Nella nostra qualità di militanti delle BR per la costruzione del PCC e di militanti rivoluzionari prigionieri intendiamo ribadire in quest’aula la valenza della linea politica e dell’impostazione strategica delle BR rivendicandone tutta l’attività politico-militare messa in campo, il loro ruolo di direzione e organizzazione del processo rivoluzionario nel nostro paese. Un ruolo svolto all’interno dei nodi centrali che hanno contrassegnato lo scontro intervenendo di volta in volta con l’attacco nelle contraddizioni che oppongono la classe allo Stato. Questa attività rivoluzionaria, operata in stretta dialettica con i contenuti espressi dall’autonomia di classe dentro all’indirizzo della strategia della lotta armata per il comunismo, costituisce l’alternativa di potere del proletariato al fine di conquistare il potere politico, instaurare la dittatura del proletariato per una società comunista.
Nello specifico del processo che qui si celebra, rivendichiamo ancora una volta la giustezza dell’iniziativa politico-militare contro il repubblicano Lando Conti. Con essa le BR hanno colpito le posizioni filo atlantiche e filo sioniste di quella frazione di borghesia imperialista nostrana che il PRI ha da sempre rappresentato. Più precisamente, l’iniziativa ha colpito lo specifico attivismo di cui Lando Conti si faceva carico, come sottolineato dall’Organizzazione nella rivendicazione:
«Infatti è stato instancabile animatore delle forzature politiche per una più diretta partecipazione dell’Italia, anche in senso militare, nell’Alleanza Atlantica. Lo ritroviamo costantemente a fianco del Ministro della Guerra, attivizzato a promuovere e sostenere apertamente la posizione americana nel Mediterraneo».
Unitamente a questo, non era da meno l’appoggio dato ai sionisti israeliani, che se è una costante nelle posizioni repubblicane, non è certo estranea alla politica portata avanti nella sostanza dallo Stato italiano in Medio Oriente e questo al di là della facciata neutralista che prevaleva soprattutto in quel periodo.
Allo stesso tempo, con questo attacco le BR hanno colpito anche gli interessi legati agli armamenti. Ancora dalla rivendicazione: «Il ruolo svolto da Lando Conti sia nel consiglio di amministrazione della SMA, sia come esponente di rilievo del PRI, nonché nel panorama del potere politico locale, è indicativo per comprendere fino in fondo le interconnessioni di interesse politico, economico e militare assunte oggi dal settore bellico (…). La SMA, piccola e agile azienda per autodefinizione, partecipa ai più importanti sistemi d’arma e principalmente al programma USA delle Guerre Stellari SDI, attraverso il consorzio italiano per le tecnologie strategiche (CITES) promosso dall’Augusta. Essa fa parte del “Club Melara”, circolo che racchiude il meglio della produzione bellica italiana, controlla diverse aziende del settore, con diramazioni anche all’estero. La sua produzione spazia dai sistemi radar alle componenti elettroniche per missili». All’interno di questa attività, Lando Conti non disdegnava di fare il mercante d’armi, tra l’altro con i sionisti israeliani, i golpisti NATO della Turchia, il regime segregazionista del Sud Africa, il regime filippino del dittatore Marcos e i vari regimi sudamericani, per citarne alcuni soltanto. Politicamente le BR con questa iniziativa antimperialista hanno inteso dare impulso al processo concreto d’autentica connotazione dell’internazionalismo proletario nella metropoli, da sempre parola d’ordine della guerriglia europea e che in quel periodo andava materializzandosi nella campagna per la costruzione del Fronte Rivoluzionario messa in campo da AD e RAF come primo momento di unità soggettiva nell’attività rivoluzionaria e nella lotta antimperialista. L’azione contro Lando Conti si inserisce in questo contesto e segna un importante passaggio nell’approccio politico inerente alla tematica del Fronte. Un approccio che attraverso la ricerca del confronto attivo con altre Forze Rivoluzionarie, ha posto le basi per l’intesa unitaria raggiunta nell’88 con la RAF, sintetizzata dall’attacco ai progetti di coesione dell’Europa occidentale sul piano delle politiche economiche con l’azione Tietmayer.
Un’azione politico-militare tesa a colpire le scelte del capitale finanziario tedesco nel contesto della definizione delle normative concertate atte a favorire quella liberalizzazione del mercato europeo in cui la RFT si pone come polo forte. Più in generale tali normative rientrano negli accordi CEE tesi a formalizzare gli istituti comunitari, primo fra tutti la Banca Europea, che favoriscono l’ambiente adeguato alla formazione monopolistica europea; accordi che prevedono livelli di concertazione economica in grado di stabilire vincoli per ogni Stato, a cominciare dai bilanci statali, tassi, cambi, ecc., nonché vincoli sulle condizioni di compravendita della forza-lavoro, attaccando le conquiste acquisite dai lavoratori di ogni paese.
Nel testo comune RAF-BR vengono individuate le direttrici su cui si sostanzia la coesione europea e cioè sul piano delle politiche economiche, su quello politico-militare e diplomatico, su quello controrivoluzionario. Si evidenzia nel contempo come questa sia strettamente legata agli interessi ed alle esigenze della catena imperialista, per i caratteri stessi della crisi e per la stretta interrelazione dell’economia tra i paesi capitalisti, cosa che li obbliga ad adottare le medesime controtendenze tra cui il riarmo si impone come principale, non a caso in Europa centralizzato in sede NATO. La coesione europea, perciò, è inserita nei processi di maggiore integrazione della catena, in relazione stretta con la nuova strategia politico-militare imperialista nel confronto con l’Est e, su un altro piano, con l’intervento politico-militare integrato in ogni angolo del mondo, principalmente verso l’area di crisi mediorientale.
L’evoluzione avvenuta nell’attuale fase dell’imperialismo, all’interno dell’approfondimento della tendenza alla guerra, segnata politicamente dai mutamenti negli equilibri internazionali che si sono verificati a partire dall’asse Est-Ovest, si è riflessa sulla coesione europea accentuandone il dispiegamento seppure con il permanere di contraddizioni. Questo si è delineato già quando la RFT ha annesso la DDR, favorita dal progressivo indebolimento dell’Est europeo, segnando così un passaggio traumatico nelle relazioni gerarchiche europee, dato dal rafforzamento materiale della posizione tedesca. Fatti che, riversandosi nel processo di coesione, imprimono allo stesso un andamento per salti e nel contempo una direzione sempre più netta verso le spinte belliciste che l’imperialismo nel suo complesso tende a concretizzare, come dimostrano gli sviluppi di questi ultimi tempi fino alle manovre di destabilizzazione da parte dell’Europa occidentale della Federazione yugoslava.
Una nuova fase questa che mette in luce come l’Europa sia il teatro su cui si concentrano per ragioni storiche, politiche e geografiche le contraddizioni dell’imperialismo, Est/Ovest, Nord/Sud, Stato/classe.
Il contesto che risulta da questo quadro lascia pochi dubbi sulla volontà della borghesia imperialista di rideterminare condizioni di dominio e di sfruttamento per il proletariato metropolitano che implicano la sua subordinazione completa alla logica del profitto, questo nel tentativo di affrontare una crisi che per profondità e acutezza non lascia margine che all’esplicitazione massima della natura controrivoluzionaria degli Stati verso lo scontro di classe.
Un contesto che per parte proletaria e rivoluzionaria mette più che mai in risalto la valenza strategica della guerriglia, essendosi essa già imposta nel corso di questi venti anni come l’adeguamento della politica rivoluzionaria alle caratteristiche di dominio dell’imperialismo in questa epoca storica e per questo l’unica prospettiva di potere del proletariato metropolitano, il solo modo di incidere nei rapporti di forza tra le classi, costruire l’organizzazione armata del proletariato per sviluppare la guerra di classe di lunga durata. In sintesi, soprattutto a fronte degli evidenti processi di guerra messi in atto dall’imperialismo, USA in testa, la contrapposizione possibile e necessaria in grado di affermare l’alternativa proletaria alla crisi ed alla guerra della borghesia imperialista è rappresentata dal terreno strategico della guerra di classe, nella sua dimensione nazionale ed internazionale, al cui interno la promozione ed organizzazione del Fronte Combattente Antimperialista ne è tappa sostanziale.
Scopo del Fronte è l’indebolimento dell’imperialismo per provocarne la completa crisi politica.
Questo per favorire le rotture rivoluzionarie, perché non sono date a questo stadio di sviluppo dell’imperialismo rotture rivoluzionarie in un singolo paese del centro imperialista senza una sua più generale crisi politico-militare.
Il Fronte Combattente Antimperialista trova un momento qualificante (come la prassi concreta ha dimostrato) nell’unità di intenti tra Forze Rivoluzionarie dell’Europa occidentale. Ciò è dato dal ruolo della guerriglia nello scontro nella metropoli imperialista e per altro verso dalla rilevanza che assume l’Europa occidentale negli interessi dell’imperialismo, due fattori questi che danno alla politica di Fronte un portato strategico che va ben oltre l’unità oggi realizzabile e praticabile.
Per le BR il Fronte si colloca su un piano politico di alleanza con altre Forze Rivoluzionarie, il cui terreno di praticabilità è definito dall’analisi concreta della situazione concreta, cioè riferita alle dinamiche della crisi e della tendenza alla guerra, alla controrivoluzione ed alle Forze Rivoluzionarie presenti, attive e attivabili dentro al Fronte, ma soprattutto alla sua funzione nei confronti del nemico comune.
Una politica di alleanze perché è necessario relazionarsi con Forze Rivoluzionarie che possono essere caratterizzate da criteri e particolarità specifici alle proprie esperienze e condizioni di sviluppo. Prendere atto di questa realtà ha significato per l’Organizzazione mettersi nelle condizioni migliori per lavorare con giusta flessibilità a costruire i passaggi necessari al fine di concordare una linea di attacco comune, dando così avanzamento concreto alla costruzione del Fronte Combattente Antimperialista.
Per le BR l’internazionalismo proletario non è mero atteggiamento solidaristico, ma la prassi adeguata per sostanziare una concezione costituente l’impostazione stessa del nostro processo rivoluzionario, il suo essere fin dall’inizio internazionalista ed antimperialista.
Nella Risoluzione della Direzione Strategica del ’78, le BR affermano:
«(…) la guerriglia è la forma di organizzazione dell’Internazionalismo Proletario nella metropoli. È il soggetto della ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale (…)».
Una concezione che è complemento del primo dovere internazionalista, e cioè: fare la rivoluzione nel proprio paese. All’interno di questa visione generale le BR hanno perseguito l’obiettivo dell’azione comune fra le Forze Rivoluzionarie combattenti nell’area a partire dal terreno unificante dell’attacco all’imperialismo, senza scambiare la costruzione soggettiva del Fronte come la fase inferiore dell’Internazionale Comunista o un suo surrogato. La ricerca dei punti unitari per l’unità internazionale dei comunisti, basata sulla lotta armata per il comunismo e lo sviluppo della guerra di classe, è un dovere che le BR perseguono fin dalla loro nascita, quale obiettivo strategico irrinunciabile per ogni forza rivoluzionaria comunista combattente, un obiettivo che non è precluso dal lavoro del Fronte, anzi quest’ultimo ne è uno dei presupposti.
La dimensione che assume l’internazionalismo proletario è obiettivamente data dalle caratteristiche dell’imperialismo in questa epoca storica. Questo per il livello di internazionalizzazione e interconnessione economica, nonché per il grado di integrazione politica e militare che la catena imperialista ha raggiunto soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, definendo un sistema di relazioni imperialiste altamente gerarchizzato a dominanza USA.
