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Unità nella lotta antimperialista. Processo di Roma – Comunicato dei militanti delle BR-PCC Cappello Maria, Grilli Enzo, Grilli Franco, Lori Flavio, Marini Fausto, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio e dei militanti rivoluzionari: Bencini Daniele, Prudente Cesare, Pulcini Carlo, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco letto in aula e allegato agli atti

Le Brigate Rosse per il Partito Comunista Combattente ribadiscono la centralità dell’attacco allo Stato, alle sue politiche dominanti che lo oppongono alla classe, poiché il piano classe/Stato è il binario principale su cui si costruiscono i termini della guerra di classe.

Per i comunisti la questione dello Stato è prioritaria nel definire la conduzione dello scontro, a maggior ragione per la funzione che rivestono gli Stati in questa fase dell’imperialismo; quindi l’attacco al cuore dello Stato fino al suo abbattimento costituisce il primo elemento programmatico delle Brigate Rosse e oggi si materializza nella parola d’ordine dell’attacco al progetto controrivoluzionario e antiproletario demitiano.

In unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato vive l’attacco all’imperialismo, che oggi per le Brigate Rosse si concretizza con il contributo alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista. L’attacco all’imperialismo, nelle sue politiche centrali, in una politica di Fronte, è cioè l’altro asse programmatico su cui s’impernia l’attività rivoluzionaria delle Brigate Rosse, asse che ha assunto un peso rilevante con l’approfondirsi della crisi del modo di produzione capitalistico in questa fase dell’imperialismo, crisi che comporta l’adozione di misure concertate da parte di tutti i paesi e in primo luogo gli USA, sul piano economico/politico/diplomatico/militare, sia a livello interno che internazionale. Si è reso cioè evidente che, stante l’attuale livello di integrazione/interdipendenza delle economie dei paesi della catena imperialista ed i conseguenti livelli di coesione politico/militare, è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area per realizzare un processo rivoluzionario, sia che si tratti di rivoluzione socialista, sia che si tratti di liberazione nazionale. In questo senso cioè, il consolidamento della politica di Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria.

Per le Brigate Rosse, la tematica dell’antimperialismo deve imperniarsi intorno allo sviluppo di politiche di alleanza con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo in quest’area geopolitica (europea, mediorientale, mediterranea) alfine di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo. Più precisamente, si tratta di lavorare a concretizzare, in successivi momenti di unità, l’attacco all’imperialismo all’interno del criterio politico secondo cui l’attività del Fronte non deve essere impedita dalle peculiarità d’analisi e di concezione politica delle diverse forze rivoluzionarie che vi lavorano, né tantomeno discriminare l’attività del Fronte come unica attività rivoluzionaria, ma deve stringere l’unità realizzabile nell’attacco pratico.

Per questo affermiamo insieme alla RAF che non si tratta di fondere ciascuna Organizzazione in un’unica organizzazione, ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo.

Il Contributo della RAF e delle BR al Fronte dimostra come le differenze storiche e di percorso, non possono e non devono costituire un ostacolo al praticare una effettiva politica di alleanza, un contributo questo che costituisce al tempo stesso un salto in avanti nella costruzione del Fronte, perché si inserisce nella necessità di superare il primo periodo sostanzialmente di propaganda della necessità del Fronte stesso, misurandosi invece con la definizione più precisa della sua proposta politica, uscendo così dalle secche del genericismo.

L’approdo al testo comune RAF-BR, e soprattutto l’attività che lo sostanzia, sancisce questo salto di qualità e determina il primo passaggio dell’offensiva comune contro le politiche di coesione dell’Europa Occidentale all’interno dell’interesse generale della catena imperialista, concretizzatasi con l’attacco a Tietmeyr, sottosegretario alle finanze della RFT e uomo chiave delle decisioni politiche e degli indirizzi economici concertati. Un’offensiva destinata a toccare i punti chiave delle politiche di coesione che si esprimono sul piano economico/politico/diplomatico e controrivoluzionario.

La chiarezza degli obiettivi, il realismo politico nell’impostazione della politica di Fronte ne determinano la valenza, che va oltre l’unità immediata raggiunta, perché apre la prospettiva politica dello sviluppo del Fronte sull’attacco all’imperialismo, non solo tra le forze europee, ma con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area, avvicinando concretamente l’unità che già esiste oggettivamente tra le lotte nel centro imperialista e i movimenti di liberazione nella periferia.

Sono le politiche di coesione tese a compattare i paesi dell’Europa Occidentale all’interno degli interessi del blocco, il cuore dei progetti centrali dell’imperialismo, i quali si dispiegano su tre fronti principali.

Il piano delle politiche economiche: attraverso la concertazione delle politiche economiche di supporto alla crisi (nonché di sostegno alla formazione monopolistica e al movimento finanziario) tra cui assume sempre maggiore importanza, specialmente negli USA, la politica di riarmo, in cui anche l’ambito europeo è centralizzato in sede NATO da organismi preposti allo scopo.

Il piano politico diplomatico: costituisce l’aspetto principale della coesione politica dell’Europa Occidentale. In questa fase, ha la funzione di ricucire/sancire le forzature militari operate dagli USA nella fase precedente (anche allo scopo di indirizzare gli alleati a tale compattamento). Un piano, quindi, complementare e non alternativo ai bombardamenti e agli atti terroristici statunitensi e sionisti, finalizzato a «normalizzare» l’area mediorientale con iniziative di supporto e ricucitura al piano Schultz/Shamir, sulla pelle dei popoli libanese e palestinese. In questo quadro rientra anche la proposta CEE del «Piano Marshall» per il Medio Oriente, in cui Israele dovrebbe assumere un ruolo meno compromesso, dalla sua attività terroristica e di polizia finora svolta negli interessi dell’imperialismo occidentale. Un complesso di fattori tesi in ultima istanza, a rideterminare posizioni di forza e di vantaggio per l’imperialismo occidentale, all’interno degli equilibri Est/Ovest.

Il piano controrivoluzionario: è teso principalmente contro l’attività antimperialista del Fronte delle forze rivoluzionarie che combattono contro l’imperialismo. Non si tratta però solo di repressione internazionale concertata, ma si avvale dei progetti politici mirati a contrastare la guerriglia. All’interno di ciò vanno inquadrati i progetti di «soluzione politica» per la guerriglia, che con sfumature diverse, sono presenti in Italia, Germania Occidentale, Spagna.

Sulle parole d’ordine dell’attacco al progetto demitiano e della costruzione delle alleanze nel Fronte Combattente Antimperialista contro le politiche di coesione dell’Europa Occidentale, le Brigate Rosse per il Partito Comunista Combattente lavorano a ricostruire i termini politici e militari dell’andamento della guerra di classe, che in questa fase rivoluzionaria si concretizzano in una conduzione dello scontro tesa a ricostruire le forze rivoluzionarie e proletarie e gli strumenti politico organizzativi per sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato.

Su questi termini programmatici le Brigate Rosse per il Partito Comunista Combattente lavorano alla parola d’ordine dell’unità dei comunisti.

 

Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti!

 

I militanti delle BR-PCC: Cappello Maria, Grilli Enzo, Grilli Franco, Lori Flavio, Marini Fausto, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio. I militanti rivoluzionari: Bencini Daniele, Prudente Cesare, Pulcini Carlo, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco

 

Roma, 13 ottobre 1988

Dichiarazione di Mario Mereu e Pietro Coccone

Ciò che sostanzialmente distingue questo processo da tutti quelli che lo stato ha celebrato fino ad oggi contro i militanti rivoluzionari e della guerriglia è il suo carattere dichiaratamente politico.

Per la prima volta da quando la lotta armata ha fatto la sua comparsa in questo paese la borghesia si costringe a riconoscere la valenza politica e sociale del processo rivoluzionario sviluppatosi all’inizio degli anni ’70.

E il fatto che questo “riconoscimento” arrivi all’apice di una restaurazione complessiva della società che è anche politica e culturale, proprio quando la lotta armata in Italia, riflettendo le difficoltà attuali di tutto il movimento di classe, conosce una fase difficilissima di recupero politico ed operativo, non contraddice il senso e la funzionalità dell’operazione.

Sono questi rapporti di forza, infatti, questa congiuntura politica sfavorevole al movimento rivoluzionario che, nelle intenzioni della borghesia, dovrebbero consentire una dichiarazione formale di morte almeno presunta della lotta armata per il comunismo, l’ultimo passo cioè verso la “soluzione finale del problema”. Si parte dal presupposto, che è poi un assunto, secondo cui le Brigate Rosse sono state vinte. Su questa base si dovranno dimostrare non soltanto la solidità dei rapporti sociali esistenti ma anche, e probabilmente e soprattutto, l’improponibilità storica e sociale della rivoluzione.

È la rivoluzione infatti che deve andare sotto processo, l’idea stessa della sua praticabilità oggi, persino il suo futuro. Ma per farlo è necessario presupporla, rileggere in modo “politico” la memoria e ammetterla come tentativo già consumato. E così lo stato delega al tribunale, già sede e laboratorio di depoliticizzazione della iniziativa rivoluzionaria, il compito inedito di raccontare una insurrezione armata contro i suoi poteri, che è fallita semplicemente perché non esistevano allora, né ovviamente esistono oggi, le condizioni sociali per portarla a compimento.

A questo proposito nulla di nuovo potrà aggiungere l’esito giuridico del processo, dato che la sua inconsistenza politica traspare tutta evidente nella premessa su cui si fonda: le Brigate Rosse infatti esistono!

Sedersi intorno al loro cadavere per “ricordarle”, per mistificarne la memoria o per dichiararle vinte non è possibile. E permangono, più autorevoli di questo tribunale, le condizioni economiche, politiche, sociali e culturali che rendono possibile e motivano la rivoluzione. Si è intensificata inoltre l’interconnessione mondiale delle contraddizioni di classe e, nell’identificazione di un comune terreno di scontro, l’antimperialismo militante combattente; si è aperta nell’area del Mediterraneo e nell’Europa Occidentale una nuova epoca di internazionalismo rivoluzionario già ricca di risultati politici rilevanti.

In questo contesto generale di lotta e di crescita, il movimento rivoluzionario sardo riqualifica la sua militanza attuale e ritrova su basi mutate una nuova dislocazione dentro lo scontro di classe. Qui il terreno di crescita della militanza rivoluzionaria ha una specifica dimensione, dato il rapporto coloniale che lega la Sardegna all’imperialismo italiano ed internazionale, e ruota intorno a una prospettiva ancora da definire di liberazione nazionale di classe.

L’orizzonte più vicino è la fondazione di un soggetto politico rivoluzionario dotato di autonomia teorica e progettuale, capace di orientare positivamente il confronto in atto e di dirigere, organizzandole, le tensioni all’indipendenza ancora spontanee, eppure visibilmente attive, che muovono dal proletariato sardo.

Il fine in altre parole è la costituzione di una identità rivoluzionaria sarda forte e aperta al dialogo con tutte quelle realtà rivoluzionarie e guerrigliere che in Europa Occidentale e nell’area del Mediterraneo combattono l’imperialismo. Qui noi stabiliamo la nostra militanza, in questo sforzo e in questa prospettiva. Da qui andiamo avanti con la nostra classe, con il nostro popolo. Con questa coscienza siamo venuti qui!

Ribadiamo infine il nostro sostegno rivoluzionario all’iniziativa politico-militare del 18 marzo contro la Prefettura di Nuoro.

Revochiamo quindi il mandato al nostro difensore di fiducia e diffidiamo chiunque voglia prendere la parola a nome nostro. Quello che farà o deciderà questa Corte non ci riguarda.

 

La lotta armata non si processa.

Costruire e consolidare la rivoluzione in Sardegna.

Al fianco del popolo palestinese e della sua lotta di liberazione.

Con i compagni prigionieri della RAF e della resistenza che, nelle carceri della RFT, lottano per riaffermare la loro identità contro le strategie di annientamento dell’imperialismo.

Rendiamo onore ai nostri compagni caduti.

 

Mario Mereu, Pietro Coccone

 

Roma, 18 maggio 1989

Sosteniamo la lotta dei compagni prigionieri contro l’isolamento! Seconda Corte di Assise di Roma, Processo “BR – Insurrezione armata contro i poteri dello stato” – Documento di alcuni compagni del “Collettivo Comunisti Prigionieri, Wotta Sitta” Vittorio Bolognese, Salvatore Colonna, Natalia Ligas, Giovanni Senzani agli atti del processo

I compagni prigionieri della RAF e della resistenza rivoluzionaria, con altri prigionieri in Germania Occidentale, sono in lotta con lo sciopero della fame dal 1° febbraio contro l’isolamento e per il raggruppamento in grandi gruppi.

Questo sciopero si pone in continuità con gli altri nove che l’hanno preceduto, ma in un contesto qualitativamente diverso, come affermano i compagni prigionieri della RAF nella loro dichiarazione iniziale sullo sciopero.

L’obiettivo di questa lotta oggi è vincere “la strategia imperialista di distruzione lenta dell’identità rivoluzionaria” attraverso l’isolamento in carcere. Strategia che da venti anni trova nello Stato tedesco il suo principale ispiratore e sostenitore, ma che ormai sulla base della esperienza tedesca è diventata una pratica generale ed integrata a livello mondiale.

Pur nelle condizioni difficilissime di totale isolamento, in tutti questi anni i compagni prigionieri della RAF sono riusciti, attraverso la lotta, a contrastare il progetto di disgregazione e annientamento della loro identità rivoluzionaria e a vanificare il tentativo di attaccare la guerriglia attraverso la loro distruzione come soggetto politico.

Tutto ciò è reso possibile anche perché, via via in tutti questi anni, si è sedimentato un processo di organizzazione e di lotta su questa contraddizione in numerose e significative situazioni e realtà del movimento di classe in Germania Occidentale, in prima fila nella lotta antimperialista.

La questione dei “prigionieri politici” è così diventata un terreno stabile del dibattito e della iniziativa all’interno della prospettiva del Fronte Rivoluzionario Combattente in Europa Occidentale. A fianco delle iniziative contro l’intensificazione dello sfruttamento capitalistico, contro la guerra, i missili, il nucleare, le politiche di affamamento degli istituti finanziari sovranazionali, questa lotta ha trovato un suo spazio specifico, perché pur nella sua parzialità questo scontro contiene in sé il senso complessivo della rottura rivoluzionaria, che la guerriglia ha operato nella metropoli agli inizi degli anni settanta.

Questo processo di organizzazione e di lotta ha avuto alcune tappe fondamentali: dalla mobilitazione internazionalista dopo gli assassinii di stato dei compagni a Stammheim fino al sostegno da parte del movimento di classe e rivoluzionario dello sciopero della fame di prigionieri nell’84 e nell’86 in vari paesi europei.

Ma il dato politico dentro cui questa lotta specifica si inscrive – e che in definitiva ne garantisce il respiro strategico – è quello del consolidamento della prospettiva unitaria rivoluzionaria attraverso le campagne dell’85/86 e il tessuto di dibattito e di iniziative rivoluzionarie sviluppatosi intorno alla scadenza contro la riunione del FMI/BM a Berlino Ovest, all’interno della quale la raggiunta unità di azione fra la RAF e le Brigate Rosse costituisce un importante passaggio nell’avanzamento del processo rivoluzionario in Europa Occidentale.

Oggi questa serie di sviluppi in Germania Occidentale e a livello continentale pongono la questione dell’isolamento dei “prigionieri politici” in termini qualitativamente diversi e rendono maturo e vincente il confronto e lo scontro su di essa.

Se è vero che “la ragione di stato” che sta alla base dell’isolamento dei prigionieri è diventata più marcata e di principio per l’imperialismo nel suo insieme – basta vedere l’immediata criminalizzazione dello sciopero della fame in atto come “pratica terroristica a sostegno della RAF” al fine di reprimere direttamente chi lo attua e chiunque lo sostiene attivamente – dall’altro lato oggi è più forte e cosciente l’appoggio del movimento e la solidarietà militante internazionalista.

Questo fa sì che non si realizzi solo un “braccio di ferro” fra stato e prigionieri, ma che viva uno scontro di potere tra movimento rivoluzionario ed imperialismo che rende possibile vincere questo scontro specifico.

La strategia imperialista di distruzione dell’identità rivoluzionaria dei prigionieri si sta sviluppando in modo sempre più integrato in tutto il mondo. In particolare in Europa Occidentale e nell’area mediterranea e medio-orientale.

Essa è parte della dottrina della counterinsurgency, che ha nella “guerra al terrorismo internazionale” il modello operativo e il “collante” delle politiche repressive degli stati europei con alla testa la Nato e gli USA.

Il trattamento riservato ai prigionieri, l’isolamento e la desolidarizzazione nelle sue molteplici forme, sono parte integrante di questo scenario controrivoluzionario. Ma proprio questo pone le basi per un terreno unitario di lotta per tutti i prigionieri.

In questo senso c’è un filo rosso che lega le lotte dei prigionieri rivoluzionari in Germania Occidentale, in Francia, in Belgio, in Spagna e in Irlanda del Nord come quelle dei prigionieri baschi, corsi, maghrebini, guadalupeni… fino a quelle dei prigionieri kurdi in Germania e in Turchia, e dei prigionieri palestinesi nelle carceri sioniste in Israele.

Anche i progetti di soluzione politica della lotta armata in atto in vari paesi europei (Italia, Spagna, Portogallo, Germania…) sono un aspetto organico di questa strategia di distruzione della soggettività rivoluzionaria.

E spesso si affiancano e procedono di pari passo alle pratiche di annientamento psico-fisico.

Dall’iniziativa di “dialogo” sponsorizzata dal partito dei Verdi in Germania per la “riconciliazione”, alla liberazione di dissociati in contemporanea ai pestaggi di chi sta lottando in carcere.

