR sono storicamente determinate, il falso sta nel sostenere che l’assetto socio-economico è ormai superato (falso in quanto si trasforma un’opinione strumentale in un dato oggettivo) e nel far ciò si tenta di appiattire interessatamente sui movimenti spontanei e le loro dinamiche l’esistenza dell’avanguardia rivoluzionaria (dotata di un programma strategico autonomo, se pur dialetticamente legata ad essi).

Il ruolo dei comunisti (di cui le BR sono un’organizzazione) è quello di organizzare e dirigere la classe nelle condizioni concrete in cui si manifesta la contraddizione principale che la oppone alla borghesia ed al suo stato, ponendosi al punto più alto della contraddizione con una pratica che contribuisca ad acutizzarla attraverso l’intervento soggettivo diretto, smascherando ed indebolendo politicamente (nel contempo) la bancarotta revisionista e ponendosi come sua reale alternativa.

Con il riflusso dei movimenti degli anni ’70-’80 non si è verificata una corrispettiva attenuazione delle contraddizioni di classe (che poteva derivare solo dalla ripresa della funzione progressista del modo di produzione capitalistico). Al contrario, con l’attuazione dispiegata dei progetti di ristrutturazione economica, politica e militare (favorita dalla sconfitta subìta dall’avanguardia comunista rivoluzionaria e dalla classe) le contraddizioni si sono ulteriormente acutizzate, moltiplicate, estese ed investono ben più ampi settori sociali, travalicando il campo specificamente economico. Proprio in presenza di questa realtà non si esaurisce la necessità di una politica rivoluzionaria strategicamente finalizzata, stante il carattere inarrestabile della crisi generale-storica del modo di produzione capitalistico (crisi economica e dei valori ad esso corrispondenti).

Sostenere oggi che le condizioni sono mutate, che il capitalismo è in ripresa, che la crescita economica avanza è fare l’apologia di questo sistema sociale e fare il verso al governo Craxi, il cui interesse in questo senso è politicamente mirato.

Basta osservare alcuni dati di carattere generale per rendersi conto che lo stato complessivo dell’economia nonché la ripartizione del valore creato non danno adito ad ottimismo alcuno: il disavanzo pubblico aumenta paurosamente, la bilancia commerciale è in pesante passivo, le esportazioni diminuiscono, le importazioni sono in aumento (escludendo i prodotti energetici), l’inflazione è in aumento (sta esaurendosi l’effetto del basso costo del petrolio), la disoccupazione è in continua crescita.

Questo in estrema sintesi e senza valutare le condizioni degli altri paesi che, per quel che concerne l’Europa e gli USA, non sono molto diverse.

È senz’altro vero che queste non sono condizioni sufficienti per determinare un rivolgimento sociale rivoluzionario, però sono il punto di partenza per l’innesto dell’intervento soggettivo dell’avanguardia comunista che contribuisce a divaricare le contraddizioni esistenti intervenendo sui nodi politici centrali che oppongono il proletariato alla borghesia.

I problemi da risolvere oggi per un rilancio dell’attività rivoluzionaria e di classe si giocano su altri e ben più importanti terreni che non quello della liberazione dei prigionieri. Quest’ultimo, pur essendo reale ed importante, è vincolato alla soluzione dei principali nodi che la sinistra di classe (e principalmente l’avanguardia comunista) ha di fronte.

Questo deve essere necessariamente il filo conduttore del dibattito all’interno della sinistra di classe. Porre al centro del dibattito la liberazione dei prigionieri è un terreno fuorviante e, alla fine, inconcludente e porta ad un risultato opposto al rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria e proletaria.

La liberazione dei prigionieri politici non può che essere il risultato o di una pacificazione sociale generale determinata dalla soluzione delle contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico, o di un rovesciamento dei rapporti di forza tra le classi, o di un inevitabile compromesso con la propria identità e di una manipolazione e svendita dell’esperienza storica del processo rivoluzionario italiano.

Al di fuori di ciò rimane un tentativo di raggiro che lo stato, ben lungi dall’essere composto da sprovveduti, non subirà di certo.

 

Novara, giugno 1987

Cuneo: La lotta armata e gli sciacalli. Documento di Pasquale De Laurentis, Maurizio Ferrari, Aleramo Virgili