L’ulteriore internazionalizzazione dei capitali e della produzione nell’ultimo decennio ha accelerato i processi di integrazione dando luogo proprio in Europa occidentale allo specifico processo di coesione politica come riflesso della formazione monopolistica intereuropea. Processi che evolvono in modo contraddittorio e conflittuale poiché avvengono in ambito capitalista. Una dinamica che per le BR non dà luogo ad una “omogeneizzazione politica dell’Europa occidentale”. I livelli di concertazione politica oggi esistenti tra gli Stati obbediscono alla necessità di affrontare unitariamente gli interessi comuni e perciò generali della catena, non risolvibili per la loro interconnessione dal singolo Stato, e gli organismi sovrannazionali costituitisi non sussumono il ruolo dello Stato, il quale deve fare gli interessi del capitale multinazionale che ha radice nel proprio ambito nazionale e, per altro verso, deve relazionarsi con le connotazioni politiche della lotta di classe nel paese, ragioni queste per cui la funzione politica degli Stati non viene sminuita, al contrario esaltata all’interno degli organismi sovrannazionali. Più precisamente i processi di coesione non possono prescindere dai caratteri che sottostanno alla formazione economico-sociale nazionale che si sono sviluppati nel lungo processo storico di affermazione della borghesia e del capitalismo. In questo senso non è data dalla coesione europea un’unica borghesia imperialista ed un unico proletariato internazionale.
Nemmeno vanno confuse le similitudini fra le forme di dominio negli Stati della catena con la formazione di un ambito imperialista omogeneo, perché queste similitudini sono il riflesso sovrastrutturale delle condizioni strutturali dell’imperialismo che nel suo movimento di crisi/sviluppo si integra determinando una generalizzazione delle condizioni di produzione che porta a caratteristiche simili in primo luogo nel rapporto classe/Stato e cioè nelle politiche di controrivoluzione preventiva, nelle forme istituzionali di governo del conflitto di classe, nel neocorporativismo come modello nei rapporti sociali. In questo senso le concezioni che si basano sulla sussunzione fenomenologica delle similitudini che a ogni livello si evidenziano soprattutto nello specifico europeo, portano a subordinare e sminuire l’importanza rivestita dalle caratteristiche nazionali della lotta di classe che in particolare sul piano antagonista e rivoluzionario sono il risultato del suo patrimonio storico e politico scaturito dal rapporto col proprio Stato. Sul piano rivoluzionario si è reso ben evidente che se l’affermarsi stesso della guerriglia negli Stati a capitalismo maturo si è dato sulla base del carattere generale relativo alle forme di dominio dei paesi della catena imperialista, le peculiarità che essa ha assunto nelle singole nazioni sono prodotto delle specifiche caratteristiche dello scontro di classe che ne definiscono la relativa originalità e più precisamente definiscono come si sviluppa il processo rivoluzionario, il contesto di riproduzione delle forze rivoluzionarie stesse e il diverso impatto delle politiche controrivoluzionarie sul campo proletario.
Da questo insieme di fattori risulta evidente come i processi di coesione in Europa occidentale non possono comportare la semplificazione del quadro di scontro e dell’iniziativa rivoluzionaria sul solo piano internazionale, non potendo questo esaurire il lavoro che ogni organizzazione combattente porta avanti relativamente ai suoi obiettivi nel paese in cui opera. A partire da questa analisi le BR lavorano alla costruzione del Fronte in stretta dialettica con i termini di sviluppo del processo rivoluzionario nel nostro paese, in unità programmatica cioè con l’attacco allo Stato.
Per le BR l’organizzazione del Fronte Combattente Antimperialista deve tendere a costruire alleanze con i movimenti di liberazione che combattono l’imperialismo nella nostra area geopolitica (Europa occidentale-Mediterraneo-Medio Oriente). Questo per due fattori: il primo favorire il più vasto schieramento combattente all’imperialismo, per ricomporre sul piano politico e rivoluzionario l’unità oggettiva tra movimenti di liberazione nazionali e antimperialisti della periferia e la guerra di classe nelle metropoli del centro; il secondo, perché la politica imperialista in questa area geopolitica ci riguarda direttamente per il ruolo che ha al suo interno l’Europa occidentale. In questa area geopolitica, che si riconferma essere quella di massima crisi nel mondo, il punto cruciale è rappresentato dalla regione mediterranea-mediorientale per i fattori di grande instabilità che vi sono presenti, fattori che subiscono nella fase attuale un’ulteriore tensione, dal momento che ha avuto luogo proprio in questa regione il primo momento di attuazione della nuova strategia politico-militare dei centri imperialisti con l’aggressione delle loro forze coalizzate contro l’Iraq. Un atto di guerra che porta in evidenza come nelle intenzioni dell’imperialismo si intenda rideterminare più approfonditi termini di subordinazione ed asservimento della regione, una “normalizzazione” dell’area in funzione dei suoi obiettivi, immediati e strategici, che nella pratica è rivolta immediatamente contro quelle esperienze, seppur diversificate, delle rivoluzioni nazionalistiche, perché nel mondo arabo sia annullata qualsiasi prospettiva che non sia funzionale agli interessi ed agli equilibri imposti dall’imperialismo, perché sia dato lo sfruttamento assoluto della regione in termini di risorse e potenzialità, ma soprattutto per farne un retroterra stabile per le sue manovre strategiche, dove “Israele”, il corpo estraneo della regione avamposto degli interessi imperialisti, mantenga indiscusso il ruolo di unica potenza effettiva. Una “normalizzazione” del mondo arabo che in primo luogo significa impattare con le aspirazioni di autodeterminazione del popolo arabo che, confrontandosi già da tempo con gli interventi controrivoluzionari dell’imperialismo, ha maturato un lungo processo di lotta guidato dalle sue forze nazionaliste, rivoluzionarie, antimperialiste, con qualificati momenti di combattimento e di resistenza popolare che attestano il suo livello più avanzato nel movimento di liberazione del popolo palestinese.
Da questo confronto scaturisce il carattere controrivoluzionario degli interventi dell’imperialismo, che nel contesto di questa aggressione non possono che approfondirsi dati i fini di pacificazione che intende ricavare dalla vittoria militare ottenuta. Dalla necessità di consolidare sul piano politico i risultati ottenuti sul terreno militare scaturisce l’egida americana sulla conferenza di pace in Medioriente che ha per oggetto la “soluzione” del nodo palestinese, da sempre baluardo contro i progetti imperialisti di normalizzazione della regione. In altri termini nelle intenzioni di USA e Israele questa conferenza dovrebbe costituire la cornice politica al tentativo di dare sanzione alla volontà di ricacciare indietro la rivoluzione del popolo palestinese e da qui ridefinire i termini del più generale conflitto arabo-sionista.
Ed è per la difficoltà di tradurre l’esito militare in risultato politico sul piano della stabilità, a causa della complessità dei fattori in campo relativi alle contraddizioni che scaturiscono da un tale conflitto, che gli obiettivi americani sulla conferenza di pace perdono consistenza a partire dall’impossibilità di ridimensionare la stessa rivolta nei territori occupati, che, al contrario, tende ad evolvere verso alti livelli di resistenza popolare e di combattimento delle sue Forze Rivoluzionarie. In sintesi, il fine americano di andare oltre Camp David si rivela ancora una volta difficile da conseguire, malgrado l’aggressione contro l’Iraq, come in parte ha dimostrato a suo tempo l’arretramento di Camp David stesso nonostante le sue velleità di progetto centrale da estendere a tutta la regione. Un disegno che è arretrato per la resistenza messa in campo dal popolo palestinese, libanese e arabo più in generale, le cui Forze Rivoluzionarie sono state in grado di cacciare, in uno dei momenti più alti di questa resistenza, le truppe sioniste ed USA che, sotto la copertura delle “forze multinazionali di pace”, avevano occupato Beirut.
Contro questa strategia imperialista nella regione va riferita l’iniziativa antimperialista e internazionalista delle BR che, nell’84, colpirono il garante degli accordi di Camp David e direttore delle forze multinazionali in Sinai, l’americano L. Hunt. In questo obiettivo le BR hanno attaccato una struttura garante e agente di un equilibrio funzionale agli interessi strategici USA e NATO in Medioriente, inserendosi in questo modo nella più vasta campagna combattente antimperialista condotta in quel periodo sia dalla guerriglia europea che da forze rivoluzionarie arabe.
Gli equilibri internazionali scaturiti dai mutati rapporti di forza Est/Ovest confermano come questa regione, e l’aggressione all’Iraq sta a dimostrarlo, presenti le condizioni per caratterizzarsi come detonatore di un conflitto che ha motivazioni generali e spinte riconducibili alla necessità di risoluzione bellica della crisi capitalistica, all’interno cioè di un passaggio critico che dalla tendenza alla guerra matura l’apertura di una fase di effettivi eventi bellici, facendo assumere concretamente alla regione le caratteristiche di ambito preliminare e di retroterra per la strategia politico-militare dell’alleanza imperialista che ha potuto verificare nel contempo il suo grado di compattamento, ma soprattutto è potuta intervenire come NATO dentro a schemi di guerra che vanno ben oltre gli obiettivi che si sono dati nello scenario regionale. Che questa aggressione abbia costituito solo una prima rottura finalizzata a determinare le condizioni politiche e militari per un ulteriore inasprimento della pressione imperialista, lo dimostrano le manovre destabilizzanti per innalzare il terreno di confronto militare contro i paesi che di volta in volta nella regione diventano obiettivi da “normalizzare”, dentro ad un contesto in cui il tallone imperialista, in primo luogo americano, che schiaccia i popoli, riceve l’investitura della cosiddetta legittimità internazionale con copertura ONU, in una fase in cui, di riflesso ai mutati equilibri internazionali, questo organismo è divenuto lo strumento ideale per le manovre imperialiste guidate dagli USA, mentre nel concreto si fa sentire nella regione il peso del fianco Sud della NATO che ha già attivato i suoi avamposti, infatti le manovre militari sono da allora divenute permanenti, sottofondo di sostanza per gli obiettivi strategici dell’imperialismo.
Questo complesso quadro ha rideterminato giocoforza tutti i rapporti e gli equilibri esistenti nella regione, ciò comporta che il popolo arabo, nel movimento di resistenza che a vari livelli esprime, dovrà confrontarsi con un più profondo livello di controrivoluzione, proprio per il ruolo che gioca questa regione negli interessi imperialisti.
La lotta del popolo palestinese, di quello libanese e arabo più in generale, ma anche kurdo e turco, dovranno confrontarsi, come si stanno eroicamente confrontando, non solamente con sionisti, regimi reazionari e imperialisti americani, ma anche con l’intera alleanza dato che sul confronto in termini generali peserà l’insieme della catena imperialista ricompattata dai medesimi fini guerrafondai. L’importanza rivestita da quest’area geopolitica nel complesso delle contraddizioni prodotte dall’imperialismo che evolvono sulla direttrice di crisi-tendenza alla guerra, fanno dell’attività antimperialista in quest’area e della ricerca delle alleanze tra la guerriglia europea e i movimenti di liberazione nazionale un compito imprescindibile. Alleanza che può portare ad una maggiore qualificazione dell’attività antimperialista, a partire dall’unificazione dei due livelli del processo rivoluzionario tra cui c’è unità ma non identità per le oggettive differenze relative all’essere originate l’una, la guerra di classe, dalla contraddizione proletariato/borghesia, l’altra, la guerra di liberazione nazionale, dalla contraddizione dello sviluppo ineguale tra centro e periferia.
