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Processo in Corte di Assise di Appello Roma “Banda armata-D’Antona”. Documento dei militanti BR-PCC Nadia Lioce, Roberto Morandi letto in collegamento video-conferenza e allegato agli atti – Udienza dell’11/05/2006

All’apertura di un altro processo cosiddetto alle BR, di pochi mesi successivo ai precedenti, le dinamiche politiche scaturite dal rilancio della strategia della Lotta Armata operato dalle BR-PCC, continuano a ipotecare i progetti della borghesia di assestamento del suo dominio tramite la rimodellazione economico-sociale e le corrispettive riforme politico- istituzionali in atto funzionali alle necessità odierne della borghesia imperialista di governo della crisi e del conflitto e alla stabilizzazione interna quale base di forza per la partecipazione del paese alle strategie di guerra e controrivoluzione dell’imperialismo. Dovendo essi marciare nel quadro di contraddizioni e tensioni dello scontro di classe attuale in cui la borghesia non può attaccare apertamente le posizioni del proletariato e conquistare rapidamente terreno, l’iter, i contenuti e la gestione dei momenti giudiziari che riguardano militanti BR e rivoluzionari prigionieri, vengono investiti dalla ricerca dello stato di ipotetici punti di forza politici funzionalizzabili a divaricare la classe dal terreno rivoluzionario. E questa volta lo stato può avvalersi dell’assenza dall’aula di alcuni militanti prigionieri e segnatamente di coloro che rappresentano soggettivamente il rilancio per attenuare il risvolto politicamente a suo sfavore che svolge la presenza stessa dei militanti BR e rivoluzionari che rivendicano tale percorso sul tentativo costante di negare l’attualità politica dell’opzione rivoluzionaria e di fare del processo un momento di riaffermazione del potere dello stato da riversare sullo schieramento di classe e rivoluzionario. Una condizione che, se è determinabile automaticamente con l’adozione di un regime di prigionia quale il 41 bis che prevede l’assenza dal processo di coloro a cui viene applicato sopperendola con artifici tecnologici, segnala anche come, rispetto ai trenta e più anni trascorsi, in cui lo scontro tra rivoluzione e controrivoluzione ha attraversato periodi in cui i rapporti di forza sono stati maggiormente favorevoli alla rivoluzione di quelli attuali e pur tuttavia i militanti prigionieri sono sempre stati fisicamente presenti nelle aule giudiziarie fino a qualche mese fa, si è notevolmente ridotta la soglia di tolleranza dello stato borghese alle contraddizioni per il suo potere, fattore che la dice lunga sulla sua debolezza politica odierna di fronte all’opzione rivoluzionaria e a quanto la strategia della Lotta Armata ha attestato nello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione e classe e stato.

Attestazioni che sono il portato del rilancio dell’attacco allo stato e della strategia della Lotta Armata realizzato dall’avanguardia rivoluzionaria di classe misurandosi con i termini con cui la borghesia ha rafforzato il suo dominio e assestato la subalternità della classe dominata a partire dagli anni ’80, stabilizzando una relativa irreggimentazione del conflitto sociale e gli strumenti e le modalità di depotenziamento ed emarginazione dell’iniziativa politica autonoma di classe. Termini di dominio con cui ha ottenuto una tendenziale disposizione difensiva del proletariato in un quadro generale di rarefazione dello scontro di potere per parte proletaria in quanto, nella stasi dell’intervento combattente delle BR e in assenza della politicizzazione che imprime al conflitto di classe, lo scontro è stato privato del ruolo politico svolto dall’affermazione degli interessi generali del proletariato e della loro prospettiva di potere e storica, contrapposto alla sua frammentazione nella molteplicità di interessi particolari e al convogliamento di parte di essi nelle compatibilità con le esigenze della borghesia imperialista, così che, ad ogni passaggio politico venivano a maturarsi ulteriori termini di approfondimento della subalternità politica della classe e di arretramento delle sue condizioni materiali. Il rilancio è stato praticabile da avanguardie rivoluzionarie che negli anni ’90 hanno assunto soggettivamente i termini complessivi di patrimonio rivoluzionario più avanzati, verificati dalle BR-PCC nello scontro allora ventennale con lo stato e la borghesia imperialista, ed in particolare nello sviluppo avuto nella fase politica di cui gli anni ’90 stessi erano l’evoluzione, con la riaffermazione della capacità offensiva politico-militare dell’avanguardia comunista combattente al punto più alto dello scontro nel quadro degli indirizzi della Ritirata Strategica a fronte della controffensiva dello stato e del suo dispiegarsi sulla classe provocandone l’arretramento dalle posizioni di forza e politiche su cui si trovava. Ciò perché solo in forza della proprietà offensiva della Guerriglia che incide nei rapporti di forza in qualunque condizione dello scontro e quindi anche nella più sfavorevole, e a partire dalle linee storicamente dimostratesi in grado di portare l’attacco allo stato e di incidere sul piano classe/stato, facendo fronte al suo contrattacco, e cioè di preservare nello scontro il ruolo dell’offensiva di classe autonoma al suo livello più alto mentre il dato controrivoluzionario si consolida, l’avanguardia rivoluzionaria operandone lo sviluppo corrispettivo alle evoluzioni dello scontro nella prassi rivoluzionaria messa in atto, poteva sottrarsi all’arretramento prodotto nel campo proletario e rivoluzionario da una fase politica connotata dalla sedimentazione nello scontro di classe di un processo controrivoluzionario che aveva mutato a favore della borghesia gli stessi termini della mediazione politica storica con il proletariato, e riavviare nel quadro di discontinuità determinatesi la ricostruzione di forze rivoluzionarie e proletarie e di posizioni di forza relativa nello scontro con lo stato e la borghesia. In altre parole, ad ogni avanguardia rivoluzionaria di classe che non volesse venir meno all’esercizio di un ruolo politico riferito agli interessi generali e storici del proletariato, si poneva ineludibilmente il nodo dell’approfondimento della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione per come vi aveva inciso la prassi rivoluzionaria e, per contro, per come lo stato, ridefinendo le strategie politiche e militari sperimentate per annientare le BR e sterilizzare il movimento di classe dalla politicizzazione favorita dalla dialettica d’avanguardia, vi si era contrapposto per contenerla. E questo a pena dell’impossibilità di definire una prassi adeguata ad evitare l’arretramento e viceversa ad incidere nello scontro e a trasformare i termini sul terreno rivoluzionario. Misurandosi con questi nodi politico-strategici, il percorso del rilancio ha sviluppato gli elementi di impianto strategico e costituito un avanzamento nel processo rivoluzionario e nella costruzione del PCC perché ha dimostrato che è possibile produrre un processo di costruzione autonoma che sia allo stesso tempo passaggio di costruzione del Partito perché ha realizzato un piano di attivazione centralizzato politicamente che esalta la capacità della linea politica e del programma delle BR-PCC di essere elementi concreti di direzione sulla classe e sul campo rivoluzionario e ha verificato il valore di tipo storico che ha la linea politica generale attestata dall’O. nello scontro.

Il rilancio dell’attacco delle BR-PCC, in specifico ai progetti della borghesia di riforma e rimodellazione economico-sociale e dello stato, rideterminando lo scontro intorno al nodo del potere, ha aperto un varco offensivo nella difensiva di classe, nel quale ha potuto rafforzarsi e avanzare relativamente la sua resistenza e le sue istanze autonome di contro alla offensiva della borghesia. Offensiva che la borghesia si prefiggeva di portare avanti governando il conflitto secondo le formule proprie al rapporto politico neocorporativo costruito dallo stato con la classe che avrebbero dovuto evolversi ed ottenere consolidamento con il “dialogo sociale” nel quadro della riorganizzazione delle relazioni tra le classi in cui le Riforme del Lavoro, con lo smantellamento delle conquiste operaie, sterilizzando a monte il conflitto, sono funzionali a garantire i livelli di sfruttamento oggi richiesti dal capitale e a spingere la classe verso la subordinazione politica. E che invece ha dovuto fare i conti con l’attacco delle BR-PCC con l’azione D’Antona nel ’99 e Biagi nel 2002, in dialettica con l’opposizione di classe alle riforme e con il rilancio dell’alternativa di potere proletaria alla crisi economica politica e sociale della borghesia imperialista.