  1. Da qualche anno nel proletariato metropolitano, tra i comunisti, è in corso un acceso e complesso dibattito sulla ricerca delle cause, delle condizioni, che hanno determinato la parziale vittoria della borghesia imperialista nei primi anni ’80 sull’intero proletariato.
    In quegli anni ci fu anche un crollo delle organizzazioni della lotta armata, dei loro progetti politici, dei loro modelli organizzativi, ecc. Crollo o, se si vuole, sbaragliamento che a sua volta ebbe ed ha delle ripercussioni sull’intera classe proletaria, sui comunisti.
    Queste ripercussioni hanno determinato lunghe battute di arresto, mai totali, nei processi di lotta e di organizzazione del proletariato metropolitano. In essi si è incuneata ulteriormente, come vedremo, la borghesia imperialista con pratiche disgregative, di guerra.
    Da qui hanno avuto altresì origine le lacerazioni della solidarietà e dei vincoli proletari, che hanno, fra l’altro, condotto allo smarrimento un gran numero di comunisti.
    Uno dei momenti del dibattito attuale è rivolto all’analisi, alla comprensione di quanto avvenne in quegli anni. Noi pensiamo che esso sia unilaterale e riduttivo se lo si separa dal lavoro politico che deve ricostruire la strategia della lotta armata oggi.
    In altre parole, sosteniamo che tale comprensione è possibile, è cosa viva, soltanto se viene svolta assieme al dibattito sulla ricostruzione, sulla ridefinizione – in base alle attuali condizioni politiche, economiche, militari – della pratica strategica della lotta armata.
    Tale dibattito, confronto, anche lotta politica, fra posizioni divergenti, nei più recenti mesi è divenuto oltremodo centrale. Questo, dato l’attacco portato anche contro di esso, dall’idea e dalla pratica controrivoluzionaria di dare – come dicono alcuni ex-comunisti militanti delle BR, oggi chiari collaboratori dello stato – “…sbocco sociale e politico al ciclo di lotte degli anni ’70…” attraverso “… la soluzione politica del problema della liberazione dei prigionieri politici”.
    Noi siamo fuori e contro tale logica e pratica, mentre, invece, lavoriamo alla ricostruzione della strategia della lotta armata e della solidarietà, dei rapporti, del dibattito, che essa presuppone.
    Sono questi i problemi che affrontiamo nella circolazione del dibattito, della comunicazione proletaria, con lo scritto che segue.
  1. Siamo giunti al punto di discutere, un’altra volta, della natura e possibilità della lotta armata e quindi dello sviluppo della rivoluzione politica e sociale in Italia, in quanto ciò che venne creato nel decennio precedente è parzialmente crollato, ridimensionato.
    La fase è mutata: si potrebbe dire che, ad una fase percorsa da grandi tensioni rivoluzionarie, sia sopravvenuta una fase di dominio dell’imperialismo, attraverso la controrivoluzione preventiva, affinata sino al punto da consentirgli di tentare di impedire la fecondazione dei processi di lotta, organizzazione, presa di coscienza rivoluzionaria, ancorché di colpire i parti della rivoluzione.
    Tale attività, del resto, è ben conosciuta dai proletari che lottano, che combattono contro l’imperialismo, il nucleare, la guerra, la ristrutturazione della produzione, l’avanzare della «nuova povertà», l’industria della morte; che lottano per la casa, gli spazi di socialità…
    Il fondamento dell’attuale lotta politica, di cui dicevamo all’inizio, la sua stessa esistenza, noi lo intravvediamo nella modificazione di fase. Cioè, nella necessità di trovare orientamenti, ideali, punti di riferimento … caduti o smarriti, in ogni caso da ridefinire, appunto sulla base dei mutamenti avvenuti, operanti e sulla base dell’esperienza rivoluzionaria del proletariato mondiale. Nella necessità, inoltre, da parte della classe proletaria, di uscire dall’impasse e dall’ininfluenza politica che conosce da quegli anni.
    Infatti, la lotta armata è oggi ridimensionata complessivamente, rispetto all’influenza da essa esercitata nel fuoco della lotta di classe nel decennio precedente. Tale suo ridimensionamento ha accelerato l’affermazione non tanto del mutamento di fase, piuttosto del conseguimento da parte della borghesia imperialista, degli obiettivi politici, economici e militari, presupposti a quel mutamento.
    Vediamo meglio.
    La nuova fase venne aperta dalla borghesia imperialista italiana – in armonia con quella di altri paesi imperialisti – sotto l’incalzare della crisi economico-politico-militare… che attanagliava l’intero sistema imperialista e in misura maggiore l’Italia.
    Questo «salto» ha condotto tale borghesia a divenire uno dei pilastri dell’imperialismo. Ha comportato l’assunzione, da parte dell’Italia, nello scacchiere di guerra imperialista ed in particolare nella NATO, del ruolo di gendarme dell’area mediterranea, in guerra con quei paesi che mettono in crisi il sistema di dominio imperialista.
    Questo, sia per adeguarsi alle direttive politico-militari dell’imperialismo USA, che per portare avanti concorrenzialmente i propri interessi specifici.
    Sul piano interno, la ristrutturazione, l’informatizzazione e l’internazionalizzazione del capitale – inteso soprattutto come rapporto sociale – hanno determinato una maggiore frammentazione della classe operaia e dell’intero proletariato metropolitano. Questo ha favorito il decollo di politiche miranti a concretizzare l’individualismo, la meritocrazia, l’istituzionalizzazione dei conflitti sociali…
    La controffensiva imperialista aggredisce l’intera classe. Essa si manifesta in un più intenso sfruttamento, in una ripartizione della ricchezza più sfavorevole ai proletari, nella controguerriglia psicologica che tenta di compatibilizzare pensieri, comportamenti, lotta, aspirazioni dei proletari, ai riferimenti ideali della borghesia imperialista e del suo stato.
    Insomma, a cavallo degli anni ’70-’80 la borghesia imperialista, notevolmente ricompattata a livello internazionale, si è coalizzata anche contro il proletariato che negli stessi paesi metropolitani aveva messo in crisi il suo potere e la sua autorità nei decenni precedenti. Crisi ben espressasi anche in Italia come tutti sanno (anche chi ha vent’anni oggi) ed acuita dalla pratica della lotta armata.
    Sia chiaro che questo ricompattamento e questi nuovi rapporti di forza favorevoli alla borghesia imperialista non significano affatto – come dicono alcuni ex rivoluzionari – risoluzione della crisi storica del capitalismo e sua vittoria epocale. Anzi, essi sono – paradossalmente – proprio il portato della crisi, che costringe il capitale all’accentrazione, all’integrazione e alla ristrutturazione continua.
    Del mutamento di fase, cui accennavamo prima, vogliamo sottolineare un aspetto: quello della modificazione dei rapporti di forza fra le classi, avvenuta in Italia e nello stesso tempo negli altri paesi europei. Schematizzando (rispetto all’Italia): il proletariato metropolitano passa dall’offensiva ad una prolungata condizione d’inferiorità; la borghesia e lo stato, dalla difensiva al dispiegamento del loro potere in ogni ambito sociale (“rinacquero” – come ebbe a dire un giudice).
    Questo dispiegamento, in Italia, prese avvio sul finire del 1979 alla FIAT. Agnelli, sostenuto dal Fondo Monetario Internazionale, dalla CEE, dai maggiori finanzieri dei paesi imperialisti e, ovviamente, dallo stato italiano, portò con i licenziamenti delle avanguardie operaie (i 61) un primo attacco alla classe operaia. Attacco che poi si estese a tutto il proletariato metropolitano, ma – fatto più grave – trovò spiazzati i progetti politici, le linee delle organizzazioni comuniste combattenti che, nella storia reale, rimasero mute.
    Intenzionalmente evitiamo di addentrarci nell’analisi specifica della «rinascita» borghese di quegli anni. È questo un lavoro da fare, soprattutto lo si deve fare – come altri aspetti di cui diremo – in un confronto, in un dibattito, secondo noi generale, in cui dovrà pure essere riavviata la circolazione delle idee, delle esperienze, del sapere rivoluzionario, per esempio tra i prigionieri e i militanti che agiscono nelle metropoli.
    Appunto, non vogliamo scrivere libri, piuttosto dare il nostro contributo al progredire della rivoluzione e questo si può dare solo in un rapporto sociale aperto, reciproco, tra situazioni diverse.
    L’individuazione e la chiarificazione di ciò che deve essere fatto può scaturire solo da questo dibattito dialettico; questo non è certo soltanto compito nostro o di qualsiasi altro compagno o entità di gruppo separata dalle dinamiche reali dello scontro di classe.
  1. È secondo noi necessario tornare sulle origini delle vicende di quegli anni vissute dal proletariato italiano, dalle organizzazioni comuniste combattenti, non fosse altro che per riaffermare, con serenità e decisione consapevoli, che nel 1982 sono crollate le organizzazioni comuniste combattenti con i loro progetti politici.
    Tuttavia, non fu certamente la fine della lotta di classe, per altro impossibile poiché non è venuto meno il rapporto di sfruttamento con tutti i suoi molteplici corollari… Piuttosto si è visto, in diverse situazioni, i proletari lottare, seppure in condizioni difficilissime.
    Pensiamo che da questi avvenimenti ci sia senz’altro da trarre degli insegnamenti. I principali, per noi, consistono nel darsi nel presente e nel futuro una teoria/prassi che consenta alla lotta armata di prevedere e sostenere i passaggi seguiti dalla guerra, senza farci sorprendere da essa; nel mantenere in tali passaggi il radicamento nel proletariato metropolitano, al fine di creare le condizioni politiche, organizzative, della sua estesa pratica nella guerra di classe; nel combattere l’inevitabile ristrutturazione complessiva e particolare che incessantemente la borghesia imperialista scaglia contro la crescita del proletariato metropolitano; nel combattere la guerra imperialista, nello stimolare e rafforzare la coscienza e la pratica internazionalista della lotta armata, del proletariato metropolitano, nelle stesse lotte di massa; nel sapere sviluppare il dibattito sulle questioni del superamento dei rapporti sociali borghesi e sulla distruzione dell’imperialismo.
    Di tutto questo, secondo noi, bisogna pur discutere, in modo aperto, senza dotti e allievi in nessun ambito, senza deleghe, compiacimenti e simili. Senza un minimo di chiarezza intorno a questi problemi, intorno allo scopo sociale del superamento della società borghese, nessuna forza rivoluzionaria può uscire dai limiti in cui dall’inizio degli anni ’80 il proletariato metropolitano si trova.
    Secondo noi, infine, senza affrontare e sciogliere questi nodi, non ci può essere una ricostruzione della lotta armata adeguata alla fase attuale.
    Peraltro, questo nostro punto di vista consente, altresì, di dare al combattimento sostenuto dalle organizzazioni comuniste combattenti dopo il 1982, ciò che gli appartiene: avere tenuta aperta la prospettiva della lotta armata ed il dibattito intorno ad essa.
    Questo è importantissimo, seppure fosse tutto.
    E con questa ultima considerazione entriamo nel particolare di uno dei problemi dibattuti oggi.
  1. Ci pare che la lotta politica apertasi recentemente chiami prepotentemente alla ribalta la natura, la necessità e la possibilità della lotta armata.
    Essa nasce, a nostro parere, dalla condizione di subordinazione politica vissuta in questi anni dal proletariato metropolitano. In particolare nasce dalla consapevolezza dei proletari coscienti di lavorare per uscire da quella condizione e, conseguentemente, dalla necessità di combattere anche i più recenti aspiranti affossatori della lotta armata.
    Questi anni mostrano molto bene quale situazione subordinata e oppressiva comporti, per i proletari, l’assenza politica della strategia della lotta armata dalla lotta di classe. La borghesia imperialista, come abbiamo precedentemente scritto, ha instaurato con il proletariato un rapporto basato sul terrorismo, sul ricatto, sulla forza oggi ad essa favorevole.
    Non ci soffermiamo su singoli episodi interni a tale rapporto, ripetiamo soltanto che l’attuale fase della lotta di classe deve venire analizzata per essere affrontata con più sicure prospettive che la modifichino in senso favorevole al proletariato. Certamente ci riferiamo al rapporto di classe non tanto per invertirne il segno, ma soprattutto per riprendere, insieme a quel compito, la lotta per il comunismo, per la soppressione della borghesia imperialista, dello stato, del lavoro salariato, delle carceri…
    Non solo la vita reale di questi ultimi cinque anni conferma la necessità da parte del proletariato di praticare la lotta armata, al fine di esistere politicamente, per essere unito e offensivo, e anche per vivere in condizioni più ricche e meno oppressive; ci conferma anche che senza la lotta armata il proletariato rimane privo di aspirazioni concrete e autonome, la società borghese pare diventare il migliore dei mondi.
    Per lotta armata indubbiamente intendiamo il concreto modo di essere, di agire, della pratica rivoluzionaria che discrimina fra rivoluzione e revisionismo, tra indipendenza del proletariato e sua integrazione – naturalmente subordinata – nelle istituzioni borghesi. La nostra posizione, inoltre, su questo è chiara: abbiamo sempre lavorato e lavoreremo per una lotta armata che sappia esprimere l’unità tra il politico e il militare. Poiché se questi due aspetti operano separati si ha, come l’esperienza di questi anni recenti insegna, la scomparsa o quantomeno la subordinazione degli interessi politici del proletariato metropolitano; si hanno azioni militari, appunto, solo e sempre tali, cioè episodi a sé, incomunicanti in modo quasi completo con gli interessi, i bisogni, le lotte, le aspirazioni del proletariato.
    Lotta armata, inoltre, che non può prescindere dalla dimensione internazionale dello scontro.
    Infine, siamo certi che così come non c’è rivoluzione comunista senza lotta armata, allo stesso modo non ci sono comunisti posti al di fuori di essa. La sua pratica è il modo concreto, a nostro avviso, per riconoscersi fra comunisti, nonostante le divergenze che ci possono caratterizzare.
    Questo ci pare decisivo dire non certo per settarismo, estremismo e simili ma perché c’è troppa confusione oggi, troppo parlare e denigrare su quanto appartiene al proletariato, ai comunisti.
    Altri aspetti andrebbero considerati in questo dibattito, per esempio le forme organizzative, il rapporto con le masse, la questione ormai matura di agire, pensare, lottare, costruire rapporti secondo i principi dell’internazionalismo proletario… Scegliamo di sviluppare questo dibattito con i criteri che più volte abbiamo descritto, così da affrontarne gli argomenti secondo la loro effettiva portata politica – certamente insieme ad altri – e quindi con quella compiutezza che meritano.
  1. A questo punto vogliamo invece affrontare due questioni: quella relativa alla «soluzione politica» del problema dei prigionieri politici e quella della memoria della lotta armata degli anni passati, in particolare quella delle BR.
    Della prima parliamo perché siamo tuttora prigionieri.
    Secondo noi non ci troviamo di fronte a nessuna «battaglia di libertà» ma piuttosto ad un rinnovato intervento dello stato.
    Ci troviamo cioè di fronte ad un’operazione condotta dallo stato assieme ai suoi collaboratori, a traditori che, approfittando della debolezza attuale del proletariato metropolitano, credono possibile mascherare con le parole delle scelte assolutamente di resa e collaborazione attiva. Lo stato dà loro spazio, non li presenta neppure per quello che sono in quanto attraverso loro – tenuto presente che un tempo furono dirigenti delle BR – è maggiormente possibile pensare di far passare ancora una volta nel proletariato, i germi dell’accettazione del parlamentarismo, con tutto il suo squallido seguito di subordinazione. C’è dunque una convenienza reciproca tra lo stato e questi suoi neo-collaboratori.
    Quella dello stato l’abbiamo accennata, quella dei nostri ex compagni consiste nel guadagnare al più presto la soglia esterna del carcere.
    Noi pensiamo che lo sciacallaggio, la miseria di questi traditori, possano anche portare confusione tra i proletari, tuttavia siamo certi che chiamandoli per quello che sono, isolandoli ed espellendoli dalla classe insieme ai loro chierici, emerga lampante un aspetto decisivo. Questo: la costruzione politico-sociale della lotta armata trova anche oggi tra i suoi nemici i propugnatori del rapporto politico subordinato, senza principi proletari, per «risolvere» l’antagonismo di classe, affinché la borghesia possa, senza alcun ostacolo, imporre i propri interessi ininterrottamente sul proletariato e sulla società tutta. Questo «risolvere» vale tanto per i prigionieri come per chi lotta nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, contro la guerra, il nucleare…
    Infine, il «problema dei prigionieri politici» e più in generale del carcere, va posto nel contesto della continuità della lotta di classe, nello sviluppo delle relazioni per realizzare compiti comuni (fra cui anche quello della liberazione da conquistare con la lotta) fra comunisti e proletari che lottano fuori dal carcere in dialettica con i comunisti e i proletari prigionieri. Esso va posto inoltre, in relazione al confronto fra i prigionieri comunisti (per intensificare la nostra militanza in rapporto ai fini rivoluzionari comuni, nel rispetto reciproco…) e tutto il corpo prigioniero per la distruzione del carcere imperialista.
    Solo in un contesto in cui la lotta armata sia riuscita a suscitare e ad organizzare un movimento rivoluzionario che sappia strappare i propri militanti prigionieri dal carcere, la liberazione dei comunisti e dei proletari può essere tolta dalle mani della borghesia, può essere separata dai ricatti, può essere leva di liberazione effettiva. Sul come affrontare il carcere, mentre anche noi lavoriamo affinché si concretizzi quel contesto, altro c’è da dire e da fare, però data la delicatezza del tema valutiamo sia più giusto tornarvi sopra in modo organico, seguendo il criterio più volte enunciato.
  1. Sull’aspetto della memoria delle BR il nostro punto di vista è semplice da esprimere.
    A nostro parere il passato non è mai un tesoro, un capitale, un oracolo, in quanto non può essere «usato», non è proprietà di nessuno.
    È memoria viva che come ogni altra memoria rivoluzionaria appartiene ai proletari che lottano, che combattono.
    L’incastonatura dell’esperienza delle BR è buona per chi vuole limitare e rinchiudere tale esperienza e storia negli anni in cui le BR erano forza politica e sociale dispiegata; non vogliono che vivano oggi in quanto mirano ad usarle in funzione delle proprie scelte di tradimento e resa.
    C’è anche chi considera la storia delle BR come uno scettro, impugnando il quale si ha il potere di guidare le masse, consolidando se stessi nella direzione della lotta armata, del movimento rivoluzionario. Queste concezioni, pur se tra loro molto diverse, non ci appartengono, perché secondo noi il solo aspetto che il passato deve rafforzare è la pratica rivoluzionaria di chi lotta nel presente. Il passato non deve incutere in essi né religiosità né timori.
    I proletari e i comunisti, quindi anche noi, debbono poter instaurare con il passato un rapporto aperto, in cui lo si possa liberamente conoscere, appropriarsene, e così sia possibile favorire la pratica rivoluzionaria presente a futura.
    Pratica che, per altro, è il presupposto a tale rapporto; non ci interessa chiudere il passato in un libro di storia, ma farlo vivere nell’affrontamento dei compiti rivoluzionari del presente.
    Con la volontà, con la consapevole scelta che fra passato e presente, fra comunisti e proletari, compresi quelli prigionieri, vada instaurato un rapporto sociale aperto, chiudiamo questo nostro intervento.
    Sappiamo di avere altro da dire, da capire, ci mancherebbe! Ma se riusciamo ad esprimerci in tale rapporto vivificato dalla circolazione della comunicazione delle lotte, del dibattito che attraversa il proletariato, tutto diverrà meno formale, maggiormente costruttivo in ogni senso. Anche la stessa comprensione di quanto qui abbiamo voluto comunicare.
  1. Ci sta davanti un autunno caratterizzato dalla partecipazione dell’Italia al pattugliamento dei mari in cui si trovano le rotte del petrolio; dai tagli finanziari sui bisogni dei proletari, dai licenziamenti; dalle lotte degli operai coreani e sudafricani la cui influenza si farà sentire sulla produzione e sul commercio internazionali; dalle prossime scelte strategiche sulla produzione di morte…
    Quest’autunno, quindi, è secondo noi un momento eccezionale con valide condizioni per rilanciare la lotta armata, per sviluppare lotte proletarie offensive.
    Inoltre, affrontando queste contraddizioni di classe, si dimostrerà una volta di più quanto è disarmante, disgregante, controrivoluzionaria, l’operazione di pacificazione sociale propugnata dallo stato attraverso la «soluzione politica» sostenuta dai più recenti traditori del proletariato.