Malgrado in questa fase internazionale prevalga l’iniziativa politico-militare dell’imperialismo capeggiato dagli USA, i suoi fini di potenza sono minati alla radice dalle profonde contraddizioni di cui è portatore. Gli attuali rapporti di forza in suo favore sono in parte il risultato di una strategia complessiva messa in campo a partire dalla fine degli anni ’70, come reazione alla crisi generale che, dagli USA, si allargava a tutto l’occidente capitalistico; alla crisi di valorizzazione del capitale si aggiungeva la crisi di egemonia, data in modo determinante dalla serie di rotture antimperialiste avvenute nella periferia, le quali, riflettendosi sui rapporti di forza internazionali incidevano sulle posizioni globali tra Est e Ovest. Questi due fattori hanno reso evidente il limite storico dell’imperialismo e per questo essi non possono che pregiudicare alle fondamenta ogni tentativo di stabilire un duraturo dominio nel quadro mondiale tale da garantire l’agibilità per lo sfruttamento dei monopoli, neppure al prezzo della barbarie che già nel corso della storia ha fatto ricadere tanto sui popoli come sul proletariato. L’imperialismo reagisce dunque alla perdita di posizioni attraverso un complesso di interventi economici e politici per un verso, ma anche soprattutto militari e controrivoluzionari. Sono gli USA che necessariamente in prima persona dispiegano questa strategia fatta di rotture progressive operate a tutto campo, tali da modificare a proprio vantaggio i rapporti internazionali.
All’intervento nettamente controrivoluzionario nelle aree di crisi periferiche, per erodere e sovvertire i paesi che hanno operato rotture antimperialiste, o in corso di operarle, in parallelo, non cessa la costante opera di pressione ad Est, imperniata principalmente sulla strategia di confronto NATO. Questo complesso di interventi fatto per assestare equilibri politici e zone di influenza in tutto il mondo, preme e forza sulle relazioni concrete che il quadro storico ha definito intorno alla contraddizione Est/Ovest; per questo non può che trovare convergenza critica proprio nella nostra area geopolitica, in particolar modo nel cuore dell’Europa influendo sulla maturazione dei fattori di crisi e di contraddizione.
Una dinamica che soprattutto in questa fase evolve in un approfondimento della tendenza alla guerra, come stanno a dimostrare per un verso l’annessione della DDR da parte della RFT, per l’altro, l’aggressione imperialista all’Iraq: due fatti che, sebbene avvenuti su piani distinti, solo apparentemente sono slegati, poiché costituiscono due aspetti della medesima contraddizione e segnano inequivocabilmente i caratteri dell’attuale fase internazionale.
Il fatto che la guerra sia il mezzo con cui storicamente la borghesia imperialista affronta le sue crisi generali poiché consente, oltre che una distruzione di capitali e dei mezzi di lavoro sovrapprodotti, una spartizione dei mercati e delle sfere di influenza a vantaggio dei vincitori, rimanda alla natura imperialista della tendenza alla guerra, ai meccanismi insopprimibili della crisi capitalistica che la alimenta oggettivamente, fino a che questa si intreccia con la maturazione di condizioni politiche e, nei rapporti di forza tra le parti contrapposte, tali da far diventare la tendenza una scelta politica realizzabile. Affinché la guerra stessa possa rispondere alle esigenze capitalistiche, la sua dinamica tende a dirigersi in tempi, modi e fasi successive, verso l’assoggettamento di quell’ambito economico che presenta quelle caratteristiche di complementarietà a livello di strutturazione e sviluppo economico, in grado di dinamizzare e rilanciare in avanti il livello raggiunto dall’avanzamento tecnologico produttivo dell’economia capitalistica, quando cioè questo stesso avanzamento si trasforma in crisi a causa della sovrapproduzione.
Se questa è la dinamica economica della tendenza alla guerra, i poli contrapposti della contraddizione su cui si svilupperà il conflitto sono riferiti giocoforza alle relazioni che storicamente l’imperialismo ha stabilito, a partire cioè dai concreti rapporti che si instaurano tra le forze in campo in un dato quadro storico.
Con l’esito della seconda guerra mondiale i rapporti internazionali sono caratterizzati dalla presenza di due campi contrapposti, quello imperialista con al centro gli USA, fronteggiato dal dispiegarsi del nuovo fattore storico rappresentato dallo schieramento dei paesi socialisti, la cui presenza, proprio per la sua natura di classe, non potrà che imprimere a questo quadro anche una forte connotazione ideologica definendo uno scenario di scontro relativamente inedito. Proprio la presenza di due sistemi di relazioni diversi e contrapposti non ha potuto che condizionare la stessa politica imperialista finalizzata all’accerchiamento e all’indebolimento del campo avverso, influendo sulla stessa integrazione politico-militare della catena imperialista a partire dalla fondazione della NATO. Con il procedere dell’approfondimento della crisi dell’imperialismo è emerso chiaramente come i paesi dell’Est, presentando distintamente caratteristiche economiche, in termini di infrastrutture e di produzione, complementari all’area capitalistica, sono stati visti da quest’ultima come uno spazio economico la cui dimensione prospetta risoluzioni di ampio respiro, sempre che l’imperialismo possa instaurarvi le condizioni perché sia dato il grado di sfruttamento e di valorizzazione richiesto dallo sviluppo capitalistico. È all’interno di queste linee portanti che l’imperialismo ha adottato di volta in volta strategie di contenimento e pressione, sia di carattere strettamente militare che a livello di manovre destabilizzanti economiche e politiche. Un rapporto di scontro permeato dalla connotazione schiettamente anticomunista che, con l’involuzione del carattere socialista dei paesi dell’Est, ha visto per paradosso la dominanza della contraddizione Est/Ovest ammantarsi dell’involucro della contrapposizione ideologica, aspetto reso particolarmente chiaro in questo ultimo periodo quando, muovendosi proprio su questo terreno mistificante, si è mirato a rappresentare la disintegrazione del Patto di Varsavia come la sanzione della morte del comunismo.
Tutto questo non ha potuto certo mascherare l’ordine degli interessi materiali che spingono l’imperialismo ad assoggettare i paesi dell’Est, interessi che, proprio a causa della crisi, divengono pressanti e rimandano in modo palese alle strategie di penetrazione definite in questa fase.
Queste sono agevolate come non mai dall’attuale grado di rottura delle contraddizioni proprie di questi paesi, fatto che contraddistingue l’attuale disgregazione di quell’area, ex-URSS in testa, facendone il possibile terreno di saccheggio da parte dell’imperialismo.
Sulla base delle attuali condizioni politiche che questi paesi presentano, l’imperialismo è mosso da un intenso attivismo teso a ridefinire le relazioni a suo vantaggio. Sul terreno principale dei rapporti politici da stabilire, il filo conduttore dentro cui vengono formalizzati gli accordi possibili si svolge sostanzialmente tramite gli organismi integrati dell’imperialismo, siano essi la CSCE (1), la NATO, la CEE, la UEO, ecc.; un terreno di cui gli USA tengono fermamente la direzione e ciò è reso chiaro negli atti politici da essi svolti, tra cui, non secondario, è l’obiettivo del controllo sull’armamento atomico strategico che perseguono e, più in generale, nel loro sovraintendere a tutte le decisioni più importanti che nell’ambito imperialista vengono prese rispetto a questi paesi, così da riaffermare, per altro, la supremazia sugli altri partners della catena.
Sul piano prettamente economico, ogni Stato imperialista è impegnato a prendere le migliori posizioni nella corsa all’accaparramento e penetrazione economica di questi mercati che, in questa fase, si dà principalmente sul modello di destrutturazione-espropriazione sperimentato dalla Germania sulla DDR: cioè mirare ad una spoliazione nei fatti della base produttiva, forza-lavoro compresa, da parte dei gruppi dei monopoli produttivi e finanziari dominanti. In questo modo si pongono le basi potenziali dei possibili terreni di spartizione di questo enorme e ricco mercato, su cui già prevalgono nettamente le posizioni di USA e Germania, essendo i primi nelle condizioni più vantaggiose per “mettere le mani” sugli sviluppati sistemi tecnologici in campo spaziale e militare, mentre la Germania ha potuto stendere una fitta rete di investimenti ed acquisizioni industriali soprattutto nei paesi ad essa confinanti e, più in generale, determinando con il suo intervento un reale rapporto di dipendenza e assoggettamento.
Le attuali condizioni di crisi dell’imperialismo, da un lato, e i concreti margini di agibilità politica in questi paesi, dall’altro, delimitano precisamente il livello di penetrazione economica, in primo luogo perché a questo stadio della crisi di valorizzazione la sola e semplice penetrazione/espansione dei mercati non è in grado di dargli superamento duraturo, traducendosi nel breve-medio periodo in un ulteriore fattore di instabilità per l’economia capitalista, come già dimostrano gli effetti dell’annessione nella stessa Germania. Pertanto solo la guerra può prospettare all’imperialismo le circostanze che, a partire dalla distruzione, possono rilanciare la produzione al livello dato dallo sviluppo del capitale, e molto materialmente la tendenza alla guerra si indirizza verso l’ambito che si è definito in questo quadro storico come quello idoneo a rilanciare in termini dovuti la produzione capitalista. Seppure apologeti vecchi e nuovi dell’imperialismo legano alla fine della mistificante contrapposizione ideologica tra Est ed Ovest il depotenziamento delle tensioni belliciste, vagheggiando di un futuro di pace sotto l’ordine imperialista, l’obiettivo della sottomissione dei paesi dell’Est Europa, ex-URSS in testa, matura da questi fattori strutturali e non è certo legato a puri motivi ideologici, e i mutamenti in atto in questi paesi nel facilitare la penetrazione economica dell’imperialismo, non possono significare la risoluzione “lineare” delle sue contraddizioni economiche.
Allo stesso tempo le contraddizioni che permangono e si approfondiscono all’interno dell’ambito imperialista non si riversano in termini antagonistici dentro la catena, non ci sono cioè le condizioni che possono dare luogo al configurarsi come nel passato della guerra tra paesi del centro imperialista, quale portato dell’acutizzarsi della conflittualità tra questi paesi per la crisi capitalista come riflesso del piano della concorrenzialità tra le frazioni di borghesia imperialista sia nella spartizione delle quote di mercato, sia nella stessa penetrazione ad Est. In altri termini il grado di sviluppo della concorrenza intermonopolistica non inficia lo sviluppo storico fortemente integrato della catena, economico, politico, militare, che muove unitariamente nel suo complesso verso la tendenza alla guerra. Per tutte queste ragioni di fondo l’interesse imperialista ad appropriarsi dei mercati e delle risorse produttive dell’Est Europa e dell’ex-URSS palesa passaggi niente affatto pacifici, attraverso le relazioni politiche e militari che l’imperialismo tende ad imporre a questi paesi, all’interno dei quali i mutati rapporti di forza favoriscono le spinte guerrafondaie dell’imperialismo in quanto costituiscono uno dei fattori politici che le rendono praticabili.