In Italia dopo il processo “Moro-ter”, in cui è stato lanciato il progetto di soluzione politica, si cerca con il nuovo processo “BR-Insurrezione armata contro i poteri dello Stato” di porre “l’atto finale per la soluzione finale” spingendosi a processare l’idea stessa della rivoluzione per dichiararla impossibile con la cooptazione e l’opera di falsificazione storica garantita dagli ex-rivoluzionari. Si vuole cioè usare i prigionieri contro lo sviluppo del processo rivoluzionario!

In realtà, lo scontro rivoluzionario iniziato negli anni ’70 in Italia e in Europa Occidentale è tuttora aperto e sta trovando nuovi sviluppi in questi anni. Non è possibile porre la parola “fine” all’esperienza di questi vent’anni per il semplice fatto che il processo rivoluzionario seppur contraddittoriamente, è andato avanti e la guerriglia si è confermata, nella pratica, come l’unica strategia rivoluzionaria possibile di trasformazione sociale ed emancipazione proletaria. È la continuità storica e politica della lotta armata per il comunismo nelle metropoli europee a rendere impossibile ogni soluzione politica in Italia, come in Germania e in tutta Europa. Contro questa continuità si scatena tutta la forza della controrivoluzione.

In questa particolare congiuntura, caratterizzata dalla ripresa dell’iniziativa di classe e dal consolidarsi della pratica unitaria antimperialista nella direzione del Fronte, la lotta dei prigionieri tedeschi contro l’isolamento e per il raggruppamento assume un significato politico che va al di là del suo obiettivo specifico – parziale – ed è un momento di uno scontro più generale che per qualità e durata e per l’esito che ne potrà scaturire investe direttamente tutti i rivoluzionari in Europa Occidentale.

Per questo l’imperialismo cerca di stroncare sul nascere anche questa lotta e si accanisce contro di essa.

Lo sviluppo della solidarietà militante internazionalista a sostegno di questa lotta contribuisce alla costruzione delle condizioni necessarie per uscire vincenti da questo scontro e, contemporaneamente, diventa un fattore di consolidamento dei processi unitari nella lotta contro l’imperialismo.

 

Alcuni compagni del “Collettivo Comunisti Prigionieri, Wotta Sitta” – Vittorio Bolognese, Salvatore Colonna, Natalia Ligas, Giovanni Senzani

 

Roma 8 marzo 1989

 

(Agli atti del processo “BR – Insurrezione armata contro i poteri dello stato”, Seconda Corte di Assise di Roma, in abbinamento alla lettera di Helmut Pohl, a nome dei prigionieri della RAF.)

La lotta dei compagni prigionieri tedeschi è la nostra lotta! Carcere di Novara – Comunisti prigionieri del “Blocco B”

Dal primo febbraio in Germania i prigionieri della RAF e della Resistenza rivoluzionaria sono in lotta, con lo sciopero della fame, contro l’isolamento totale a cui sono da sempre sottoposti e per il raggruppamento in grandi gruppi.

È un fatto che non può essere ricondotto alla sola situazione specifica della RFT. Questa lotta, al contrario, si inscrive chiaramente nel contesto più ampio dello scontro di classe in atto in Europa Occidentale.

Come comunisti prigionieri, come soggetti rivoluzionari attivi, interni ai percorsi delle forze rivoluzionarie italiane nello sforzo di riadeguamento dell’avanguardia e della progettualità rivoluzionaria in questo paese, riteniamo necessario essere da subito a fianco dei compagni prigionieri tedeschi.

L’insieme dei trattamenti riservati ai prigionieri della guerriglia, in ogni paese, non è altro che l’applicazione, in forme diverse, rispondenti alle specifiche realtà, della strategia di counterinsurgency varata dai governi degli stati europei (sul modello della “guerra al terrorismo internazionale”), per combattere la lotta di classe e antimperialista che si sta sviluppando in Europa Occidentale e che sempre più si lega – oggettivamente e soggettivamente – ai processi rivoluzionari dell’area mediterraneo/mediorientale.

L’esistenza ormai ventennale della guerriglia e di radicati movimenti antimperialisti in molti paesi europei, il loro carattere internazionale e la loro tendenza unitaria sono una contraddizione insostenibile per la borghesia imperialista di fronte ai passaggi obbligati che essa deve compiere per mantenere il sistema di sfruttamento e di valorizzazione di enormi masse di capitali nelle condizioni create da una crisi che non trova sbocchi risolutivi di lungo respiro. Condizioni che sono alla base dell’impegno politico dei vari esecutivi nel quadro della formazione del “blocco europeo occidentale” a sostegno di una maggiore integrazione del mercato capitalistico a livello continentale.

In questo contesto diventa sempre più pressante per ogni stato del “blocco” l’esigenza di reprimere e spezzare la resistenza proletaria ai progetti di ristrutturazione e ridefinizione generale dell’assetto sociale, distruggere le organizzazioni d’avanguardia della classe, in primo luogo la guerriglia. Di qui l’integrazione delle strategie controrivoluzionarie a livello europeo di cui è parte il trattamento carcerario dei rivoluzionari prigionieri.

In Germania, i prigionieri della guerriglia sono sempre stati sottoposti ad un trattamento particolare da parte dello stato.

All’isolamento politico, che in ogni paese la borghesia imperialista ha sempre tentato di imporre ai rivoluzionari, in questo caso si aggiunge l’isolamento fisico più assoluto, mantenuto scientificamente come condizione stabile, fin dai primi anni settanta, dall’inizio stesso della lotta armata in RFT.

Contro questa pratica di annientamento i compagni prigionieri della RAF e delle altre organizzazioni dell’esperienza guerrigliera tedesca hanno sempre opposto una costante iniziativa di lotta che ormai è diventata terreno “storico” di mobilitazione per il movimento in RFT.

In questa lotta sono caduti ben 9 compagni, assassinati per la “ragione di stato” dai boia del governo tedesco.

La ferocia che si è dimostrata inutile: i rivoluzionari prigionieri tedeschi hanno mantenuto la loro identità politica e i vincoli collettivi, sapendosi dialettizzare con il movimento nel suo complesso, e diventandone punto di riferimento.

Oggi questa lotta si svolge in condizioni mutate.

Davanti all’estendersi e radicarsi dell’iniziativa rivoluzionaria in RFT, il governo tedesco, al pari di altri paesi europei come Italia e Spagna, affina le sue strategie di attacco “per linee interne” alla guerriglia, varando leggi premiali per i “pentiti” e concedendo la libertà a noti traditori.

In questo quadro da tempo si sono attivati diversi esponenti di forze riformiste e della chiesa, nel tentativo di inserirsi nello scontro con una proposta di “dialogo” tra le istituzioni, i prigionieri e le organizzazioni combattenti.

Come già i compagni prigionieri della RAF hanno chiarito in alcuni interventi pubblici nello scorso anno, queste manovre sono tutte interne al progetto controrivoluzionario dello stato; il loro obiettivo non è altro che la “pacificazione” delle lotte rivoluzionarie attraverso l’attacco alla identità dei comunisti prigionieri e l’abiura della lotta armata.

Dalla classe vengono ben altri segnali.

Il movimento rivoluzionario tedesco ha saputo far propria questa lotta, e una articolata rete di solidarietà militante e comunicazione antagonista, unita alle mobilitazioni di massa verificatesi ultimamente a sostegno dei prigionieri, contribuiscono consistentemente a spezzare il tentativo dello stato di isolare i prigionieri e di distorcere i contenuti che stanno affermando.

Per noi prigionieri comunisti italiani, e crediamo per tutto il movimento rivoluzionario, non si tratta soltanto di fare della solidarietà (comunque indispensabile) con i compagni prigionieri della RAF e della Resistenza. Noi partiamo dalla consapevolezza che la lotta contro l’isolamento e per il raggruppamento dei prigionieri in RFT, così come quella dello scorso anno dei militanti di Action Directe e di altri compagni in Francia, sia parte di uno scontro che ci vede direttamente coinvolti, seppure in forme e a livelli differenti, qui, nella realtà di classe italiana.

L’attacco dello stato contro la soggettività rivoluzionaria in Italia ha avuto dall’80 in poi una forte accelerazione ed uno sviluppo costante.

La ristrutturazione dell’apparato produttivo e il salto di qualità complessivo che la borghesia imperialista doveva imporre a livello economico, politico e sociale qui, non potevano svilupparsi in modo adeguato senza che fosse ricacciato indietro il forte movimento di classe e drasticamente ridimensionata la guerriglia, che si erano radicati fin dai primi anni ’70 in questo paese.

Non è il caso qui di ripercorrere i vari progetti con cui lo stato ha concretizzato la sua strategia controrivoluzionaria (da quella sui “pentiti” alla dissociazione), ogni rivoluzionario o proletario antagonista ha ormai avuto modo di comprendere il carattere infame di queste dinamiche. Oggi la continuità di questo attacco, che si esplicita nella cosiddetta “soluzione politica”, si inquadra negli obiettivi di “pacificazione sociale” che lo stato vuole imporre alla classe, e anche in questo caso la sostanza di tutte queste manovre emerge sempre più chiaramente.

Gli “appelli al dialogo” degli ex rivoluzionari, i loro patteggiamenti con il Ministero di Grazia e Giustizia si accompagnano ai blitz dei carabinieri nei confronti dei comunisti combattenti che fuori non rinunciano alla lotta.

In carcere, accanto alle “aperture” dello stato verso i prigionieri che proclamano il “distacco dalla lotta armata”, viaggia il giro di vite verso i comunisti che continuano a rivendicare la propria militanza rivoluzionaria, verso i combattenti arabo-palestinesi presenti nelle carceri italiane.

I compagni arrestati nel blitz del settembre ’88 contro le BR sono sottoposti ad un trattamento mirato teso a creare intorno ad essi un isolamento politico. A tutt’oggi si trovano sparpagliati in carceri decentrate, con il divieto di incontrarsi tra di loro e con gli altri comunisti prigionieri.

Questo non è che un esempio della differenziazione sempre più selettiva che caratterizza l’attuale gestione del carcere e che tende ad isolare le aree di prigionieri della guerriglia, ad attaccarne l’identità e a spoliticizzarne la lotta.

La nostra militanza rivoluzionaria nelle attuali condizioni di prigionia può svilupparsi soltanto nell’internità e nel contributo ai percorsi della guerriglia e del movimento rivoluzionario nello scontro di classe attuale.

È questo l’aspetto più importante della nostra identità ed è una dimensione che dobbiamo conquistarci e difendere continuamente, rafforzando l’unità tra i prigionieri comunisti e con il movimento rivoluzionario.

L’attacco della borghesia imperialista in quest’ultimo decennio ha provocato un evidente processo disgregativo nel tessuto di classe e in quelle forme organizzate dell’autonomia proletaria che sono basilari nel processo rivoluzionario. Ma sarebbe un grosso errore assolutizzare questo dato. I mutamenti sostanziali avvenuti nei rapporti di forza generali tra proletariato e borghesia, lungi dal porre fine al conflitto di classe, ne hanno invece innalzato il livello, riproducendo le condizioni per l’iniziativa rivoluzionaria.

Dopo le sconfitte dei primi anni ’80, l’esigenza su cui si è mossa l’avanguardia rivoluzionaria è stata fondamentalmente quella di ricercare/ridisegnare un ruolo adeguato alle mutate condizioni dello scontro.

La ricostruzione dell’iniziativa guerrigliera, in rottura con le tendenze difensivistiche e disfattiste, è un passaggio necessario per consentire reali possibilità di sviluppo del processo rivoluzionario.

Oggi, la ridefinizione della progettualità e dell’iniziativa rivoluzionaria è un compito che va posto al centro, articolandolo per ogni livello di coscienza espresso dal movimento rivoluzionario a partire dal suo punto più avanzato.

Questo processo di riadeguamento in cui da subito va spesa ogni energia, deve cogliere la nuova qualità politica emersa nell’esperienza della guerriglia e nelle lotte rivoluzionarie in Europa e nell’area mediterranea-mediorientale.

Sono maturate nuove condizioni di confronto e di lotta per lo sviluppo del processo rivoluzionario. Attraverso l’unità delle lotte della guerriglia e delle molteplici determinazioni del movimento dell’autonomia proletaria in Europa Occidentale, il Fronte Antimperialista è diventato una prospettiva concreta.

È una dialettica unitaria che vive nell’organizzazione dell’attacco all’imperialismo e in specifico al progetto di formazione del “blocco europeo-occidentale” nei diversi ambiti in cui si manifesta come progetto antiproletario e controrivoluzionario.

In questo contesto assume una valenza rilevante per tutti i rivoluzionari, e dunque anche per i comunisti prigionieri, contrastare il tentativo della borghesia di spoliticizzare l’attività della guerriglia, la smemorizzazione dei contenuti espressi dalle lotte del proletariato e l’attacco all’autonomia di classe.

Sono questi gli obiettivi e il percorso a cui finalizziamo la nostra attività di militanti rivoluzionari prigionieri, senza in ciò operare alcuna semplificazione delle differenze di percorso e di impostazione politica pur presenti al nostro interno.

È questa la tensione che anima questo intervento.

La lotta dei compagni prigionieri tedeschi, la loro resistenza all’annientamento in carcere, è la lotta di tutti i rivoluzionari in Europa Occidentale perché si muove all’interno dei contenuti che le forze rivoluzionarie hanno acquisito in questi 20 anni e sviluppato nello scontro attuale; essa riafferma il ruolo strategico della guerriglia nello sviluppo del processo rivoluzionario nel centro imperialista.

È la lotta di ogni proletario che si riconosce nella determinazione dell’avanguardia rivoluzionaria di combattere la società capitalistica.

È la nostra lotta.

Contro la strategia della borghesia imperialista di attacco all’identità dei rivoluzionari: lottare insieme!

 

Comunisti prigionieri del “Blocco B“

 

Carcere di Novara, marzo 1989

Identità politica. Tribunale di Venezia – Documento di Cesare Di Lenardo, militante delle BR-PCC allegato agli atti

La nostra posizione deriva dalla nostra identità politica. Identità per un comunista è essenzialmente e innanzitutto partito. Nel processo storico che lo esprime, nel suo programma, nel suo progetto strategico, nella sua linea politica, nella sua prassi, il militante costruisce la sua identità, che ha un senso rivoluzionario in quanto identità di partito, nel senso storico del termine e in quello diretto.

In questo processo, come militante delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente, mi identifico nell’organizzazione, nel disegno politico che ha reso possibile l’attuale salto di qualità, nell’attività di ricostruzione politico-organizzativa svolta in questi anni, che è inseparabile dal “risultato” dell’attuale ripresa di iniziativa; oggi nell’azione contro Ruffilli e nell’attività tra i disoccupati, nella classe operaia industriale, tra i lavoratori dei servizi – in una parola, nel proletariato metropolitano.

La capacità dimostrata concretamente dalle Brigate Rosse di sviluppare il progetto politico guerrigliero nelle attuali condizioni dello scontro di classe, è la dimostrazione della necessità e possibilità della lotta rivoluzionaria, di come la sua esigenza vive nel proletariato, del suo respiro strategico.

Oggi questa non è una tesi: è un fatto.

Il cuore dello Stato è l’asse di intervento strategico che caratterizza la continuità delle Brigate Rosse nella loro storia: l’attacco alle politiche dominanti che nella congiuntura oppongono il proletariato alla borghesia, attacco che mira a rompere gli equilibri politici che fanno marciare i programmi della borghesia imperialista, sviluppandone le contraddizioni. Oggi, il passaggio politico della cosiddetta riforma istituzionale, il progetto politico “demitiano” di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato.

Questo si colloca dopo i successi della controffensiva sviluppata dallo Stato nel corso degli anni ’8O, offensiva partita dal presupposto che, senza assestare un duro colpo alla guerriglia, non si sarebbe potuto procedere alle ristrutturazioni economiche che la crisi rendeva impellenti. Questa offensiva ha sviluppato una dinamica che, a partire dall’attacco alla nostra organizzazione ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe, costruendo i termini di nuovi rapporti di forza a favore dello Stato.

Il progetto demitiano è inserito nel processo di rifunzionalizzazione dello Stato che ha modificato, sulla base dei nuovi rapporti di forza, il carattere della mediazione politica tra classe e Stato, la funzione degli strumenti e dei soggetti istituzionali con cui lo Stato si rapporta al proletariato, il modo stesso di governare il conflitto di classe: per questo possiamo dire che nella mediazione politica attuale tra classe e Stato vi è incorporato il salto di qualità operato dalla controrivoluzione negli anni ottanta. L’ambizioso progetto politico di riforme istituzionali intende ratificare al meglio questo rapporto di forza favorevole, sancire l’equilibrio tra classe e Stato in favore di quest’ultimo; da questo il suo carattere antirivoluzionario e antiproletario: stabilizzare e rafforzare la dittatura di classe della borghesia.

Legandosi a quel progetto politico che nella Democrazia Cristiana venne prospettato da Aldo Moro come “terza fase” dopo la ricostruzione post-bellica e gli anni del centro-sinistra, è in questi primi anni ottanta che la strategia demitiana ha preso corpo, ricalibrandosi in un contesto politico e sociale assai mutato e si è imposta come baricentro tra le forze politiche, riqualificando la DC come partito-pilota dei nuovi cambiamenti.

Caratteristica essenziale di questo progetto è sviluppare ancora l’accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo in rapporto alla necessità di ricondurre sempre più il gioco politico alle esigenze della ristrutturazione politica ed economica, allineandosi alle esigenze internazionali del blocco imperialista. L’ossatura del progetto politico demitiano è imperniata sulla formazione di coalizioni che si possano alternare alla guida del governo dandogli così un carattere di forte stabilità, una “maggioranza” forte ed un esecutivo stabile in grado di garantire da un lato risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico internazionale.

Non si tratta di un disegno biecamente reazionario, di un blocco reazionario che vuol svuotare parlamento e costituzione, ma di una strategia che punta a fare funzionare al massimo la democrazia formale, adeguandosi ai modelli delle democrazie mature europee.