Attacco dell’O. che ha tolto offensività all’azione della borghesia e degli esecutivi e ha fatto risaltare la vulnerabilità politica di progetti di rimodellazione e riforma della borghesia imperialista che, realizzandosi in un contesto economico generale che in questa fase storica non è espansivo, si contrappongono direttamente e pervasivamente tanto nella metropoli che nei paesi dipendenti alle condizioni del proletariato metropolitano e dei popoli. In specifico, la crisi del modo di produzione capitalistico si è riversata con particolare gravità sull’economia del nostro paese a causa delle storiche debolezze strutturali del capitalismo italiano e delle scelte compiute dal capitale monopolistico autoctono nel misurarsi con i termini di concorrenza ridefiniti dall’approfondimento dell’internazionalizzazione nel quadro della penetrazione a est in cui si andavano ridisponendo posizioni e gerarchia delle formazioni economico-sociali. Scelte che, sostenute dalle politiche degli esecutivi volti a favorirne la competitività, non sono state tali, né avrebbero potuto, da sviluppare produzioni di punta e attività economiche che, solitamente accentrate nei paesi capitalisticamente avanzati, preservassero posizioni elevate nella gerarchia delle F.E.S., flussi di capitali e tenuta complessiva dell’economia. Viceversa hanno indebolito la struttura produttiva ed inciso profondamente sulle condizioni del proletariato, dapprima rendendo stabile una diffusa disoccupazione e una condizione di bassi salari e tagli alla spesa sociale e poi, nel quadro dei patti tra Esecutivo, Confindustria e Sindacati hanno avviato una precarizzazione generalizzata della nuova forza-lavoro e l’abbassamento dei salari al di sotto della soglia storica di sussistenza, allargando l’impoverimento ad ampi strati sociali, nel perpetuarsi della tendenza all’arretramento dell’economia, nel complicarsi del quadro dei fattori economici da governare e nel permanere delle istanze della borghesia imperialista di ulteriore sviluppo di riforme che abbattono gli ostacoli ai livelli di sfruttamento di cui ha bisogno. Una situazione critica, in cui le linee economiche e le riforme strutturali richieste dalla borghesia imperialista asfissiano l’economia e paralizzano le contraddizioni antagoniste e che spinge lo stato ad assumere ruolo nelle strategie belliciste e controrivoluzionarie del polo dominante USA, oltreché per farsi carico delle necessità di tenuta e rafforzamento del dominio imperialista, anche al fine particolare di recuperare le posizioni perse, partecipando al depredamento dei popoli e usufruendo di contropartite agli impegni militari, scelte che poi fanno i conti con la resistenza che i popoli aggrediti oppongono all’assoggettamento all’imperialismo.

In relazione a questi fattori, nella passata legislatura, l’esecutivo CdL si è indirizzato a forzare le posizioni storiche della classe, in particolare rispetto alle tutele del lavoro dal ricatto del licenziamento, un bersaglio da tempo nel mirino dei programmi della soggettività politica della borghesia nel suo complesso, obiettivo perseguito nel quadro più generale di realizzazione delle linee di riforma elaborate nel Libro Bianco. Linee di riforma antiproletarie e controrivoluzionarie che trovano il sostegno di fondo di uno schieramento che includeva anche la gran parte dell’opposizione istituzionale e dei sindacati confederali.

È stato l’attacco delle BR-PCC dapprima al Patto di Natale e poi al progetto del Libro Bianco a rideterminare lo scontro relativamente a favore dell’opposizione ad esso che la classe aveva messo in campo. L’offensiva dell’Esecutivo e della borghesia è stata scompaginata dalla dialettica tra attacco dell’Organizzazione e opposizione di classe e le forze che sostenevano gli indirizzi di riforma del mercato del lavoro e il complesso   delle linee di rimodellazione hanno dovuto operare un riposizionamento politico in parte rinunciando a rivendicare esplicitamente l’attuazione o a perseguirne tutti gli obiettivi, in altra parte forzando ulteriormente. Rinunciando sull’articolo 18 e rinviando alla successiva legislatura la ridefinizione dell’intera legislazione del lavoro, l’esecutivo CDL ha dato alla luce quella che definirà la Legge Biagi. Un passaggio compiuto fuori da una cornice politica e negoziale quale quella del patto per l’Italia rimasta inoperante, contando sull’acquiescenza dell’opposizione politica e sindacale istituzionale convergente sugli obiettivi di fondo delle riforme e avvalendosi delle superiori prerogative legislative assunte dagli esecutivi in questi anni, e attuato senza disdegnare di surrogare la perdita di forza politica che ha contrassegnato questo approdo con un rituale che nella denominazione, nei tempi e nei modi di vararla, facesse di questo risultato un’esibizione di potere della borghesia verso al classe e la sua avanguardia. In realtà i risultati conseguiti con la Legge Biagi hanno aperto la strada a un relativo assorbimento dei suoi istituti negli accordi conflittuali, immettendo ulteriori contraddizioni nelle condizioni della classe, ma per un altro verso, per come ha inciso e pesato nello scontro il rilancio dell’attacco allo Stato e la sua dialettica con l’opposizione di classe alle riforme, da un alto sottraendo offensività all’iniziativa dell’Esecutivo e compattezza al vasto schieramento istituzionale a sostegno dei suoi indirizzi antiproletari e dall’altro mettendo al classe su posizioni più favorevoli nel confronto con lo Stato, non sono stati tali da potersi tradurre in una stabilizzazione del dominio della borghesia. Anzi l’insieme delle forzature e strappi operati hanno alimentato il conflitto e mantenuta aperta la divaricazione tra classe e Stato, così che nel passaggio all’attuale legislatura e nell’agenda della nuova maggioranza di centro-sinistra, le contraddizioni politiche sedimentate dallo scontro sulle riforme economico-sociali restano ancora tutte sul tappeto e in un contesto in cui il ritorno a quella linea di gestione delle contraddizioni economiche, sociali e politiche secondo i canoni sperimentati dalla formula concertativi nella negoziazione neocorportativa di cui Confindustria e sindacati confederali hanno ripreso a tessere il filo, dovrà fare i conti con disponibilità di margini economici assai ridotti per comporre un sufficiente equilibrio di interessi sociali compatibili con le istanze della borghesia, e con la sostenibilità del ricorso a ulteriori forzature in una prospettiva in cui al soggettività politica della borghesia stenta a formulare una progettualità generale in grado di rilanciare i termini del rapporto neocorporativo con la classe. D’altra parte non è sul versante del rapporto di dominio dell’imperialismo sui popoli che gli Stati imperialisti, con la partecipazione alla “guerra preventiva al terrorismo” dichiarata dal polo dominante USA all’indomani dell’11/09 contro il nemico interno ed esterno ovunque esso si senta minacciato, hanno tratto forza politica. “Guerra preventiva” che, se esercita una spinta sulle linee controrivoluzionarie interne ad assorbirne i termini politici e militari che la connotano, lo fa contraddittoriamente, sia in rapporto all’evoluzione storica delle prime che vengono forzate, che a causa del suo andamento concerto. Essa stessa infatti non è stata un piano d’avanzamento per le strategie dell’imperialismo, avendo risposto alla necessità di recuperare la perdita di potere deterrente subita con la violazione del territorio USA e di riaffermare la sua egemonia pena l’aprirsi di spazi dia agibilità nella contrapposizione all’imperialismo da parte dei popoli e del proletariato metropolitano spinta dalle contraddizioni antagoniste e fratture disseminate dai processi innescati dalle strategie dell’imperialismo degli anni ’90. Ed essendo le strategie di guerra e controrivoluzionarie del polo dominante rivolte prioritariamente a ridisegnare gli assetti economici, politici e istituzionali della Regione Mediorientale così da rendere funzionali alle necessità delle frazioni dominanti della borghesia e conquistare nei rapporti di forza internazionali posizioni più avanzate nel confronto ad Est, riassetto di cui snodo è l’assoggettamento dell’Iraq, la resistenza contrapposta all’occupazione imperialista dalla guerriglia e dal popolo irakeno fa gravare sugli occupanti lo stallo in cui versa il conflitto a tre anni dal suo inizio e il logoramento politico e militare che subiscono, e sulle evoluzioni delle strategie globali che l’imperialismo mette in campo per far fronte alla sua crisi, fa pesare l’impossibilità per un lungo periodo di stabilizzare il controllo sull’intera Regione dove l’imperialismo e sionismo si scontrano dalla Palestina al Libano all’Afghanistan, con l’indisponibilità dei popoli a piegarsi al loro dominio.

Se ci si riferisce a quest’insieme di fattori politici del quadro di scontro interno ed internazionale si può comprendere come il riadeguamento in atto delle linee controrivoluzionarie generali sia ancora lontano dal costituire un consolidamento del dato controrivoluzionario quale capacità assestata di divaricare la classe dal terreno rivoluzionario e di respingerlo nella difensiva, ma costruisca la risposta dello Stato che si avvale dei risultati militari conseguiti, alla verifica storica della riproducibilità della guerriglia e alla maturità che ha raggiunto la linea politica generale delle BR-PCC riconfermata dalla dialettica che è stata in grado di determinare con la resistenza di classe anche in una discontinuità di percorso rivoluzionario e storico-politica complessiva. Risposta che nel darsi in un contesto in cui lo Stato è impegnato permanentemente nella proiezioni bellicista e controrivoluzionaria dello schieramento imperialista guidato dagli USA e sulle sue linee strategiche si rapporta anche alle necessità che ne derivano per essere congrua a garantirlo e si avvale relativamente e contraddittoriamente dei passaggi politici che hanno consentito di avviarlo e di mantenerlo.

La verifica della riproducibilità della guerriglia e l’indisponibilità della classe a indietreggiare dalle posizioni di resistenza e istanze di autonomia politica rafforzate dal rilancio ha indotto lo Stato ad anticipare la soglia della prevenzione e del contrasto della traducibilità delle istanze di classe sul terreno rivoluzionario comprimendo il conflitto, chiudendo spazi di agibilità politica e intimidendo esplicitamente le espressioni antagoniste alle politiche istituzionali, in generale in funzione della divaricazione della classe dall’opzione rivoluzionaria, ma anche affinché da subito i programmi politici funzionali alle urgenze della borghesia imperialista non vengano vincolati dalla tenuta della resistenza di classe e dalla tendenza delle sue istanze autonome a coagularsi, le quali anzi devono essere erose e ridotte all’impotenza.