 

Per il comunismo

Pasquale De Laurentis, Maurizio Ferrari, Aleramo Virgili

Carcere di Cuneo, agosto 1987

 

Roma: Lettera aperta al movimento rivoluzionario. Collettivo Wotta Sitta

In occasione della celebrazione a Napoli del processo “Cirillo-Camorra-Servizi Segreti-Unità”, la corte ha convocato come testimoni alcuni compagni del nostro collettivo, i quali hanno rifiutato questo ruolo ed hanno respinto la provocazione. A questo proposito inviamo una lettera aperta al movimento rivoluzionario.

 

Compagni,
la controrivoluzione è da sempre un dato stabile del rapporto tra imperialismo e rivoluzione e si ridefinisce continuamente nel divenire dello scontro di classe.

In questi anni, con il concretizzarsi di una dialettica unitaria tra le forze rivoluzionarie in Europa Occidentale, questi attacchi si fanno più mirati inserendosi nelle difficoltà e contraddizioni che la nuova dimensione dello scontro produce nel percorso rivoluzionario.

Nel tentativo di delegittimare le avanguardie rivoluzionarie la controrivoluzione aggredisce sia l’insieme del movimento rivoluzionario sia le organizzazioni che si attivano in questo scontro come pure i singoli comunisti che fuori o in carcere sostengono l’iniziativa rivoluzionaria.

I fatti parlano chiaro: l’imperialismo da una parte attacca militarmente le organizzazioni rivoluzionarie che in Europa hanno radicato la lotta armata per il comunismo, e in particolare in Italia tenta di scompaginare le BR-PCC, l’organizzazione che in questi anni ha mantenuto aperta l’iniziativa; dall’altra ridà fiato al progetto di soluzione politica della lotta armata, parte integrante della strategia di pacificazione sociale in diversi paesi europei (Italia, RFT, Spagna, Portogallo…).

Questo progetto che va avanti da anni, in Italia è uscito chiaramente allo scoperto quando circa un anno fa i prigionieri soluzionisti hanno concordato, direttamente con il direttore generale delle carceri Amato, una sistemazione carceraria più comoda e stabile, in cambio di una esplicita condanna della lotta armata e di una garanzia comprovata di lealtà e affidabilità, assicurandosi così la certezza di uscire definitivamente dal circuito speciale, e diventando elemento di differenziazione rispetto agli altri prigionieri.

Continuando lo sporco lavoro di questi anni, sul loro foglio di propaganda controrivoluzionaria “Anni ’70”, hanno lanciato un appello alla resa a tutti i rivoluzionari prigionieri e non, attaccando tutti quelli che continuano a combattere e a sostenere la lotta armata.

È evidente come per questi ex rivoluzionari, ormai aperti apologeti del capitale e della legalità borghese, l’attacco all’intera esperienza rivoluzionaria italiana diventi nei fatti merce di scambio nella trattativa con lo Stato e mezzo per rientrare a pieno titolo nella società civile.

Oggi il percorso della soluzione politica è arrivato ad una svolta significativa. Abbandonata la velleità di essere rappresentanti di tutti i prigionieri politici, questi ex rivoluzionari hanno preso risolutamente la strada che già fu della precedente ondata di dissociati con le “aree omogenee”. Si sono posti cioè come polo stabile di attacco alla lotta armata e alla iniziativa rivoluzionaria nel suo complesso diventando la personificazione della memoria compatibilizzata dello scontro degli anni ’70 e della ideologia della sconfitta contro la pratica presente dei comunisti.

Tramite il loro contributo attivo lo Stato cerca di far diventare la prospettiva della lotta armata per il comunismo esclusivamente una questione di “reduci”. Questione che potrebbe “anche” essere risolta consentendo a questi arresi e al loro contorno di riguadagnare la libertà e così riscuotere il premio per la loro “battaglia”!

In questo contesto, già fortemente intossicato dai messaggi borghesi di pacificazione e delegittimazione della pratica rivoluzionaria, si fanno vivi anche i neorevisionisti fautori dell’amnistia con vari interventi pubblici – da quello collettivo presentato al Forum Internazionale per l’amnistia di Lisbona del settembre ’88 al recente show televisivo di Gallinari per conto di tutti – in cui pretendono di parlare a nome delle BR e arrivano a dichiarare, dal carcere, finita la lotta armata, affermando che «oggi le BR coincidono con i prigionieri», e cercando di appropriarsi pomposamente di questa esperienza.