Che l’ordine imperialista non apra ad un’epoca di pace emerge, per altro verso, dagli sviluppi nelle linee strategiche offensive messe a punto dalla NATO con le sue dottrine sulla “presenza avanzata”, che vedono, soprattutto negli ultimi anni, ristrutturarsi gli eserciti europei. Queste linee presuppongono che tra gli eserciti dei vari Stati si formi un certo livello di integrazione, formulata dagli schemi operativi “interforce”, utilizzando i nuovi sistemi d’arma che hanno incorporato i più sofisticati sviluppi tecnologici nel campo dell’elettronica e dell’informatica. Sistemi questi che costituiscono la punta avanzata degli armamenti convenzionali avendo incorporato i risultati utilizzabili ottenuti dalla sperimentazione a suo tempo fatta nello SDI.
Queste dottrine hanno trovato un primo momento di sperimentazione concreta e una verifica, se pur parziale, nell’aggressione contro l’Iraq, all’interno dell’attuale fase caratterizzata dalle spinte belliciste del centro imperialista. In questo quadro, la stessa riformulazione degli eserciti evidenzia come si stia man mano precisando la preparazione di scenari di guerra sempre meno ipotetici, e quella che viene presentata come la nuova funzione della NATO, la cosiddetta “NATO politica”, altro non è che il necessario riadattamento delle modalità d’approccio da mettere in atto in conseguenza ai mutamenti negli equilibri tra imperialismo e paesi dell’Est, a partire dalla maggiore agibilità che tali equilibri consentono all’imperialismo su ogni piano di intervento possibile e in ogni conflitto che si matura nel mondo. Tutto questo nel mantenimento del fine strategico per cui la NATO stessa esiste, che verso i paesi dell’Est ha il suo indirizzo fondamentale.
In questa luce i successivi accordi sul disarmo del vecchio arsenale missilistico della guerra fredda nascondono solo il perseguimento del reale disarmo dell’ex-URSS, la stessa proposta strumentale di un ipotetico, futuribile, “piano Marshall per l’Est” viene brandito come un’arma di ricatto per condizionarne le scelte con l’occhio ben fisso sull’obiettivo principale di un suo indebolimento e disarmo. Ecco allora che strumenti da sempre in mano all’imperialismo, principalmente USA, come FMI e BM, indicano alla Russia l’esigenza, da rispettare nella formulazione del bilancio dello Stato, di tagliare innanzitutto le spese per il settore della difesa come una delle condizioni per poter accedere ad aiuti vasti quanto disinteressati…
Nella stessa ottica la CEE ha destinato un fondo di sessantacinque milioni di dollari per la riconversione a civile di industrie belliche, altrettanto rivelatore il prendere a pretesto la possibilità di incidenti nucleari, sia in campo civile che militare, per prefigurare un intervento finanziario e tecnologico che porti ad una “messa in sicurezza” degli impianti anche tramite il reclutamento a suon di dollari degli scienziati che operano in quei settori.
Tutto questo mentre l’imperialismo ha dato corso al massiccio potenziamento dei suoi armamenti convenzionali. Un potenziamento a cui l’imperialismo è giunto dopo un decennio di riarmo, adottato, se pur a diversi gradi, dagli Stati della catena. Il suo utilizzo come stimolo economico fin dagli anni ’80, in piena recessione, è stato in primo luogo la controtendenza principale alla crisi di valorizzazione, permettendo di immobilizzare i capitali eccedenti in quei settori ad alta composizione organica legati al bellico, a cui storicamente con l’adozione del riarmo da parte dello Stato si accorpa lo sviluppo tecnologico. Sono gli USA, non a caso i più gravati dalla crisi, i primi ad impostare una politica economica basata sul riarmo che per questo si è avvalsa di poderosi investimenti di capitali sulla ricerca e sviluppo delle tecnologie sui sistemi d’arma, cosa che ha avuto i suoi riflessi immediati sul terreno della concorrenza che ruota intorno al controllo di queste stesse tecnologie, rafforzandosi la supremazia USA in questo campo rispetto agli europei. Per la dinamica economica che stimola, il riarmo è ad un tempo cartina al tornasole dell’aggravamento dei fattori strutturali della crisi economica e calmiere nel breve periodo dei suoi effetti, nonché apportatore di ulteriori squilibri economici di cui il principale è ravvisabile nel medio-lungo termine nell’impossibilità di rimettere in circolo i capitali immobilizzati nel riarmo; sintomatica in questo senso la crisi debitoria USA favorita dal dirottamento di risorse finanziarie su questo terreno. Quanto più si fanno consistenti le spinte verso la guerra, tanto più è richiesta l’attivizzazione dei paesi NATO, a partire dall’Europa. Da qui l’assunzione di una più consistente funzione politico-militare dei paesi europei, che presuppone il rafforzamento della UEO con ambito di intervento extra NATO. Una funzione che inoltre risponde al maggior peso dell’Europa che deriva dalla coesione politica che è proceduta al suo interno, la quale sul terreno propriamente militare si è concretizzata tra l’altro nei diversi accordi bilaterali, come quello sulla brigata franco-tedesca. Tali accordi, pure esprimendo la volontà dei singoli Stati di acquisire un proprio spazio di manovra, non portano a travalicare l’Alleanza Atlantica, la quale piuttosto mantiene la direzione sulla direttrice della preparazione alla guerra e le diatribe sul ruolo da dare alla UEO e alla difesa europea, ma manifestano solo l’esigenza dei paesi europei di ritagliarsi un maggior peso negli equilibri gerarchici dentro alla catena.
Le nuove condizioni investono anche i cosiddetti paesi neutrali che nel passato trovavano vantaggiosa questa posizione formale, mentre oggi l’essere all’interno della maggiore integrazione politico-militare diviene vitale per la difesa dei propri interessi. Ecco allora che il primo gennaio ’93, in contemporanea con le scadenze dei paesi CEE, entra in vigore un accordo tra quest’ultima e la EFTA (2) per la creazione di uno “spazio economico europeo”, mentre hanno già fatto richiesta di adesione alla CEE Austria, Svezia e Svizzera. Inoltre la Svizzera indica come inevitabile la partecipazione ad un “Sistema di difesa europeo” e la Svezia, in dichiarato riferimento alla situazione nell’ex-URSS, coopera con l’organismo NATO che coordina la ricerca e lo sviluppo nelle produzione di armi (IEPG).
In sintesi l’appartenenza alla NATO diviene condizione per svolgere ed acquisire un peso internazionale. All’interno di questa la coesione politica europea ha il suo punto di forza nella “difesa comune” e marcia oggettivamente e soggettivamente verso lo sbocco bellico. L’Est europeo è il suo terreno privilegiato di intervento e in questo la crisi yugoslava è il banco di prova dell’Europa occidentale nelle sue mire di conquista di un maggior spazio nel nuovo ordine imperialista da costruire insieme agli USA. Il ruolo preminente è svolto dalla Germania, per riportare sotto la propria influenza i popoli slavi, in questo facendosi promotrice di Stati nei fatti fantoccio. Una politica interventista che nel suo dispiegarsi deve fare i conti con il reale confronto fra le forze in campo, con la resistenza contrapposta alle invasioni che storicamente proprio questi popoli hanno sempre dimostrato.
Nei caratteri di questa fase la NATO, pilastro politico-militare dell’integrazione della catena imperialista a dominanza USA, vede dispiegare tutti i piani e tutte le prerogative su cui si è costituita, e cioè nella duplice funzione di guerra esterna-guerra interna:
– guerra esterna, nella sua funzione di deterrenza prima e successivamente di strategia offensiva contro il blocco dei paesi dell’Est;
– guerra interna, nella sua funzione di indirizzo controrivoluzionario, applicato fin dall’inizio all’interno degli Stati imperialisti per mantenere la stabilità a fronte dello scontro di classe e del suo possibile risvolto rivoluzionario, nella definizione di politiche specifiche a fondamento della controrivoluzione preventiva sviluppata da ogni Stato.
Su un altro piano, diffusione dei metodi controrivoluzionari nei confronti dei contesti rivoluzionari della periferia, come attesta il golpe NATO in Turchia e gli attuali metodi di controguerriglia stabiliti dalla NATO che Ankara sta adottando contro la guerra popolare in Kurdistan e la guerriglia comunista all’interno.
Per la sua natura la NATO è sempre stata oggetto d’attacco della guerriglia europea che in diversi momenti ne ha fatto l’obiettivo del suo intervento. Obiettivo su cui la nostra Organizzazione è intervenuta con la cattura del generale NATO, Dozier. Nel contesto di scontro, in cui si è inserito questo attacco, la NATO sovraintendeva e guidava le scelte di fondo dei paesi della catena, sia nel dispiegamento degli arsenali missilistici lungo il confine con i paesi dell’Est, sia nel rafforzamento del fianco Sud della NATO, riqualificando in quel periodo le sue linee di intervento, dentro l’attiva responsabilizzazione dei paesi europei, in un’ottica di lungo termine.
Un contesto generale che sul piano rivoluzionario faceva risaltare la necessità del Fronte Combattente Antimperialista che nell’attacco ai progetti centrali dell’imperialismo e alla NATO, traccia la linea di riferimento su cui ricomporre quel fronte oggettivo che a vari livelli si contrappone all’imperialismo.
Nel comunicato n. 1 Dozier, le BR affermano:
«(…) le OCC della RAF e delle BR oggi si pongono al punto più alto d’attacco al progetto di guerra incarnato dalla NATO. Al punto più alto della proposta di ricomposizione del movimento di massa europeo contro la guerra imperialista, al punto più alto della proposta di costruzione del Fronte Combattente Antimperialista su tutta l’area europea e mediterranea (…). Su questa base è possibile lanciare con forza il programma di unità con i comunisti e di alleanza con i popoli oppressi dall’imperialismo (…)».
Proprio nel confronto con l’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, imperialismo/antimperialismo, si definisce e si precisa la costruzione del Fronte Combattente Antimperialista; su questo scontro influiscono dialetticamente da un lato l’attività rivoluzionaria della guerriglia, sia per come si sviluppa nel suo contesto nazionale, sia nel salto di qualità rappresentato dal perseguimento del Fronte, dall’altro lato, le risposte controrivoluzionarie degli Stati, non solo su un piano nazionale, ma anche per gli sviluppi della concertazione politica sul piano dell’annientamento della guerriglia e del Fronte, intese che non si limitano ad accordi di polizia ma vertono sulle modalità generalizzabili per contrastarla (modello “soluzione politica”) e facendosi carico nel loro insieme di affrontare il “problema guerriglia” ovunque si presenti, agendo cioè senza “frontiere” e definendo su questo terreno una completa coesione politica tra gli Stati europei.
I momenti di unità di volta in volta raggiunti nel Fronte tra le Forze Rivoluzionarie europee hanno reso esplicito il portato rivoluzionario del Fronte per lo sviluppo presente e futuro della guerra di classe rivoluzionaria nella metropoli e dell’antimperialismo in tutta l’area.
Sul piano interno la guerra contro l’Iraq è caduta in un contesto di scontro e di mutamenti istituzionali che in parte già contengono i presupposti per cambiamenti decisivi nel quadro complessivo delle relazioni politiche e sociali tra le classi e nelle forme di potere che vogliono essere istituite. In questo senso il contesto che si è determinato prelude ad un ulteriore salto in avanti rispetto a quello che si è maturato nel corso della lunga fase di scontro di classe iniziata con la controrivoluzione degli anni ’80, nella necessità di sancire una riformulazione ad un più alto livello dell’assetto e dei poteri dello Stato, nel tentativo illusorio di uscire da quelle secche in cui la “stabilità” è la risultante estremamente labile di continui strappi e lacerazioni su tutti i piani delle relazioni politiche nel paese, così come si è andato a caratterizzare il modo di governare in particolare in questi ultimi anni.