Di questo progetto il senatore democristiano Ruffilli era uno dei principali protagonisti, l’uomo di punta che in questi anni ha guidato la DC in questo campo, sapendo ricucire, attraverso forzature e mediazioni, tutto l’arco delle forze politiche intorno a questo progetto, comprese le opposizioni istituzionali.

Che questa manovra complessiva non sia certo priva di contraddizioni lo si vede nelle vicende politiche di ogni giorno; che queste contraddizioni siano in realtà solo secondariamente riferite alle forze politiche ed invece ad un quadro politico e sociale del paese niente affatto pacificato lo si è visto con chiarezza anche sotto il colpo portato al cuore dello Stato; dietro le contraddizioni stanno rapporti di produzione, classi sociali, antagonismi inconciliabili ed è a questi che le BR si relazionano, vi traggono forza e prospettiva per lo sviluppo del progetto rivoluzionario.

In questo progetto tra attacco al cuore dello Stato e la parola d’ordine del Fronte antimperialista combattente vi è la più stretta unità, che caratterizza la linea politica della nostra organizzazione e che parte dalla comprensione di come lo sviluppo del processo rivoluzionario qui è indissolubilmente legato alla lotta generale tra imperialismo e rivoluzione nel mondo, e in modo particolare nella nostra area. L’attuale ristrutturazione dello Stato, la centralizzazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo è direttamente in rapporto al ruolo e alle ambizioni sovranazionali dello Stato imperialista italiano; gli sviluppi concreti del ruolo dell’Italia sulla scena internazionale, nel mondo arabo e nel conflitto mediorientale in questi anni stanno a dimostrarlo.

Sviluppare il processo rivoluzionario significa dunque indebolimento politico-militare dell’imperialismo nell’area, della sua presenza, dei suoi progetti. Ed è proprio a partire da una visione materialista e classista, dalla lettura marxista dell’imperialismo e delle sue leggi, dei conflitti internazionali e di classe, che la politica delle alleanze che ci riguarda si può relazionare con forze rivoluzionarie antimperialiste che possono essere caratterizzate da criteri e finalità anche diversi dalla conquista proletaria del potere: l’unità politica nell’alleanza è data dalla lotta al comune nemico e la sua concretizzazione nei livelli di unità e cooperazione raggiungibili. La nostra organizzazione lavora alla costruzione di alleanze antimperialiste per rafforzare e consolidare il Fronte antimperialista combattente nella nostra area e assume la parola d’ordine di sostenere la guerra del popolo palestinese e libanese contro l’aggressione imperialista e sionista.

Su questi elementi qui molto sommariamente accennati e sull’insieme più ampio e compiuto del bilancio dell’esperienza di questi anni e dell’elaborazione del progetto guerrigliero per la fase che abbiamo davanti che la nostra organizzazione ha prodotto, le Brigate Rosse lavorano oggi per rafforzare il campo proletario, per attrezzarlo allo scontro contro lo Stato; per proseguire nella costruzione del partito comunista combattente non solo accumulando le forze che si dispongono spontaneamente sul terreno, ma creando una direzione che tenga conto di tutti i fattori in gioco, interni e internazionali.

Infine, come aspetto particolare e del tutto secondario dell’iniziativa combattente, vi è il pieno smascheramento nei fatti della natura controrivoluzionaria dell’operazione di “soluzione politica” avviata con grandi velleità di eliminare il problema BR nel quadro ben più generale della riforma istituzionale. La diretta continuità tra il pentitismo nato nelle caserme, la dissociazione prodotta dalla politica penitenziaria antiguerriglia e il progetto di soluzione politica elaborato dallo Stato nei suoi massimi vertici politici, è emersa con la limpida chiarezza che viene dagli avvenimenti e dalle cose, dalla collocazione che ognuno ha trovato e occupato nei confronti dei fatti.

Questa operazione, tra l’altro, intendeva spacciare la lotta armata come una questione ormai di prigionieri; l’identificazione delle BR con il carcere è funzionale e subordinata ai piani dello Stato, è una mistificazione controrivoluzionaria tesa a negare il processo storico in atto: il fatto che è nello scontro di classe, e oggi, che vive la guerriglia.

Le BR sono fuori! Vive, organizzate, combattenti, in uno sviluppo lungo diciotto anni di storia e di lotte.

Qui in carcere ci sono dei militanti; ostaggi nelle mani del nemico, isolati rispetto alla complessiva realtà sociale, nelle sezioni di massima sicurezza, nei carceri speciali. In questa situazione e in queste condizioni la militanza rivoluzionaria è sostanzialmente tenuta dell’identità. Identità che è restituita al grado di integrità concretamente possibile solo per mezzo e attraverso la dimensione di partito, la coscienza e la responsabilità di appartenere a un processo collettivo, a un organismo in movimento nel suo insieme, attraverso la centralizzazione politica e strategica con la guerriglia. Centralizzazione che deve essere perseguita e conquistata imparando dallo sviluppo della lotta reale fuori. In ciò ci può essere, e relativamente, dati i limiti e i condizionamenti che la prigionia strutturalmente comporta, una crescita in rapporto al processo storico nel suo insieme. Tenuta, e sviluppo dell’identità politica in questa disciplina: questo consiste in una lotta, e la lotta qui è questa. Il resto è aria fritta, dove all’incapacità di una condotta coerente si sopperisce con pensieri e parole che a quel punto rimbalzano tra loro.

La comprensione dell’estrema parzialità della condizione di prigionia e dunque della centralità della dimensione di partito, da un lato è nella tradizione del movimento comunista internazionale, nell’esperienza di innumerevoli movimenti rivoluzionari in tutto il mondo, e ha carattere generale, dall’altro è anche il risultato dell’esperienza che abbiamo fatto nel confronto diretto con la controrivoluzione e la sua attività antiguerriglia in carcere, quello che abbiamo imparato in un percorso storico-pratico di anni.

Il senso dunque anche di questa dichiarazione è questo: identità. Per noi e meglio di noi, come altre volte abbiamo detto e come è nella logica della rivoluzione, parla la guerriglia, la nostra organizzazione, le Brigate Rosse.

– Attaccare, disarticolare il progetto politico demitiano di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato!

– Organizzare le forze attorno alla costruzione del partito comunista combattente per attrezzare e dirigere il campo proletario nello scontro prolungato contro lo Stato per il potere!

– Costruire alleanze antimperialiste per rafforzare e consolidare il Fronte antimperialista combattente nell’area!

– Sostenere la guerra del popolo palestinese e libanese contro l’oppressione imperialista e sionista!

Su questi termini di programma costruire l’unità dei comunisti per la costruzione del partito comunista combattente.

 

Cesare Di Lenardo, militante delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente

 

Venezia, 1 giugno 1988

Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe. Roma, Aula bunker, processo di appello per le armi – Comunicato dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Fausto Marini, Stefano Minguzzi, Fulvia Matarazzo, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Cesare Prudente, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro letto in aula

Intendiamo ribadire in quest’aula i termini attuali dello scontro di classe e la valenza in esso della proposta strategica delle Brigate Rosse. L’evolvere dei fatti confermano come la contraddizione dominante che oppone la classe allo Stato continua ad essere il processo di riformulazione dei poteri e degli istituti dello Stato, anche perché tale processo ha aperto una fase politica nel paese che, contraria dal risolversi linearmente e pacificamente, trova vasta resistenza e opposizione nel campo proletario, nonché per altro verso per l’incalzare delle scadenze poste dal governo dell’economia dall’evoluzione/crisi dell’imperialismo, in quanto, quest’ultima ragione, strutturale del riassetto degli Stati. Due fattori questi da cui dipende la contraddittorietà di un processo che di riflesso implica mutamenti non certo indolori all’interno stesso delle forze politiche rappresentanti gli interessi della frazione dominante di borghesia imperialista; in altri termini, l’attuale momento di transizione e modifica del quadro istituzionale comportava e comporta come suo corollario un adeguamento delle forze politiche atte a mediarlo, ovvero l’assunzione da parte dei partiti di operare la mediazione e funzione del loro ruolo non solo per i passaggi già effettuati con la riforma della presidenza del consiglio o del voto segreto, ma soprattutto per quelli da effettuare all’interno di quella che può palesarsi come una fase evolvente verso la 2a Repubblica e che passa attraverso lo snodo della riforma elettorale. Il quadro che, riconducendosi alla 3a fase morotea, dovrebbe preludere all’alternanza quale modello a cui funzionalizzare l’opposizione istituzionale, è nella realtà un quadro che, dai governi di coalizione, tende a realizzare una serie di “staffette” travestite da alternanza col fine di consolidare il regime instauratosi nel paese svincolando l’esecutivo dalle spinte antagoniste prodotte dallo scontro di classe, un modello che, opportunamente svuotato dalla collocazione materiale antiproletaria e controrivoluzionaria, viene presentato come il superamento della cosiddetta anomalia italiana (preclusione del PCI dalle leve di governo) con buona pace del “riformismo forte” di Occhetto. È evidente che le forze proletarie che hanno maggior peso, per le loro dinamiche, su questo terreno sono giocoforza la DC, in quanto serbatoio storico della classe dirigente che rappresenta la frazione dominante di borghesia imperialista, e il PCI in quanto rappresentante istituzionale della classe. Il travaglio interno del PCI nel trovare una sua collocazione nel quadro politico istituzionale è manifestazione della crisi profonda che attraversa le forze dell’opposizione istituzionale e che ha origine proprio dalle modifiche apportate dalla controrivoluzione nella mediazione politica, modifiche che di fatto hanno sottratto a queste forze gli strumenti attraverso i quali nella fase precedente erano deputati a svolgere la loro funzione di rappresentanza istituzionale e ammortizzamento delle spinte conflittuali delle istanze di classe. Le attuali posizioni del PCI, lontano dal prefigurarlo come polo dell’alternanza, si traducono in “pura garanzia democratica” ai progetti democristiani a questo modo nello schieramento borghese. La DC asse principale delle svolte politiche nel paese, nonché reale gestore del potere sostanziale, gioca una funzione importante nel processo di adeguamento dei partiti, parallelamente ai mutamenti che avvengono nelle cosiddette democrazie mature. Una necessità ben chiara nella linea demitiana, perciò sottintesa nel suo progetto politico. Questo progetto avviandosi con prospettive di ampio respiro deve fare di fondo del progetto, certo ne costituiscono punto di squilibrio. Contraddizioni solo apparentemente riferibili allo scontro tra vecchio sistema correntizio espressione della gestione del potere nella fase precedente e rinnovamento demitiano, che vanno invece riferiti ai passaggi da effettuare verso quella “democrazia compiuta” tanto decantata dai politologi e che nella realtà italiana tende ad evolvere verso una forma di “governo presidenziale” espressione degli specifici caratteri della democrazia rappresentativa in Italia. Questo perché attualmente l’alternanza non trova terreno materiale di praticabilità dovuta al fatto che “i modelli” che si formano sono il prodotto degli equilibri generali politici e di forza fra classe e Stato, e solo secondariamente e di riflesso a ciò, riferiti all’ambito interborghese. Tra questa tendenza e la realtà c’è l’aspro scontro politico e sociale del paese: un proletariato non pacificato che esprime la vasta resistenza ai costi della crisi della borghesia imperialista e agli effetti della riforma dei poteri dello Stato, quest’ultima si riflette infatti sui termini dello scontro nella possibilità per l’esecutivo di “forzare” sulla mediazione politica come dimostra l’intervento di autorità in tema di diritto di sciopero e sulle modifiche delle libertà sindacali. Atti politici e materiali che chiariscono, come nel caso del voto segreto, in che modo le riforme istituzionali si riversano sulle condizioni di vita proletarie, modalità che sempre più spesso ricorrono all’uso dei CC come componente di forza delle trattative accanto ai “più democratici convegni” fra le parti finalizzati a “normalizzare” già nella fabbrica la produzione del conflitto.

Tra questa tendenza e la realtà c’è l’attività rivoluzionaria delle BR di cui rivendichiamo l’apporto fondamentale nell’aver saputo individuare ed attaccare il progetto politico centrale di rifunzionalizzazione dello Stato, contribuendo al suo attuale impasse e dimostrando nel contempo la possibilità/necessità di impattare ed inceppare la tendenza antiproletaria e controrivoluzionaria di cui è portatore il progetto demitiano, un’iniziativa politica che collocandosi al punto più alto dello scontro ha promosso in avanti il processo di ricomposizione e coagulo delle istanze più mature dell’autonomia di classe sulla lotta armata e lavorare sul duplice piano di ricostruzione e formazione delle avanguardie di lotta e rivoluzionarie al fine di organizzarle e disporle adeguatamente nello scontro. Un’iniziativa politica che inserita nella fase di ricostruzione ha esplicitato sul terreno pratico la sostanza del riadeguamento complessivo allo scontro. Il rilancio che le Brigate Rosse hanno operato in questi anni di Ritirata Strategica dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria, le prospettive politiche che questo ha aperto sia sul terreno del rapporto classe/Stato, sia sul terreno dell’antimperialismo, ha determinato uno spostamento in avanti del piano di scontro rivoluzionario. Un movimento consapevolmente prodotto e calibrato dalle Brigate Rosse rispetto ai rapporti di forza generali fra le classi e al rapporto imperialismo/antimperialismo. L’elemento di forza di questo rilancio è costituito dal fatto che si è forgiato all’interno delle condizioni della controrivoluzione degli anni ’80 con delle caratteristiche di maturazione il cui portato politico si è reso subito tangibile nel dispiegamento pratico dell’attività rivoluzionaria per la sua capacità di dialettizzarsi in termini di direzione/organizzazione con le istanze più mature dell’autonomia di classe, di costituire cioè il catalizzatore di tutte le componenti rivoluzionarie e proletarie vive del paese, nel contempo di proporsi sul piano dell’antimperialismo come forza rivoluzionaria autorevole non solo per il contributo già operato su questo terreno, ma soprattutto per il contributo al rafforzamento/consolidamento della politica del Fronte Combattente Antimperialista. Questo dato politico centrale nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione che ha posto lo Stato a ridefinire contromisure per contrastare il dato politico della proposta delle Brigate Rosse sul campo proletario, più precisamente misure che fossero in grado di “gravare” e divaricare il terreno delle aspettative che si sono create nell’ambito operaio e proletario. All’interno di questo quadro si può comprendere perché la direzione dell’antiguerriglia sia stata assunta dai servizi segreti e direttamente orientata dall’esecutivo; l’autobomba di Milano, gli episodi minori ad essa collegati, l’“affare” del vicedirettore di Rebibbia chiariscono il riferimento apertamente terroristico dello Stato nei confronti del campo proletario, un recupero dei vecchi strumenti riaggiornati però alla funzione svolta dalla guerriglia, nella dialettica dello scontro fra le classi, iniziative di deterrenza che hanno il fine immediato di “raffreddare queste aspettative” e, come secondo momento, la velleità di contrastare gli effetti prodotti e le prospettive politiche concrete messe in campo. Tali iniziative caratterizzano l’antiguerriglia nel duplice piano di intervento: la guerriglia e il suo referente di classe, ovvero il rovesciamento degli attacchi alla guerriglia nelle condizioni politiche/generali dello scontro. Un’attività che avvalendosi della cattura di alcuni militanti, intende rilanciare su base di forza il logoro copione della soluzione politica in cui l’appello alla cessazione delle ostilità è ratificato dagli esperti dei servizi segreti. Una fattiva collaborazione volta, in termini politici, a ricondurre la questione della lotta armata a questione di prigionieri, a questione di reduci; una immagine questa che lo Stato cerca di accreditare anche attraverso la gestione della “storia delle Brigate Rosse” e del processo di insurrezione utilizzando allo scopo le diverse sfumature della collaborazione e defezioni lì presenti, che, a buon diritto, caratterizzano tale processo come processo antiguerriglia e che lo Stato si incarica di sponsorizzare allo scopo di contrastare le Brigate Rosse e la realtà dello scontro rivoluzionario per l’impossibilità di inficiare e mettere in discussione la praticabilità e validità della proposta rivoluzionaria. Un fatto questo dimostrato dalla capacità di riprodursi e riadeguarsi nelle condizioni più dure dello scontro riaffermando in ciò l’efficacia della strategia della lotta armata quale alternativa politica alla crisi della borghesia imperialista.

Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario demitiano di riforma dello Stato.

Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale, nello specifico i progetti imperialisti di “normalizzazione” dell’area mediorientale che passano sulla pelle del popolo palestinese e libanese.

Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antiperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geo-poitica.

Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

Onore ai compagni Annamaria Ludman, Riccardo Dura, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli uccisi il 28 marzo in via Fracchia, onore a tutti i rivoluzionari antimperialisti caduti!

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Maria Cappello, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Fausto Marini, Stefano Minguzzi, Fulvia Matarazzo, Fabio Ravalli – I militanti rivoluzionari – Daniele Bencini, Cesare Prudente, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro

 

Roma, 28 marzo 1989

Proposta al dibattito sulla continuità e ripresa del movimento rivoluzionario. Roma, processo per “insurrezione” – Dichiarazione di Mario Fracasso, Maurizio Ferrari, Mario Mirra messa agli atti

«… è altrettanto inutile andare a ricercare nelle discussioni il marchio di appartenenza o meno alle nostre formazioni, o stare lì a spiare per scoprire eventuali legami con noi. L’unico risultato è che non si fanno i primi, più semplici passi. …Fronte significa lotte diverse che diventano un’unica lotta grazie al loro fine comune…»

Guerriglia, opposizione e Fronte antimperialista. Documento della RAF, agosto 1982.

 

Siamo tre compagni da tempo prigionieri. Abbiamo appartenuto alle Brigate Rosse poi al Partito Guerriglia. Da allora militiamo nel proletariato al fine di contribuire a contrastarne il disarmo politico, teorico e militare, quello nostro compreso.