Questi signori non fanno altro che portare acqua al mulino del progetto borghese di pacificazione sociale, tentando di far confusione sull’esperienza rivoluzionaria e attaccando l’attuale pratica dei militanti rivoluzionari.

Nella loro smania di autoproclamarsi rappresentanti dell’intera esperienza delle BR si incaricano di dichiarare estranei ad essa (!) i compagni che all’esterno continuano a combattere e si propongono di portare questa esperienza “sul terreno della lotta politica”.

Oltre a questa grave provocazione, essi non esitano ad attaccare tutti quei prigionieri che sostengono la lotta armata, portando agli estremi la loro logica deleteria, e non si fanno scrupolo di ricorrere alla menzogna facendo il verso alla borghesia.

Essi affermano tra l’altro che le BR-Partito Guerriglia sarebbero state “un gruppo” che si è posto fuori dalla esperienza delle BR e che avrebbe gettato “discredito” su di esse.

Non è la prima volta che si sentono simili calunnie.

Da diversi anni ogni volta che si parla delle BR-PG, questo percorso viene descritto dalla borghesia come denso di episodi ambigui, di collusioni con forze occulte e cose simili, soprattutto in merito a particolari fatti.

La borghesia imperialista, per rendere più efficaci i suoi attacchi alla soggettività rivoluzionaria, da sempre costruisce scenari basati sul modello della guerra psicologica, in cui il processo rivoluzionario e le sue singole pratiche vengono mistificati e presentati come un insieme di complotti, collusioni, lotte fra fazioni e personaggi. Personaggi su cui viene ritagliato un ruolo di capo o addirittura di rappresentante di un’intera storia collettiva.

Questa “celebrazione dell’identità individuale”, propria del sistema di valori della borghesia, viene costruita ad arte come mistificazione della prassi rivoluzionaria per attaccare l’identità collettiva dei percorsi rivoluzionari ed è una trappola in cui vediamo cadere negli ultimi tempi anche i fautori di soluzioni ed amnistie!

Gli scenari costruiti dalla guerra psicologica contro la lotta armata fin dal suo inizio sono ormai un classico.

Dagli slogan del PCI «le Brigate Rosse sono nere», alle provocazioni dei Servizi tedeschi contro l’esperienza della RAF, etichettata come “banda” fin dal suo nascere, alle farneticazioni sul “Grande vecchio” e sulla Campagna di Primavera, con al centro la cattura di Aldo Moro «concepita e guidata da potenze straniere e lobbies occulte», all’attacco concentrico e accanito contro i compagni francesi di Action Directe presentati come «belve senza alcun scopo politico», fino alla Campagna Cirillo «inquinata da un accordo tra BR, esponenti della camorra e servizi segreti», e così via.

Questa strategia, portata avanti da magistrati, forze antiguerriglia e giornalisti, fa parte stabilmente dell’armamentario della controrivoluzione.

A ciò si aggiunge la sorda lotta, in atto ormai da molti anni, tra fazioni politiche borghesi, partiti e apparati dello Stato come effetto del vasto processo di rifondazione dello Stato e della democrazia borghese. Una vera e propria guerra che si manifesta in continue campagne mass-mediate e scontri di potere che trovano spesso spunto nelle contraddizioni aperte dallo scontro rivoluzionario degli ultimi venti anni.

Si genera così un continuo riprodursi di “casi”, costruiti ad hoc sugli episodi della lotta armata, che vengono usati nello scontro tra partiti e tra istituzioni dello Stato.

Esiste una vasta letteratura di questo “genere”, costruita a tavolino da specialisti del settore e arricchita con le veline delle questure, dei servizi segreti e con le dichiarazioni degli infami.

Un esempio tra i tanti è l’insieme di ricostruzioni allucinate contenute nel libro dell’“esperto dietrologo” del PCI Flamigni, “La tela del ragno”, o le periodiche interrogazioni parlamentari del “detective” radicale Teodori. Quello che appare ormai evidente è che l’attività di questi provocatori non risponde ormai solo ad un ruolo politico per quanto miserabile sia, ma anche agli interessi di veri e propri affari editoriali e giornalistici. Affari in cui si sta distinguendo ultimamente il nuovo settimanale scandalistico Avvenimenti, alla ricerca di sempre “nuove esclusive”, per non parlare del settimanale L’Espresso!

Nel concreto, tutte queste dinamiche si traducono in una mistificata ricostruzione “ad uso della borghesia” dello scontro di classe di tutti questi anni, e tentano di distruggere la memoria rivoluzionaria, riducendo il tutto ad una sequela di casi estrapolati dal loro contesto storico reale.

È un’opera di falsificazione ed intossicazione tesa ad usare la storia della lotta armata, ricostruita dagli esperti dell’antiguerriglia e dai mass media, contro il presente e il futuro del processo rivoluzionario.

Su questo terreno vediamo da qualche tempo sguazzare anche i prigionieri ex rivoluzionari fautori della pacificazione.

Il disorientamento e la confusione che questi diversi messaggi ed iniziative possono generare all’interno della classe ci spingono a precisare alcune questioni al movimento rivoluzionario per porre elementi di chiarezza, ben coscienti che con l’approfondirsi dello scontro gli attacchi contro i comunisti si ripeteranno e si moltiplicheranno.

A proposito delle BR-PG

L’esperienza del PG si è sviluppata all’interno della pratica delle BR ed è parte del complesso e contradditorio dibattito che ha attraversato questa organizzazione alla fine degli anni ’70 con il manifestarsi apertamente della sua crisi di progetto politico. Questo percorso ha preso corpo a partire dalle indicazioni della Risoluzione della Direzione Strategica del 1980 e dal rilancio della iniziativa concretizzatosi con la Campagna D’Urso, e successivamente con le Campagne dell’81, definendosi formalmente nella rottura dell’unità politico-organizzativa delle BR alla fine dello stesso anno. Rottura da cui sono scaturite due organizzazioni distinte le BR-PCC e le BR-PG.

Non è questa la sede per entrare nel merito politico complessivo dell’esperienza del PG, che – come è noto – è finita nel novembre del 1982 con la sconfitta politico-militare. La riflessione critica che portiamo avanti su questa esperienza non può che svilupparsi sul terreno concreto dello scontro di classe, l’unico che può fornire gli strumenti adeguati per comprendere limiti ed errori del passato e riqualificare la propria militanza rivoluzionaria. Qui ci limitiamo a ribadire come sia assolutamente fuori dalla storia, e per giunta una falsità, mettere in discussione l’internità del percorso del PG all’esperienza delle BR, al senso che le ha guidate fin dal principio come alle contraddizioni che le hanno attraversate.

A proposito della Campagna Cirillo

Questa Campagna, come è noto, si colloca all’interno dell’offensiva politico-militare che le BR, pur tra limiti e contraddizioni che le attraversavano, realizzarono nel 1981, in diversi poli metropolitani (Sandrucci, Taliercio, Peci fino a Dozier) per cercare di adeguare l’iniziativa rivoluzionaria ai nuovi livelli di complessità dello scontro.

Il perdurare in questi anni di operazioni mass-mediate volte a svuotare di contenuti rivoluzionari questa pratica guerrigliera trova le sue cause nel dato politico che l’ha caratterizzata e nel contesto congiunturale in cui si è espressa: l’attacco destabilizzante al sistema di potere della Democrazia Cristiana e ai piani di ristrutturazione della borghesia imperialista da una parte, e le contraddizioni intrinseche alle istituzioni statali e al sistema dei partiti dall’altra.

Questa destabilizzazione e queste contraddizioni si sono manifestate – per poi esplodere – fin da subito nel pieno della Campagna con il frenetico agitarsi di partiti e di servizi segreti alla ricerca di impossibili contatti con le BR attraverso “la camorra” e qualche suo noto personaggio in carcere. Come col tentativo di allacciare un qualche rapporto con i prigionieri militanti delle BR. Tentativo notoriamente fallito sul nascere perché respinto dai compagni.

Questa verità è talmente solida che neppure nelle numerose e chilometriche istruttorie processuali, costruite con gli infami, la magistratura è riuscita a suffragare questo cumulo di sporche calunnie.

Al contrario sono emerse tutte le connessioni e gli intrecci tra istituzioni dello Stato ed esponenti politici con servizi segreti e ambienti della cosiddetta “camorra”. Questa ridicola farsa si riproduce ormai da anni in un continuo regolamento di conti tra partiti ed apparati e non ha niente a che fare con la pratica dei rivoluzionari.

A proposito delle montature dei servizi segreti

Un’altra questione che vogliamo affrontare riguarda il castello di falsità che ormai da anni viene costruito su di un compagno del nostro collettivo e su fantomatici rapporti con i servizi segreti.

Questo tipo di attacco trova origine anch’esso nella strategia controrivoluzionaria che fin dall’inizio della lotta armata la borghesia ha portato avanti in Italia, e nelle guerre interne tra apparati dello Stato.

Dalle operazioni finalizzate all’infiltrazione nelle BR e alla cattura di militanti, fino alla pianificazione di vere e proprie campagne di denigrazione costruite su singoli compagni per delegittimare l’intera esperienza di cui fanno parte.

In particolare, in questi ultimi anni, la controrivoluzione ha costruito un’operazione mass-mediata tendente a presentare il nostro compagno Giovanni Senzani come “uomo dei servizi segreti”.

A questo fine vengono tirati in ballo diversi episodi. Da quello completamente inventato dall’infame Buzzatti relativamente ad un incontro avvenuto ad Ancona tra il compagno ed un esponente dei servizi, alla falsa ricostruzione delle modalità e dei contenuti dei rapporti tra l’organizzazione e rivoluzionari di altri paesi, fino al cosiddetto “patto BR-servizi-camorra” intorno alla Campagna Cirillo.

L’inattendibilità di simili ricostruzioni, oltre che dalle innumerevoli e sconclusionate versioni che a seconda dei casi vengono presentate dai mass media, è dimostrata dalle stesse affermazioni contrastanti e pilotate dei traditori.