Per comprendere la portata di quanto si profila, va considerato ciò che si è andato a definire nel lungo e contraddittorio processo di rifunzionalizzazione dello Stato che ha assestato mano mano mutamenti di sostanza alle prerogative degli organi e delle figure istituzionali, la progressiva esecutivizzazione che tale processo ha conseguito vede oggi infatti l’assunzione senza precedenti di nuovi e maggiori poteri nella figura del Presidente del Consiglio e di un ristretto ambito dell’Esecutivo. Ciò che è stato raggiunto in termini di esecutivizzazione è il piano più alto a livello istituzionale di un processo materiale che ha le sue cause principali e il suo possibile movimento nei concreti rapporti di scontro tra le classi. Per questa ragione fondamentale la base di forza che ha potuto dare il via al riassetto delle istituzioni va ricondotta alla controffensiva dello Stato negli anni ’80, la quale, proprio per il livello avanzato che si è prodotto nello scontro di classe e rivoluzionario non poteva darsi se non assestando un duro colpo alle BR, per poi dispiegarsi dai settori di autonomia di classe che si collocavano intorno alla proposta rivoluzionaria fino ad attraversare tutto il corpo di classe. Una controffensiva che per modi e tempi in cui si è data, ha assunto carattere di vera e propria controrivoluzione da cui la borghesia imperialista italiana ed il suo Stato hanno potuto modificare a loro favore i rapporti di forza ed iniziare ad operare il corrispettivo riordino dello Stato per rispondere alle esigenze poste dalla concentrazione monopolistica ed alle avvisaglie della tendenza alla guerra. Per questo il primo passo non poteva che assestarsi sul piano capitale/lavoro con i patti neocorporativi. Dai patti neocorporativi in poi il processo di esecutivizzazione che si è configurato dentro ulteriori forzature nei rapporti politici e di forza tra le classi, con l’istituzione del supergabinetto e la legge sulla presidenza del consiglio, hanno visto rafforzate le prerogative del governo intorno al quale il parlamento è stato rifunzionalizzato (con la decretazione d’urgenza e la fiducia usati come strumenti ordinari, il voto palese, ecc., fino ad arrivare ad un diverso iter nel fare le leggi). Un processo che non poteva investire tutti gli istituti e le funzioni dello Stato, in primo luogo la magistratura. L’entità dei mutamenti apportati nel paese e nel quadro istituzionale, in specifico nei salti compiuti in quest’ultima legislatura, per come si sono delineati, già indicano in larga misura gli equilibri e i binari su cui premere per arrivare alla diversa configurazione dei poteri dello Stato. Una svolta che per affermarsi profila la necessità di arrivare ad una ulteriore frattura nelle relazioni classe/Stato e dentro le stesse istituzioni, poiché la dinamica che evolve la Seconda Repubblica, per potersi dispiegare, deve incidere da un lato sull’impalcatura costituzionale post-resistenza che, pur avendo consentito alla borghesia di gestire il potere a fronte dei limiti strutturali e dell’acuto scontro di classe, rappresenta oggi un condizionamento all’ulteriore sviluppo dei termini formali della democrazia borghese, dall’altro, e come dato sostanziale, di incidere su quel piano dei rapporti generali e formali tra le classi che si sono sviluppati in questo quarantennio, condizionati dai processi di lotta del proletariato, dai suoi avanzamenti politici e sociali, nonché dai caratteri di maturità e combattività dell’autonomia politica di classe sui quali ha inciso in termini di sostanza la progettualità rivoluzionaria della proposta della lotta armata per il comunismo.
Un piano generale la cui sostanza e valenza ha un peso specifico sulla relatività dei rapporti di forza, costituendo il limite politico effettivo, sia pure elastico, che la borghesia imperialista a tutt’oggi non ha potuto travalicare; In questo senso nonostante gli anni di controrivoluzione e le posizioni odierne di relativa difensiva del campo proletario e rivoluzionario, non c’è la pacificazione auspicata dalla borghesia imperialista, ma il reale approfondimento del rapporto di scontro sia sul piano politico classe/Stato che sul piano rivoluzione/controrivoluzione nell’inasprimento di tutti i termini della controrivoluzione preventiva.
Sullo sfondo di questo quadro politico di riferimento e nel contesto generale di crisi che si è aperta nel paese, in relazione alla resistenza che a vari livelli il proletariato oppone al peggioramento delle condizioni politiche e materiali, si fanno sempre più forti le spinte per una “soluzione forte” dell’impasse istituzionale in rapporto all’ingovernabilità sociale. Spinte che nascono dalle impellenti esigenze che l’acutezza della crisi pone alla borghesia imperialista nostrana e a cui, indubbiamente, ha contribuito la stessa partecipazione dell’Italia alla guerra contro l’Iraq, spinte oggettive e soggettive, dunque, che rendono quanto mai critica questa peculiare fase politica. Questo mentre lo Stato, pressato da tali scadenze, ha già posto in essere in un crescendo di forzature, il varo dei peggiori programmi a livello sociale e di misure politiche restrittive tese ad intervenire sul corpo di classe, mettendo in discussione perfino quel campo dove sono regolamentati i diritti acquisiti sia in campo economico che sociale e politico. Un insieme di interventi che per la loro portata sono andati ad intaccare il piano stesso delle cosiddette garanzie costituzionali e che ha costituito l’approfondimento di quel terreno materiale nei rapporti politici fra le classi che consentono di avanzare nell’accentramento dei poteri. Su questo sfondo politico e sociale e istituzionale contraddittorio, il Presidente del Consiglio ed il suo Esecutivo ristretto, con il supporto di Cossiga come anticipatore delle forzature fatte, si sono assunti il compito di aprire le premesse politiche alla tanto perseguita “fase costituente” che dovrebbe legittimare le forme di potere nei fatti parzialmente operanti. Ed è in questo obiettivo la rottura profonda con tutta la fase precedente, è in questa direzione che si può collocare quanto avvenuto in particolare nell’ultima legislatura, a partire dal modo in cui è stata interrotta, decisa fuori dalle competenze politiche del Parlamento, per segnare inequivocabilmente come i meccanismi politici decisionali e in particolare il processo di formazione degli equilibri governativi debbano darsi fuori dal ruolo finora avuto dal Parlamento. In altre parole, quello che si è verificato prima, durante e dopo le elezioni, nella crisi extra istituzionali che hanno gravato questo percorso, con un governo rimasto in carica di fatto con le mani libere di legiferare per decreto, dimostra come lo svincolamento delle regole vigenti, la loro ostentata messa al margine, si stata una scelta politica funzionale per condizionare la sostanziale rifunzionalizzazione delle Camere al futuro assetto del potere. Un insieme di modifiche divenute indilazionabili a partire da come è stato accentrato il potere nell’Esecutivo, pena l’acuirsi dello squilibrio tra le sue prerogative e il ruolo attuale del Parlamento, uno squilibrio che alimenta la crisi di “agibilità” politica nel modo di governare. Questo ripropone urgentemente nuove regole nel meccanismo di formazione del governo, come dato principale all’ordine del giorno, su cui poter modellare norme e competenze delle camere, adeguate a sostenere politicamente e sul piano legislativo i caratteri di “governo forte e stabile” a cui mira la “riforma”. Un insieme di modifiche che, implicando una legge elettorale corrispondente al sistema di governo che vuole essere definito, richiedono gioco-forza lo scioglimento dei legacci parlamentari e costituzionali della Prima repubblica, prospettiva questa che pur rispondendo ad un piano di necessità, ha nella sua attuazione pratica e politica le incognite proprie dell’instabilità e dell’ingovernabilità che hanno caratterizzato le tappe percorse da tutti gli esecutivi in questo decennio.
La portata senza precedenti degli atti politici attuali in questo fine legislatura nello scompaginamento degli equilibri preesistenti, nel dettato implicito entro cui viene data la possibilità stessa di aprire alla “fase costituente”, qualifica questa crisi come levatrice delle condizioni che possono dare legittimità costituzionale a quanto con atti di forza si è già imposto nel concreto modo di governare, in questo avvalendosi del consenso e del sostanziale schieramento del più vasto arco delle forze politiche borghesi. Il trapasso che si prefigura, come in parte quello già avvenuto, non potrà darsi al di fuori della cornice della “democrazia rappresentativa borghese” che ne sancisca la legittimazione politica formale, un trapasso che avviene al di fuori e contro la profonda delegittimazione sociale e politica nel paese, tra proletariato e borghesia, classe e Stato. Dal divario incolmabile esistente tra governabilità formale e rapporti reali di scontro si comprende come ogni avanzamento nel processo di rafforzamento dello Stato sia connaturato dall’approfondimento di tutti i termini antiproletari e controrivoluzionari attivati nelle relazioni con la classe, vero humus su cui poggia il salto della fase politica che si è aperta in Italia. Un dato politico che calato nel contesto del paese fa da sfondo e compenetra le politiche dello Stato sul campo proletario stabilendo il terreno dove si gioca il confronto fra le classi. Un terreno di confronto appesantito soprattutto in quest’ultimo periodo dal varo di misure irreggimentatrici in materia di “ordine pubblico” estese dal piano di classe tutte le relazioni sociali, che dentro una demagogica campagna contro la “criminalità” sono la criminalizzazione di ogni opposizione di classe come di ogni espressione conflittuale.
“Ordine pubblico” che è da sempre in Italia il piano cui la borghesia imperialista e lo Stato ricorrono quanto maggiore è l’instabilità del quadro politico generale, e profondi gli strappi ricercati nei rapporti politici tra le classi, e che oggi vede più che mai le “forze dell’ordine” attivizzate a tutto campo e onnipresenti quale elemento di pressione a supporto di ogni forzatura del governo.
È all’interno di questo contesto generale e proprio dalla guerra con l’Iraq, che è stato formalizzato un ulteriore passaggio rilevante nella sua natura coercitiva. Questo è quanto si palesa nella nuova mappa relativa ai prefetti e alle procure, con le nuove funzioni loro affidate e il loro coordinamento, usufruendo dell’integrazione operativa delle tre armi, nonché della figura prospettata del super procuratore cui tutti dovranno fare riferimento, di fatto l’istituzione di un apparato centralizzato sotto la direzione politica di una ristrettissima componente dell’Esecutivo. La funzione prevalente ad essi assegnata è volta principalmente a prevenire il conflitto di classe e per questo il loro intervento sul territorio è irradiato sui maggiori poli metropolitani del paese, ed esprimono l’immediato carattere antiproletario e controrivoluzionario delle loro funzioni, tutte interne a poter attivare ogni livello della controrivoluzione preventiva. Inoltre svolgono anche un ruolo di controllo politico sulle amministrazioni locali, fungendo da raccordo delle decisioni del potere centrale su quello locale. Tali organismi per il fatto che investono il piano giudiziario e nel poter disporre delle principali forze coercitive dello Stato, compresi i servizi segreti riformulati, sono uno strumento di potere di cui i vertici dell’Esecutivo possono disporre. Ciò ha un suo risvolto politico concreto anche verso la magistratura, fanno testo in questo senso le pressioni tese ad esautorare le funzioni di autogoverno di questo potere dello Stato. in questo quadro l’istituzione di organismi giudiziari paralleli come “super procure”, “super procuratori”, che rispondono direttamente all’Esecutivo, agiscono come spinte alla rifunzionalizzazione a cui deve essere volto il potere giudiziario.