In esso abbiamo riportato, fra l’altro, le nostre critiche, intuizioni, proposte relative al passato come al presente e al futuro della lotta armata per il comunismo in Italia.

In occasione del processo per “insurrezione… guerra civile…” abbiamo trovato modo di incontrarci e di esprimerci uniti. Lo scritto che segue è dunque anche uno sviluppo della nostra militanza nella classe cui apparteniamo.

Il processo che si è aperto a Roma per “insurrezione, ecc.” è, ancora più di quelli che l’hanno preceduto, un calcolato tassello della più ampia controrivoluzione internazionale. Questa, pur con diverse sanguinarie e terroristiche iniziative di guerra, è condotta contro i proletari, gli oppressi di tutto il mondo che affrontano la borghesia imperialista: ossia, la classe di cui anche la magistratura e l’esecutivo italiani, che hanno voluto il processo, sono espressione.

È infatti vitale per il consolidamento dell’imperialismo metropolitano nel mondo la produzione di merci, di plusvalore, di capitale finanziario sul suo stesso territorio. Territorio di cui l’Italia è un decisivo polo. Ma affinché ciò avvenga è ultravitale lo sfruttamento della classe operaia, del proletariato riprodotto ed emigrante nelle metropoli.

D’altronde, lo abbiamo visto in Italia. Quando la borghesia non riesce ad estorcere uno sfruttamento adeguato alle urgenze dell’accumulazione, della concorrenza, del dominio imperialista – inteso in termini generali, essa scende sul terreno della guerra di classe con le stragi nelle banche, sui treni, nelle stazioni, accompagnate dall’assassinio di proletari, di militanti rivoluzionari, dagli arresti di massa, dagli ergastoli, dalle torture.

Il proletariato, i comunisti hanno accettato, accettano e continueranno ad accettare quella guerra; si sono dotati, si dotano e si doteranno di organizzazioni, scopi, fondati sulla lotta armata. E questo al fine di combattere, di non disperdere, bensì per affermare i contenuti propri alle lotte del proletariato; contenuti che invece la borghesia con la guerra sperava e spera di seppellire.

È soprattutto il radicamento della lotta armata nel vivo del contesto delle grandi fabbriche, cioè là dove nasce l’antagonismo fondamentale fra il proletariato e la borghesia, che dà potere – costruito ed esercitato in misura crescente in particolare negli anni recenti – alla classe operaia, al proletariato intero. Certo, potere proletario esercitato nelle fabbriche, nel carcerario, nei quartieri: questo è l’essenziale. Queste sono le radici.

Lo stesso processo iniziato a Roma ha il proprio fondamento nella guerra di classe in Italia, altro che i suoi pretesi 21 “capi d’accusa”, come li chiamano i giudici, chiamati a reggerlo.

Il padrone stesso della Fiat rispetto ai mutati rapporti di potere nella fabbrica e nella società, ebbe a dichiarare: «Eravamo con le spalle al muro». Non siamo riusciti a seppellirlo sotto quel muro assieme alla classe di cui è invidiato mito. Oggi siamo ancora impegnati all’abbattimento di quel muro.

Spiegandoci brevemente, diciamo che nel ’79/80 alla Fiat, e non solo alla Fiat, sotto la spinta della lotta di massa e innanzitutto della sua espressione politico-sociale più completa rappresentata dalla lotta armata condotta dalle Organizzazioni Rivoluzionarie, la critica del lavoro sfruttato, salariato, della proprietà privata dei mezzi di produzione, era giunta ad una nuova e possibile rottura.

La classe proletaria, il potere proletario, le sue Organizzazioni Rivoluzionarie, non ebbero la comprensione complessiva della guerra apertasi al fine di sostenere la lotta per la socializzazione della proprietà , della direzione e degli scopi da dare alla produzione, al consumo, delle loro reali tappe nella rivoluzione proletaria contemporanea.

Qui apriamo un’autocritica. Secondo noi anche l’Organizzazione di cui facevamo parte non colse totalmente la qualità epocale della lotta di classe maturata, in particolare, nelle grandi fabbriche nel biennio ’79/80.

Ci chiudemmo in parte dentro l’Organizzazione, dove più di una volta il liberalismo, il soggettivismo presero il sopravvento sulla giusta formazione dei suoi militanti, sul corretto rapporto fra comunisti, fra questi e il proletariato. Cosa poteva la classe con le sole iniziative di massa se pur grandiose come gli scioperi, le occupazioni, i presidi? Quando lo scontro si elevava politicamente, socialmente e militarmente?

Abbiamo discusso i limiti in gran parte sopraggiunti anche per le difficoltà che, a nostro parere, il proletariato e le sue Organizzazioni Rivoluzionarie hanno avuto nel trovare il riferimento, la storia, da cui trarre forza, alimento ulteriore in vista degli immensi fini da affermare. I quali, oltre a quelli già visti, consistono nell’organizzazione del proletariato per la conquista del potere nella società, per condurre questa fuori dal capitalismo verso il comunismo.

Siamo fra coloro che sostengono che la lotta armata in questo paese deve continuare; che oggi essa, in condizioni politiche generali e di lotta di massa difficilissime, tiene e deve tenere aperta la prospettiva rivoluzionaria. In questo facciamo riferimento alla pratica delle BR-PCC, ai riflessi delle proposte generali della RAF, di Action Directe (compresa l’esperienza sul terreno della grande fabbrica), dell’ETA, del Grapo, dell’IRA e di ogni altro piccolo nucleo di guerriglia in Italia e in Europa, della guerriglia proletaria nell’area mediorientale.

In specifico sosteniamo che lo sviluppo della lotta armata, adeguato alle condizioni della lotta di classe nella metropoli, avviene radicandola nelle grandi fabbriche europee, avviene nell’esprimere sul piano politico nazionale ed internazionale l’antagonismo, la critica proletaria contro le condizioni di vita mercificate ed alienate.

Secondo noi, infine, è nell’attaccare i grandi gruppi multinazionali attivi in Europa che si combattono gli stati e l’Europa imperialista, che si trova l’unità con tutti coloro che in tutto il mondo combattono l’imperialismo e il capitalismo.

È anche questo un modo concreto per contrastare la manipolazione, la falsificazione della natura della lotta armata in Italia passata e presente, cui ovviamente il processo in corso a Roma, come quelli che l’hanno preceduto ma con maggiori pretese e presunzioni, disperatamente mira.

Non deve accadere ciò che è accaduto all’Organizzazione, alla lotta e al pensiero del proletariato rivoluzionario, che hanno preceduto la prassi rivoluzionaria degli anni ’60, la nostra stessa. La loro storia e memoria sono state infatti cinicamente squartate e dissanguate.

Un simile tentativo vuole prendere corpo anche oggi. Vi lavorano, pur fra diversi accenti, i partiti borghesi, dalla DC al PCI, gli organi della manipolazione, dal TG1 al manifesto, agli apparati dello stato come il Ministero delle carceri. Tutti combattono la lotta armata che comunque è una realtà irreversibile. Cercano di farlo, oggi, attraverso l’eterno logoro rituale di contrapporre il “buon” passato al “cattivo” presente; trescano per dividere i rivoluzionari, per dividere i prigionieri comunisti dalle lotte del proletariato. Un gioco infame a cui prende parte anche chi si integra con lo stato, chi abbandona la lotta armata e il proletariato.

Attraverso questi ultimi la borghesia tenta di riscrivere gli eventi adattandoli alle proprie necessità politiche attuali e future. C’è il tentativo di ubriacare il proletariato con mulini di stupide parole, di iniziative tragicomiche. Il fine è sempre il solito: tenere il proletariato al carro del pacifismo, della subordinazione, del predominio dei rapporti sociali borghesi.

Non riusciranno a stravolgere la natura della lotta armata. Non raggiungeranno tale scopo neppure i giudici, con il loro allucinante procedere, con la loro funzione di riduzione e distruzione attraverso l’adeguamento della realtà storica della rivoluzione proletaria, e non solo di quella, al codice penale.

Nonostante le uccisioni, le carcerazioni con le loro devastazioni psicologiche ed affettive, i processi, le sconfitte, le falsificazioni, i tradimenti, la rivoluzione proletaria, anche in questo paese, riemergerà sospinta e rafforzata dalla sua essenza più profonda: la lotta armata per il comunismo.

Tutto ciò, assieme alla ricerca di unità, di collettività anche nelle prigioni, oggi, ci appartiene.

Solidarietà con tutti i prigionieri che dall’Europa all’America Latina, dal Medio Oriente al Sud-est Asiatico, dal Sudafrica agli USA, lottano contro il carcere imperialista.

Per l’unità dei rivoluzionari e di tutti i popoli che lottano contro l’imperialismo.

Per l’unità della classe operaia e del proletariato nella lotta armata contro la borghesia imperialista.

Vivono nelle lotte i compagni e le compagne e tutti i combattenti caduti nella guerra all’imperialismo.

 

Mario Fracasso, Maurizio Ferrari, Mario Mirra

 

Carcere di Rebibbia, 3 aprile 1989

Approfondire la crisi politica della borghesia imperialista. Tribunale di Milano, processo di appello per le armi – Comunicato dei prigionieri BR-PCC Tiziana Cherubini, Rossella Lupo, Franco Galloni depositato agli atti

Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente vogliamo qui riaffermare che tra la guerriglia e lo Stato esiste solo ed esclusivamente un rapporto di guerra, un rapporto che esprime l’unica dimensione valida dello scontro di classe e che per le BR si esplicita e si dispiega attraverso la strategia della lotta armata per il cui tramite si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe atti a sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato, cioè una strategia che dall’inizio alla fine caratterizza il processo rivoluzionario come proposta a tutta la classe. Una strategia che si è sviluppata nel corso del processo rivoluzionario: la prassi si è incaricata di dimostrare la necessità/praticabilità del terreno della guerra di classe, nonché l’attualità della questione del potere, in quanto la strategia della lotta armata è piano di disposizione generale delle forze che consente di affrontare contemporaneamente e globalmente tutti i piani dello scontro rivoluzionario e di attrezzare adeguatamente, nelle diverse fasi, il campo proletario allo scontro con lo Stato, uno scontro necessariamente prolungato e con andamento discontinuo date le caratteristiche assunte dagli Stati a capitalismo maturo a questo stadio di sviluppo dell’imperialismo.

In questo senso la determinazione e la coerenza delle BR in questi 19 anni di prassi rivoluzionaria e soprattutto nel corso della “ritirata strategica”, nel costruire i termini politici e militari del complesso andamento della guerra di classe, risiedono in primo luogo nelle ragioni storiche e politiche che presiedono e definiscono la lotta armata: avanzamento e adeguamento della politica rivoluzionaria alle forme di dominio della borghesia imperialista.

Infatti, l’affermarsi della guerriglia, indipendentemente dal contesto di classe specifico in cui si inserisce (che ne traccia invece il percorso pratico e la stessa strategia da seguire), è dato dalle condizioni storiche e politiche, economiche e sociali, determinatesi con la seconda guerra mondiale. Sono i mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo ha posto in essere che hanno caratterizzato la struttura economica, sociale e politica degli Stati nel dopoguerra, dentro il quadro più generale del bipolarismo: ovvero lo sviluppo monopolistico dell’imperialismo con il piano di internazionalizzazione/interdipendenza delle economie, il conseguente processo di polarizzazione tra le classi con il formarsi di una frazione dominante di borghesia imperialista aggregata al capitale finanziario USA e del proletariato metropolitano e, a livello politico, l’affermarsi della controrivoluzione preventiva quale elemento intrinseco agli strumenti e organismi della democrazia rappresentativa, che darà una precisa caratterizzazione al rapporto politico tra le classi, allo scopo di istituzionalizzare il conflitto di classe mantenendolo entro gli “steccati” della compatibilità borghese per non farlo collimare con il piano rivoluzionario; un elemento permanente, dunque, che influenzerà il carattere dello scontro.

È stato questo il terreno oggettivo su cui si è misurata l’espressione della politica rivoluzionaria, la soggettività rivoluzionaria che matura la guerriglia quale suo unico modo di operare in queste condizioni storicamente determinatesi e, nello specifico del centro imperialista, la necessità di operare nell’unità del politico e del militare in un processo di guerra di lunga durata. In sintesi, la lotta armata quale solo modo in cui si rende praticabile il processo rivoluzionario e si materializza lo sviluppo della guerra di classe.

Nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione, il rovescio dialettico di questo dato consiste nel fatto che la borghesia imperialista adegua il governo del conflitto di classe, la mediazione politica esistente tra le classi, ai caratteri assunti dallo scontro (oltre al dato strutturale che ne è alla base, ovvero il movimento dell’economia e le necessità poste dal suo governo): nello specifico del nostro paese lo Stato, costretto a confrontarsi con il portato politico e strategico dello scontro rivoluzionario che si è affermato in Italia, su questo ha basato i termini della controrivoluzione degli anni ottanta, i cui effetti si sono dispiegati sull’intero campo proletario generando il clima e il terreno favorevoli alle forzature nei rapporti politici tra le classi; e questo perché se da un lato controrivoluzione politico-militare dello Stato e controrivoluzione preventiva si pongono su due piani diversi e distinti tra loro, dall’altro i riflessi sui rapporti di forza determinati dalla dinamica controrivoluzionaria, riversandosi sui rapporti politici generali tra le classi, hanno rideterminato il carattere della controrivoluzione preventiva, avendone quest’ultima incorporato il grado di assestamento.

Per questo affermiamo che gli esiti della controrivoluzione degli anni ottanta hanno reso possibile, in questa fase, un ulteriore approfondimento delle forme di dominio della borghesia imperialista: un approfondimento espresso dal progetto di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, quale espressione del suo necessario adeguamento ai nuovi termini posti dall’evoluzione/crisi dell’imperialismo tendendo a conformare ad essi il governo del conflitto di classe.

L’evoluzione del quadro politico interno conferma che a tutt’oggi la contraddizione dominante che oppone classe e Stato è rappresentata da questo progetto politico, teso a modificare i termini della mediazione politica, cioè l’uso e gli strumenti stessi della democrazia rappresentativa al fine di consolidare il regime instauratosi e di creare le condizioni politiche e istituzionali tese a costruire equilibri politici in grado di esprimere esecutivi “forti e stabili”, come risposta necessaria e ineludibile alla crisi; un progetto teso a svincolare l’esecutivo dalle spinte antagoniste prodotte dallo scontro di classe, e rispondente alla duplice funzione dello Stato, in quanto rappresentante degli interessi generali della borghesia imperialista (soprattutto a livello internazionale, nel senso della funzione e del peso che l’Italia riveste all’interno della catena e nei processi di coesione politico-economica dell’Europa occidentale) e insieme mediatore del conflitto di classe. Un progetto che vede infatti nella DC la forza politica che vi è maggiormente impegnata, come momento centrale della stabilità politica, proprio in quanto essa costituisce il serbatoio storico della classe dirigente borghese, così da caratterizzarsi come asse principale delle svolte politiche nel paese, nonché reale gestore del potere sostanziale.

Un progetto che, lungi dall’essere pianificabile a tavolino, o scandito dal solo piano delle necessità, nella realtà deve misurarsi con tutta una serie di contraddizioni che scaturiscono direttamente e proporzionalmente alla complessità dei piani che investe e ai quali tende a dare soluzione; contraddizioni che non ne inficiano la sostanza, ma ne costituiscono punto di squilibrio, in quanto sono espressione e riflesso del quadro definito dai reali rapporti generali politici e di forza tra classi di cui la borghesia deve tenere conto, pur se per operare su di essi delle forzature.

Ovvero, sul piano del rapporto classe/Stato, questo progetto investe direttamente gli interessi politici e materiali della classe e per questo incontra vasta resistenza e opposizione nel campo proletario, che ha dimostrato a più riprese la propria indisponibilità a pagare i costi della crisi della borghesia imperialista e a subire gli effetti della riforma dei poteri dello Stato, proprio in quanto questa tende a realizzare la possibilità per l’esecutivo di fare forzature sulla mediazione politica, intervenendo direttamente nelle principali questioni che riguardano il governo del conflitto di classe, dal piano costituzionale (con le modifiche al diritto di sciopero e alla rappresentatività sindacale) al piano della contrattazione (accordi “pilota”, vertenze “calde”, uso della precettazione, “normalizzazione“ dei luoghi di lavoro con l’ausilio diretto dei carabinieri). Inoltre esso investe le stesse forze politiche rappresentanti gli interessi generali della frazione dominante della borghesia imperialista che devono adeguare il loro ruolo e la loro funzione in relazione alla modifica del modo di operare la mediazione politica, non solo per i passaggi già effettuati con la riforma della Presidenza del Consiglio e con la modifica del voto segreto, ma per quelli da effettuare all’interno di questa che non a caso viene definita “fase costituente” che tende ad evolvere verso una Seconda repubblica e che passa attraverso lo snodo della riforma elettorale: un processo reso contraddittorio non solo per questa sorta di transizione nel ruolo dei partiti nel mediare la modifica del quadro istituzionale, che comporta mutamenti interni ai partiti stessi e nei loro reciproci rapporti di coalizione, ma soprattutto per la resistenza che questo progetto incontra nel campo proletario, che si ripercuote sulla possibilità di costruzione di “stabili” (in senso sempre relativo alle diverse fasi dello scontro proletariato/borghesia e al rapporto rivoluzione/controrivoluzione) equilibri di forza e politici tra classe e Stato, piano a cui sono subordinati appunto gli stessi rapporti interborghesi.