L’infame Buzzatti, ad esempio, nelle istruttorie e nei processi in cui di volta in volta ha parlato dell’incontro “misterioso” di Ancona “noto solo a lui”, ha individuato una prima volta un esponente del KGB, poi del SISMI, poi del SISDE per finire chissà perché col riconoscere improvvisamente, col passare dei mesi, il noto Musumeci! Chiacchiere a cui nessuno dei menzionati potrebbe mai fornire una qualsiasi base verificabile.

Anche nel processo-sceneggiata di Napoli sugli intrecci tra “servizi-camorra-apparati” al tempo della Campagna Cirillo e sulle invenzioni del giornale l’Unità – per fare un altro esempio – risulta palese la completa estraneità delle Brigate Rosse e di ogni singolo militante a quell’incredibile “balletto di Stato”.

Rispetto a tutto questo, a questo insieme di falsità, diciamo a chiare lettere che nelle BR, come nell’insieme della nostra esperienza, non sono mai esistite gestioni di rapporti politici a livello individuale. Ogni rapporto tra le BR e altri rivoluzionari è sempre stato frutto di decisioni politiche e responsabilità di strutture collettive di organizzazione.

Dentro questa dimensione di militanza rivoluzionaria non c’è posto per intrighi ed intrallazzi di alcun genere!

Non ci sono lati oscuri o “misteri” nella storia e nella pratica delle BR nel loro complesso e del PG in particolare: l’esperienza della lotta armata in Italia è patrimonio di tutto il movimento rivoluzionario, e in tutti questi anni, nonostante il grosso sforzo della controrivoluzione, nessuno ha potuto riscontrare alcun episodio concreto riguardante rapporti con servizi segreti italiani o di altri paesi, o con “faccendieri” di varie specie.

Questi sono solo alcuni elementi di chiarezza e di precisazione sulle non poche iniziative controrivoluzionarie della borghesia.

In realtà nessuno dà alcun credito a storielle ormai destituite di alcun senso, e l’uso che ne vien fatto sui media è semplicemente finalizzato ai bisogni della guerra psicologica contro le forze rivoluzionarie e i singoli comunisti; questa è ormai una dimensione stabile e continua di attacco a tutti i militanti delle organizzazioni rivoluzionarie in Europa.

Per noi comunisti, come singoli e come collettivo di prigionieri, i punti di riferimento sono sempre la classe e il movimento rivoluzionario. Il nostro è un processo di costruzione collettiva. E per i comunisti – insegna Che Guevara – conta il noi collettivo, in cui ogni singolo si riconosce e per cui combatte la borghesia, l’imperialismo e il suo sistema di valori.

Per tutto ciò, questa lettera non è una risposta ai messaggi borghesi e alle iniziative provocatorie di ex rivoluzionari e mestatori – il cui ruolo nell’amplificare le calunnie borghesi e nel farsene portatori però non mancheremo di denunciare sempre al movimento rivoluzionario – al contrario, vuole essere un momento di chiarezza per rinsaldare i legami di solidarietà di classe e per rafforzare l’unità dei rivoluzionari, che è il terreno politico fondamentale su cui oggi sono impegnati i comunisti e le forze rivoluzionarie.

La coscienza rivoluzionaria si rafforza in un processo di lotta-critica-trasformazione attraverso il contributo militante di ogni comunista nella battaglia contro l’ideologia borghese, contro le tendenze opportuniste, liquidazioniste e revisioniste presenti nella classe. Questa battaglia è parte inscindibile della lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo per l’emancipazione del proletariato.

Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta

Roma, luglio 1989

Carcere di Biella – Dichiarazione sull’azione contro Marco Biagi di Nicola De Maria, militante delle BR – Colonna Walter Alasia

Come militante prigioniero delle Brigate Rosse – Colonna Walter Alasia esprimo piena solidarietà con le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente e con l’attacco portato contro M. Biagi, consulente del Ministero del lavoro, artefice del piano di ristrutturazione del mercato del lavoro, parte integrante del progetto dello Stato teso a rimodellare le relazioni sociali e politiche a sostegno degli interessi generali della borghesia imperialista in questa congiuntura storica. Indicando così nello scontro di classe in atto nel nostro paese una prospettiva politica rivoluzionaria.

In questa fase storica i limiti del modo di produzione capitalistico si stanno mostrando in tutta la loro drammaticità; il capitale sta attraversando una profonda crisi economica sociale e politica.

Ancora una volta lo sviluppo delle forze produttive avviene a costo di profonde contraddizioni: la crescita dello sfruttamento di classe e la rapina del Sud del mondo sono l’unica via di uscita dalla crisi che il capitale possa prospettare.

Lo Stato imperialista si pone quale perno attorno a cui si ricompatta la classe dominante per affermare il suo interesse politico di classe.

Quale detentore del monopolio della forza e garante della riproduzione del rapporto capitalistico, lo Stato imperialista si scatena sia contro la classe sfruttata del Centro sia contro i popoli della Periferia; contro ogni manifestazione di resistenza al dominio capitalista.

La guerra imperialista per il controllo delle principali fonti di materie prime e a sostegno del profitto riempie lo scenario internazionale ormai da più di dieci anni. Di fronte alla resistenza dei popoli arabo-islamici, manifestatasi nel modo più incisivo con l’attacco dell’11 settembre agli Usa, di fronte ala determinazione dei combattenti palestinesi nella nuova intifadah, l’imperialismo ha esplicitato le sue intenzioni di guerra permanente contro questi popoli, aggredendo prima l’Afghanistan poi la Palestina e presto l’Irak.

Ma questa guerra è diretta anche contro ogni ripresa del movimento di classe, contro chi lotta e combatte contro il capitale e lo Stato imperialista, qui nel Centro. Le leggi di polizia varate in Europa ne sono l’esempio più evidente. La decisione presa dal governo italiano di applicare ai prigionieri rivoluzionari e antimperialisti il famigerato articolo 41 bis, ne è una articolazione conseguente. L’obiettivo in quest’ultimo caso è il tentativo di spezzare l’identità rivoluzionaria dei prigionieri. Obiettivo velleitario. Sarà piuttosto l’occasione per riaffermare un punto di vista chiaro contro il carcere imperialista a fianco dei prigionieri rivoluzionari, dopo anni di squallide campagne per la “soluzione politica”.

Questa crisi economica, sociale e politica del capitale, che si trascina da trent’anni e che oggi attraversa un momento così acuto, mostra con evidenza quanto la forma sociale dominata dal capitale, a fronte di forze produttive e ricchezza sociale prodotte in dimensioni che non hanno precedenti nella storia, sopravviva solo convivendo con la guerra e con un sempre maggior sfruttamento di classe. Si ripropone così nei fatti l’attualità di un suo superamento, di una forma sociale comunista, capace di valorizzare e mettere al servizio dello sviluppo dell’individuo sociale queste forze produttive e questa ricchezza. Merito delle BR-PCC è aver riproposto con forza, nel cuore dell’imperialismo, la questione della costruzione di una soggettività rivoluzionaria capace di dare una strategia adeguata al conseguimento di questo obiettivo epocale: la strategia della lotta armata.

 

Biella, 9 giugno 2002.

Nicola De Maria

Militante prigioniero delle Brigate Rosse – Colonna Walter Alasia

Riti di conservazione borghese. Milano: Processo di Appello Prima Linea – Documento di Giuseppe Bonicelli

Come sappiamo è la sfera politica che fagocita la sfera giuridica… pertanto è ovvio che qualsiasi processo borghese, benché a diversi gradi, è processo politico: sia esso interborghese, nella modificazione dei rapporti di potere (giudicando scandali, frodi, ecc.); sia esso processo all’antagonismo proletario e rivoluzionario. Mentre per i processi giuridici fatti a frazioni sociali borghesi il potere giuridico usa una «mano morbida», contro l’antagonismo proletario e comunista la «mano» è sempre pesantissima, cercando di seppellire con ergastoli e anni di galera tale antagonismo, con lo scopo di terrorizzare le lotte del proletariato metropolitano.

Dette queste cose scontate, si è rilevato che l’apparato politico-giuridico-militare borghese si è dovuto adeguare allo sviluppo veloce ed in accelerazione delle trasformazioni economiche imperialiste, sicché sono state fatte nuove leggi ma nel contempo contraddette costantemente da altre leggi, con un atteggiamento a dir poco schizofrenico da parte dello stato, rincorrendo le cosiddette emergenze sociali; date le contraddizioni laceranti e irreversibili di classe… Tuttavia le nuove forme giuridiche rafforzano la ferocia antiproletaria, essenza questa della sopravvivenza della logica sociale del plusvalore.

I processi borghesi all’antagonismo proletario hanno dunque lo scopo politico principale di distorcere i contenuti-significati della rivoluzione proletaria mediante la spettacolarizzazione del rito processuale; in secondo luogo di giudicare soprattutto i comportamenti attuali dei cosiddetti imputati e strumentalmente quelli trascorsi. L’esempio è di questi anni, in cui pene pesantissime sono state mutate in pene lievi, e viceversa, a seconda della prassi del cosiddetto imputato.

Questa sede è la riprova… Il sottoscritto è considerato l’imputato principale in base alla sentenza di I° grado, dacché egli non si è compatibilizzato e arreso alla logica politica di merce-scambio borghese, a prescindere se le dichiarazioni dell’infame Viscardi e soci sono tra loro contraddette completamente; ma così volevano Spataro e soci affinché non uscissi in scadenza termini, forse sperando di ricattarmi come sono riusciti a fare con molti individui, ora infami, dissociati, arresi.

La borghesia imperialista ha la presunzione di giudicare la rivoluzione proletaria.