Nelle modalità con cui maturano svolte in cui la “stabilità” cerca di imporsi avvalendosi, nel governo delle contraddizioni, di politiche marcatamente coercitive e di risposte repressive quali termini più evidenti della loro natura antiproletaria e controrivoluzionaria, si esprime al massimo grado l’instabilità critica dei reali equilibri nel paese. L’impronta data agli strumenti messi in campo per rafforzare lo Stato e la forma che vengono ad assumere in un paese, va sottolineato, a capitalismo avanzato qual è l’Italia, mette a nudo la debolezza storica su cui poggia il dominio della borghesia imperialista la quale scaturisce dalle condizioni politico-generali di uno scontro storicamente in grado di esprimersi ai più alti livelli e di porre costantemente l’ipoteca del risvolto rivoluzionario. A maggior ragione in forza di vent’anni di prassi rivoluzionaria basata sulla lotta armata, la quale vi ha immesso tutto il peso politico a partire dalle conquiste rivoluzionarie che ha maturato. Ragioni prime queste degli ostacoli e dei ripiegamenti che la borghesia imperialista ha subito nei suoi progetti e della forte instabilità del quadro politico, che unitamente alla debole collocazione economica nella struttura gerarchica della catena, non ha consentito alla borghesia imperialista italiana di arrivare a quello sbocco sempre inseguito della “democrazia matura” quale sinonimo di una raggiunta cornice di stabilità che si poggi sull’ambita impermeabilizzazione nel governo del paese dalle spinte del conflitto di classe. I progetti che si sono susseguiti su questo terreno, ultimo quello demitiano, lungi dal procedere in modo lineare e pacifico, non hanno potuto raggiungere questo traguardo. ciò che si è verificato sono stati momenti di relativa stabilità che via via hanno segnato, con caratteri fortemente contraddittori, un’alta concentrazione delle leve del potere, contestualmente all’irrigidimento della mediazione politica. In altri termini benché l’Italia sia oggi allineata agli altri paesi europei sul piano dell’accentramento dei poteri, permangono caratteri peculiari nella democrazia rappresentativa, al cui interno si evidenzia, come aspetto specifico, il progressivo impoverimento dei contrappesi politici che agiscono per equilibrarne il funzionamento istituzionale. Nella riduzione, ovvero, dello spazio politico e dei margini di intervento su cui ha agito la tradizionale opposizione istituzionale, senza un corrispettivo sviluppo di altre formule che comprendano questa funzione, seppure ad un più alto grado di formalità, come avviene negli altri paesi europei con l’“alternanza” che consente relativamente di assorbire e governare in una cornice di democrazia apparente mutamenti anche più traumatici in termini sociali, come ad esempio in Gran Bretagna.
In questa fase in cui l’imperialismo è attraversato dalla crisi più acuta e si prepara apertamente alla guerra, in Italia vengono al pettine tutti i nodi ed i ritardi legati alle vecchie contraddizioni irrisolte che, nell’accumularsi critico con i nuovi fattori di contraddizione, sia nello scontro di classe che sul piano internazionale, caratterizzano la crisi come economica, sociale, politica ed istituzionale insieme, determinando di conseguenza uno stato di generale fibrillazione di tutti gli organismi istituzionali e soggetti politici. Un contesto dal quale scaturiscono le spinte per le cosiddette “soluzioni forti“ perché siano garantiti gli interessi urgenti dei maggior gruppi monopolistici dell’industria e della finanza, attraverso passaggi istituzionali che consentono la gestione di tutte le leve di governo del paese da parte delle forze politiche che ne riflettono più fedelmente gli interessi. In concreto è la DC, quale esponente principale di questa rappresentanza politica, che nel farsi promotrice del riassetto dello Stato e facendo capo alle modifiche sostanziali avvenute, ha costruito gli addentellati concreti per il controllo politico di queste leve.
Alla peculiarità di questa fase verso il diverso assetto dello Stato contribuisce un’oggettiva resistenza che si determina tra il modo in cui fino ad ora le forze politiche, DC in testa, hanno condotto gli indirizzi di politica economica e il loro mutamento nella direzione richiesta dall’attuale situazione di crisi. Un contrasto cioè tra improcrastinabili scelte economiche e “vecchio” sistema di allocazione delle risorse e delle politiche di sostegno, a partire dagli impegni che la stessa partecipazione alla comunità europea richiede, dovendoli far propri perché rispondenti alle necessità del capitale nazionale di concorrere alla formazione monopolistica europea. Già nelle scadenze imposte dal trattato di Maastricht che comportano una gestione ferrea del bilancio statale e del PIL si è manifestato la difficoltà di uscire dalle paludi dei vecchi equilibri economici e politici che frenano il decollo dei piani di “risanamento economico”, ad esempio del progetto di privatizzazione di settori economici statali (con regole per altro già fissate) e del diverso modo di attingere al risparmio privato in favore dell’industria con l’“azionariato popolare”. La problematicità di questo mutamento nella gestione della politica economica, che tra l’altro alimenta la conflittualità tra i partiti come riflesso sul terreno politico degli interessi economici concorrenziali, ha il suo fondamento principale nel carattere della crisi economica, la quale restringe l’arco delle risposte possibili. Questo si manifesta in particolare nello spostamento delle risorse economiche a sostegno delle frazioni dominanti di borghesia imperialista che coinvolgono anche i ceti intermedi, tradizionale base sociale democristiana, di piccola e media industria che dentro ai già risicati margini di mercato vedono ridursi il sostegno statale. Da qui lo squilibrio di una rappresentanza politica che sostanzialmente va a coprire interessi che sono in questa fase in contrasto con quelli di questi ceti, indebolendo le diramazioni di rappresentanza, in particolare DC, che poggiano su di essi. Una dinamica economica e sociale in cui si ripresenta il tipico fluttuare di questi ceti verso movimenti politici di carattere demagogico e qualunquistico, soprattutto a fronte della relativa debolezza che presenta il campo proletario. Questa dinamica nel contesto dell’avvenuto rafforzamento nelle forme di dominio della classe dominante, dà luogo solamente, a differenza del periodo prefascista, ad un utilizzo strumentale di questi ceti dentro le campagne ideologiche di stampo più “retrivo”, funzionali in ultima analisi solo ai fini della frazione dominante di borghesia imperialista. Sono queste frazioni dominanti, infatti, che sono scese in campo per sostenere una compagine governativa che possa garantire l’attuazione dei programmi economici più antiproletari e conseguenti strette sociali. Non è un caso che le parole d’ordine di “governo forte e ordine” accomunino governo e confindustria. Le iniziative concrete di quest’ultima non si limitano al sostegno delle parole d’ordine forcaiole sulla “lotta alla criminalità” ma si estendono alla partecipazione nei “comitati sull’ordine pubblico” nazionali e provinciali, e più sostanzialmente la vedono impegnata con interventi politici tesi a premere sulle principali scelte generali del governo.
Sul piano politico, a sostenere gli strappi richiesti nei rapporti tra le classi sono intervenute le massime cariche dello Stato, ponendo le forze politiche di fronte alla necessità di schierarsi sostanzialmente sulla natura antiproletaria e controrivoluzionaria dello Stato come un filo che deve connaturare le scelte che daranno luogo alla formazione delle “nuove regole del gioco”. Una pressione condotta in primo luogo da Cossiga nel ruolo affidatogli di apripista, lanciando la campagna di rivendicazione delle attività stragiste e controrivoluzionarie dello Stato e successivamente nell’attivazione delle sue bande terroristiche. Una campagna tesa ad appesantire il clima politico fino a toccare livelli intimidatori andando ad influire sulla già deteriorata dialettica tra le forze politiche, sia nel rapporto tra gli ambiti dell’opposizione istituzionale e la maggioranza, che fin dentro le stesse forze della tradizionale maggioranza. Quello che si sta affermando nel modo d governare il paese non è una degenerazione né uno svuotamento della “democrazia rappresentativa” al contrario, nel contesto generale, che si profila è il vero e autentico volto della democrazia borghese, l’espressione più scopertamente controrivoluzionaria che la borghesia può e sa esprimere per le necessità attuali dello sviluppo monopolistico, la forma di dominio più adeguata per sostenere il salto che deve compiere in questa fase di crisi/sviluppo. Ciò per acquisire quelle posizioni nei rapporti di forza politici fra le classi, affinché si possa attuare quel complesso di interventi che spaziano dalle misure propriamente anticrisi all’attivismo bellicista, la cui praticabilità politica deve fare i conti con l’opposizione di vasti settori proletari non disposti a subirne supinamente i costi politici e materiali, come hanno dimostrato diversi momenti di lotta e contrapposizione che a vari livelli sono stati espressi, sebbene nella discontinuità imposta dal livello di scontro.
Basti pensare a quanto si profila nel quadro internazionale dove lo Stato italiano dentro all’escalation della strategia militare imperialista è attivizzato alla diretta partecipazione nelle operazioni belliche, come già dimostrato in Iraq. Un ruolo quello dell’Italia che si è definito più precisamente negli impegni assunti durante il vertice NATO di Roma che qualificano ad un nuovo livello le sue responsabilità in quanto pilastro del fianco Sud della NATO col comando politico affidatogli. Direttive che hanno avuto immediato riscontro rispetto alle sue funzioni nell’area mediorientale-mediterranea, come si può ben vedere dall’“operazione Libia” in corso. Allo steso tempo lo Stato italiano sviluppa il suo impegno all’interno dell’attuale livello di confronto dell’imperialismo con l’est, già sostanziato nel “protettorato” di fatto posto sull’Albania, nonché nelle “ingerenze“ in Yugoslavia, sue storiche zone di intervento.
Un attivismo all’interno del concretizzarsi della tendenza alla guerra verso cui spingono al massimo le frazioni dominanti di borghesia imperialista nostrana legate ai grandi monopoli, non essendo altra cosa questo se non la concretizzazione dell’interesse e della necessità di ritagliarsi la propria fetta di zona di influenza, che si avvale in questa fase, prima ancora che nel sostegno finanziario dello Stato, dell’attivismo politico, diplomatico e militare dello Stato, della sua “politica estera”, nella più generale corsa alla conquista delle posizioni più favorevoli per la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro e dei mercati.
Un contesto questo in cui la borghesia imperialista nostrana preme fortemente sullo Stato per la creazione di quelle condizioni essenziali che non si esauriscono nella programmazione economica o nei preparativi bellici, ma che attengono all’attrezzare lo Stato nella sua funzione politica rispetto al conflitto di classe, specifica ala cosiddetta “pacificazione del fronte interno” quale fattore preliminare per essere in condizione di governare, pur sempre in senso relativo, una fase che rapidamente evolve come pre-bellica. E ciò non è tanto riferibile a quel clima di mobilitazione sciovinista e patriottica suscitato artificiosamente e che storicamente se può trovare “sensibilità” nelle fasce borghesi è completamente estraneo e ostile al proletariato. Accanto a questi aspetti che sono il corollario ideologico a cui la borghesia imperialista ricorre da sempre in vista dei suoi progetti guerrafondai, nella sostanza è sul piano del potenziamento di tutti gli aspetti della controrivoluzione preventiva che si gioca il contenimento dello scontro, a partire dal suo attuale grado di approfondimento. In sintesi, la borghesia imperialista e il suo Stato si apprestano a fronteggiare una fase di scontro che storicamente approfondisce lo schieramento e una polarizzazione degli interessi di classe contrapposti, attrezzandosi contro l’opposizione operaia e proletaria alla guerra, nella definizione di mezzi e misure di controllo e repressione, che sono già state sperimentate, ma solo parzialmente, durante la guerra del golfo, consapevole che lo scontro non può che assumere connotati particolarmente critici a partire dai termini politici che storicamente ha sviluppato il proletariato metropolitano per l’affermazione della sua autonomia politica e, nello specifico del nostro paese, per come i caratteri dell’autonomia di classe si sono strettamente connessi alla lotta armata.