Negli indirizzi controrivoluzionari generali hanno ruolo anche le politiche antiguerriglia dello Stato verso i prigionieri rivoluzionari, che si modificano in funzione dell’attacco politico all’Organizzazione BR-PCC nel nostro caso, e dell’intimidazione, del disorientamento e della demoralizzazione del campo di classe e rivoluzionario. In questi ultimi anni con iniziative e forzature a largo spettro sui prigionieri politici , lo Stato ha avviato linee di gestione della prigionia che hanno fatto leva su mezzi più esplicitamente coercitivi quali misure segregative tese in generale ad annientare l’identità politica dei militanti prigionieri e a silenziarne l’espressione, come peraltro è intrinseco alla spirito del regime del 41 bis esteso ai prigionieri politici e applicato per la prima volta agli arrestati del 2003 a seguito dei processi dello scorso anno. Forzature consistite anche in vere e proprie nefandezze del resto rappresentative del degrado politico e civile della borghesia. Un’evoluzione del rapporto Stato/prigionieri che giunge a maturazione attraverso la celebrazione della stagione processuale del 2005 con la quale lo Stato ha concentrato una pluralità di processi coinvolgenti a vario titolo militanti BR e rivoluzionari prigionieri vecchi e nuovi, gestita da Magistratura e Ministeri in modo unitario e che avrebbe dovuto inscenare e dare risonanza sul piano propagandistico a una sorta di chiusura storica con l’opzione rivoluzionaria praticata e proposta a tutta la classe dalle BR, magari decretata persino nelle sentenze… Più concretamente, tale passaggio, in relazione ai rapporti politici reali tra classe e Stato nei quali è il rilancio, rappresentato nei processi dai militanti BR e rivoluzionari che in esso hanno il proprio riferimento politico, ad avere peso dominante, è andato a sfociare nella messa a punto delle condizioni formali su cui poggiare le decisioni segregative e censorie verso i militanti prigionieri, ma anche più in generale il contrasto di posizione antagoniste persino di dissenso che, rappresentando anche solo come presenza e parola una contrapposizione alle politiche statuali e della borghesia sono diventate oggetto ricorrente di iniziative delle procedure e di assalti e accerchiamenti mediatici. Una prassi che è riferibile all’attuale contesto di scontro in cui i rapporti di forza con la classe sono favorevoli allo Stato e alla borghesia, mentre i rapporti politici sono stati modificati dal rilancio relativamente a favore del proletariato, e alla conseguente necessità della borghesia di riconquistare il terreno politico perso e stabilizzare il rapporto di dominio sulla classe a un nuovo livello. In questa prospettiva anche la condotta dei militanti BR e rivoluzionari prigionieri che tradizionalmente nella prigionia e nei momenti processuali ne esprime l’identità politica, viene attaccata con vari espedienti formali criminogeni e mettendo in opera mezzi coercitivi di manipolazione della loro identità sociale e politica. Un attacco che viene riversato in termini di minaccia deterrente verso gli ambiti d’avanguardia e il cui indirizzo informatore è generalizzato calibratamene nel contrasto delle espressioni di autonomia della classe. Un indirizzo che se cela malamente nelle elucubrazioni giuridiche con cui viene motivato e prende forma la vulnerabilità politica e la condizione difensiva dello Stato borghese nel confronto con l’opzione rivoluzionaria della Strategia della Lotta Armata, integra la rideterminazione delle linee controrivoluzionarie che oggi si misurano con il problema della ricomposizione forzosa delle fratture immesse dal rilancio, per restituire agibilità alle politiche antiproletarie della borghesia ma che, in quanto e nella misura in cui intervengono a compensare con la compressione o la repressione del conflitto la perdita di efficacia degli strumenti e modalità di contenimento, raffreddamento e assorbimento dello scontro di classe che è derivata dalla direzione impressa allo scontro dall’intervento delle BR-PCC, politicamente sanciscono e approfondiscono la frattura che il rilancio ha immesso nel rapporto che lo Stato aveva costruito con al classe, frattura prodotta dal ripetuto attacco dell’Organizzazione allo Stato, nei nodi centrali della contraddizione dominante che appone le lassi in questa fase, che ha fatto emergere il carattere coattivo della mediazione politica neocorporativa con cui il proletariato viene costretto in una condizione di subalternità alla borghesia, politicizzando lo scontro di classe.

Per quanto ci riguarda come militanti BR-PCC, l’interesse al rito giudiziario che si svolge in questi giorni è unicamente quello di rivendicare tutta l’attività delle Brigate Rosse e di riaffermare la nostra militanza nell’Organizzazione. Dei nostri atti politici rispondiamo soltanto al proletariato e alle BR-PCC che ne sono l’avanguardia e lo rappresentano. Non abbiamo nulla di cui difenderci, non parteciperemo alla farsa del collegamento in video a meno di non avere qualcosa da dire.

La rivoluzione non si processa!

Onore al compagno Mario Galesi caduto combattendo per il Comunismo!

Onore a tutti i rivoluzionari e antimperialisti caduti!

I militanti BR-PCC Nadia Lioce, Roberto Morandi

Guerra alla guerra. Seconda Corte d’Assise di Roma – Processo “BR-Romiti”. Documento allegato agli atti di Luciano Farina e Giovanni Senzani del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta

Vogliamo ribadire la nostra identità rivoluzionaria e la nostra internità all’esperienza guerrigliera degli ultimi 20 anni in Italia. Esprimiamo il nostro sostegno militante alla pratica combattente delle organizzazioni guerrigliere che stanno costruendo il Fronte Rivoluzionario Antimperialista in Europa e nell’area mediterranea-mediorientale.

Riconosciamo nell’iniziativa della Rote Armee Fraktion che il 14 febbraio ha colpito l’ambasciata USA a Bonn un primo momento di solidarietà con il popolo iracheno massacrato dai bombardamenti della forza multinazionale.

Ormai è chiaro: i molti attacchi portati avanti dalle forze guerrigliere in Europa e in tutto il mondo contro la politica guerrafondaia dell’imperialismo occidentale stanno sviluppando significativamente la guerra internazionale di classe.

Sula parola d’ordine della guerra alla guerra le forze rivoluzionarie di tutto il mondo cominciano a far vivere concretamente l’unità con la lotta del popolo arabo e palestinese.

Come militanti comunisti non abbiamo nulla da cui difenderci. Il vero processo si svolge fuori da quest’aula e le migliaia di manifestazioni e di iniziative antimperialiste processano con chiarezza il vero imputato: il potere politico e militare degli USA e della NATO. Gli USA, la CEE e gli Stati europei, le multinazionali e gli oligopoli finanziari come la Fiat che stanno guidando l’aggressione al popolo arabo oggi sono sotto processo.

I proletari e i rivoluzionari in ogni parte del mondo hanno già cominciato ad individuare nello Stato e nel governo italiano, che ha mandato i Tornado assassini nel Golfo, uno dei nemici da combattere.

E ciò vale ancora di più per i proletari e i rivoluzionari di questo paese che si è trasformato tutto intero, dal Nord al Sud, in un’immensa base militare per favorire l’escalation della guerra nel Golfo Persico.

Insieme con i movimenti di massa e le forze rivoluzionarie nel mondo sviluppiamo la guerra alla guerra in Europa e nel Tricontinente del Sud!

Non abbiamo altro da aggiungere e revochiamo il mandato ai nostri avvocati difensori.

 

Alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta: Luciano Farina, Giovanni Senzani

 

Febbraio 1991

Contro la guerra imperialista. Seconda Corte d’Assise di Roma, processo “BR-Romiti” – Documento allegato agli atti di Luciano Farina e Giovanni Senzani del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta

Questo processo è stato istruito dallo Stato per difendere il boss Fiat Cesare Romiti, un personaggio – ben noto a tutti i proletari italiani – che ha guidato la ristrutturazione della multinazionale Fiat per tutti gli anni ’80 mandando sul lastrico migliaia di famiglie e che oggi fa parte di quel personale politico imperialista che spinge in avanti la guerra imperialista per risolvere la crisi sempre più profonda del capitalismo.

Anche Romiti è dietro ai bombardamenti che la forza multinazionale attua giornalmente contro il popolo iracheno per occupare l’area del Golfo Persico.

La guerra imperialista scatenata dall’Occidente con l’invasione del Golfo dimostra una volta di più che il capitalismo è barbarie.

La distruttività dell’attacco dell’imperialismo americano-sionista-europeo contro l’Iraq, contro il popolo arabo e palestinese, contro il Sud del mondo, è storia di questi giorni e lo sarà per molto tempo ancora. Per questo la guerra psicologica guidata dagli esperti del Pentagono tende a costruire deliberatamente lo scenario necessario per portare l’escalation militare al livello massimo.

Questa guerra è un attacco all’intero proletariato internazionale e a tutti i movimenti rivoluzionari delle aree del centro e dei continenti del Sud.

I bollettini trionfanti delle “potenze belligeranti” (USA, Gran Bretagna, Francia, Italia…) sulle decine di migliaia di bombardamenti realizzati in Iraq, non sono il pulito bilancio di una guerra tecnologica ma la disumana contabilità giornaliera degli uomini, delle donne, dei bambini arabi uccisi “in silenzio”. Il razzismo di questa guerra e della sua gestione massmediata è tale che la realtà dei morti non appare se non quando viene sparsa una goccia di sangue israeliano.

Quello che interessa alla borghesia imperialista e che viene conteggiato accuratamente è il costo delle sue macchine di guerra ad alta tecnologia e non la vita umana di intere popolazioni.