Questa presunzione deriva dal fatto che essa ha potuto giudicare centinaia di ex compagni, ora traditori. È sì vero che molti di costoro si sono persi proprio in questi processi, accettando il ruolo di imputato, risocializzandosi al sistema e diventando infami, legittimando così la borghesia nell’affermare che gli scopi della rivoluzione proletaria possono essere scomunicati da coloro che li hanno praticati e pertanto giudicabili… tuttavia, con buona pace di tutti i servi, vecchi e nuovi, dello stato, la rivoluzione proletaria comunista non è giudicabile!!

Infatti sono proprio le contraddizioni insite nel modo di produzione sociale imperialista che producono antagonismo e guerriglie comuniste nel globo, a prescindere dai nostri limiti di chiarezza…

La borghesia imperialista può assorbire finché vuole tutti gli ex-rivoluzionari, arresi, infami, dissociati, dilazionando il processo di disgregazione sociale teso alla sua distruzione in quanto formazione sociale determinata storicamente; ma mai potrà distruggere l’antagonismo radicale delle sue contraddizioni sociali e mai, dunque, potrà chiudere il conto con la rivoluzione proletaria comunista; anzi è vero il contrario…

Questi processi giuridici hanno pertanto notevole importanza per lo stato, nonostante la stupida ripetitività, perché tendono a distruggere la comunicazione dei contenuti, memoria-esperienza-sapere rivoluzionario comunista nei vari stadi di sviluppo storico della lotta di classe, contribuendo a dilazionare appunto la riproduzione borghese.

La borghesia imperialista italiana ha operato una ulteriore integrazione dei suoi apparati repressivi antiproletari e conseguentemente anche il corpo prigioniero ha avuto la sua reazione…

Il comportamento-prassi processuale è connesso alle misure di detenzione successive e, viceversa, il comportamento-prassi nel carcere è connesso alle pene da infliggere al processo.

 

Così è sempre stato nella sostanza borghese, ma ora questa integrazione viene rafforzata e formalizzata con l’aiuto della legge infame denominata Gozzini: sulla sorveglianza individualizzata-differenziata, connessa ai molteplici comportamenti, compresi appunto quelli processuali, dentro la generale norma borghese che attraversa l’intera società: ricatto, paura, annientamento; rivolta essa all’antagonismo proletario e rivoluzionario e che nel carcere vive specificamente nella, anch’essa generale, «forbice» premio-punizione di cui abbiamo sovente parlato.

Non si scopre certo oggi il tentativo di distruggere l’identità rivoluzionaria comunista e proletaria nelle galere imperialiste, con metodi di tortura più sottili e nuovi, dati dallo sviluppo delle scienze oppressive della classe borghese, ovviamente integrati a quelli tradizionali… Il problema sta quindi nel capire ed affrontare adeguatamente i processi di frammentazione-divisione, ecc. che il ministero di Grazia e Giustizia opera costantemente, facilitato dalla ristrutturazione fatta in questi anni e dalla debolezza del proletariato prigioniero in questa fase: costruendo molti braccetti di isolamento e/o costruendo composizioni di prigionieri entro cui l’antagonismo proletario e rivoluzionario sia reso minoritario e tenda ad essere soffocato ed annientato dall’opportunismo e dal riformismo, predominanti in queste composizioni e in questa fase…

Il problema dei proletari-compagni in galera è complesso da affrontare e non sono certo due righe che lo rendono più chiaro; ma sappiamo che esso, per essere risolto, non può essere scisso dalla lotta di classe e dalla guerriglia comunista nelle metropoli, e l’internità di noi compagni e proletari a questi movimenti di classe internazionali e non, non dev’essere pedissequa, bensì attiva, consci delle difficoltà a contribuire nel ricostruire contenuti e tessuto organizzativo proletario comunista in questa fase in cui la borghesia italiana è all’attacco.

La nostra lotta non ha nulla in comune con le nuove (?) tesi amnistiali che taluni individui portano avanti in questo periodo in galera e fuori e che da anni incancreniscono il corpo prigioniero comunista. A tal proposito ritengo giusto spendere due righe sulla cosiddetta liberazione di tutti i prigionieri politici mediante una soluzione politica amnistiale…

I sostenitori di tale tesi affermano che solo la libertà, senza condizioni e differenziazioni da parte borghese, di tutti i prigionieri politici, può veramente concludere un ciclo di lotta, «giungere alla liberazione degli anni ’70 liberando i prigionieri senza richiedere loro abiure o giuramenti, e senza discriminare tra loro i “buoni“ dai “cattivi“; riaprire agli esuli le frontiere; disinnescare le infinite trappole legislative che in molti modi minacciano decine di migliaia di compagni…» (il manifesto del 5/4/87).

Costoro vogliono la liberazione dei «compagni», senza condizioni e differenziazioni giuridiche, non tenendo conto, consapevolmente, che le loro richieste sono anch’esse produttrici di differenziazione dato che chiedono soltanto la liberazione dei «compagni» e non di tutto il proletariato prigioniero.. È questa la famosa memoria che vorrebbero conservare e non dare in pasto alla borghesia?!

Dimenticano forse che la società kapitalistica si basa sulla differenziazione, divisione del lavoro-sapere-potere, ossia in classi, per perpetuarsi?

Se l’amnistia politica ai prigionieri è stata data dai regimi democratici borghesi, è stata data quasi sempre nei cambiamenti di regime: una dittatura borghese sostituita da una democrazia borghese… Per giunta quest’ultima, quando non è subentrata ad una dittatura è sempre stata attenta a che i liberati fossero in maggioranza conciliabili ad essa, nelle rare occasioni di amnistie politiche concesse. Pertanto le amnistie tendono sempre più ad essere discriminanti e sempre meno generalizzabili…

Costoro dicono che bisogna «…prendere atto della irripetibilità della esperienza compiuta…», chiaramente in riferimento alla lotta armata e alla lotta di classe degli anni ’70; anche qui dimenticando volutamente che la dialettica materialista analizza i molteplici aspetti della realtà sociale senza appiattimenti; sicché se è vero che eravamo inadeguati per molti aspetti e contenuti in senso rivoluzionario comunista, è altrettanto certo che per distruggere questa formazione sociale non è sufficiente una rivoluzione culturale, contrapponendola subdolamente a quella armata… bensì una connessione necessaria tra critica delle armi e armi della critica; sempre in senso comunista.

Costoro dovrebbero insegnarci che la dialettica materialista è contemporaneamente conservazione-evoluzione-rivoluzione (a prescindere dalla loro dominanza…), intendendo per conservazione quelle leggi generali che si conservano, ad esempio, nella riproduzione della vita, al di là del modo di produzione sociale determinato storicamente. E, nel movimento rivoluzionario comunista, ad esempio, sappiamo che la violenza e la guerra di classe sono leggi generali necessarie e ben conservate che, pur cambiando modi e forme qualitative, dato il processo di sviluppo-crisi storica del capitale, esse esistono finché esisterà l’ultima società divisa in classi: quella borghese.

A questo punto chiediamo, noi poveri proletari-comunisti di basso rango e sapere, che costoro ci illuminino: qual è il percorso che ci porta alla liberazione di tutti i «compagni» prigionieri senza intaccare la nostra identità rivoluzionaria, e quali sono i soggetti sociali che ci aiuteranno a raggiungere tale scopo?

Se l’amnistia si raggiunge coi movimenti antagonisti, non capiamo perché ci si dovrebbe accontentare di essa se i rapporti di forza sono favorevoli alla rivoluzione proletaria per affossare la borghesia e liberare tutto il proletariato… Ma non erano taluni di questi individui che affermavano correttamente che, tra borghesia imperialista e proletariato metropolitano non vi può essere mediazione alcuna di interessi, ma soltanto guerra sociale totale fino all’estinzione delle classi? Costoro inoltre dovrebbero spiegarci qual è la cosiddetta «sinistra di classe». In più, se ci riferiamo alla classe proletaria rivoluzionaria in Italia in questa fase, siamo in grado di dettare ben poche condizioni allo stato, dovendo ricostruire su basi nuove e internazionaliste un tessuto rivoluzionario e antagonista disgregatosi sotto i colpi della ristrutturazione borghese di questi ultimi anni, e pare dunque ridicolo, nonché stupido e arrogante, coi rapporti di forza attuali, pretendere che il sistema borghese metta fuori i prigionieri «compagni» con una amnistia generale. A meno che (?) questi cosiddetti «compagni» vogliano arrendersi e risocializzarsi alla borghesia (non ci vuole grande perspicacia nel capire che queste tesi portano a questo fine), chiedano ad essa la possibilità di mantenersi «dignitosi» formalmente (sic!) nei confronti del proletariato metropolitano, nel sedimentare in esso teoria-prassi di pacificazione e disfattismo…

Si svela così, senza ambiguità, il concetto di «sinistra di classe» cioè che comprenda un arco istituzionale borghese; il che, banalizzando, significa che costoro non credono certo nei rapporti di forza proletari e rivoluzionari armati, bensì in rapporti di forza interclassisti, sperando di buggerare la buona fede di molti proletari, sostenendo che la guerra è finita, aiutati in questo lavoro infame dai messaggi stereotipati dei mass-media.

Da quanto scritto sinora è conseguente il mio rifiuto a qualsiasi ruolo di imputato, a qualsiasi accettazione di un rapporto-dialogo con questa corte che rappresenta lo stato borghese; non riconosco nessun avvocato difensore d’ufficio poiché la rivoluzione proletaria non si processa.