A fronte dei caratteri della crisi che attanaglia la catena imperialista nel nostro paese il grande capitale monopolistico multinazionale spinge con tutto il suo peso affinché lo Stato possa farsi interprete e politicamente governare questa nuova fase dominata, dopo il lungo periodo di crisi strisciante, dalla recessione in tutto il pieno senso della parola. In una situazione di brusco ridimensionamento della base produttiva, che vede la chiusura di interi comparti, colpendo la crisi settori tecnologicamente avanzati e trainanti l’economia, con l’espulsione massiccia di forza-lavoro, non si tratta solo di comprimere il costo della forza-lavoro agendo sulle spese sociali, ma si tratta soprattutto del drastico taglio dei salari come esigenza imprescindibile. In questo contesto la funzione dello Stato sul piano delle politiche economiche si esplicita in tutta la sua portata, nel convogliare le risorse finanziarie disponibili a sostegno del salto richiesto alla grande industria ed ai maggiori gruppi legati all’alta finanza, necessario in questa fase per il livello di competitività sul mercato internazionale, nello specifico legato alla formazione dei monopoli intereuropei, agendo indirettamente e direttamente con il finanziamento alle fusioni, le fiscalizzazioni, con le politiche monetarie e di bilancio. Come anche va ad assumere in questa fase massimo peso la funzione politica dello Stato nel ruolo di mediatore del conflitto di classe a partire dal neocorporativismo quale aspetto principale di cui investe direttamente il rapporto capitale/lavoro. Il nodo sul tappeto è quello delle cosiddette nuove relazioni industriali e a tutt’oggi infatti è estremamente problematico sancire sul piano generale le nuove regole della contrattazione della forza-lavoro, questo nonostante siano marciati, a fianco di modifiche istituzionali, diritto di sciopero in primo luogo, ed hanno inciso sul mercato del lavoro con gli interventi sulla scala mobile, la CIG, la mobilità, ecc.
Ma il coinvolgimento sempre più spinto delle rappresentanze istituzionali sindacali nel processo di neocorporativizzazione è ben lontano dal risolvere il problema della effettiva agibilità politica per i programmi della confindustria in un contesto di classe che storicamente non ha mai permesso la cooptazione operaia alle scelte padronali, ma all’opposto caratterizza ogni aspetto del rapporto capitale/lavoro per la netta ed inequivocabile resistenza ed opposizione a fronte degli attacchi portati alle sue conquiste, per quanto virulenti essi siano. Oggi, nonostante il peso del neocorporativismo, cioè del massimo sviluppo dato al verticismo negli accordi centralizzati tra governo, confindustria e sindacati, e nonostante i tentativi di ingabbiare la mobilitazione e l’organizzazione operaia già nella fabbrica tramite filtri politici sul modello delle RSU, nonostante i tentativi di frammentare il corpo di classe attaccando le sue conquiste unitarie, malgrado tutto questo, permane in tutta la sua problematicità e contraddittorietà l’obiettivo inseguito da anni di sancire sul piano capitale/ lavoro nuove regole, con il coinvolgimento consenziente della base operaia. Un obiettivo che dimostra tutta la sua velleità quando nelle fabbriche ogni accordo al vertice viene immancabilmente respinto e le rappresentanze sindacali disconosciute, e non c’è, con la firma degli accordi capestro, nessuna operazione di legittimazione conferita “per legge” in grado di dare soluzione, se non artificiosa, al problema, quando per la “democrazia sindacale” è diventato impraticabile perfino il referendum, quando a tutt’oggi è bloccato e irrisolto il problema delle rappresentanze in fabbrica, quando la “cogestione” e la “qualità totale” hanno dimostrato nei fatti la messa sempre più alle strette dei sindacati agli imperativi imprenditoriali una subordinazione che riflette la loro perdita di peso politico, mentre si fa esplicito il ruolo che si sono scelti di sindacato d regime.
Nella realtà quello che nello scontro si è imposto, a fronte della resistenza degli strati operai e proletari, soprattutto nei settori più combattivi, è un modo di agire che per rompere la rigidità operaia a qualsiasi livello, può procedere solo con la forza e colpi di mano. L’attacco padronale in questa fase assume i toni di una offensiva politica ed ideologica contro ogni ordine di conquiste proletarie, e che si esprime anche nelle risposte degli industriali tese ad alzare il confronto e ad inasprirlo recuperando pure i vecchi metodi di intimidazione padronale fatti di guardiani e spie, di serrate, di mancato salario, ecc. Metodi che lontano dal costituire un’effettiva deterrenza alle lotte, riconfermano solo la “vocazione autoritaria” degli industriali nei rapporti di classe. Il portato antiproletario e controrivoluzionario immediatamente espresso nelle modalità con cui la borghesia imperialista porta avanti gli interventi anticrisi, dà a misura di quanto sia critico governare politicamente, pur potendo contare su rapporti di forza in suo favore, in questa fase in cui ben lontano dall’obiettivo di pacificazione dello scontro, sempre più esplicita è l’inconciliabilità degli interessi generali tra le classi, come sempre più scoperta è la vera natura di classe dello Stato borghese.
L’attuale situazione interna e internazionale ripropone la validità delle ragioni che hanno caratterizzato la necessità della strategia della lotta armata nel nostro paese e in generale della lotta armata nel centro imperialista ed attesta inequivocabilmente la propositività degli assi strategici su cui si sono costruite le BR, della loro linea politica, del loro programma, in una parola la validità della loro prassi rivoluzionaria per lo sviluppo del processo rivoluzionario in un paese a capitalismo avanzato quale l’Italia.
Oggi è reso ancor più evidente come solo l’impostazione offensiva della guerriglia posa rompere il sistema di potere della borghesia imperialista e come solo lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata possa costruire le condizioni perché la classe avanzi sul terreno dello scontro per la conquista del potere politico. Il cuore dell’impostazione offensiva della guerriglia risiede nella determinazione dell’unità del politico e del militare, come dato nuovo e peculiare della guerriglia nei paesi a capitalismo maturo, elemento più avanzato delle caratteristiche della guerra di classe che scaturisce dalla necessità di misurarsi con le forme di dominio che la borghesia imperialista ha affinato, stabilendo in esse la controrivoluzione preventiva come politica costante per non far collimare il piano dell’antagonismo di classe col terreno rivoluzionario. Essa determina tutto l’agire della guerriglia caratterizzando lo sviluppo stesso del processo rivoluzionario, nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare e agire militarmente e dare il primo posto alla politica, essa svolge la sua iniziativa rivoluzionaria secondo una linea di massa politico-militare. L’elemento della guerra è intrinseco al politico, rimanendo però l’elemento politico sempre dominante. Agire nell’unità del politico e del militare significa unire costantemente il piano di sviluppo politico dello scontro col piano della guerra.
Questa impostazione offensiva per raggiungere i suoi obiettivi deve necessariamente svolgersi all’interno di una strategia generale che le BR hanno sviluppato fin dalla loro nascita. Questa strategia si fonda sul fatto che la lotta armata è una proposta a tutta la classe quale presupposto su cui si sviluppa dall’inizio alla fine la guerra di classe di lunga durata, su cui si organizzano fin da subito le avanguardie più coscienti della classe. Strategia della lotta armata è la direttrice del “piano sistematico di azione” all’interno del quale si articolano correttamente le tattiche relative ad una determinata fase di scontro. Essa ha dimostrato nei fatti e nel tempo la sua capacità nel costituire l’unico valido riferimento nella prospettiva rivoluzionaria, perché è in grado di indirizzare sempre l’andamento della guerra di classe nelle sue diverse fasi rivoluzionarie. La lotta armata è una proposta che le BR fanno a tutta la classe perché il terreno e la pratica rivoluzionari non riguardano solo i comunisti, i comunisti sono il reparto più avanzato della classe. Il proletariato metropolitano a dominanza operaia è la base sociale di riferimento della lotta armata, è la base sociale da cui sono nate le BR ed in cui si riproducono, la base sociale di cui portano avanti gli interessi generali contro il potere della borghesia nello scontro rivoluzionario. Per questo uno dei principi fondamentali delle BR è che la guerriglia si sviluppa nei poli industriali in dialettica con le istanze più mature della classe, organizzandole e dirigendole sul terreno strategico della guerra di classe di lunga durata, una dialettica che si sviluppa nella dinamica attacco-costruzione-attacco.
Elemento centrale della strategia della lotta armata che unisce indissolubilmente le diverse fasi di scontro, sta nella coscienza della centralità che riveste la questione dello Stato rispetto allo sviluppo del processo rivoluzionario, problematica concepita correttamente nell’accezione leninista, questione che si pone a risoluzione non con una generica contrapposizione al potere della borghesia, ma con la precisa espressione dell’attacco al cuore dello Stato, ovvero con la contrapposizione scientifica alla sede del potere politico della borghesia. Attacco che viene diretto contro l’aspetto dominante della contraddizione classe/Stato, contro il nodo politico centrale che oppone la classe allo Stato nelle politiche dominanti della congiuntura. Questo operare al punto più alto dello scontro provoca una relativa disarticolazione dei progetti borghesi e un loro momentaneo arretramento, ovvero crea dei rapporti di forza momentaneamente favorevoli alla classe. L’acquisizione di questa forza non può essere capitalizzata, accumulata se non viene tradotta in organizzazione di classe. Organizzazione di classe che a sua volta comporta l’unità del politico e del militare e ciò avviene nel solo modo che questo terreno organizzato ha di procedere nello scontro contro lo Stato, cioè sul terreno della lotta armata con gli stessi criteri di fondo che permettono alla guerriglia di esistere: clandestinità e compartimentazione. Diversamente si dovrebbe ipotizzare di poter organizzare queste forze attraverso un’attività rivoluzionaria solamente politica il che, nell’attuale stadio dell’imperialismo è assolutamente impossibile. Le forme di dominio sviluppate dalla borghesia imperialista mirano ad assorbire l’urto delle istanze prodotte dalla lotta di classe dentro a processi selettivi che consentano di diluire e neutralizzare tali istanze e, nel contempo, di procedere alla repressione/criminalizzazione delle espressioni antagoniste, in grado, quindi, di compatibilizzare qualunque attività che non fa i conti con il problema di rompere il reticolo della controrivoluzione preventiva.