La natura reale di questa guerra è il suo carattere mondiale. Essa travalica i confini dell’area mediorientale perché oltre le ragioni concrete di controllo delle fonti energetiche, di riequilibrio di potere a favore dell’imperialismo, di depotenziamento globale della contraddizione rappresentata dalla lotta di liberazione della rivoluzione palestinese, ci sono tutte intere le ragioni della crisi strutturale capitalistica che spinge sempre più gli strateghi della borghesia a trovare soluzioni guerrafondaie.

Uno degli obiettivi è quello di ristabilire rigide leggi sulla produzione-circolazione-gestione della materia prima petrolio; un altro è quello di raggiungere con la forza la definizione e stabilizzazione del nuovo ordine capitalista mondiale forzando ulteriormente gli equilibri di Yalta a favore degli USA.

Le masse proletarie in ogni angolo del mondo hanno già capito il senso distruttivo di questa guerra e si stanno mobilitando in migliaia di manifestazioni contro di essa. Dai popoli arabi ormai in aperta rivolta contro le classi dominanti alleate dell’occidente e sempre più solidali con il popolo iracheno aggredito, ai movimenti di massa in USA ed in Europa sempre più in lotta contro la nuova estasi di potenza dell’occidente e della sua forza multinazionale. Le forze rivoluzionarie in Europa e in tutto il mondo sanno che l’unica soluzione è quella di trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria, sviluppando in avanti i processi rivoluzionari in ogni paese e l’attacco unitario contro l’imperialismo. La molteplicità e continuità delle iniziative di attacco realizzate in questi giorni in moltissime aree del mondo (dal Mediterraneo all’America Latina, dall’Europa alle Filippine…) è un primo segnale di questa nuova coscienza internazionalista.

Come comunisti prigionieri non possiamo che essere a fianco del popolo iracheno e dell’intero popolo arabo aggredito dalla forza multinazionale e di tutti i popoli e i proletari che combattono contro la barbarie imperialista.

Contro la guerra imperialista sviluppare la guerra internazionale di classe.
Guerra alla NATO e alla forza multinazionale.
Lottare uniti contro l’imperialismo in Europa e nel tricontinente del Sud.
Consolidare il Fronte Rivoluzionario Antimperialista in Europa e nell’area mediterranea-mediorientale.

Alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta: Luciano Farina, Giovanni Senzani

 

Roma, 28 gennaio 1991

Tribunale di Cuneo. Documento dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

La guerra di aggressione imperialista all’Iraq è un passaggio di importanza storica per il processo rivoluzionario a livello internazionale e anche per le sue implicazioni a livello interno. Sono, questi, “giorni che valgono anni”, che spezzano il tempo in maniera netta tra un prima della guerra e un dopo: niente rimane lo stesso e il processo storico assume qualità e velocità nuove; ogni cosa è messa alla prova da una crisi di dimensioni mondiali e i fatti impongono le loro lezioni.

Gli avvenimenti ancora in corso decideranno esiti e bilanci nello svolgersi delle lotte sul campo, nelle verifiche dei rapporti tra le forze su scala mondiale. Noi qui, come militanti prigionieri delle BR-pcc, intendiamo, rispetto ai movimenti in atto, collocarci, e soprattutto riaffermare la posizione internazionalista e antimperialista del nostro processo rivoluzionario, rivendicare l’internazionalismo e l’antimperialismo nella strategia, nel programma e nella prassi delle Brigate Rosse.

Tutt’altro che una “sorpresa” questa guerra di aggressione è invece un “risultato”, prodotto coerente e conseguente di tutto lo sviluppo del sistema imperialista negli ultimi anni, ed evidenzia, e a sua volta ridetermina, il nuovo contesto in cui hanno luogo oggi le lotte tra le classi e tra gli Stati nel processo di putrefazione dell’imperialismo.

La tendenza alla guerra è insita nella dinamica stessa del modo di produzione capitalistico: è questo il modo in cui esso storicamente ha superato via via le sue crisi, approfondendo, anziché risolvere, le sue contraddizioni di fondo. La distruzione di capitali, forza-lavoro, mezzi di produzione eccedenti, l’ottimizzazione delle condizioni di penetrazione finanziaria e commerciale e l’acquisizione diretta di nuove aree, la ridefinizione dei mercati per una nuova divisione internazionale del lavoro sono l’obiettivo e il prodotto della guerra.

L’ultima guerra mondiale è stata l’inevitabile sbocco della grande crisi del 1929-30 e ha disegnato l’attuale quadro mondiale dominato dall’imperialismo Usa, e in cui le contraddizioni interimperialistiche prima dominanti, sono state sostituite dalla contraddizione Est/Ovest, che è diventata terreno di realizzazione della tendenza alla guerra ed elemento determinante e condizionante nei conflitti succedutisi nel corso di questo dopoguerra.

L’esito attuale della “guerra fredda”, con i nuovi rapporti di forza determinatisi con la crisi interna dell’Urss e il suo ridimensionamento nella scena politica mondiale, e con la ridefinizione della linea di demarcazione a est e lo scioglimento del Patto di Varsavia, hanno consentito agli Usa di scatenare questa guerra imponendo via via le proprie decisioni politiche e militari senza sostanziali condizionamenti.

L’aggressione all’Iraq deriva dalla necessità di ratificare a livello mondiale questi rapporti di forza nel pieno di una grave recessione economica che dagli Usa è andata diffondendosi negli altri Stati del sistema imperialista. Una recessione che giunge dopo dieci anni di “reaganomics“ e di politiche di riarmo utilizzate come volano dell’economia, e nell’ambito della crisi di sovrapproduzione apertasi all’inizio degli anni Settanta, una volta esaurita la fase espansiva innescata dalla seconda guerra mondiale.

Cartina al tornasole per la misura dei rapporti di forza nell’ambito della contraddizione Est/ovest, la guerra all’Iraq segna, con la colossale esibizione di forza e l’insediamento americano nella regione, una pesante riaffermazione dell’egemonia Usa sull’intero sistema imperialista, e rafforza, con il controllo diretto delle fonti energetiche, il peso degli Usa nei confronti degli altri Stati del centro, particolarmente nei confronti di Giappone e Germania. Ed inquadra i processi di coesione tra i diversi Stati europei come coesione nell’insieme del sistema imperialista, riconfermando la sostanziale subordinazione alla leadership Usa; ogni specificità particolare di interessi si esalta nella relazione bilaterale che gli Usa separatamente stabiliscono con i diversi Stati imperialisti europei, subordinando a questo livello i processi di concertazione intereuropei.

La massiccia presenza militare diretta nella regione mediorientale pesa ulteriormente nei confronti della vicina Unione Sovietica, e tende alla risistemazione dell’intera regione, contro ogni spinta che si organizzi come forza tendente a un qualche grado di autonomia e indipendenza sulla base delle contraddizioni determinate dalla struttura economico-sociale dell’imperialismo alla periferia, contro le spinte antimperialiste e rivoluzionarie, e particolarmente contro l’avanguardia nella lotta delle masse arabe: la rivoluzione palestinese.

Ma, quale che sarà la misura del vantaggio immediato che ne deriva per l’imperialismo, questa guerra non risolve uno solo dei problemi che l’hanno prodotta. Al contrario, l’aver dovuto tentare di risolvere su questo terreno le proprie contraddizioni non fa che approfondirle e accelerarle in termini critici.

Del tutto irrilevante, ovviamente, ogni questione di diritto internazionale violato e balle varie: nel cielo inevitabilmente e completamente borghese del diritto internazionale, in sede Onu avviene soltanto la ratifica formale del rapporto di forza reale. L’Iraq, fatto oggetto di attenzione e di incombente ridimensionamento da parte di un Occidente che, se ben aveva gradito la guerra di contenimento nei confronti dell’Iran rivoluzionario, non altrettanto gradiva l’accresciuta forza regionale che ne era uscita, con l’operazione di incorporazione del Kuwait non ha fatto che muoversi per primo, prendendo l’iniziativa e cercando di determinare, per quanto rimaneva nelle sue possibilità, luoghi, margini e tempi di un affrontamento che era in ogni caso inevitabile e già deciso dalle politiche sionista e imperialista nella regione.

Le masse arabe sfruttate e oppresse hanno visto nella sfida dell’Iraq all’imperialismo ciò che, in altre condizioni storiche, ha rappresentato 1’Egitto di Nasser nella nazionalizzazione del Canale di Suez: il simbolo dell’orgoglio e della dignità dell’intera nazione araba. Milioni di uomini si sono mobilitati, dal Maghreb al Machrek, in questo che è un altro nuovo inizio di processi di lotta e organizzazione i cui frutti matureranno a lungo. La resistenza dell’Iraq ha reso visibile, concreta, viva, la possibilità del rivoluzionamento delle condizioni di oppressione e di sfruttamento di milioni di uomini.

Il rovesciamento dell’emiro del Kuwait, gli attacchi alle petrolmonarchie del Golfo hanno riaffermato nei fatti da una parte la realtà di una nazione araba divisa dal colonialismo e dall’imperialismo, di confini e Stati disegnati dalle potenze occidentali il cui ruolo è quello di agevolare il trasferimento delle risorse economiche arabe a vantaggio degli imperialisti, dall’altra che questa realtà può essere rovesciata.