A infami, dissociati, traditori, diciamo che la guerra di classe per il comunismo nel globo non è finita, e per buona pace loro non può finire, e lavoreremo affinché essa li raggiunga al più presto! Essa non è riducibile ad una battaglia perduta, essa irride e si fa beffe delle molteplici battaglie perdute nella storia, alimentandosi di nuovo sapere rivoluzionario mediante nuove guerre e battaglie, siano esse tatticamente perdenti o vincenti; terrorizzando i sogni borghesi sempre più spettrali, dato l’avvicinarsi progressivo del salto epocale al comunismo, che si staglia sempre più chiaramente all’orizzonte…

Nolenti o volenti, la transizione comunista è l’unica prospettiva necessaria in quest’epoca a kapitalismo incancrenito, per un reale salto nella storia umana di emancipazione senza classi; viceversa è solo barbarie e autodistruzione che la logica feticcia del plusvalore corrobora progressivamente e inarrestabilmente…

 

Bonicelli Giuseppe

 

Milano, 4 maggio 1987

Quale superamento? Un’altra voce dal processo della Unione dei Comunisti Combattenti. Documento di Alessandra Di Pace, Gianfranca Lupi, Roberto Simoni, Francesco Tolino

L’esperienza del comunismo combattente, comunque la si voglia considerare, obbliga necessariamente a una attenzione nuova alle forme politiche dello sviluppo capitalista. Una esperienza storica autentica che ha colto e contribuito a mettere in luce le determinazioni storiche particolari assunte dallo stato borghese contemporaneo.

Contrariamente a tutte le formazioni politiche della sinistra rivoluzionaria, che nel corso di questi ultimi 20 anni hanno “sorvolato” la fondamentale questione dello stato, relegandola nel terreno delle tensioni ideali, affidando di fatto la capacità politico-pratica di organizzare la lotta rivoluzionaria contro lo stato al moto spontaneo del movimento di classe, il comunismo combattente ha subito individuato il campo reale degli interessi politici generali tra le classi, imponendo contro lo stato le esigenze del proletariato, affermando con i mezzi adatti, in modo diretto e concreto, la “questione dello stato e della rivoluzione” in un paese a capitalismo maturo come il nostro. Non è questa la sede, né nostra intenzione, affrontare in modo esauriente un tema politico e storico di tali dimensioni. Ci limitiamo pertanto ad indicare alcune caratteristiche generali, in modo sommario e “necessariamente” schematico, ma altrettanto indicative dell’apporto delle BR alla storia e all’esperienza del movimento operaio contemporaneo.

Con lo sviluppo monopolistico sono venute meno le forme di mediazione e di espressione politica dello stato liberale. L’ordinamento politico-istituzionale si è ricostituito, in un certo senso “ripoliticizzato”, sui livelli più alti di centralizzazione del capitale imperialista, sviluppando complessi e articolati interventi in tutti i campi della vita nazionale.

Negli ultimi 60 anni c’è stato un proliferare di nuovi istituti statali – banche centrali, politiche monetarie ed economiche, istituti assistenziali e di previdenza, interventi nei conflitti di lavoro, ecc. – la cui funzione è diretta: da un lato a frenare gli squilibri economici insiti nel modo di produzione capitalista; dall’altro lato ad agire come una sorta di “ammortizzatori” delle tensioni sociali. Nella fase del capitalismo monopolista ha preso forma una gigantesca sovrastruttura che concentra la sua forza politica e ha modificato il terreno stesso della lotta tra le classi, in quanto, intervenendo decisamente sulle contraddizioni sociali, agisce direttamente sulla vita politica delle masse proletarie con maggior forza ed incisività che nel passato.

Se in economia gli interventi “disciplinatori” dello stato hanno come effetto a lunga scadenza di rendere ancora più caotico il modo di produzione e degli scambi, in campo sociale e politico stendono una specie di “rete protettiva” che avvolge le masse, cercando di paralizzare materialmente ed ideologicamente ogni rappresentanza politica indipendente. L’imperialismo senescente dei nostri giorni non si accontenta più dello “stato gendarme” che conduceva i suoi interventi repressivi dal di fuori, cerca ora di sviare ed immobilizzare il movimento di classe agendo dall’interno ed esercitando, per mezzo di forme dirette di intervento politico ed un uso più articolato della forza militare, una pressione continua e profonda per ostacolare e disorganizzare lo sviluppo rivoluzionario.

Come è noto, questa forma più elaborata del dominio della borghesia si è materializzata nel conflitto di classe degli ultimi 20 anni nella cosiddetta “strategia della tensione”. Dalle bombe di Piazza Fontana in poi, le stragi di stato hanno costituito, con la loro scia di sangue e orrore, l’atteggiamento politico costante e puntuale della classe dominante nei confronti delle richieste di cambiamento sociale avanzate dal proletariato. Parallelamente a questa dura offensiva militare, troppo nota per ripercorrerne qui le varie fasi, l’intervento statale si è snodato lungo un asse che mirava a diluire lo slancio rivendicativo e rivoluzionario delle masse in logiche politiche neocorporative, in schemi interclassisti, in patti sociali di “solidarietà nazionale”, ecc. Anche questi passaggi sono noti, come noto è stato il collaborazionismo dei vertici sindacali e del PCI. Ciò che ci interessa puntualizzare, isolandoli, sono questi due aspetti dell’intervento statale che riassumiamo sinteticamente nello stragismo e nel neocorporativismo. Entrambi caratterizzano e danno forma al nuovo rapporto qualitativo tra stato borghese e proletariato. Entrambi rivelano caratteristiche nuove fondamentali, peculiarità concrete che mettono a fuoco il compiuto passaggio del ruolo dello stato, da comitato di difesa degli interessi della classe dominante, secondo i compiti tradizionali del liberalismo, a quello di un ruolo nettamente e decisamente offensivo, che mira cioè non solo alla difesa o alla amministrazione degli affari della borghesia, ma a una gestione offensiva delle contraddizioni sociali.

La storia degli anni ’70 ha messo a nudo, sotto gli occhi di tutti, le forme moderne della dittatura borghese, che proteggono la sua conservazione. Una combinazione di metodi politici che riaffermava la natura inconciliabile dell’antagonismo tra borghesia e proletariato e paralizzava nello stesso tempo i gruppi e i partiti della sinistra rivoluzionaria, incapaci di elaborare risposte globali in grado di sostenere la durezza e la complessità delle nuove condizioni della lotta di classe, di rilanciare la rivoluzione nel nuovo contesto dei rapporti tra le classi.

È in questo contesto che nacque l’opzione dell’unità del politico-militare, come necessità storicamente determinata dall’evoluzione dei rapporti politici tra le classi e delle istituzioni della società italiana. Una scelta nata dalle tendenze di fondo di quest’ultima e dalla necessità di interpretare l’aspirazione socialista delle masse nelle mutate condizioni del conflitto politico e sociale.

È evidente allora, anche sulla base di queste brevi affermazioni, che l’indicazione di trasportare l’“esperienza brigatista sul terreno aperto, politico e di massa” e dell’individuazione del terreno concreto di incontro tra questa esperienza e la “sinistra di classe” nella proposta dell’amnistia, equivale al tentativo di ridurre la lotta armata da nodo strategico della rivoluzione italiana a un problema di equilibrio politico all’interno di un ipotetico “blocco sociale anticapitalista”. Una manovra di trasformismo politico che cancella il “nocciolo razionale” dell’esperienza generale degli ultimi 20 anni di lotta rivoluzionaria; che sposta l’asse dell’intervento comunista dal terreno del rapporto politico generale fra le classi, dalla questione centrale del potere, a quello di presenza virtuale all’interno di un potenziale spazio a sinistra del PCI, una sorta di polo di aggregazione, di contenitore di bisogni e di malcontento senza possibilità concrete di trasformarli in una strategia politica.

La grande conquista dell’esperienza delle BR è quella di aver ridato alla prospettiva rivoluzionaria una dinamica storica effettiva. La questione del socialismo ha riacquistato corpo, uscendo dalla nebbia “ideale” in cui era stata confinata, si è attualizzata. Non certo come sinonimo di realizzazione immediata (come spesso è stata intesa in passato – la rivoluzione dietro l’angolo non c’è mai stata -) ma come rappresentazione storico dialettica. È innegabile che negli anni ’80 c’è stato un ridimensionamento importante delle conquiste di agibilità politica nel proletariato e del peso esercitato dall’avanguardia comunista. Ma nessuna prassi diretta al cambiamento dell’attuale stato di cose presenti può affermarsi se non valorizzando effettivamente l’esperienza da cui nasce in soluzione di continuità. E l’ottica trasformista, nei fatti, opera una svolta netta, radicale, che ne revisiona, annullandolo, il significato storico, politico/sociale.

È decisivo comprendere, soprattutto in questa congiuntura di debolezza del movimento rivoluzionario, che i termini del conflitto fra le classi vengono definiti dai livelli di “politicizzazione” dell’imperialismo. È il corso oggettivo storico del capitalismo, delle sue tendenze di fondo, che determinano e fanno emergere le caratteristiche delle forme e dei metodi della lotta comunista.

Bisogna considerare le tendenze strutturali, storiche e congiunturali che agiscono a livello economico e politico/istituzionale. Il capitalismo italiano è entrato, in questi anni, in una “nuova” fase, ha subito ed imposto “trasformazioni” profonde. Il nostro paese si è trasformato da paese importatore a paese esportatore di capitali. Una tendenza economica e politica di grandi dimensioni; nel 1988 i capitali italiani hanno assunto il controllo di ben 132 imprese estere, che si aggiungono alle 163 del periodo ’86/87. È interessante notare inoltre che questo nuovo orientamento è diretto alla conquista di mercati nei paesi a capitalismo avanzato e più precisamente di attività produttive ad alta e altissima composizione di capitali.

In sintesi, alla classica direttrice espansionista dell’imperialismo italiano, rivolta verso lo sfruttamento dei paesi sottosviluppati e/o in via di sviluppo dell’area mediterranea o a quello di più recente penetrazione in America Latina, si è aggiunta l’espansione, attraverso l’acquisizione di attività produttive e finanziarie, nell’area dell’Europa Occidentale, diventata il principale mercato per l’esportazione di capitali italiani.