Infatti anche le diverse “ricette” tese a dare soluzione al problema della “stabilità” e “governabilità” nel quadro del più generale riadeguamento dello Stato verso la cosiddetta “democrazia compiuta”, cioè in un processo di riavvicinamento ai modelli delle democrazie mature europee, non sono semplicemente il prodotto di approcci “particolaristi” (cioè di partito) alle principali questioni sul tappeto e all’ordine di priorità secondo cui affrontarle, ovvero non sono il riflesso di “giochi di potere” fini a se stessi, ma sono principalmente e sostanzialmente il prodotto di contraddizioni che scaturiscono dallo scontro di classe che fa sì che si determini uno spostamento in avanti delle stesse contraddizioni interborghesi, e, di conseguenza, del loro punto di sutura. Questo va configurandosi, pur dentro un duro scontro politico, verso un ulteriore rafforzamento dell’esecutivo, in particolare un rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio, che lo fa tendere verso una forma di “governo presidenziale” dentro un quadro di “alternanza” solo apparente, nella misura in cui essa si gioca tutta all’interno dello schieramento interborghese, intesa cioè come avvicendamento degli stessi partiti di maggioranza alla guida dell’esecutivo, così da caratterizzarsi nella realtà come una serie di “staffette” che hanno la funzione di gestire la non certo indolore transizione nel processo di modifica del quadro istituzionale. E questo perché in Italia, date le specificità della democrazia rappresentativa, così come è venuta maturando storicamente e politicamente, i “modelli” di governo che si formano sono il prodotto degli equilibri generali politici e di forza tra classe e Stato, e solo secondariamente e di riflesso a ciò riferiti all’ambito interborghese. Così anche l’attuale crisi, che per il tipo di gestione si configura come una notevole forzatura a tutti i livelli, evidenzia lo stallo del modello di “governo di coalizione” così come finora era stato inteso e su cui si erano costruiti gli equilibri politici tra i partiti di maggioranza, nella misura in cui tale modello non è più adeguato a confrontarsi con le contraddizioni e le spinte antagoniste scaturite dallo scontro di classe che si è prodotto nel paese; è da questo punto focale che muovono i progetti di modifica del modo di operare la mediazione politica partendo dalla situazione data e non da ipotetici quanto irreali quadri di pace sociale.

Un movimento che materialmente coinvolge anche il PCI, forza che è uscita essa stessa ridimensionata nel suo peso politico dalla fase della controrivoluzione che, riflettendosi sul carattere della mediazione politica, le ha sottratto gli strumenti attraverso i quali, nella fase precedente, era deputata a svolgere la sua funzione di rappresentanza istituzionale della classe. La profonda crisi che ne è derivata rende il PCI incapace di trovare un proprio ruolo se non muovendosi entro gli spazi predeterminati dai reali rapporti di forza, che nella realtà lo riducono al ruolo di “pura garanzia democratica” ai progetti democristiani, e ponendolo in posizione subalterna, caratterizza il suo coinvolgimento come puramente strumentale in quanto escluso in partenza come polo dell’“alternanza”.

Per la sua centralità e profondità di intervento, in quanto assume caratteristiche di “rifondazione” dello Stato ai nuovi termini di sviluppo e di crisi dell’imperialismo, è un progetto che, avvalendosi degli attuali rapporti di forza a favore della borghesia, tende alla loro ratifica/assestamento in campo istituzionale e ad un ulteriore rafforzamento dello Stato nei confronti del campo proletario: per questo è un progetto antiproletario e controrivoluzionario, e in quanto tale è stato individuato e attaccato dalla nostra organizzazione. Un attacco che ha contribuito alla sua attuale impasse politica, dimostrando contemporaneamente la necessità/possibilità di impattare ed inceppare la tendenza antiproletaria e controrivoluzionaria intrinseca al progetto stesso.

Questo dato e insieme il salto di qualità operato con il contributo al rafforzamento/consolidamento della politica del Fronte Combattente Antimperialista con la costruzione di un primo momento di unità con la RAF sono gli elementi che inequivocabilmente chiariscono la sostanza del rilancio dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria operato dalle BR per la costruzione del PCC in questi anni di ritirata strategica e le prospettive politiche che esso ha aperto, determinando uno spostamento in avanti del piano di scontro rivoluzionario. Questo il dato politico centrale nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione che ha posto lo Stato a ridefinire contromisure per contrastare il portato politico e strategico della proposta rivoluzionaria sul campo proletario, concretizzatesi in un piano di deterrenza teso ad operare sul duplice livello: la guerriglia e il suo referente di classe, ovvero un piano teso a far pesare la cattura di alcuni militanti sull’intero proletariato, sulle condizioni politiche generali dello scontro, tentando di spacciarla per l’esaurimento delle stesse condizioni del processo rivoluzionario. Un piano controrivoluzionario che si avvale anche del rilancio, da parte dello Stato, per bocca di ex militanti elevati al rango di collaborazionisti, del logoro copione della “soluzione politica” nelle sue più diverse accezioni, con il quale lo Stato, per l’impossibilità di mettere in discussione la praticabilità e la validità della proposta delle BR, tenta di contrastarla agendo “a valle” del problema, riferendosi cioè ad una lettura falsata delle ragioni che presiedono l’affermarsi e lo svilupparsi della lotta armata, e in ciò tentando di operare un’identificazione tra guerriglia e prigionieri, come questione di “reduci”. Considerato nel suo complesso, un piano controrivoluzionario che, lungi dall’essere “risolutivo” – una velleità tutta borghese – influisce però sul rapporto rivoluzione/controrivoluzione poiché segna l’approfondimento delle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario.

D’altro canto, e alla base di tutto ciò, restano però i fatti: nello svolgersi della lotta armata nell’arco di questi 19 anni di attività rivoluzionaria delle BR, il dato politico che si è sviluppato e sedimentato storicamente nel rapporto tra le classi ha definito un patrimonio di esperienze, un radicamento nel tessuto proletario, una dialettica in termini di direzione/organizzazione/formazione con le istanze più mature dell’autonomia di classe su cui si riproduce la sostanza e il grado odierno dello scontro, in relazione cioè con il suo approfondimento. Questi anni di controrivoluzione che hanno necessariamente imposto alla nostra organizzazione di misurarsi con le leggi dello scontro e di maturare una rinnovata capacità di direzione/organizzazione delle forze rivoluzionarie e proletarie, non sono riusciti a spezzare quel filo organico che lega le BR alle componenti proletarie e rivoluzionarie vive del paese, insomma al tessuto proletario, perché da questo sono originate, in questo si riproducono, di questo sono l’avanguardia armata.

Fatti che riaffermano l’efficacia dei termini politico-programmatici delle BR e la valenza della strategia della lotta armata quale alternativa proletaria alla crisi della borghesia imperialista.

Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di riforma dei poteri dello Stato.

Approfondire la crisi politica della borghesia imperialista.

Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale, nello specifico i progetti imperialisti di “normalizzazione” dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.

Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica (Europa occidentale-Mediterraneo-Medioriente).

Onore a tutti i compagni e rivoluzionari antimperialisti caduti.

 

I militanti delle BR per la costruzione del PCC – Tiziana Cherubini, Rossella Lupo, Franco Galloni

 

Milano, 19 giugno 1989

Per la costruzione del Fronte Rivoluzionario in Europa occidentale. Roma, Processo per “Insurrezione”, documento dei Aurora Betti e Nicola De Maria allegato agli atti

La mistificazione e deformazione dell’esperienza rivoluzionaria che ha preso avvio a cavallo degli anni ’60-70 è tra gli obiettivi tenacemente perseguiti dalla controrivoluzione: un intenso e articolato lavoro ideologico di smemorizzazione degli elementi più significativi, dirompenti e non integrabili espressi dalla soggettività rivoluzionaria, in primo luogo dalla guerriglia, che ha l’intento di impedire che essi vivano e si riproducano nel presente e nel futuro dello scontro di classe.

Le aule dei tribunali e i mass-media, con linguaggi assai simili, sono stati tra i luoghi di trasmissione di questo messaggio.

Il processo per insurrezione avrebbe dovuto essere un momento funzionale a questo disegno. La presenza attiva dei prigionieri comunisti in quest’aula ha di fatto impedito che ciò fosse possibile.

Ma è l’insieme di questa operazione ideologica controrivoluzionaria che è destinata a fallire. Ce lo dicono chiaramente le immagini che ogni giorno sono costretti a farci vedere, che neanche la censura può negare: le immagini degli shabab palestinesi, dei neri dell’Azania/Sud Africa, del Centro America, del Perù… le immagini dei movimenti che attraversano la metropoli imperialista, fino agli operai e agli studenti della Tien An Men e dell’Europa dell’Est, così difficilmente omologabili. Ce lo dice la realtà della guerriglia del Fronte Farabundo Martì, della guerriglia palestinese… dell’attacco, nel cuore dell’imperialismo, della Rote Armee Fraktion.

Non è possibile disinnescare il ciclo di lotte rivoluzionarie sviluppatosi a partire dalla fine degli anni ’60: quelle che fin da allora sono maturate nell’Occidente capitalistico, che hanno messo a tacere tutti coloro che si erano adoperati a dimostrare l’impossibilità e l’impraticabilità della rivoluzione nel centro dell’impero; quelle che hanno espresso le prime esperienze di guerriglia nella metropoli, la RAF e le Brigate Rosse. Quelle che hanno le loro radici nelle esperienze del Che, del Vietnam, dei primi Feddayn, che affermarono la possibilità di combattere e di vincere, con la guerriglia di popolo, il più feroce degli imperialismi, quello che si esercita contro le periferie dell’impero. Una lunga esplosione che ha messo a nudo la fragilità del sistema sociale capitalistico e ne ha reso trasparente (al di là di ogni sua apparente complessità ed opacità) la contraddizione: il processo di espropriazione e sovradeterminazione, la dinamica di proletarizzazione che investe, con sempre maggiore intensità ed estensione, strati sempre più ampi della società e l’insieme del territorio planetario. Un ciclo di lotte che ha comunicato ed interagito con le esperienze della Rivoluzione Culturale Cinese da un lato e della Rivoluzione Cubana dall’altro che hanno affermato, nei momenti più alti del loro percorso, la rivoluzione come processo ininterrotto ed un nuovo internazionalismo proletario, aprendo così all’esperienza comunista – sulla base di una critica rivoluzionaria al cosiddetto “socialismo reale” – nuovi orizzonti e possibilità.

Questo grande ciclo internazionale di lotte rivoluzionarie ha spostato in avanti tutte le contraddizioni e sedimentato nuovi livelli di coscienza e desiderabilità, a cui il rapporto di capitale non è in grado di dare risposta. Gli anni ’80, anni segnati da una violenta quanto articolata controrivoluzione, ne hanno fatto venire alla luce solo la resistenza tenace, ma già oggi è possibile… nelle fabbriche, nei quartieri, nelle università, nelle scuole… nel centro e nelle periferie dell’impero, come nei paesi del “socialismo reale”… cogliere un livello più elevato di contenuti che premono e si preparano alla lotta, ad un nuovo inizio. È nelle potenzialità che questa realtà di classe apre allo scontro rivoluzionario che collochiamo la nostra militanza comunista e che intendiamo sviluppare nuovi livelli di comunicazione e lotta rivoluzionaria.

Il rapporto che instauriamo con questo tribunale è dunque chiaro: non ne riconosciamo alcuna legittimità e lo combattiamo quale espressione di un disegno politico e ideologico controrivoluzionario.