Gli attacchi allo Stato sionista hanno dimostrato ancora una volta alle masse arabe che esso non è invulnerabile, e hanno riaffermato davanti al mondo che, dal suo insediamento nel 1948, “Israele” è in stato di guerra con tutti gli arabi.

La presenza dello Stato sionista come avamposto politico-militare delle metropoli imperialiste incuneato nella nazione araba è la base materiale sulla quale si fonda l’organizzazione soggettiva della rivoluzione palestinese, centro della mobilitazione araba. Ciò ne fa la questione fondamentale della pacificazione imperialista dell’area, poiché le forze rivoluzionarie palestinesi l’hanno trasformata in un processo rivoluzionario aperto nel cuore della regione.

Dal 1965, data d’inizio della lotta armata in forma organizzata, le avanguardie combattenti del popolo palestinese hanno saputo compiere i passaggi che hanno impedito l’attuazione di tutte le varianti del progetto centrale dell’imperialismo nell’area: la cancellazione della “questione palestinese” e la risistemazione politica della regione intorno allo Stato sionista. Nel ’68, lo stesso anno della battaglia di Karameh, che segna la rivincita della dignità araba dopo la sconfitta del ’67, l’avanguardia combattente palestinese porta la linea del fronte nel cuore stesso dell’imperialismo, in Europa, come già aveva fatto la rivoluzione algerina, affermando così con forza quella linea antimperialista che rende la rivoluzione palestinese un punto di riferimento essenziale per ogni processo rivoluzionario sia nella periferia che nel centro. I massacri che il popolo palestinese ha subito nel corso della sua storia, da Deir Yassin al “Settembre nero”, da Tall El Zatar a Sabra e Chatila, ai continui assassinii in tre anni di intifada, non hanno fermato la rivoluzione palestinese, e le forze rivoluzionarie non hanno mai smesso di combattere, anche in questi mesi, in una situazione che si è fatta oggi estremamente difficile.

L’imperialismo si è infatti, con questa operazione, massicciamente impiantato nella regione, determinando così l’imposizione di rapporti di forza ad esso favorevoli sui piani militare, politico-diplomatico, economico. Ma la presenza di mezzo milione di soldati Usa nella regione ha già attivato tutte le forze, nazionaliste e comuniste, che, ai bordi della Palestina occupata, hanno trovato un eccezionale momento di confronto e unità. La guerra rivoluzionaria riparte da qui con maggiore forza e qualità politica.

Nelle dinamiche attivatesi in questa guerra si è vista la realtà e il peso del dominio imperialista e, insieme, la materializzazione della prospettiva rivoluzionaria della storia.

L’Iraq è stato sopraffatto sul campo e questo, negli attuali rapporti di forza, è stato inevitabile; ma ha combattuto e resistito, e questa resistenza, per le questioni che ha posto e nel significato rivoluzionario che ha assunto per le masse arabe e per tutti gli antimperialisti, è stata davvero una vittoria. In questo l’Occidente ha perso: nella sua enorme forza tattica ha messo a nudo agli occhi degli oppressi di tutto il mondo anche la sua debolezza strategica, il suo essere una “tigre di carta“. La possibilità della resistenza, della lotta, è la possibilità della vittoria. Il fuoco che covava sotto la cenere è riemerso e non sarà facile soffocarlo: l’imperialismo stesso lo ha suscitato, ed esso troverà oggi e da oggi nuove forze rivoluzionarie e nuovi attacchi sulla sua strada.

Già immediatamente, nel corso della guerra, nel mondo intero, dalla periferia al cuore stesso dell’imperialismo, le forze rivoluzionarie hanno saputo attrezzarsi e combattere da subito contro questa guerra di aggressione, attaccando uomini, strutture e interessi della forza multinazionale imperialista, proseguendo e rilanciando la lotta contro i progetti imperialisti, la Nato, la macchina militare americana.

Nella nostra area geopolitica, oltre agli attacchi delle forze rivoluzionarie arabe, i compagni di “Dev-Sol” in Turchia, e in Grecia i compagni dell’organizzazione “17 Novembre” hanno sviluppato campagne offensive di largo respiro, i compagni della Raf hanno mitragliato l’ambasciata USA in Germania, colpi di mortaio hanno raggiunto il Ministero della difesa e il Ministero degli esteri britannici per opera dell’Ira, e altri attacchi sono stati portati un po’ dovunque, in rapporto alle condizioni delle forze rivoluzionarie e alla maturità delle situazioni.

Attaccare i progetti centrali dell’imperialismo, attaccarlo alle spalle, rendere insicuro il suo retroterra, cacciare gli imperialisti dalla regione mediorientale, nella prospettiva del rovesciamento dei rapporti di forza tra imperialismo e rivoluzione, è infatti il compito delle forze rivoluzionarie dell’intera area.

L’Italia è entrata in guerra. Lo Stato imperialista italiano ha partecipato alla pianificazione e all’attuazione di un’immane carneficina, condotta industrialmente al livello di sviluppo tecnologico contemporaneo, che in poche settimane ha prodotto in serie, in una grande catena di montaggio, un numero sterminato di cadaveri di uomini, donne e bambini iracheni.

Lo Stato italiano ha sempre svolto la sua parte nel ruolo che storicamente e strutturalmente è proprio del centro imperialista, e sempre si è adeguato alle esigenze dell’imperialismo nelle diverse fasi al livello necessario. Questo passaggio ratifica ora un livello di maturazione raggiunto, e ridetermina le nuove responsabilità che l’Italia va ad assumere in campo imperialista, la sua collocazione nel sistema, e i vantaggi in campo economico e politico che derivano dalla sua posizione nel dominio sulla regione.

Il ruolo assunto con la partecipazione attiva in questa guerra rende naturalmente ancora più urgente, e impone una nuova accelerazione, a quei riadeguamenti in campo istituzionale, a quella ridefinizione dei poteri dello Stato già all’ordine del giorno per la borghesia imperialista per adeguare lo Stato imperialista italiano al livello delle democrazie più avanzate del centro imperialista, ratificando in ciò i rapporti di forza acquisiti nei confronti del proletariato metropolitano. Questi rapporti di forza sono oggi il risultato di venti anni di scontro di classe, particolarmente della controrivoluzione degli anni Ottanta, e dei nuovi equilibri determinatisi negli ultimi anni a livello internazionale, fino a questa guerra.

Viene così ulteriormente riaffermata, imposta dai fatti, la piena attualità del progetto di riforma istituzionale che la nostra organizzazione ha individuato e attaccato con l’azione contro il senatore DC Ruffilli nell’aprile ’88, come il progetto centrale della borghesia imperialista in questo paese: quello che abbiamo definito il cuore dello Stato.

L’entrata in guerra ratifica anche un livello di sviluppo della controrivoluzione preventiva e dell’attività rivolta a incanalare le spinte antagoniste nello schieramento lealista e all’ingabbiamento delle spinte autonome di classe, finalizzata a ottenere il massimo grado possibile di pacificazione interna.

In ciò ha un ruolo anche una gestione ideologica costruita negli anni, e che ha sviluppato una coscienza imperialista a supporto del nuovo grado di impegno militare diretto: i movimenti di opinione che si sono “schierati” in questa vicenda sono infatti direttamente la sovrastruttura politico-ideologica di questa guerra di aggressione e dei suoi macellai. Interventisti da un lato e sostenitori dello strangolamento economico dall’altro, che hanno occupato la scena in questi mesi, sono due facce della medesima medaglia: la coscienza imperialista mobilitata.

Le ideologie della “superiorità civile” dei metodi non-violenti contro guerra e violenza, con il loro filantropismo caritatevole, poggiano sulla stessa sporca guerra che “disapprovano”, sulla base dei sovraprofitti derivati dal dominio imperialista sui popoli del mondo. L’“orrore per la guerra” non sviluppa nient’altro che buoni sentimenti antirivoluzionari se non è subito insieme orrore per la pace, per la “normalità” del sistema imperialista, del capitalismo contemporaneo – del quale la guerra è un aspetto. Sulla base di questa compartecipazione agli utili derivanti dal dominio sulla periferia poggia, sin dalla nascita dell’imperialismo, l’ideologia pacifista della piccola borghesia metropolitana, l’opportunismo, il revisionismo storico e l’integrazione del movimento operaio istituzionalizzato nella collaborazione con l’imperialismo.

Contro l’imperialismo nelle metropoli dell’Europa occidentale c’è soltanto la posizione rivoluzionaria della guerriglia, e dell’autonomia operaia e proletaria, l’autonomia di classe che in dialettica con la guerriglia si è sviluppata in due decenni di scontro rivoluzione/controrivoluzione, e che è tale, “autonoma”, in quanto antiistituzionale, antistatale, antinazionale e antimperialista. Il nemico interno dello Stato.

Questa è la situazione reale, e solo da qui, dalle dure e difficili condizioni imposte dall’approfondimento dello scontro è possibile sviluppare la lotta rivoluzionaria.

Solo sul terreno rivoluzionario, il terreno della guerra di classe, è possibile spezzare ogni compromissione del proletariato metropolitano con gli interessi imperialisti, sviluppare la sua autonomia e indipendenza strategica, il suo carattere rivoluzionario, dunque il processo unitario tra proletariato del centro e classi sfruttate alla periferia del sistema – condizione per la vittoria qui.

Il processo rivoluzionario condotto in Italia dalle Brigate Rosse è sin dall’inizio caratterizzato come processo rivoluzionario internazionalista e antimperialista.