Un autentico salto qualitativo che si è materializzato con la presenza, alla fine del ’87, di 326 imprese a partecipazione italiana nell’area CEE.

La grande importanza acquisita in questi anni dall’esportazione di capitali in confronto all’esportazione di merci, è uno dei principali contrassegni dello sviluppo delle tendenze imperialiste del capitale italiano.

Una tendenza che, accelerata dalle contraddizioni aperte dalla crisi nella metà degli anni ’70, alimenta un clima già carico di tensioni autoritarie, favorendo il processo di verticalizzazione del potere politico. L’esportazione di capitali, infatti, rivolgendosi esclusivamente verso l’acquisizione di attività lavorative e finanziarie già esistenti, ha accelerato i processi di centralizzazione, attraverso nuove alleanze, fusioni, ecc.. Una dinamica che, imposta dalla saturazione dei mercati, dalla sovraproduzione di capitali, ha inasprito i processi di concentrazione monopolistica. L’espansione all’estero non ha comportato un processo di ampliamento “democratico” della classe dirigente, al contrario si è materializzata in un processo selettivo della stessa.

Olivetti, FIAT, Pirelli ed ENI controllano da soli circa l’80% del fatturato complessivo delle imprese estere a partecipazione italiana. Negli anni ’80 si sono sviluppate manovre finanziarie, politiche economiche e, soprattutto, interventi autoritari del governo nei conflitti di lavoro. La borghesia imperialista cammina a lunghi passi verso l’integrazione nella CEE e l’accresimento del suo ruolo di protagonista nello scenario internazionale.

Un’andatura che può mantenere solo a patto di comprimere i salari e la spesa pubblica, solo a patto di imporre una rigida disciplina sociale all’interno del paese.

Espansione all’estero e centralizzazione del potere politico all’interno è il binomio da cui si sviluppano i progetti centrali dell’offensiva statale contro il proletariato. Progetti che tendono a “ripoliticizzare” con un atteggiamento più favorevole alla frazione di borghesia “esportatrice di capitali” le relazioni tra i partiti e lo stato, tra istituzioni ed esecutivo. E nello stesso tempo, a “spoliticizzare” l’antagonismo proletario con l’attacco al diritto di sciopero, con nuove relazioni industriali e in generale con la criminalizzazione e delegittimazione delle lotte operaie.

Un programma complesso e articolato di rifunzionalizzazione dello stato, in una prospettiva antiproletaria, in cui confluisce, accanto alle tendenze conservatrici tradizionali, la tendenza allo “stato forte”, rappresentata da una classe dominante che si è formata sui termini politico/militari dello scontro degli anni ’70: sui grandi licenziamenti di massa, sulle trame costanti dello stragismo e dell’offensiva armata antiproletaria di questi anni.

In questo contesto, in cui la direzione dell’economia e della politica tende a centralizzarsi ulteriormente e più capillare e profondo diventa l’intervento dello stato sulla società, ogni ipotesi di trasformazione, ogni processo di aggregazione delle aspirazioni al cambio radicale, è strettamente legato alla capacità di condurre un lavoro deciso di orientazione teorica, politica e pratica, in grado di rilanciare in modo sistematico e continuo la lotta contro lo stato – espressione concreta della dominazione di una classe – e contro una gerarchia civile e militare, educata ad agire senza “remore legali”, formata e selezionata dalla lotta al socialismo di questi anni. Si comprende allora che “il ricatto emergenziale” che il governo fa pesare nei confronti dei movimenti di massa e rivendicativi è l’effetto concreto del decadimento della democrazia parlamentare borghese. È la necessità stessa di continuare a sviluppare le forze produttive ed a evitare che esse rompano l’equilibrio dei suoi ordinamenti, che spinge il capitale, pervenuto a questo stadio, a rinunciare ai metodi democratici, costringendolo a condurre processi di concentrazione sempre più spinti, tanto del suo dominio politico, quanto di uno stretto controllo della vita economica.

È un ricatto, per così dire, storico, che fa parte delle nuove discipline che la borghesia è costretta e tenta di imporre al proletariato.

 

Di fronte a ciò è veramente una “pia illusione” pensare di poter “disarmare” le politiche repressive dello stato contrapponendogli una “lotta per l’amnistia”, (nota 1) una lotta “in grado di far sorgere una visione e una tendenza di classe progressista, che sappia bloccare le tendenze alla criminalizzazione”.

Questa posizione, in realtà, disarma ideologicamente, politicamente, organizzativamente il proletariato e la sua avanguardia. Per il processo rivoluzionario in Italia, in effetti, non si pone più la necessità tattica di lottare per ricondurre il capitalismo alle forme liberali e democratiche, non è più possibile inserire la lotta per il socialismo nel campo della legalità istituzionale. La ragione di questo “oltrepassamento” risiede nel fatto che la conservazione e “l’incremento” del capitalismo monopolistico di stato si può attuare solo con la massima centralizzazione, con un accentramento dei poteri decisionali sempre più marcato. L’essenza della cosiddetta prassi emergenziale è legata a una fase e a uno sviluppo di classe determinato che non può semplicemente essere ricondotto a un inasprimento transitorio dei metodi politici, giuridici, legislativi, polizieschi, ecc., dal quale si possa ritornare al garantismo democratico.

La forma della democrazia borghese ha esaurito la sua funzione politica e oggi non può essere altro che l’espressione concreta della reazione. Oggi più che mai, l’alternativa è rappresentata dal socialismo e il proletariato, protagonista del cambio radicale dell’ordinamento economico, politico, sociale, non può attuare questa opera di trasformazione con mezzi legali.

Nell’attuale fase imperialista, la tattica comunista non prevede più la creazione di fronti o “blocchi progressisti”. La prassi comunista non può escludere la possibilità di organizzare, insieme agli interessi della classe operaia, anche quelle aspirazioni progressiste che provengono da strati sociali piccolo borghesi o da frange in via di proletarizzazione. Ma ciò non significa ricadere in politiche “frontiste”; ciò che è necessario, indispensabile e nodo centrale dell’attività comunista, è l’esistenza di un forte e organizzato centro marxista, rappresentanza politica autorevole, che sia in grado di tirarsi dietro e dirigere la folla eterogenea dei soggetti antagonisti.

Il grandissimo valore storico della lotta comunista di questi anni è quello di avere “restituito” al proletariato la capacità politico-pratica di organizzare la lotta rivoluzionaria contro lo stato. E una parte dell’esperienza del comunismo combattente del periodo ’84/87 si sviluppò dalla necessità di salvaguardare questo valore storico e, nello stesso tempo, di battere definitivamente, nella teoria e nella pratica, le orientazioni soggettiviste che furono controproducenti alla potenzialità della lotta armata.

Ripercorrere la creazione di un “blocco sociale anticapitalista”, un “fronte del progresso” è, tra le altre cose, riproporre il volontarismo soggettivista, il profilo eclettico, il lato più debole e più criticabile dell’esperienza di questi anni e, al contempo, liquidare completamente tutte le sue conquiste e gli indiscutibili meriti storici.

La priorità, oggi, è quella di lavorare alla conservazione-costruzione dell’identità comunista, un lavoro di lunga lena, in cui è più che mai necessaria una ferma linea di autonomia e di tenuta, lontana tanto dal politicantismo, virtuale o reale, quanto dal facile ed inconcludente estremismo.

Siamo consapevoli che per fare la politica rivoluzionaria – l’attività cosciente e organizzata che guida il proletariato nel cammino verso la sua liberazione – non bastano le dichiarazioni di principio. E siamo coscienti delle peculiarità che contraddistinguono questa fase. Non siamo, per capirci, quelli che dicono: «Qui non è successo niente». L’arretramento della lotta comunista è un fatto reale, che ha toccato il punto di massimo riflusso a tutti i livelli in 20 anni di opposizione rivoluzionaria in Italia.

Una situazione certamente prodottasi a causa di una serie di circostanze oggettive, da un quadro economico e sociale di relativa stabilità ma anche e in maniera determinante da limiti soggettivi, debolezze politiche delle forze comuniste. È fuori di dubbio che si è chiuso un ciclo, la fase iniziale del processo rivoluzionario nel nostro paese. Un serio bilancio si impone, la sistematizzazione degli errori da correggere e degli elementi da valorizzare, su basi più solide e sviluppate, nel prosieguo dell’attività comunista.

C’è un “vuoto di rilievo” nella storia di questi anni, del quale si avvertì l’assenza, “prepotentemente”, già alla fine della Campagna di Primavera. C’è molto da dire a questo proposito ma la lezione fondamentale che si può tirare in senso rivoluzionario è che lo slancio ricostruttivo e unitario dei comunisti deve puntare a colmare questo vuoto, deve essere diretto alla definizione dell’organo politico legittimato a rappresentare e a dirigere l’insieme dell’opposizione di classe. Questo lavoro di ricostruzione porta con sé nuove esigenze, una nuova mentalità politica, imparando a muoversi in modo molto più “ampio” di quanto non sia stato fatto finora, per linee interne alla frazione più avanzata del proletariato, in effettiva continuità con l’esperienza rivoluzionaria fin qui compiuta.

Alessandra Di Pace, Gianfranca Lupi, Roberto Simoni, Francesco Tolino

Giugno 1989

 

Note

1 La questione dei prigionieri politici, aspetto peculiare dello scontro storico proletariato/borghesia, è sicuramente una questione che va affrontata con la massima concretezza e serietà; e la lotta per la loro liberazione e per le condizioni di vita nelle prigioni è sempre stata e sarà parte integrante del movimento comunista e rivoluzionario internazionale. Ma questo non può significare liquidare il patrimonio politico (base dell’esistenza dei prigionieri politici e da questi rappresentato) né compiere tatticismi trasformisti che, prima ancora che dalle valutazioni politiche, sono sconfitti dagli stessi equilibri in campo.