  1. Le principali contraddizioni del sistema capitalistico che le lotte rivoluzionarie degli anni ’60-70 avevano impattato, con le armi della critica e la critica delle armi, si sono riprodotte nell’ultimo decennio con nuova intensità e in uno spazio ancora più esteso. Sono stati, questi ultimi, anni di “rivoluzione” per il modo di produzione capitalistico e di conseguenza per l’insieme della formazione sociale dominata dal rapporto di capitale. Ma in che cosa è consistita, che cosa ha prodotto questa “rivoluzione”? È nella natura stessa del capitale, nella sua dinamica strutturale, rivoluzionare continuamente se stesso. Si tratta di un processo di approfondimento ed estensione del rapporto di sfruttamento che storicamente si è manifestato attraverso alcune fasi di grandi trasformazioni nel modo di produzione e di riproduzione (dalla manifattura alla grande industria al fordismo… all’informatizzazione). In questi anni e a tutt’oggi siamo nel pieno di uno di questi grandi “passaggi”. Una fase di :
    – approfondimento del processo di espropriazione “reale”: cioè della crescente separazione delle funzioni di direzione, di comando, di ideazione dalle funzioni esecutive (manuali o intellettuali che siano)… che a partire dai processi lavorativi, da un gigantesco salto di modellizzazione e formalizzazione delle forze produttive, si articola complessamente ai diversi livelli del sociale, col fine di un aumento della produttività del lavoro e di una razionalizzazione del sistema di produzione-riproduzione;
    – estensione del rapporto di capitale a nuovi processi di lavoro e a nuovi strati sociali, nella metropoli e verso le periferie dell’impero.
    L’impresa multinazionale globale è il soggetto storico capitalistico dominante che, a partire dalla fabbrica, cellula della società capitalistica, ha ridefinito produzione immediata, tempi di riproduzione economico-sociale, modi di riproduzione del rapporto sociale.
    La centralità del rapporto sociale di produzione, quale motore della società capitalistica, è stata così riaffermata ed ha ridefinito il politico e l’ideologico: il fattore centrale del dominio, in barba a tutte le tesi soggettiviste sul predominio del politico e dell’ideologico nel capitalismo maturo, rimane situato nella divisione tecnica del lavoro, nella strutturazione dei processi lavorativi e delle forze produttive. «Il capitale crea la sua forma sociale»: dal cuore della produzione alla riproduzione (alle metropoli, allo Stato), l’impresa capitalistica riconquista in questi anni la sua egemonia politica e sociale a livello “locale” e… su scala planetaria. La divisione tecnica del lavoro, infatti, ha rideterminato quella sociale anche a livello internazionale, riproducendo a livello planetario gerarchie di ruoli e funzioni di direzione ed esecuzione (centro e periferia). Una divisione internazionale del lavoro, una struttura gerarchizzata determinata dal dominio mondiale del rapporto di produzione capitalistico, che si fonda su uno sviluppo polarizzato delle forze produttive mondiali. Una egemonia riacquisita attraverso l’intensa pressione politica, militare ed economica sulla classe (valga per tutti l’esempio dello scontro alla Fiat dell’80, come “punto di svolta” per quanto riguarda l’Italia) e sui paesi della periferia (debito estero, ricatto FMI-BM… fino all’accerchiamento, oltre che economico, politico e militare, dei popoli e dei giovani Stati nazionali in lotta per l’autodeterminazione. Una pressione che ha fatto esplodere anche le contraddizioni già di per sé maturate all’interno delle formazioni sociali del “socialismo reale”. Queste ultime, subordinando il proprio sviluppo sociale allo “sviluppo delle forze produttive”, riducendo socializzazione e “statalizzazione”, limitando l’appropriazione al solo aspetto formale-giuridico, hanno di fatto riprodotto aspetti sostanziali del modo materiale di produzione capitalistico… riproducendone alla fine funzioni, ruoli di classe e modi di esercizio del potere. Si è aperta così la via agli attuali processi “riformatori” che intendono affrontare la profonda crisi sociale di questi paesi abbandonando progressivamente la pianificazione centralizzata, forma di “connessione impropria” per una struttura produttiva di tipo capitalistico, per la graduale acquisizione di una “economia di mercato” e delle relative ideologie e forme politiche ad essa funzionali, tentando in particolare uno scambio democrazia formale-aumento dello sfruttamento e della produttività del sistema, che è destinato in realtà a riprodurre le forme di governo tecnocratico-funzionale proprie del capitalismo maturo.
    Si apre così la prospettiva ad un inserimento subalterno nella divisione internazionale del lavoro, nel ciclo di produzione del capitale multinazionale, dell’Est europeo e, anche se in forme più mediate, dell’URSS. Un processo avviatosi da dieci anni nella Cina di Deng, in una forma particolarmente selvaggia e difficilmente generalizzabile, ma sicuramente indicativa del tipo di rapporto che il sistema imperialista occidentale intende instaurare con l’area del “socialismo reale”.
    Sono processi questi, che vanno ridefinendo i rapporti di forza tra i capitali a livello internazionale in uno scontro concorrenziale ormai globale che sta innescando forme nuove di governo e di mediazione sovranazionale e disegnando “aree integrate” e nuove gerarchie; con USA, CEE e Giappone al centro, quali poli consolidati di un sistema imperialista globale, che instaura con le sue periferie rapporti di integrazione disciplinata e dipendente o, viceversa – per chi rifiuta questo tipo di rapporto e sceglie la via dell’autodeterminazione – di annientamento attraverso le guerre “a bassa intensità”.
    Ma insieme al suo rapporto il capitale ha riprodotto anche le sue grandi contraddizioni:
    – Innanzitutto quella insita nella riproduzione approfondita del rapporto di capitale, nel processo di espropriazione “reale”. Un processo che, con la sua intrinseca contraddizione antagonistica, dalla “fabbrica” si riproduce come modello in ogni settore dell’attività lavorativa sociale ed informa la razionalizzazione del sistema produzione-riproduzione (la metropoli) ed il rapporto centro-periferia.
    Sono chiari l’aumento dello sfruttamento e l’intensificazione dei processi di alienazione dovuti all’accentuazione del dominio sul tempo di lavoro tramite le nuove tecnologie; i processi di informatizzazione che permettono l’ulteriore integrazione e concentrazione di direzione e del comando da un lato e flessibilità dell’esecuzione dall’altro. Un insieme complesso di figure proletarie ne è colpito: dai tecnici che subiscono la sottomissione reale del lavoro intellettuale nel “terziario avanzato”, nelle università, nei centri di ricerca, ai lavoratori dei servizi “razionalizzati”, alla forza-lavoro di più recente immigrazione deportata dal Sud del pianeta, ricattata dal lavoro nero legalizzato; dagli operai sottomessi ai ritmi e ai tempi delle grandi fabbriche automatizzate, alle lavoratrici supersfruttate nei reparti decentrati della fabbrica multinazionale, nel “Terzo Mondo”.
    Sono chiare le conseguenze dei processi di rifunzionalizzazione e riorganizzazione spazio/temporale del territorio riproduttivo metropolitano nelle aree del centro: non vi è metropoli che in questi anni non abbia subito una profonda ristrutturazione e razionalizzazione che, oltre a processi di deportazione di intere fasce di popolazione proletaria (per fare posto ai nuovi centri direzionali, alle mega-infrastrutture di sistemi di comunicazione e trasporto, ai “parchi scientifici”)… ha imposto i tempi e la produttività, generati dall’ulteriore velocificazione del ciclo di rotazione del capitale, portando all’estremo la mercificazione delle relazioni sociali e del “tempo libero” e il coinvolgimento ideologico nel modello di consumo producendo atomizzazione, isolamento e nuove alienazioni. Così come saltano agli occhi le condizioni di mera sopravvivenza in cui vivono milioni di donne e uomini nelle sterminate bidonvilles ai margini delle mega-metropoli del “Terzo Mondo”, in modo da rendere disponibile un’immensa riserva di forza-lavoro, costretta ad accettare la flessibilità selvaggia del lavoro decentrato nella periferia ad emigrare al Nord seguendo i cicli e le esigenze del capitale imperialista.
    Sono chiari gli effetti distruttivi della dinamica di modellizzazione e formalizzazione delle forze produttive in funzione della valorizzazione capitalistica, di messa a punto di nuovi strumenti per l’approfondimento del dominio sull’uomo e la natura, che hanno, nella scienza sottomessa al capitale, uno dei vettori fondamentali: dalle sperimentazioni chimiche, biologiche, nucleari che desertificano intere aree, allo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali che sconvolgono l’ecosistema; dalle catastrofi nucleari alle ricerche sulle nuove tecnologie manipolatorie (biotecnologie…). Dinamiche che hanno ricadute, per le loro dimensioni, non più confinabili in questo o quel continente, nel Sud o nel Nord del mondo, che interessano, immediatamente, l’intero pianeta.
    È chiaro dunque il grande processo di proletarizzazione da un lato e di sfruttamento intensivo della natura dall’altro che ha caratterizzato questi anni e l’accelerazione di queste dinamiche che caratterizza il capitalismo maturo, portando agli estremi un processo intrinseco al modo di produzione capitalistico.
    Con Marx: «La produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio».
    – Le contraddizioni relative al processo di esecutivizzazione e centralizzazione che attraversa ogni livello di articolazione del politico, dagli organismi sindacali di base agli Stati, alle istituzioni del comando sovranazionale, che riproduce al più alto livello la separazione del politico propria del capitalismo, atta a rendere lo Stato pienamente funzionale tanto alle esigenze di connessione/mediazione economico-sociale, quanto a quelle connesse al suo ruolo di garante del dominio di classe.
    Ogni velo è tolto ormai alla democrazia formale, puro rivestimento di una forma di governo tecnocratico-funzionale flessibile. Forma che necessita di una capacità di accentramento coercitivo e neo-autoritario da un lato e di una pratica articolata, produttrice di partecipazione attiva e di responsabilizzazione decentrata dall’altro, secondo una concezione di gestione e di governo che ha il modello informatico come riferimento. La democrazia della Trilaterale e di Kissinger che applaude alla strage di Tien An Men, del Venezuela, dell’Algeria, della Palestina… e fa sedere al medesimo tavolo Verdi e… Banca Mondiale! Che consiglia ai “riformisti” dell’Est di usare la mano pesante contro gli operai in sciopero, che mette ordine nelle City europee e nord-americane… e fa eleggere un sindaco nero a New York!
    – Le contraddizioni relative ai processi di ristrutturazione e centralizzazione nella produzione di informazione e nell’industria culturale; processi che sono funzionali allo sviluppo di nuove forme di dominio ideologico sia a fini immediatamente economici di “produzione del consumatore”, sia quali strumenti di prevenzione e controllo sociale… che generano dinamiche di omologazione culturale, di manipolazione delle coscienze e meccanismi di esclusione. Processi all’origine di nuove forme di alienazione, di un vero e proprio processo di colonizzazione culturale, che investono il centro come la periferia dell’impero.
    Queste grandi contraddizioni sul terreno dei rapporti (economico, politico, ideologico-culturale) capitalistici, sono all’origine di nuove esplosioni, di lotte che preparano nuovi scenari e possibilità rivoluzionarie, lotte che mostrano le crepe di questo rinnovato tentativo egemonico del modello capitalistico a livello mondiale. È difficile trovare un paese della periferia dell’impero che non si sia infiammato in questi anni, dalle rivolte nei quartieri proletari in Argentina alla vera e propria insurrezione venezuelana, al Perù, al Cile… al Centro America. Dall’insurrezione algerina alla Giordania… alla rivoluzione palestinese. Dall’Azania/Sud Africa alla Corea del Sud, dove grandi scioperi operai e studenteschi hanno messo in discussione i modi di sfruttamento del capitale multinazionale anche nelle periferie economicamente più sviluppate. Tutti momenti che, al di là delle loro specifiche rivendicazioni, hanno indirizzato la loro rabbia contro i maggiori organismi di governo sovranazionale del sistema imperialista, il FMI, la Banca Mondiale… trovando anche momenti importanti di convergenza e unificazione come a Berlino nel settembre1988. Dagli assalti alla Union Carbide per gli anniversari della strage chimica di Bhopal… alla resistenza delle popolazioni del Borneo, dell’Amazzonia contro la distruzione di immensi ambienti naturali e sociali da parte delle multinazionali… fino alle mobilitazioni di massa contro i processi di omologazione culturale, di sottomissione all’Occidente capitalistico e imperialista nel mondo arabo…
    Ma anche nel centro imperialista vi è un proliferare di lotte di grande qualità critica: da quelle contro la strutturazione capitalistica della produzione di sapere nelle università, che ha avuto nel movimento “student/innen” tedesco dell’88 la sua punta più alta… a quelle sul “tempo flessibile” contro la nuova organizzazione del lavoro e la struttura gerarchizzata della fabbrica automatizzata, contro lo scambio ricattatorio salario/produttività… a quelle contro la razionalizzazione del sistema dei trasporti, dai portuali ai ferrovieri… a quelle contro le nuove forme di prevenzione e controllo, di razzismo e sessismo… fino alle lotte contro le produzioni nucleari e le ricerche biogenetiche. Infine, nonostante la natura del tutto particolare della situazione cinese, il movimento che ha riempito piazza Tien An Men ci dice cosa cova sotto le ceneri di un paese del “socialismo reale” sottoposto alle leggi dell’attuale divisione del lavoro capitalistica.
    L’intensificazione dello sfruttamento e gli effetti della razionalizzazione economico-sociale che, anche se in forme meno selvagge, investiranno anche gli altri paesi dell’Est che hanno aperto le porte alle “joint-ventures” con le multinazionali occidentali, sono destinati a far saltare molte mediazioni proprie di quelle formazioni sociali; tanto più in un momento, come quello attuale, in cui le masse, in quei paesi, si fanno protagoniste: è difficile pensare che il capitalismo possa dare una risposta adeguata alle istanze liberatorie, per quanto confuse, che maturano nelle coscienze di chi oggi scende in piazza. Dietro lo scintillio della merce, del consumo… vi è pur sempre il lavoro, lo sfruttamento! E laddove la “normalità” delle leggi sociali capitalistiche non è ancora pienamente data, non ne è affatto scontata l’accettazione passiva… i giochi non sono fatti, anzi, anche all’Est, si stanno solo aprendo!
  2. L’Europa è il luogo dove più intensamente si intrecciano le grandi contraddizioni dell’imperialismo odierno. Sia per i processi strutturali in atto al proprio interno, sia per il rapporto che essa va instaurando verso la “sua” periferia, il Sud Mediterraneo, sia per il ruolo che essa intende assumere nel processo di integrazione nella divisione internazionale del lavoro dei paesi dell’area del “socialismo reale”.
    Nella lotta contro il sistema capitalistico, contro il modello sociale che il capitale europeo-occidentale intende imporre con l’integrazione del Sud e l’espansione verso l’Est, è possibile trovare una base unitaria di interessi strategici del proletariato dell’area. Unità del proletariato dell’Occidente europeo con quello emergente del Sud Mediterraneo e con quello dell’Est, le cui condizioni ed aspirazioni sono rese, dai processi attuali, a noi sempre più vicine.
    È dunque più che mai urgente ed attuale il problema della rifondazione di una progettualità, in grado di aprire un fronte di lotta rivoluzionaria nel centro imperialista europeo-occidentale, di costruire l’autonomia e l’indipendenza del proletariato europeo sul piano dei contenuti e dell’organizzazione. Un fronte rivoluzionario in grado di esprimere una strategia unitaria che riesca a rapportarsi sia con il complesso scontro antimperialista e antisionista che si sta sviluppando nel Sud Mediterraneo, sia con le potenzialità insite negli attuali sconvolgenti movimenti di massa e nei momenti di base più avanzati dell’Est europeo. Un fronte che si sviluppi in stretto rapporto con le più avanzate espressioni ed esperienze rivoluzionarie a livello mondiale, che si collochi e si coordini cioè in un fronte internazionale di lotta e di combattimento con l’obiettivo unitario di disarticolazione del sistema imperialista e di costruzione di un campo della rivoluzione, di un contropotere sociale rivoluzionario che assuma una sua propria dimensione mondiale. Un fronte rivoluzionario che costruisca ed esprima la sua forza in un processo di lunga durata, entro cui si generi e maturi un dualismo di poteri capace di agire in senso rivoluzionario sulle grandi contraddizioni intrinseche al rapporto di capitale. Un processo internazionale di rivoluzione ininterrotta, in cui ciascun percorso si confronti con una dimensione mondiale della lotta, perché non può esserci rottura di un solo anello del sistema imperialista ma una dialettica di rotture, di processi di liberazione che interagiscono tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest del mondo, perché una lotta non può fare a meno dell’altra!
    Un processo certamente non lineare, fatto anche di tappe qualitative, di punti di svolta e di accelerazione; un processo differenziato che, da area ad area, nel centro e nelle periferie, assume tempi e modi particolari, che tende al crollo del sistema imperialista, quale tappa decisiva nella transizione comunista.
    Rivoluzione dunque, concepita non come evento, concentrato in un momento insurrezionale, ma come processo, un processo di costruzione e distruzione. Di disarticolazione rivoluzionaria dei principali rapporti ed apparati che sorreggono la formazione sociale capitalistica (ormai planetaria) e di costruzione dell’“uomo nuovo” e degli embrioni della “comunità reale”; di maturazione di rapporti sociali liberi dallo sfruttamento e dall’alienazione che si condensano nei luoghi delle lotte, nei modi di organizzazione di esse e nella coscienza critica rivoluzionaria: come lo è stato… nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, nelle strade delle metropoli dell’Occidente… nella giungla del Vietnam, nei campi palestinesi… fino al Salvador di oggi… nello scontro rivoluzionario che ha scosso e scuote il sistema imperialista dagli anni ’60 in poi. Un processo rivoluzionario il cui soggetto strategico è il proletariato internazionale fattosi “classe per sé”.
    È l’attuale composizione oggettiva della classe, i processi di proletarizzazione che ne hanno ridisegnato la strutturazione interna e gli interessi, al centro come alla periferia, che rendono possibile pensare (differentemente dal periodo storico in cui la Terza Internazionale espresse una strategia politica “frontista” di alleanze interclassiste) alla costituzione del soggetto della transizione rivoluzionaria come ad un processo di ricomposizione di classe. Se nelle aree metropolitane del centro si tratta di una realtà pienamente affermatasi, nella periferia si può parlare di una tendenza in atto. Un processo in cui la classe inverte la propria frammentazione (sin dalle origini connaturata alle funzioni di forza-lavoro, ma fortemente accentuatasi nel capitalismo maturo) per ricomporsi in soggetto consapevole, per sé. Superando anche i limiti storici di una impostazione che ha relegato lo scontro diretto tra le classi, quello attorno al rapporto di capitale, ad una dimensione puramente economicistica, riducendo il terreno dello scontro politico alla sola critica degli apparati garanti della riproduzione del rapporto sociale e delegati alla connessione/mediazione economico-sociale (allo Stato). Intendendo invece il processo di ricomposizione di classe, a livello politico, come processo di acquisizione di consapevolezza e critica rivoluzionaria a partire dal cuore del rapporto di capitale, dalle dinamiche di espropriazione e sovradeterminazione ad esso connaturate. Un processo che non inizia certo oggi, che è vissuto in modo latente nei momenti alti dello scontro rivoluzionario sviluppatosi dagli anni ’60 in poi, ma che deve farsi pienamente consapevole, linea di condotta per la soggettività rivoluzionaria.
    – Un processo che impatti anzitutto il cuore della dinamica capitalistica, il processo di valorizzazione e, dunque, di espropriazione “reale”. Un processo di appropriazione reale: di disarticolazione della sottomissione reale del lavoro al capitale, di lotta alla dinamica divaricante direzione/esecuzione in ogni processo di lavoro, di ricomposizione nella lotta di questa separazione. Un processo di critica e rivoluzionamento delle forze produttive, quali supporti materiali della continua riproduzione dei rapporti capitalistici di sfruttamento. Un processo di appropriazione come critica della fabbrica, intesa come rapporto sociale, cellula della forma sociale capitalistica. Un processo di appropriazione della metropoli come rivoluzionamento dello spazio/tempo strutturato e funzionale alla riproduzione del rapporto sociale capitalistico ed alla realizzazione, nel consumo, del plusvalore.
    Un processo di appropriazione del sapere, contro il modello attuale di produzione del sapere; un sapere strumento di manipolazione e di potere sull’uomo e sulla natura.
    Un processo di appropriazione come costruzione di un modello di sviluppo autocentrato e non più subordinato al processo di polarizzazione delle forze produttive, di rottura della gerarchia centro/periferia.
    Il processo di appropriazione reale è la base del processo disalienante, in quanto distrugge le condizioni oggettive dell’alienazione proletaria nel capitalismo, nel centro come nelle periferie. Un processo che ha come suo orizzonte, nel comunismo, la creazione di una “base materiale” che faccia del “regno della necessità” non più un regno di schiavitù, ma le fondamenta a partire dalle quali il genere umano possa edificare il “regno della libertà”.
    – Un processo di autodeterminazione politica: come processo di attacco alla forma del politico nel capitalismo, alla “comunità illusoria”, alla democrazia formale, alla apparenza di democrazia come forma di separazione delle classi subalterne da qualsiasi ruolo politico reale, tesa ad affermare il pieno dominio di classe del capitale. Caratteri accentuati dagli attuali processi di esecutivizzazione e centralizzazione del comando da un lato e di partecipazione attiva dall’altro, dall’assunzione di forme di “democrazia” tecnocratico-funzionale che portano agli estremi l’essenza di questa forma del politico. Un processo di costruzione, nello scontro rivoluzionario, delle prime esperienze di democrazia diretta e sostanziale, il cui orizzonte è, nella società comunista, la “comunità reale”. Un processo di autodeterminazione politica di ogni popolo oppresso dalla dittatura dei centri di comando dell’imperialismo.
    – Un processo di distruzione dei meccanismi di colonizzazione culturale e dominio ideologico che investono i proletari del centro come della periferia. Un processo di autodeterminazione ideologico-culturale. Contro i meccanismi di individualizzazione, atomizzazione, razzismo, sessismo… un processo di “rischiaramento delle coscienze”; di liberazione, nella lotta, dai processi manipolatori propri del capitalismo maturo; di costruzione di una coscienza e di una comunicazione sociale non alienata in cui, in una molteplicità e ricchezza di rapporti sociali e nella messa in comunicazione di differenze e pluralità, si possa realizzare il pieno sviluppo dell’individuo sociale. Un processo di distruzione del modello di socializzazione alienata fatta di identità sociali normate e svuotate dai linguaggi omologanti dei media e della merce, una socializzazione basata su meccanismi di esclusione e ghettizzazione.