La guerriglia nelle metropoli nasce infatti, tra la fine degli anni Sessanta e inizio Settanta, nel quadro dell’assetto storico-politico e economico-sociale del mondo capitalistico uscito dalla seconda guerra mondiale, dentro il mutamento a livello generale dei rapporti di forza tra proletariato internazionale e imperialismo determinato dallo sviluppo delle lotte di liberazione alla periferia del sistema e dalla nuova ripresa della lotta di classe nel centro: si sviluppano così lotte proletarie e operaie autonome dalla logica capitalistica e si forma una nuova soggettività rivoluzionaria che afferma la strategia della lotta armata per il comunismo come la sola politica rivoluzionaria adeguata a queste condizioni storiche.

Affermandosi nella tradizione storica e come parte del movimento comunista internazionale, la guerriglia pone la questione della rivoluzione proletaria nella metropoli nel quadro degli interessi del proletariato internazionale, poiché, per il grado materiale di sviluppo qui raggiunto dalle forze produttive, una vittoria rivoluzionaria nel centro è un obiettivo di portata decisiva per gli interessi generali del proletariato mondiale, per le possibilità che apre di sbloccare la situazione anche rispetto all’ulteriore sviluppo dei processi rivoluzionari alla periferia del sistema e nell’insieme del mondo capitalistico.

«La guerriglia è la forma dell’internazionalismo proletario nelle metropoli. È il soggetto della ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale» (Risoluzione della Direzione Strategica 1978). Si costituisce dall’inizio come parte e funzione della guerra di classe internazionale e sviluppa la lotta per il potere negli Stati del centro imperialista come parte della rivoluzione proletaria mondiale, subordinata e funzionale ad essa. Con ciò rivela l’inadeguatezza storica delle impostazioni “terzinternazionaliste”, e il carattere reale delle loro degenerazioni nelle “vie nazionali al socialismo” dei Pc revisionisti, particolarmente della contemporanea “via italiana” del Pci.

Le Brigate Rosse conducono il processo della guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico generale e l’instaurazione della dittatura proletaria in questa impostazione strategica. Internazionalismo e antimperialismo caratterizzano perciò i contenuti della dialettica tra guerriglia e autonomia di classe lungo tutto il processo rivoluzionario, per ragioni oggettive e soggettive, consapevolmente sin dall’inizio.

Questo carattere si è affermato nella prassi e nella prassi si è verificato e progressivamente precisato.

Con l’operazione contro la Nato del dicembre ’81, incentrata sulla cattura-processo del generale Usa Dozier, comandante Nato per il Sud-Europa, il principio strategico del carattere internazionalista e antimperialista del processo rivoluzionario veniva riaffermato con forza nell’attacco pratico contro i progetti centrali dell’imperialismo; muovendosi come sviluppo dell’offensiva dei compagni tedeschi della RAF contro la base militare Usa di Ramstein e contro il generale Usa Kroesen, in dialettica anche con l’azione contro l’addetto militare Usa a Parigi Ray compiuta dalle Farl libanesi e con altre iniziative di quella fase “contro gli uomini, i centri e le basi della macchina militare americana”, sviluppando il “programma di unità con i comunisti e di alleanza con i popoli oppressi dall’imperialismo”. Soprattutto la posizione antimperialista trovava un primo momento di concretizzazione nella proposta della «costruzione del Fronte Combattente Antimperialista in tutta l’area europea e mediterranea» (Direzione strategica 1981), parola d’ ordine fondamentale che ha caratterizzato in tutti gli anni Ottanta la prassi della nostra organizzazione.

Con l’azione contro l’amerikano Hunt, direttore della forza multinazionale in Sinai, costituita dall’imperialismo per garantire gli infami accordi di Camp David tra l’Egitto del “traditore Sadat” e l’entità sionista, che hanno costituito per una lunga fase il centro del progetto imperialista di normalizzazione della regione mediorientale sulla pelle del popolo palestinese, le Brigate Rosse attaccano un obiettivo e una struttura garante e agente di un equilibrio funzionale agli interessi strategici Usa e Nato in Medio Oriente, che vedeva, tra l’altro, uno dei primi momenti di intervento direttamente militare dello Stato imperialista italiano nella regione. L’attacco si collocava, nel febbraio ’84, nel quadro della grande battaglia delle forze rivoluzionarie antimperialiste libanesi e palestinesi contro la presenza della forza multinazionale a Beirut, mentre dalla corazzata Usa “New Jersey” partivano i cannoneggiamenti sui quartieri popolari musulmani di Beirut ovest, e alla vigilia della sconfitta di quel progetto imperialista con il rovinoso ritiro dei contingenti francese e americano sotto i colpi della resistenza libanese.

Immediatamente prima dell’aggressione imperialista contro la Jamahirija libica, partita dalle basi Usa e Nato in Italia, si colloca, nel febbraio 1986, l’azione contro Conti, stretto collaboratore dell’allora Ministro della difesa filo-sionista Spadolini, e trafficante di armi con “Israele”; azione nella quale si precisa la definizione della nostra area geopolitica come “Europa-bacino del Mediterraneo-Medio Oriente”, caratterizzata dal concentrarsi dei piani di contraddizione tipici del modo di produzione capitalistico, di quello tra i due blocchi, e di quello tra i paesi dell’Occidente industrializzato e i paesi dipendenti; si individua il carattere cruciale nell’area della questione palestinese; e si afferma la tendenza oggettiva alla “convergenza tra gli interessi del proletariato europeo con quelli dei popoli progressisti dell’area”. La parola d’ordine dell’“unità internazionale dei comunisti”, che ha sempre caratterizzato le Brigate Rosse, posta anche negli attacchi dell’81 contro Dozier e dell’84 contro Hunt, è precisata in opposizione al “purismo dogmatico” emme-elle astratto dalle dinamiche sociali reali e collocata invece nel quadro di un’imprescindibile prassi antimperialista che distingue livelli di unità e livelli di alleanza.

La prassi unitaria di Action Directe e Rote Armee Fraktion, con le azioni contro il complesso militare-industriale, contro Zimmermann, contro Audran, 1’azione comune contro la base militare Usa a Francoforte sulla base del testo AD-RAF del gennaio ’85 ha segnato, nel corso degli anni Ottanta, un’importante tappa politica alla quale le Brigate Rosse si sono rapportate nel processo che ha portato all’accordo politico, che consideriamo un ulteriore passo avanti di questo processo, e che si sintetizza nel testo comune RAF-BR e si è sostanziato nell’ attacco del commando Khaled Aker della RAF contro il Segretario di Stato al Ministero delle finanze tedesco Tietmeyer, nel settembre ’88.

Il lungo processo pratico di assunzione soggettiva della convergenza di interessi nella lotta contro l’imperialismo e del fronte che oggettivamente esiste tra i diversi – economicamente e storicamente determinati – processi rivoluzionari nella nostra area geopolitica, e dunque della costruzione e consolidamento del Fronte combattente antimperialista non è un processo lineare, ma ha i suoi passaggi di qualità, poiché si è svolto e si svolge nel confronto continuo con la controrivoluzione e con lo sviluppo delle lotte rivoluzionarie, nel fuoco concreto della storia.

Il risvolto proletario e rivoluzionario ai processi di degenerazione e di guerra dell’imperialismo è rappresentato, nel mondo contemporaneo, da un lato dai movimenti di liberazione dei paesi dipendenti della periferia, dall’ altro dalla guerra di classe nel centro imperialista.

La polarizzazione sviluppo/sottosviluppo, centro/periferia non descrive diversi gradi di una lineare evoluzione di un impossibile “progresso” capitalistico, ma il modo storico reale di funzionamento della forma di produzione del capitale. Il processo di accumulazione capitalistico comporta concentrazione e centralizzazione sempre più accentuate e sviluppo organicamente diseguale. Il capitale è costretto dalle sue stesse leggi di funzionamento a bloccare – nel cosiddetto “sottosviluppo” – lo sviluppo economico-sociale della maggior parte dei paesi dipendenti: i paesi della periferia non possono che progressivamente peggiorare la propria condizione economico-sociale nella progressiva polarizzazione centro/periferia. Ciò non attiene minimamente alla forma politica di indipendenza nazionale, ma alle leggi del mercato e della produzione capitalistici.

Le lotte sociali rivoluzionarie che nascono alla periferia del sistema, nei paesi dipendenti, hanno il loro fondamento nell’imperialismo, nel modo di produzione capitalistico contemporaneo, e non hanno assolutamente nessuna possibilità materiale di trovare soluzione in ambito capitalistico: perciò hanno carattere strutturalmente antisistema e rivoluzionario. A differenza che nel centro, queste lotte, per la struttura economico-sociale dell’imperialismo alla periferia, hanno protagoniste più classi sociali oltre il proletariato – piccola borghesia, contadini… – che si battono, più o meno conseguentemente a seconda dello specifico peso delle diverse classi e di altri fattori storici, contro il sistema imperialista per fondate ragioni materiali, ineliminabili. Il tipo di direzione che queste lotte possono storicamente esprimere costituisce differenze soggettive di rilievo, ma in tutti i casi la storia trova una strada e, nella misura in cui combattono a fondo l’imperialismo, hanno carattere pienamente rivoluzionario e sono oggettivamente inserite, nel processo storico contemporaneo, in una prospettiva strategicamente convergente con le lotte rivoluzionarie direttamente classiste che riescono a svilupparsi nel centro imperialista.