È dalla consapevolezza di questa dialettica dello scontro e dalla sua continua verifica e aggiornamento che la lotta armata ha potuto svilupparsi precisando la strategia ed articolandone con maggior esattezza le sue fasi. Un passaggio fondamentale di questo sviluppo è dato dalla precisazione, all’interno della fase di Ritirata Strategica, dell’attacco al cuore dello Stato nei sui termini concreti ed idonei a rispettare in pieno la fase rivoluzionaria in atto. Non si tratta, come nel passato, di mettere sullo stesso piano i centri della macchina statale, anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello Stato visto in una separatezza dei suoi apparati, cioè politici, burocratici e militari, a sua volta derivata da una visione semplificata e un po’ manualistica delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe di lunga durata, ricondotte a due sole fasi principali: quella della propaganda e dell’organizzazione del capitale rivoluzionario sul terreno della lotta armata e il suo dispiegamento nella guerra civile. Ma, la pratica e, attraverso questa, l’esperienza acquisita dalle BR ha migliorato la comprensione della dinamica del succedersi della fasi rivoluzionarie ed ha permesso di ricollocare correttamente la funzione dello Stato il quale centralizza necessariamente in sede politica la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni, l’attacco allo Stato, al suo cuore congiunturale va inteso nel giusto criterio affermatosi nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento nell’attacco. Di questo, la prima attiene fondamentalmente e in primo luogo alla capacità di individuare, all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi, il progetto politico centrale della borghesia imperialista nella congiuntura al fine di disarticolarlo (sia pur in termini relativi), approfondendo i termini dello scontro a favore del proletariato; la seconda riguarda la capacità di individuare il personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio fra le forze che tale progetto sostengono; il terzo è relativo alla capacità di calibrare il proprio attacco avendo chiaramente presenti sia il grado di approfondimento dello scontro (ad esempio anche in caso di arretramento il livello di intervento non può prescindere dal punto più alto di scontro assestato), che il grado di aggregazione/assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie, come pure lo stato dei rapporti di forza generali interni al paese in relazione agli equilibri internazionali tra imperialismo ed antimperialismo. Questo, il criterio che guida l’attacco e la scelta dell’obiettivo e che permette alla guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo del vantaggio politico e materiale. In ultima analisi si può affermare che questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro, poiché solo la fase della guerra civile dispiegata consente di attaccare contemporaneamente su più livelli la macchina statale.
Il rapporto rivoluzione/controrivoluzione nel suo procedere concreto è ciò che in primo luogo ha fatto chiarezza sulla non linearità del processo rivoluzionario. È a partire dal riadeguamento intrapreso dalle BR alle nuove condizioni dello scontro che è stato possibile avere maggiore chiarezza sulle fasi rivoluzionarie che si succedono, in quanto esse si definiscono non puramente in riferimento all’esito dello scontro materiale in una data congiuntura, ma in relazione ai salti di qualità nel complesso dello scontro tra le classi generato dallo stesso rapporto rivoluzione/controrivoluzione. In questo senso le fasi rivoluzionarie non sono predeterminabili a tavolino, ma si susseguono a seconda dell’esito della fase precedente in riferimento e in dialettica con i caratteri politici generali affermatisi nel rapporto fra le classi, in relazione alla situazione internazionale, che mutano nel complesso il quadro di scontro. E questo perché il carattere dello scontro rivoluzionario nelle metropoli è segnato dalla qualità politica della controrivoluzione preventiva e dalla forte integrazione della catena imperialista. In questo senso aver avuto la capacità di intraprendere la Ritirata Strategica ha significato gettare le basi per un ulteriore avanzamento nello sviluppo della guerra di classe di lunga durata. Nel complesso ha significato maturare una maggiore coscienza complessiva dell’andamento dello scontro rivoluzionario. L’apertura della Ritirata Strategica è ciò che ha permesso nel vico dello scontro di mantenere l’offensiva dando continuità alla prassi combattente della guerriglia, attraverso momenti qualificanti di ricentramento dell’attacco al cuore dello Stato e nell’attacco all’imperialismo, pur nel succedersi di avanzate e ritirate. La discontinuità, i veri e propri salti politici che si presentano nello scontro rivoluzionario, è una legge della guerra di classe nella metropoli. Questa legge deriva dai caratteri immanenti allo scontro nella metropoli all’interno dei quali opera la guerriglia. Il primo, e più importante, è dato dalla condizione di accerchiamento strategico, questa è una caratteristica peculiare della guerra di classe di lunga durata nella metropoli. Una guerra che, facendo riferimento reciproco ad un nemico assoluto, non ha per sua stessa definizione un fronte in gioco, c’è unicamente e precisamente il potere della classe dominante. La guerra di classe di lunga durata opera costantemente all’interno di rapporti di forza generali favorevoli alla borghesia e contro quel complesso reticolo politico determinato dalla controrivoluzione preventiva e, dunque, non potendo avere retrovie di alcun genere si trova ad operare in condizione di costante accerchiamento. L’altro carattere è dato dal fatto che solamente nello scontro stesso la guerriglia può costruire e disporre le sue forze le quali, non essendo precostituite, non possono essere ripartite a priori, ma è la stessa strategia che le crea e le rinnova in maniera non proporzionale o costante. In sintesi solo facendo la guerra di classe si può costruire l’esercito rivoluzionario. La guerriglia nella metropoli vive la condizione immanente di accerchiamento strategico, ma contemporaneamente, e questa è una legge generale della guerra rivoluzionaria, la borghesia imperialista non ha la possibilità di annientarla perché lo scontro stesso genera le sue nuove forze tra il proletariato, classe ineliminabile per la borghesia; mentre la guerriglia sviluppa un processo rivoluzionario che si alimenta e progredisce sull’annientamento della borghesia in quanto classe e del suo potere politico.
La comprensione di questo elemento è ciò che permette di individuare i possibili riadeguamenti all’interno delle singole fasi rivoluzionarie atti a mantenere l’offensiva al punto più alto ed a rispondere all’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione nelle condizioni di volta in volta mutate. In questo senso si comprende perché nell’attuale fase di Ricostruzione, che si sviluppa all’interno della Ritirata Strategica, l’attività rivoluzionaria è obbligata ad un continuo movimento di avanzate e ritirate, dato il livello di affinamento della risposta controrivoluzionaria e, su di un altro piano, per le condizioni politiche generali in cui si sviluppa lo scontro rivoluzionario. All’interno di una medesima fase rivoluzionaria a carattere generale maturano momenti politici congiunturali che comportano necessariamente una precisazione nella conduzione della guerra e della relativa disposizione/organizzazione delle forze in campo. Momenti congiunturali che, proprio per questo movimento e, per i tempi politici che li caratterizzano, possono definirsi vere e proprie fasi rivoluzionarie, qual è la fase di Ricostruzione. A questi attiene la capacità di applicazione della tattica come elemento dinamico della strategia, per cui possiamo affermare che la strategia definisce il carattere generale della disposizione delle forze sulla lotta armata da cui non si può prescindere, la tattica, informata dai criteri generali della strategia della lotta armata, precisa la direzione delle forze in riferimento agli obiettivi programmatici e di fase che di volta in volta si maturano. Alcuni esempi concreti possono chiarire questa affermazione. l’indirizzo di disposizione delle forze aperto dalla fase della Propaganda Armata, ha permesso di precisare il modo in cui si è radicata la necessità (l’idea forza) della lotta armata, ovvero gli obiettivi, i modi di intervento, la disposizione delle forze, hanno caratterizzato l’atteggiamento tattico di quella fase rivoluzionaria. Nella situazione attuale l’atteggiamento tattico è condizionato dalla fase generale di ritirata strategica, dagli obiettivi programmatici e dall’indirizzo di fase specifica di Ricostruzione delle forze, vale a dire del modo e del come si dispongono le forze intorno a questi termini.
Nel contesto della Ritirata Strategica, un periodo non quantificabile in anni, nel quale l’attività rivoluzionaria è prevalentemente tesa ad un ripiegamento delle forze, in modo da mantenere e rilanciare la capacità offensiva espressa dalla guerriglia, si precisa e si determina la fase di Ricostruzione delle forze proletarie e rivoluzionarie e di costruzione degli strumenti politico-organizzativi idonei ad attrezzare il campo proletario nello scontro contro lo Stato, con il fine di modificare i rapporti di forza attuali. L’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata nella fase di Ricostruzione si sviluppa sul duplice piano di lavoro costruzione/formazione in modo da ricostruire nel tessuto di classe i termini politico-militari e di patrimonio della guerriglia per disporle adeguatamente nell’attuale fase rivoluzionaria. La fase di Ricostruzione è termine prioritario nel mutamento dei rapporti di forza tra campo proletario e Stato e si pone come un tassello fondamentale per la ricostruzione dei livelli politico-militari che costituiscono i termini di avanzamento della guerra di classe di lunga durata;
Un dato principale che si è definito come salto di qualità all’interno della Ritirata Strategica è la Centralizzazione di tutti i termini del lavoro politico. Ciò ha significato e significa un avanzamento nel processo di costruzione/fabbricazione del partito Comunista Combattente che si costruisce insieme alla costruzione dei termini politici e materiali della guerra di classe di lunga durata. La Centralizzazione, come dato politico è emersa nella pratica concreta a partire dalla constatazione che portare l’attacco allo Stato e, in generale, per collocarsi in termini idonei ai caratteri dello scontro interno ed internazionale, in questa fase della guerra di classe, comporta dispiegare intorno a ciò l’attività di costruzione-consolidamento dell’organizzazione di classe. La Centralizzazione dell’attività intesa nel suo complesso permette di muovere come un cuneo compatto nella medesima direzione le forze che si dispongono intorno alla Organizzazione, permettendo di assestare e riproporre nella disposizione idonea ai termini dello scontro che maturano, tutte le forze in campo. Centralizzazione significa centralizzazione delle direttive politiche sull’intero movimento delle forze, decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse sedi e istanze organizzate, ciò per realizzare il massimo di responsabilizzazione delle forze su di un piano di lavoro, le cui caratteristiche politiche siano patrimonio di tutti, ma non interpretabili spontaneamente dai diversi livelli organizzati.
Questi termini programmatici che marciano sul terreno strategico dell’attacco al cuore dello Stato, in unità programmatica con l’attacco all’imperialismo, insieme alla costruzione del Fronte Combattente Antimperialista nella coscienza che la rivoluzione è internazionalista o non è, hanno verificato e sviluppato la capacità da parte delle BR di assolvere la funzione di direzione politico-militare dello scontro all’interno della proposta strategica della lotta armata a tutta la classe.
– Attaccare e disarticolare i progetti di rifunzionalizzazione dello Stato, che nella fase attuale evolvono verso una Seconda Repubblica!
– Attaccare e disarticolare i progetti guerrafondai della borghesia imperialista nostrana, che si attuano all’interno dell’alleanza imperialista!
– Organizzare i termini politico-militari per ricostruire i livelli necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata!
– Contribuire alla costruzione e al rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista nella nostra area geopolitica, per combattere i progetti dell’imperialismo sia sulla linea della coesione europea, sia nei progetti di guerra diretti dalla NATO che si dispiegano in questo momento sulla regione mediorientale-mediterranea e lungo l’asse dei paesi dell’Est europeo, ex-URSS in testa!
– Guerra alla guerra, guerra alla NATO!
– Rendiamo onore a tutti i rivoluzionari caduti combattendo contro l’imperialismo, al martire palestinese Mustafà-Al-Ikawi morto il 4/2/’92 per mano dei torturatori sionisti israeliani, senza cedere; ai militanti di Dev Sol caduti combattendo contro lo Stato turco; ai prigionieri di guerra massacrati nel carcere di Canto Grande a Lima!
Firenze, 21/5/1992
I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Maria Cappello, Antonino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Marco Venturini
Note
(1) CSCE: Consiglio per la sicurezza e la cooperazione europea che raggruppa, oltre ai paesi NATO anche vari Stati che facevano parte del blocco sovietico.
(2) EFTA: (European Free Trade Association). Associazione europea di libero scambio costituitasi nel gennaio 1960 principalmente su iniziativa inglese in risposta alla creazione della CEE. Attualmente i suoi membri si sono ridotti a cinque Stati (Austria, Islanda, Norvegia, Svezia e Svizzera) più un membro associato (Finlandia), dopo l’uscita di Gran Bretagna e Danimarca che hanno aderito alla Comunità Europea dal 1° gennaio 1973.