    Questa è anche la lotta dei popoli oppressi per l’affermazione della propria identità… non per un arcaico ritorno alle comunità chiuse e incomunicanti delle formazioni sociali precapitalistiche, ma per far giocare la propria differenza in un processo comunicativo ormai planetario, per un arricchimento reciproco; contro i processi di colonizzazione culturale, contro il tentativo di annientarli per sottoporli al dominio del modello di consumo e comunicazione funzionali alla riproduzione capitalistica, alla supremazia della cultura bianca occidentale. Sono contenuti che si esprimono in forme embrionali nei moderni nazionalismi anticapitalistici, nel territorio europeo ed ai suoi immediati confini (nel mondo arabo) così come nel cuore stesso degli Stati Uniti (dalle rivendicazioni del Black Panther Party degli anni ’60… al Movimento di Indipendenza Nuovo Africano degli anni ’80) e in forme ormai più esplicite in Asia, Africa, America Latina.
    – Un processo che faccia vivere da oggi questi contenuti, nella pratica di un nuovo internazionalismo anticapitalistico, come contenuti universali di transizione. Per far sì che le lotte di oggi contro il comune nemico, il sistema imperialista, vadano verso la costruzione di una dimensione sociale senza steccati né frontiere, di una “comunità reale” planetaria.
    Non si tratta della definizione di un utopico programma, ma di un processo rivoluzionario di lunga durata, concepito come processo di transizione in atto che deve trovare i modi ed i passaggi di una sua materializzazione. Deve saper materializzare i rapporti di forza raggiunti, imponendo con la lotta rivoluzionaria un limite politico ai progetti attraverso cui vive e si attualizza storicamente il rapporto di espropriazione o sovradeterminazione capitalistico, come esso si manifesta in ciascuna congiuntura e in ciascuna area.
    Per noi ciò significa impattare l’Europa imperialista, in particolare la costruzione del “Blocco Europeo-Occidentale” che è il perno attorno a cui si articola, in questa area, il processo di ristrutturazione, di approfondimento ed estensione del rapporto di capitale, guidato dalle imprese multinazionali dominanti. Questa fase di transizione capitalistica sta generando, infatti, una strutturazione del sistema imperialista in aree integrate regionali. Aree che si sviluppano attorno ad alcuni poli centrali forti, che esercitano una influenza ed una egemonia diretta (politica, economica, militare) su insiemi di paesi dipendenti: dall’integrazione dell’area Canada-USA-Messico, a quella Giappone-area del Pacifico… alla CEE (con il capitale tedesco in posizione egemone) con le sue proiezioni verso il Sud Mediterraneo e l’Est europeo.
    Un “passaggio” capitalistico che produce, sia a livello globale che su scala regionale (e quindi anche in Europa), nuovi momenti di connessione e mediazione in istituzioni di governo sovranazionale e grossi movimenti di concentrazioni e centralizzazioni di capitali a livello produttivo e finanziario. Si tratta di cogliere da parte rivoluzionaria i processi strutturali che sostanziano l’attuale transizione capitalistica in quest’area, a partire dai quali e contro i quali potrà innescarsi un processo di lotte disarticolanti, capaci di materializzare un tratto di strada nel processo di transizione rivoluzionaria.
    Vediamone alcuni, i principali:
    – la ristrutturazione, informatizzazione e flessibilizzazione del processo produttivo;
    – la conseguente ristrutturazione del mercato del lavoro (la sua ulteriore segmentazione e il massiccio inserimento di forza-lavoro immigrata);
    – la ristrutturazione del sistema di formazione (università e scuola);
    – l’accentrazione dei processi di sottomissione reale e la razionalizzazione della produzione di sapere, della ricerca scientifico-tecnologica in particolare;
    – la razionalizzazione dei processi di lavoro nei servizi, sul modello della fabbrica produttiva;
    – la ristrutturazione delle aree metropolitane;
    – la centralizzazione dei sistema dei media e più in generale dell’informazione e dell’industria culturale;
    – la centralizzazione ed esecutivizzazione dell’apparato politico di dominio, a tutti i livelli, da quello di impresa a quello di governo della riproduzione sociale, a livello sovranazionale;
    – l’integrazione a livello continentale degli apparati di difesa e della controrivoluzione (apparato giuridico-poliziesco, ecc.).
    Si tratta di un insieme di processi strutturali che accentuano le dinamiche di proletarizzazione ed omogeneizzano ancor più la composizione della classe nell’area metropolitana europea, creando le condizioni oggettive perché si sviluppi un ciclo di lotte, a livello continentale, di resistenza alle linee di fondo che sostanziano la costruzione del “blocco europeo-occidentale” ed i maxi-progetti in cui essa si articola.
    La costruzione del “Blocco europeo-occidentale” significherà anche estensione del dominio del capitale multinazionale europeo e della sua influenza politica e militare (la costruzione di una politica estera e di una “difesa” comune sono, non a caso, tra gli obiettivi prioritari della CEE insieme all’integrazione economica) sui paesi del Sud Mediterraneo e verso l’Est europeo.
    Si vedono già le prime conseguenze di questo intervento attivo nel Sud Mediterraneo: la costruzione delle tre aree di mercato e di produzione (Unione del Maghreb Arabo, Consiglio di Cooperazione del Golfo e Consiglio di Cooperazione Arabo) è di fatto direttamente funzionale alle esigenze del ciclo produttivo della fabbrica multinazionale, che potrà decentrarvi i reparti di maggior sfruttamento intensivo di forza-lavoro, oltre a costituire un promettente sbocco di mercato e un territorio aperto alla dilapidazione di materie prime. La costruzione, d’altra parte, delle condizioni sociali che permetteranno di utilizzare quest’area, ancor più che nel passato, come riserva di forza-lavoro da deportare in Europa, per inserirla nelle fasce più basse e flessibili del mercato del lavoro. La formazione quindi di Stati “consolidati“ che dietro demagogiche riforme “democratiche” (Giordania, Marocco, Algeria…) nascondono il più ferreo autoritarismo e la distruzione di qualsiasi autonomia culturale, oltre che politica ed economica. La stabilizzazione politica dell’area diventa urgente, in particolare le pressioni sulla Rivoluzione Palestinese e sulle realtà arabe antimperialiste ed il sostegno all’entità sionista, quale arma di ricatto per gli Stati arabi ancora instabili o non del tutto allineati alle politiche imperialiste.
    L’Europa dell’Est è, nei sogni dei capitali multinazionali europei, la grande valvola di sfogo dei prossimi anni. La penetrazione delle imprese multinazionali ha qui come fine lo sfruttamento di una forza-lavoro a bassi salari ma, diversamente dal Sud, su un territorio già fortemente organizzato e industrializzato e con un proletariato storicamente strutturato e qualificato, adatto al tipo di tecnologie intermedie che il capitale intende decentrare in quei paesi. Se si realizzano i disegni del capitale occidentale, le conseguenze di questa penetrazione saranno: una radicale ristrutturazione della produzione con una intensificazione dello sfruttamento e del dominio sulle classi subalterne; il consolidamento della borghesia tecnocratica e manageriale e l’accentuazione dei dislivelli nella distribuzione; un tipo di riforme politico-istituzionali che, dietro l’apparenza di una maggiore libertà formale-astratta (democrazia rappresentativa e delegata), preparano regimi inevitabilmente autoritari, adatti ad imporre il necessario ridisciplinamento produttivo e sociale.
    Questa duplice proiezione/estensione del sistema capitalistico, guidato dal capitale europeo-occidentale, produrrà effetti a livello sociale e nella soggettività rivoluzionaria, che sono ancora in gran parte imprevedibili, ma sicuramente enormi. Se ne intravedono oggi alcuni tratti, sia a livello dei movimenti sociali che dello sviluppo delle realtà rivoluzionarie: dai flussi di immigrazione che definiscono una nuova composizione internazionale della classe, condizione oggettiva per la circolazione delle lotte e delle esperienze rivoluzionarie tra il Nord e il Sud del Mediterraneo… alle rivolte spontanee nel mondo arabo contro i processi di “modernizzazione“ capitalistico-occidentali, fino alla costante iniziativa rivoluzionaria ed antimperialista del popolo e della guerriglia libanesi e palestinesi. D’altra parte, l’esplosione delle formazioni sociali dei paesi del cosiddetto “socialismo reale” sta producendo movimenti di massa e un proliferare di esperienze di base i cui esiti sono tutti aperti, ma che assai difficilmente potranno adattarsi alla dura realtà dei processi di ristrutturazione e di ridisciplinamento che il capitale sta loro preparando.
    Le contraddizione che questa estensione dei rapporti economico-politico-ideologico-capitalistici produce, sono già all’origine di grandi movimenti sociali nell’area egemonizzata dal “Blocco europeo-occidentale”. Il loro sbocco dipenderà molto dalla capacità dei rivoluzionari euroccidentali di aprire un fronte che, dall’interno stesso, demolisca la “costruzione europea” imperialista e il sistema sociale di cui essa è espressione. Dalla capacità, allo stesso tempo, che essi avranno di sostenere attivamente, valorizzandoli, i punti più avanzati dello scontro di classe che si sviluppano nell’area.
  3. Un processo rivoluzionario che deve trovare nuove forme organizzative e di azione, più complesse di quelle che hanno sorretto le esperienze rivoluzionarie antecedenti, in grado di esprimere l’attuale composizione di classe, la pluralità di figure proletarie che la costituiscono. In grado di esprimere un modo di organizzazione della classe, nella lotta rivoluzionaria, in cui inizi a materializzarsi il processo di transizione, come percorso disalienante di autodeterminazione e superamento della separazione del Politico e della forma comunicativa gerarchizzante, centralistica e manipolatoria, proprie del capitalismo. In grado infine di far fronte all’odierna struttura di potere dell’imperialismo sul terreno politico-militare-ideologico ed al livello raggiunto di strutturazione materiale delle forze produttive, alla fase di sviluppo economico ed articolazione sociale del capitalismo maturo. Un organismo complesso in grado di impattare il rapporto di capitale nell’epoca del pieno dispiegamento della sussunzione reale, in cui viene meno definitivamente la possibilità di fondare la strategia rivoluzionaria su eventi di tipo insurrezionale.
    In particolare per quanto riguarda la metropoli imperialista, i fattori che maggiormente, ormai da tempo, spingono ad una ridefinizione in questo senso delle strategie rivoluzionarie, si possono individuare principalmente:
    – Nella capacità assunta dal capitale di controllo sulle crisi economiche, nei loro effetti più dirompenti. Il governo statale e sovranazionale delle crisi capitalistiche ne impedisce ormai da tempo di essere causa scatenante di rivolte di classe a carattere insurrezionale nel centro imperialista. (Diverso rimane il discorso nelle periferie, vere e proprie valvole di sfogo dei cicli del capitale multinazionale, su cui vengono scaricate maggiormente le conseguenze delle depressioni. Nonostante non manchino anche qui interventi degli istituti di governo imperialista in funzione di un “raffreddamento” delle esplosioni sociali, spesso ai limiti del livello di guardia).
    – Nell’affinamento delle istituzioni di connessione/mediazione economico-sociale e dunque di gestione delle crisi, insieme allo sviluppo di una struttura del capitale dominante di tipo multinazionale, riduce le possibilità di guerra interimperialista (non certo della concorrenza tra capitali multinazionali e tra le aree centrali del capitalismo mondiale USA, CEE e Giappone che è più che mai vivace). E riduce, con l’attuale tendenza ad integrare nella divisione internazionale del lavoro capitalistica i paesi del “socialismo reale”, le possibilità di uno scontro tra le “superpotenze”, almeno per un periodo storico piuttosto lungo.
    – Nello sviluppo delle istituzioni ed apparati di controllo sociale sulla classe, della strategia del consenso, prevalentemente di natura ideologica e politica, atti a prevenire lo sviluppo della conflittualità sociale in forme di antagonismo consapevole e aperto. Istituzioni per la prevenzione sociale, funzionali alla produzione di comportamenti normati… media, sviluppo del sistema educativo…
    – Nella stessa conformazione strutturale materiale, raggiunta dal modo di produzione capitalistico, dall’attuale sviluppo delle forze produttive e delle forme di dominio in esse incorporate. Forme di dominio che si articolano in ogni processo lavorativo e nella divisione sociale del lavoro, fino alla configurazione attuale delle aree metropolitane, il cui spazio/tempo è strutturato materialmente anche a fini di controllo politico e militare.
    Sono questi alcuni degli elementi che operano per impedire lo sviluppo di condizioni soggettive per la rivoluzione nelle forme in cui essa, prevalentemente, si era espressa sino all’ultimo dopoguerra, elementi che accentuano il ruolo della soggettività nella determinazione e nello sviluppo del processo rivoluzionario. La costruzione delle condizioni di maturazione della soggettività rivoluzionaria è legata, nell’epoca dell’imperialismo globale, nel centro imperialista (non diversamente che nella periferia), alla presenza attiva della guerriglia e, più precisamente, di un Fronte rivoluzionario di classe che abbia nella guerriglia la sua forza strategica. E’ innanzitutto il porsi nella prospettiva di una trasformazione rivoluzionaria ed il carattere immediatamente offensivo che assume la lotta rivoluzionaria che si colloca in questo orizzonte, che fa della guerriglia l’elemento strategico, dinamico, finalizzato, del processo rivoluzionario. Con essa la lotta di liberazione si fa strategia. Essa è il prodotto di una scelta cosciente e consapevole di trasformazione comunista. Questo è il presupposto necessario a qualsiasi discorso sulla guerriglia rivoluzionaria.
    La guerriglia è forza, lotta armata e insieme lotta politica ed ideologica contro un potere che frappone allo sviluppo rivoluzionario il monopolio della violenza, della produzione di coscienza, del potere politico, in funzione della riproduzione ordinata del rapporto sociale capitalistico.
    La guerriglia permette di affrontare il problema della forza, della pratica armata, al livello richiesto oggi dall’evoluzione del sistema di dominio e di potere del capitale e dello Stato, dei nuovi livelli di violenza che esso esprime. Nuovi livelli di violenza che hanno la caratteristica di manifestarsi non solo sul piano militare-repressivo dell’esercizio della forza, ma anche sul piano delle prevenzione ideologica e politica. La pratica armata guerrigliera assume dunque funzioni più complesse di quella classica, di disarticolazione dell’apparato militare del dominio, propria degli eserciti rivoluzionari. L’attacco militare ai centro del potere imperialista, alle strutture, agli apparati, alle personificazioni dei centri di sfruttamento e comando del sistema capitalistico, svolge un molteplice ruolo disarticolante, sul piano politico-militare-ideologico.
    Contro la strategia del consenso-egemonia messa in atto dalle istituzioni del capitalismo maturo, l’iniziativa guerrigliera ha la forza di attivare la coscienza critica del proletariato attraverso un messaggio non mediabile e non integrabile; di creare una breccia nell’immagine mitica e totalizzante che il capitale dà di sé, una breccia nelle stesse coscienze proletarie che di tale immaginario sono il bersaglio.
    In una realtà sociale strutturata secondo la logica coattiva ed ineluttabile della valorizzazione capitalistica, che vuole apparire come unica e naturale, l’azione guerrigliera apre al possibile!
    Nella guerriglia, critica delle armi e armi della critica agiscono dunque insieme e si fanno prassi trasformatrice. Prassi generatrice di un processo di polarizzazione politica tra le classi, che sottrae egemonia e consenso al capitale. Prassi in grado di dar voce, parola, alle contraddizioni di classe, che fa esplodere la contraddizione antagonistica insita al rapporto di capitale. La guerriglia trasforma le linee di demarcazione, che la lotta di classe traccia nella quotidianità dello scontro tra proletariato e borghesia, in fronti aperti, in rottura cosciente. Essa, con la propria prassi, prefigura – nel processo di lunga durata – l’espressione della forza collettiva e sociale del proletariato; ne rappresenta fin da subito l’autonomia e indipendenza… l’alterità come classe per sé dal capitale e dalla sua forma sociale. La guerriglia è parte integrante di un complesso processo di disarticolazione sociale del sistema capitalistico. Essa è il piccolo motore, l’elemento dinamico, propulsore, che mette in moto il grande motore della rivoluzione: essa apre spazi al protagonismo diretto della classe. Il soggetto storico del processo rivoluzionario, del processo di appropriazione reale e di autodeterminazione politica ed ideologica, è la classe; la guerriglia non si sostituisce ad essa, la sua iniziativa è tesa a mobilitare ed organizzare la classe nello scontro rivoluzionario.
    Concepire la rivoluzione nel capitalismo maturo non come evento insurrezionale, ma come processo di lunga durata, vuol dire porsi da subito anche l’obiettivo di sviluppare contropotere sociale dal basso. Un contropotere cioè in grado, da un lato, di affrontare la complessità delle strutture della formazione sociale del capitalismo maturo, la critica all’attuale articolazione del dominio capitalistico in ogni rapporto sociale, a partire da quello di produzione, e, dall’altro, in grado di esprimere la molteplicità di istanze poste dall’attuale composizione di classe. Un processo di erosione, disarticolazione e accerchiamento del sistema imperialista, in cui una lunga marcia dal basso, dai luoghi di lavoro e di vita, un percorso di lotte per il rivoluzionamento dei rapporti sociali capitalistici e delle dinamiche di espropriazione e sovradeterminazione che li informano, si intreccia e valorizza con l’attacco guerrigliero alle strutture, agli apparati e alle personificazioni del capitale, al cuore del sistema delle multinazionali e degli Stati imperialisti. Un processo che mette in campo la ricchezza di un organismo e di forme di espressione dell’autonomia di classe articolati e complessi, uniti dalla medesima determinazione militante rivoluzionaria.
    Nella dialettica tra attacco ai centri del potere imperialista e affermazione dei contenuti della trasformazione rivoluzionaria, si sviluppa la linea di massa della guerriglia. Essa si articola nelle campagne di lotta per la materializzazione degli obiettivi strategici di appropriazione reale ed autodeterminazione. Campagne in cui può, nello sviluppo del processo rivoluzionario, concretizzarsi un rapporto dialettico tra cambiamenti immediati e trasformazione generale del sistema capitalistico, tra distruzione dello stato di cose presenti e costruzione/imposizione dei contenuti della trasformazione, di coscienza e organizzazione rivoluzionaria; dove può maturare l’incontro della guerriglia con la classe e con le altre istanze del movimento rivoluzionario organizzato, in un unico fronte di lotta.
    Oltre il rapporto diretto che la guerriglia instaura con la classe, essa deve divenire dunque cellula di un organismo complesso, un Fronte strategicamente composto dall’unità della guerriglia con il movimento rivoluzionario organizzato. Quest’ultimo assume infatti, nella costruzione e sviluppo di un contropotere sociale dal basso, un ruolo immediatamente politico e strategico.
    Il rapporto tra le diverse espressioni rivoluzionarie di organizzazione della classe, nel Fronte, si fa organico e sistemico: non solo guerriglia, movimento rivoluzionario organizzato e processo di costruzione del contropotere sociale non possono fare a meno l’uno dell’altro, ma le loro diverse funzioni interagiscono strettamente e si pongono su un terreno strategicamente comune.
    Un salto importante nel modo di pensarsi della guerriglia e di concepire il suo rapporto con il movimento rivoluzionario organizzato, in cui anche quest’ultimo diviene soggetto della strategia rivoluzionaria; non più solo “organismo di massa”, legato in qualche modo prevalentemente agli interessi immediati (concepiti in modo economicistico) del proletariato, che delega la strategia ad altre istanze rivoluzionarie, ma parte dell’organismo autonomo della classe, del Fronte.
    Queste le indicazioni che ci vengono dai momenti più alti dello scontro rivoluzionario nel centro imperialista ed in Europa occidentale in particolare: dalla esperienza rivoluzionaria che si è sviluppata in Italia nel corso di tutti gli anni ’70 alle più recenti esperienze del movimento rivoluzionario e della guerriglia in Germania, dalle campagne della guerriglia europea nel corso degli anni ’80 fino alla campagna del settembre ’88 contro il congresso del FMI-Banca Mondiale a Berlino, dove in forma embrionale è vissuto questo incontro, nella pratica e sui contenuti, tra guerriglia e movimento rivoluzionario organizzato.
    Ma queste sono anche le indicazioni che ci vengono dai punti più avanzati dello scontro tra proletariato internazionale e borghesia imperialista nel Centro America e nel Medio Oriente, dove è nell’unità della guerriglia con le istanze del contropotere dal basso che si è costruita la forza per affrontare l’imperialismo più feroce: nella «saldatura obiettiva tra il fuoco della guerra rivoluzionaria e l’esplosione della bomba sociale» come affermano i compagni salvadoregni del Farabundo Martì; «con il fucile che apre la strada alle pietre e le pietre al fucile» come ci dicono i compagni del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina… È questo il messaggio che noi vogliamo raccogliere!
  4. All’interno dell’esperienza guerrigliera delle Brigate Rosse che, con la Rote Armee Fraktion, nel corso dello scontro di classe internazionale sviluppatosi dalla fine degli anni ’60 in poi, ha affermato la possibilità di una prospettiva rivoluzionaria in Europa, in una delle aree dunque del centro del sistema imperialista, si colloca l’attività della colonna “Walter Alasia” e la nostra militanza in essa. Una esperienza, quella della “Walter Alasia”, che fu in particolare un tentativo di rilanciare l’offensiva rivoluzionaria a partire dall’interno, dal cuore della grande fabbrica. Un tentativo di trasformare la resistenza operaia alla controffensiva capitalistica dei primi anni ’80 in uno scontro di potere. Un contributo alla costruzione di una linea di massa della guerriglia, in quel momento particolarmente decisivo dello scontro di classe.
    La riflessione politica sui limiti che, d’altra parte, caratterizzarono quell’esperienza e le condizioni oggettive e soggettive maturate nello scontro rivoluzionario in Italia e a livello internazionale, ci hanno fatto ricercare una complessificazione e riqualificazione dell’impianto che orientò la nostra prassi nella “Walter Alasia”.
    La nostra militanza si colloca oggi nel dibattito e nella pratica della guerriglia e della costruzione del Fronte rivoluzionario in Europa occidentale.
    A questo obiettivo strategico, ed a questo nuovo livello dello scontro rivoluzionario, intendiamo contribuire con la nostra esperienza e prassi militante.