Si tratta di un processo storico unitario che si svolge su piani differenti. Perciò la contraddizione tra proletariato e borghesia, pur essendo la contraddizione fondamentale a livello internazionale nell’epoca del capitale, non si esprime universalmente in forma semplificata: non è affatto l’unica contraddizione del mondo contemporaneo.

E proprio per questo nella comprensione reale dell’imperialismo, compito imprescindibile, condizione stessa della presenza di una posizione effettivamente rivoluzionaria nelle metropoli è il collegamento strategico con il piano delle lotte rivoluzionarie alla periferia.

In ciò, tutt’altro dunque che una politica estera, una questione tattica contingente o una faccenda “umanitaria”, in ciò consiste fondamentalmente l’antimperialismo come processo mondiale, il carattere antimperialista dei processi rivoluzionari nelle metropoli.

In quella che abbiamo definito la nostra area geopolitica: Europa-Mediterraneo-Medio Oriente, si riassumono e si concentrano, intrecciandosi in una complessa unità organica, l’insieme delle linee di demarcazione che caratterizzano il mondo contemporaneo.

Polarizzata principalmente e sostanzialmente su due regioni, gli Stati dell’Europa occidentale e il mondo arabo, strutturalmente omogenee al loro interno e reciprocamente complementari, costituisce un’area organicamente unitaria. Variegata ed estremamente articolata, è il risultato di un lungo processo storico che ha formato una fittissima rete di interconnessioni a livello geografico, economico, militare, politico che legano la struttura del sistema imperialista qui, e contemporaneamente la struttura delle lotte di classe e delle lotte rivoluzionarie e antimperialiste che vi si sviluppano.

Le linee di demarcazione Classe/Stato, Nord/Sud, Est/Ovest vi convergono e si intrecciano facendone un’unica area geopolitica, che abbiamo definito area di massima crisi oggi nel mondo; e tutto il corso degli avvenimenti di questi ultimi anni lo dimostra nei fatti.

È perciò imprescindibile per ogni processo rivoluzionario, e per ogni forza rivoluzionaria, confrontarsi con l’insieme dei conflitti tra imperialismo e rivoluzione a questo livello e con una prassi combattente effettivamente adeguata alla profondità raggiunta dallo scontro. È nell’insieme di quest’area che è possibile e necessario sviluppare soggettivamente, nell’attacco ai progetti centrali dell’imperialismo, l’unità che già esiste oggettivamente tra i diversi processi rivoluzionari nei paesi dipendenti e nelle metropoli, realizzando una saldatura di portata storica per il processo rivoluzionario internazionale.

 

Il consolidamento e lo sviluppo del Fronte combattente antimperialista nell’area realizza l’organismo politico-militare in grado, con la sua prassi offensiva, di incidere nei passaggi politici che l’imperialismo sta praticando di normalizzazione e stabilizzazione dell’intera area, e di approfondire la sua crisi politica, destabilizzandolo e indebolendolo al punto che la vittoria in uno o più paesi dell’area si realizzi.

Affrontare l’imperialismo in piena coscienza, dentro una chiara strategia rivoluzionaria concretizza, nel combattimento e nella continuità dell’attacco, lo spostamento dei rapporti di forza a favore della rivoluzione su scala mondiale.

Deve essere chiaro, proprio per le caratteristiche dell’imperialismo negli Stati metropolitani del centro, che l’attacco all’imperialismo non esaurisce il complesso dei compiti che la guerriglia porta avanti relativamente all’obiettivo della conquista del potere politico e alle caratteristiche storiche e sociali dei diversi paesi in cui opera.

Così come a livello internazionale il conflitto antimperialista non si esaurisce nella sola contraddizione proletariato internazionale/borghesia imperialista, allo stesso modo è un errore semplificare i processi di coesione e integrazione degli Stati imperialisti del centro, particolarmente in Europa occidentale, in una loro dissoluzione in un unico super-Stato unitario. Al contrario, proprio la struttura dell’imperialismo nelle metropoli, e il lungo e complesso processo storico di formazione degli Stati nazionali che si intreccia con la nascita e lo sviluppo del capitalismo fino a svilupparli in potenze imperialiste, esaltano, anche all’interno degli organismi sovranazionali, la funzione dei diversi Stati imperialisti, la loro irriducibilità in ambito capitalistico. In questo quadro, la semplificazione dello scontro al solo piano internazionale, non aderendo alla struttura reale dell’imperialismo, depotenzia l’attività rivoluzionaria e la sua efficacia reale.

L’attacco allo Stato, ai singoli Stati imperialisti, è assolutamente fondamentale e centrale nei diversi processi rivoluzionari nel centro imperialista, in ogni fase, dall’inizio alla fine.

L’attacco allo Stato, al cuore dello Stato, ha carattere strategico poiché lo Stato è la sede reale, effettiva, del potere politico della borghesia imperialista, e l’obiettivo della conquista del potere politico generale e dell’instaurazione della dittatura proletaria è l’obiettivo storico del processo rivoluzionario nelle metropoli.

Nella nostra esperienza storica, chi ha cercato di sottrarsi al rapporto di attacco allo Stato, nella legge dello sviluppo del processo rivoluzionario a partire dall’attacco centrale – allo Stato e all’imperialismo -, è venuto meno ai compiti dell’avanguardia ed è stato divorato dallo sviluppo dello scontro. Invece, nonostante le difficoltà che l’approfondimento dello scontro comporta, e anzi proprio attraverso il continuo sviluppo del livello dello scontro, la costruzione del processo rivoluzionario a partire dall’attacco allo Stato è condizione per la costruzione del partito comunista combattente, condizione per la costituzione del proletariato in classe rivoluzionaria, per la sua indipendenza politica e strategica – ciò che costruisce la vittoria.

La nostra organizzazione – le Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente -, confrontandosi con la durezza dello scontro, determinata dallo sviluppo del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, lavora oggi, nel quadro della ritirata strategica e nella fase di ricostruzione, per sviluppare, a partire dagli assi strategici dell’attacco al cuore dello Stato e dell’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo, la dialettica con l’autonomia di classe per realizzare i livelli di ricostruzione politico-militare necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata per il potere e la dittatura proletaria.

È su questi termini di programma che si dà oggi l’unità dei comunisti per la costruzione del partito comunista combattente.

Come militanti prigionieri rivendichiamo l’intero patrimonio teorico-politico e l’attività politico-militare della nostra organizzazione. Ci riconosciamo nella prassi combattente antimperialista sviluppata in tutta l’area contro l’aggressione all’Iraq, contro i paesi della forza multinazionale imperialista.

Per noi e meglio di noi parla comunque la guerriglia, la nostra organizzazione, le Brigate Rosse.

A questo livello soltanto, non certo a un tribunale dello Stato, rispondiamo della nostra condotta.

Onore a Najah Abdallah, caduta il 10 marzo a Ramallah, in Palestina, combattendo l’occupazione sionista, e a tutti i rivoluzionari caduti combattendo contro l’imperialismo.
Onore a Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa, Riccardo Dura e Piero Panciarelli, militanti delle Brigate Rosse, caduti a Genova il 28 marzo ’80, combattendo per il comunismo.

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di “riforma” dei poteri dello Stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte combattente antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica ’Europa/Mediterraneo/Medioriente’.
– Combattere insieme.

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

 

Cuneo, 22 marzo 1991

 

Tribunale di Bologna: Dichiarazione dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli., Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

Noi militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente e militanti rivoluzionari prigionieri esprimiamo la piena adesione e il pieno sostegno politico all’attacco che la RAF ha portato contro la politica della Repubblica federale tedesca verso l’ex-Ddr colpendo il presidente dell’ente fiduciario incaricato di amministrare l’industria della ex-Ddr, Detler Rohwedder, uomo del governo federale in questa politica di asservimento e disoccupazione del proletariato tedesco.

Questa iniziativa politico-militare è centrale per lo sviluppo del movimento rivoluzionario in Europa occidentale; ciò dipende dal ruolo economico e politico che le grandi banche e il capitale industriale tedesco rivestono nel processo di coesione politica dell’Europa occidentale, nonché dal ruolo che la grande Germania svolge verso l’Europa dell’Est in un quadro integrato negli interessi imperialisti.

Per questo è una questione europea chiara e netta che va al di là dei terreni prioritari in cui ogni forza rivoluzionaria si misura relativamente alle caratteristiche dello scontro di classe nel proprio paese.

Questa iniziativa è oggettivamente un terreno unificante nella costruzione di un forte movimento rivoluzionario in Europa occidentale e del Fronte combattente antimperialista nell’area geopolitica (Europa-Mediterraneo-Medio Oriente).

Sosteniamo l’iniziativa politico-militare della RAF del 14 febbraio ’91 contro l’ambasciata Usa a Bonn.

– Attaccare le politiche di coesione in Europa occidentale!
– Organizzare la lotta armata in Europa occidentale!
– Organizzare il Fronte combattente antimperialista!
– Combattere insieme!

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli., Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

 

Bologna, 4 aprile 1991

Tribunale di Bologna. Documento allegato agli atti dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

Come militanti delle BR-Pcc e militanti comunisti rivoluzionari prigionieri la nostra presenza in questo processo è motivata solamente dalla volontà di rivendicare per intero l’attività delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente e in questo ribadire la validità della linea politica, del programma e della impostazione strategica costituita dalla proposta della lotta armata a tutta la classe, perché è a partire dall’attività rivoluzionaria delle BR, sviluppatasi in stretta dialettica con le espressioni più mature dell’autonomia politica di classe, che si è potuto affermare in Italia un processo rivoluzionario basato sullo sviluppo della guerra di classe di lunga durata, che pur nel suo andamento discontinuo fatto di avanzate e ritirate, costituisce l’alternativa rivoluzionaria necessaria e possibile per il proletariato del nostro paese.