 

Per la rifondazione della guerriglia rivoluzionaria e del movimento rivoluzionario organizzato!

Per la costruzione del Fronte rivoluzionario in Europa occidentale!

Lottare insieme!

 

I militanti comunisti – Aurora Betti, Nicola De Maria

 

Roma, Dicembre 1989

 

Roma, processo Moro-Ter. Dichiarazione di Vittorio Antonini allegata agli atti

Nel momento in cui la DC riconquistava la presidenza del Consiglio dei ministri, impegnandovi direttamente il suo segretario De Mita, le Brigate Rosse hanno espresso la loro netta opposizione al programma del nuovo governo giustiziando il senatore Roberto Ruffilli, responsabile del dipartimento affari istituzionali della DC.

La natura antipopolare e imperialista degli intenti programmatici di questo governo in materia di politica interna e internazionale, implicitamente ammessa ed esaltata nei giorni scorsi dalla stessa stampa borghese, rivela la ferma volontà dei gruppi dominanti italiani di spingersi ormai ben oltre il già odioso governo presieduto da Craxi. Del resto ciò è inevitabile e si spiega con il semplice fatto che Craxi assunse la presidenza del Consiglio nel periodo finale della più lunga, estesa e profonda recessione che l’economia internazionale abbia mai conosciuto nel secondo dopoguerra, mentre l’attuale governo si trova invece a dover sostenere l’accumulazione capitalistica proprio alla vigilia di un’ormai sicura stagnazione della crescita relativa nei più importanti settori dell’economia internazionale, la quale assumerà ben presto i tratti tipici di una vera e propria recessione generalizzata.

Dinanzi a una tale prospettiva, la possibilità di proseguire nell’opera di rilancio dell’economia nazionale – ossia il perenne tentativo di superare i suoi antichi limiti strutturali e infrastrutturali onde facilitarne l’indispensabile ammodernamento generale, ponendola così nelle condizioni idonee per consolidare ed estendere le proprie posizioni nel mercato mondiale e nei giganteschi processi di concentrazione che tagliano trasversalmente l’industria e la finanza internazionali – ha come presupposto ineludibile l’applicazione di un complesso di provvedimenti di ordine ristrutturativo, salariale, fiscale, monetario e di spesa pubblica che avrà come effetto immediato l’ulteriore aggravio generale delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia, delle larghe masse lavoratrici, dei giovani e dei pensionati.

Nondimeno, le stesse prospettive della congiuntura economica lasciano supporre che, nel campo delle relazioni internazionali, la politica del nuovo governo – la quale sostanzialmente corrisponde anch’essa agli interessi dei gruppi dominanti italiani – non muterà il suo corso e non si farà scrupoli di sorta nel continuare ad esprimersi anche nella forma di una presenza militare diretta in alcune aree di conflitto armato, dell’appoggio diretto o della copertura alle imprese di guerra dei paesi suoi alleati, della cooperazione ai progetti di ammodernamento degli strumenti e delle tecniche di guerra; e ancora, nella forma di proposte “capestro” che negano o sviliscono le giuste aspirazioni dei popoli che lottano per l’indipendenza o per un nuovo assetto istituzionale, e offrono obiettivamente una sorta di copertura politica e diplomatica alla repressione a cui questi vengono sottoposti.

Applicare un programma notevolmente ambizioso in una situazione internazionale e nazionale notevolmente difficile: a questo aspira il governo De Mita; e a questo governo le Brigate Rosse hanno dato il benvenuto nel momento in cui si apprestava a muovere i suoi primi passi.

Muovendo dal presupposto che i grandi mutamenti intervenuti nella struttura produttiva mondiale e la relativa modifica nella composizione delle classi sociali sono stati nello stesso tempo cause ed effetti di una trasformazione degli obiettivi, degli strumenti e delle modalità della lotta tra le classi e tra gli Stati, a me pare che si evidenzia chiaramente anche l’importanza del terreno politico sul quale le BR hanno collocato la loro iniziativa. Oggi nessun paese imperialista, e ancor meno l’Italia, può permettersi il lusso di affrontare l’arena internazionale senza riformare la sua organizzazione statale complessiva con misure che siano “all’altezza dei tempi” e degli obiettivi perseguiti; di conseguenza nessuna forza marxista può evitare di misurarsi seriamente, sul piano teorico, programmatico e politico-pratico, con il novero dei problemi che tale processo riformatore pone a tutte le classi, ed in particolare al proletariato.

In verità sono ormai trascorsi molti anni da quando, nel 1975, il cumularsi dei problemi economici ereditati dal primo “shock petrolifero”, l’ormai sicura vittoria delle lotte di liberazione nazionale in alcune aree del mondo e il relativo mutamento dei rapporti tra le singole potenze imperialiste e nei sistemi di alleanza, oltre alla progressiva polarizzazione della lotta di classe nei paesi capitalistici più progrediti, spinsero le borghesie dei paesi occidentali a definire la comune terapia necessaria per avviare a soluzione la crisi di “governabilità” delle loro democrazie.

La linea di fondo elaborata all’epoca dalla Commissione Trilaterale era tanto semplice quanto gravida di conseguenze: «potare le domande sociali in eccesso, ripristinando per questa via sistemi di governo capaci di esercitare autorità», ossia ridimensionare settorialmente la forza contrattuale della classe operaia e delle larghe masse lavoratrici, per limitare il grado del loro condizionamento generale sull’attività del sistema istituzionale e in primo luogo sul potere legislativo.

Nelle peculiari condizioni del nostro paese, una simile manovra era realizzabile soltanto liquidando progressivamente quella fase di “estensione orizzontale” delle istituzioni repubblicane che era stata una delle risultanti della lotta tra le classi nel periodo ’68-’75. Fu così che anche la necessità di tornare ad una nuova e più matura fase di organizzazione e gestione verticistica e accentratrice del nostro sistema politico, che lo ponesse all’altezza delle esigenze generali interne ed internazionali dei gruppi dominanti in Italia, contribuì in notevole misura a spingere la classe politica italiana verso quelle particolari esperienze di “consociazione” degli anni ’75-’79, le quali guidarono l’attività degli organismi istituzionali centrali e periferici all’insegna dell’emergenza economica e della “politica dei sacrifici”. Un’emergenza e una politica che ben presto si estesero in ogni ambito delle relazioni sociali, ma trovarono sempre dinanzi a loro i coraggiosi tentativi di resistenza di ampie fasce del proletariato, tra cui vi erano anche quelle che in passato avevano visto con favore l’approssimarsi del PCI all’area di governo.

Furono quelli gli anni in cui la lotta armata – la quale si era potuta estendere inizialmente anche in virtù delle particolari forme assunte fin dal ’70 dal sistema politico-istituzionale nel suo complesso – divenne pian piano il punto di riferimento “obbligato” per migliaia di avanguardie di classe, e l’organizzazione delle BR risultò nei fatti la forza politica rivoluzionaria più coerente nell’opporsi ai programmi e alle linee politiche delle forze che cooperavano alla riforma dello stato ed in particolare al “partito guida” democristiano.

I primi anni ’80, ed in particolare il periodo della repressione internazionale, portano con sé un’accelerazione del processo riformatore dovuta al fatto che proprio in quel periodo mutano sostanzialmente i rapporti di forza tra le classi e ciò facilita la maturazione delle “nuove” tendenze che in materia istituzionale guidano ancora oggi le forze politiche borghesi.

Per grandi linee possiamo così riassumere i due tratti principali che in questo particolare momento sono il punto di coagulo di quasi tutte le forze parlamentari: da una parte si procede verso la ridefinizione del peso specifico e delle funzioni di ognuno dei tre poteri formalmente autonomi dell’ordinamento costituzionale, con un progressivo accentramento nelle mani dell’esecutivo delle facoltà legislative sulle più importanti materie di ordine interno e internazionale e per questa via ci si propone di avviare finalmente a soluzione le secolari contraddizioni tra la classe politica e l’alta amministrazione civile e militare, oltre a quelle con tutto l’apparato politico-amministrativo periferico sviluppatosi negli ultimi 20 anni e che ha gran peso nella lotta tra i partiti e tra le loro varie correnti.

Contemporaneamente si persegue l’obiettivo di limitare l’uso dei più importanti strumenti e metodi di lotta e di organizzazione legali, che possono facilitare l’unificazione delle lotte operaie e proletarie sui vari terreni, ripromettendosi in tal modo di spingere verso l’unico sbocco di un pronunciamento formale che non impegni né i partiti e i sindacati, né tantomeno gli organi legislativi e l’esecutivo.

E ancora una volta, seppur ridimensionata sul piano elettorale e nel potere effettivo, è la DC che guiderà nell’immediato futuro questo progetto riformatore di chiara natura antiproletaria.

Ben si comprende quindi anche la validità politica dell’obiettivo scelto dalle BR (il responsabile dell’ufficio affari istituzionali della DC) e il tipo di reazione delle forze politiche parlamentari. La realtà è che gli attuali passaggi istituzionali – i quali preparano il terreno ad una riforma complessiva dell’ordinamento costituzionale – non possono tollerare la presenza sulla scena politica di un’opposizione realmente comunista che sappia misurarsi apertamente con l’intero arco di problemi che tale processo pone sul tappeto. Un’opposizione marxista che operi avendo come riferimento essenziale la difesa intransigente e l’affermazione degli interessi generali – sia contingenti che storici – delle masse lavoratrici, evitando nel contempo di cadere in quella particolare forma di empirismo estremista che dinanzi alle difficoltà di un siffatto lavoro teorico, programmatico e politico-pratico non trova di meglio che “riverniciare” quei vecchi postulati berlingueriani che non poco hanno contribuito all’arretramento generale del movimento di classe in questi ultimi 13 anni. Una tale presenza, infine, non è certo cosa di poco conto in un periodo in cui sta maturando una ripresa della mobilitazione operaia e della lotta antinucleare e antimperialista, ed assistiamo al concorrere di circostanze che danno rilevanza nazionale e imprimono un oggettivo – anche se temporaneo – carattere politico ad alcune mobilitazioni settoriali o di categoria.

A me sembra allora che si evidenzi, ancora una volta, la funzione propulsiva che la lotta armata condotta dai comunisti può e deve svolgere nella lotta politica tra le classi, avendo come punto di riferimento gli interessi generali del proletariato e le concrete manifestazioni della lotta di massa.

Anche in questo senso l’esperienza delle BR – lungi dall’essere “orfana” sul piano storico – si riconferma come un oggettivo contributo di fondamentale importanza in questa che possiamo ancora definire la “seconda fase” della ricerca teorico/pratica mirante al riadeguamento generale dell’attività rivoluzionaria, che i marxisti iniziarono già nella prima metà degli anni ’30 ed ebbe il suo primo e più importante punto di approdo nella giusta lotta – condotta in prima persona dai comunisti cinesi agli inizi degli anni ’60 – contro la nuova classe dirigente russa e coloro i quali, con Togliatti in testa, lavoravano per elevare la “coesistenza pacifica” al rango di principio generale della strategia rivoluzionaria.

Non è d’altronde per caso che i quasi vent’anni trascorsi dalla fondazione delle BR dimostrino chiaramente che i tratti specificamente nazionali di questa esperienza non hanno certo negato la possibilità di applicare con profitto alcuni dei suoi insegnamenti fondamentali, perlomeno nella maggioranza dei paesi dell’Europa occidentale. E se questo dato non è certo di per sé sufficiente per delineare ipotesi di unità sul piano della strategia, nondimeno è uno dei presupposti più importanti per lavorare in questa direzione.

Sono i fatti stessi che emergono dall’andamento concreto della lotta politica tra le classi ad incaricarsi di riconfermare quanto la lotta armata sia ancora oggi indispensabile per rappresentare adeguatamente – sul piano contingente e su quello storico – gli interessi generali del proletariato di contro ai programmi e alle linee politiche dei gruppi di potere dominanti e all’organizzazione dello stato nel suo complesso. Essa conserva quindi il suo carattere di necessità ineludibile per ogni organizzazione comunista che non voglia cadere nell’avventurismo politico, come purtroppo in Occidente capita spesso ai gruppi marxisti legali quando si provano ad affrontare le grandi questioni di ordine interno o internazionale.

Si può quindi rilevare, senza inutili trionfalismi ma con ragionato ottimismo, il fatto che nel suo complesso l’operazione condotta contro il governo De Mita e i suoi propositi di riforma istituzionale è il sintomo di un’elevata maturità politica e programmatica, e lascia indovinare la possibilità di superare progressivamente i limiti e le incertezze contenuti negli impianti generali delle forze comuniste anche nel recente passato.

Altrettanta consapevolezza ritengo debba essere dimostrata da tutti i marxisti che considerano necessaria la lotta armata, relazionandosi nei giusti termini teorici, politici e programmatici con quel nuovo livello di maturità oggi espresso dalle BR con questa operazione. Consapevoli, insomma, che per quanto “spigoloso” possa essere il confronto tra comunisti, esso non ha alternative, per la semplice ragione che nella storia non sono mai esistititi – né potranno mai determinarsi – degli “incontaminati” punti di partenza nel lavoro necessario per la costituzione del Partito.

Un’ultima annotazione, infine, verso quei prigionieri che si sono fatti portavoce della proposta di un compromesso, di uno “scambio politico” tra la rinuncia all’uso della lotta armata e la liberazione dei prigionieri stessi.

A me sembra evidente che – sul piano teorico – tutto il complesso di posizioni che vanno in questa direzione rappresentino il classico “minestrone eclettico da accattoni” contro il quale il marxismo si è sempre battuto. Nello stesso tempo – sul piano politico pratico – la manovra in atto si configura come un tentativo di riconvertire sul piano para-istituzionale la grande esperienza della lotta armata italiana, e va perciò condannata senza mezzi termini, poiché si oppone obiettivamente ad ogni seria ipotesi rivoluzionaria che si proponga la conquista del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato.

A costoro è allora lecito rispondere con le chiare considerazioni espresse dai dirigenti del PC d’I del 1923 – nel bel mezzo di quella “grande riforma” fascista che non poco è costata al proletariato italiano – dinanzi al Tribunale di Roma:

«Al presente governo preme presentare alla pubblica opinione l’exploit dell’eliminazione di ogni attività politica rivoluzionaria. A questo si oppone la resistenza del Partito Comunista, che può essere malmenato e malridotto ma non prenderà mai le vie dell’adattamento e della prudente dissimulazione, necessarie a farsi tollerare dai potenti…

Non si tratta di appoggiare su astrazioni di un vuoto liberalismo un nostro diritto ad essere risparmiati: a noi basta dire senza spavalderia che, liberi oggi o più tardi, continueremo a lavorare per cambiare quei rapporti di forza effettivi ora a noi sfavorevoli e per invertirli un giorno».

Come si può vedere, la lotta per respingere i più svariati tentativi di deleggittimare l’attività dei comunisti ha un solido retroterra storico-politico. Esso è stato creato dalle lotte della classe operaia, gli appartiene e nessun trasformismo potrà mai cancellarlo.

Onore ai compagni Umberto Catabiani, Antonio Gustini e Wilma Monaco caduti nella lotta in questi difficili anni ’80 per mantenere aperta la strada verso la costituzione del Partito.

 

Vittorio Antonini

 

Roma, 26 aprile 1988