La prassi rivoluzionaria delle BR è perciò la prospettiva strategica di potere della classe, e nello stesso tempo la concreta direzione e organizzazione sul terreno della lotta armata dell’autonomia di classe, al fine di sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato.

Detto questo, rivendichiamo ancora in questa sede la giustezza dell’azione fatta dalle BR contro la rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, colpendo uno dei suoi massimi artefici, il senatore Ruffilli, perché dimostra ancora una volta come sia possibile contrapporsi con una strategia offensiva ai progetti dello Stato, nello specifico quelli rivolti al rafforzamento dei poteri.

La celebrazione del processo cade nel momento più acuto della crisi politico-istituzionale che attraversa il paese, ma ciò che oggi si verifica altro non è che l’evoluzione obbligata delle contraddizioni sollevate dallo stesso processo di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, dovendo esso rispondere alla duplice esigenza di adeguare lo Stato ai livelli di crisi e sviluppo dell’attuale stadio economico del capitalismo e al governo del conflitto di classe. Lo Stato italiano risponde a questa crisi accelerando con forzature politiche e costituzionali i suoi processi di rifunzionalizzazione per far fronte anche ai crescenti impegni internazionali che la stessa crisi determina, nel tentativo di garantire stabilità a fronte dello scontro di classe che su queste scelte si produce. Il ritrovato bellicismo fa il paio con le rivendicazioni stragiste fatte dai massimi vertici dello Stato e della DC, rivendicazioni che non sono tese a chiudere un capitolo della storia passata ma sono fatte per pesare oggi sullo scontro di classe per determinare intorno alla continuità della centralità DC equilibri e schieramenti della nascente II Repubblica. Questa si caratterizza già sia nell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, come dato costitutivo, e nella sostanziale funzionalizzazione al suo operato delle sedi parlamentari e istituzionali, sia nella conflittuale ridefinizione degli stessi apparati dello Stato, sia nel confronto senza esclusione di colpi tra le forze politiche borghesi per raggiungere posizioni di forza negli assetti istituzionali che si stanno prefigurando. Un processo di rifunzionalizzazione che coinvolge tutti i partiti, che ne diventano soggetti attivi e promotori, dentro a modalità politiche di governo che premono per subordinare tutte le forze, politiche e sociali, a questa svolta profonda. Una svolta profonda che dovrebbe ratificare a livello istituzionale e costituzionale i rapporti di forza reali tra le classi così da agevolare rapidità e piena autonomia alle decisioni dell’esecutivo. Un processo niente affatto lineare e indolore perché è proceduto e procede all’interno di uno scontro tanto aspro quanto dinamico con una classe non pacificata la cui resistenza agli effetti politici e materiali di questo processo è ciò che non consente allo Stato di sancire fino in fondo questa svolta nei rapporti politici e di forza con la classe.

Un processo di rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato che fa tesoro degli strumenti della controrivoluzione preventiva maturati dalle democrazie rappresentative, consolidato da una pseudopposizione in cui assisteremo a una serie di staffette predeterminate alla guida del paese, ovviamente santificate dal voto popolare (un’innovazione democratica che, è bene ricordare, è stata ideata dal senatore Ruffilli), ma perché più sostanzialmente cercheranno di operare un maggior ingabbiamento e subordinazione del proletariato e della classe operaia agli interessi della borghesia imperialista attraverso “riforme” e legislazioni sia sul piano politico generale che sul piano delle relazioni industriali con la completa neocorporativizzazione dei sindacati, il tutto con il ricorso ormai usuale alla politica delle emergenze.

Questo è bene evidenziato nella gestione interna della partecipazione della borghesia imperialista italiana al massacro del popolo irakeno; basti pensare al ruolo che ha svolto il sindacato nel far opera di contenimento alla vasta e qualificata opposizione operaia alla guerra imperialista, e agli strappi che esso ha compiuto nella compartecipazione alla dottrina della “qualità totale” di Romiti e nella questione delle rappresentanze in fabbrica.

La cosiddetta guerra del Golfo, l’euforizzato ruolo internazionale dell’Italia non è altro che il prodotto della grave crisi in cui si dibatte la catena imperialista; non è certo segno di forza, ma di debolezza: in ultima istanza è la necessità imperialista di una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati capitalistici che spinge l’imperialismo a politiche guerrafondaie. L’aggressione al popolo irakeno, pianificata mesi e mesi prima delle deliberazioni in sede Onu, attraverso l’embargo mascherato e lo strangolamento finanziario, così da spingere l’Irak a trovare comunque uno sbocco, è stato il pretesto per cercare la “normalizzazione” imperialista del Medio Oriente, un’aggressione che, nelle intenzioni occidentali, dovrebbe produrre l’integrazione dell’area mediorientale nel sistema di sicurezza Nato, con l’entità sionista perno della strategia Usa, sulla quale far ruotare il sistema di sicurezza e stabilizzazione economica, subordinando a questo dato soluzioni politiche del conflitto sionista-palestinese ed arabo-sionista. Tutto ciò sotto la cappa dei rapporti di forza scaturiti dalla guerra e dall’esempio irakeno. Su queste direttrici politiche si è svolta l’operazione di “polizia internazionale” alla quale ha partecipato lo Stato italiano.

I progetti guerrafondai dell’imperialismo hanno trovato sulla loro strada una mobilitazione combattente che per quantità e qualità non ha precedenti; iniziative in ogni parte del mondo, espressione di un rinnovato internazionalismo proletario che hanno posto in primo piano e materialmente il terreno unitario e unificante tra i processi rivoluzionari della periferia e la guerra di classe diretta dalla guerriglia nelle metropoli imperialiste. Un terreno unitario posto con forza dalle iniziative combattenti che hanno sintetizzato al livello più alto l’opposizione di massa alla guerra imperialista.

In sintesi è anche da questo quadro politico interno e internazionale che la strategia e la linea politica delle BR mantiene la sua piena attualità. La guerriglia oggi più che mai è il terreno primario dell’organizzazione di classe, un terreno politico-militare che qualifica lo scontro sedimentato sul piano rivoluzionario, una condizione per esprimere adeguatamente gli interessi proletari di contro alla borghesia imperialista.

L’aggressione imperialista nella regione mediorientale e gli equilibri politico-militari che vi si vogliono instaurare, tesi a ristabilire più stretti rapporti di dipendenza, sono obiettivi immediati, ma non esauriscono il fine della guerra. Più sostanzialmente l’intervento dell’alleanza imperialista è teso a stabilire posizioni di forza per i suoi interessi strategici politico-militari. Obiettivi questi che fanno venire meno i termini per caratterizzare questo conflitto solo dentro la contraddizione Nord/Sud; limitarlo a questo significherebbe sottovalutarne la portata, non legarlo cioè al contesto più generale da cui è maturato, non comprendere quali ordini di contraddizioni sottointendono alla scelte guerrafondaie degli Usa in primo luogo e della catena imperialista nel suo insieme.

Le condizioni generali entro cui si colloca questa guerra vedono la maturazione critica di fattori oggettivi e soggettivi relativi allo stadio di sviluppo dell’imperialismo da un lato e all’evolvere del quadro storico-politico e militare uscito dalla II guerra mondiale dall’altro. La dinamica fondamentale che vi sta alla base e che muove necessariamente in direzione della guerra è determinata dal grado di profondità della crisi economica che sta travagliando gli Usa e in misura diversa tutti i paesi della catena; ma la possibilità di iniziare questo conflitto si è posta concretamente all’interno di significative modifiche negli equilibri Est/Ovest, ovvero nello sfruttamento del fattore generale più favorevole all’imperialismo. È quindi dentro ai mutamenti avvenuti su questa direttrice che è stato possibile iniziare la guerra di aggressione all’Irak ed è sempre questa direttrice che influenzerà le tappe dei possibili sviluppi. Un fatto questo ineluttabile perché dato dal concreto quadro storico in cui sono collocate le forze in campo; per questo motivo la contraddizione Est/Ovest dominante le relazioni internazionali e condizionante ogni ordine di conflitto da Yalta in poi, è quella che sovrasta anche questa guerra, a maggior ragione perché si è aperta una fase in cui sono andati ad accumularsi tutti i fattori che rendono necessaria all’imperialismo la rimessa in discussione complessiva di questo quadro storico, una fase in sintesi in cui possa essere imposto il “nuovo ordine mondiale“ auspicato dall’imperialismo Usa in testa.

Che l’“epoca della pace” si sia inaugurata con uno dei più grandi massacri della storia recente, e con l’occupazione di una vasta area geografica chiarisce la sostanza e l’indirizzo di questo nuovo ordine mondiale riportando tragicamente alla memoria l’analogia con quel nuovo ordine già vagheggiato dalle armate naziste.

La guerra del Golfo, l’occupazione di questa area di importanza strategica sia per il controllo delle rotte tra i continenti che per le risorse energetiche e finanziarie mondiali non è che l’ultimo atto di una sempre più aggressiva politica degli Usa e dell’Occidente imperialista nel suo complesso tesa ad assestare e riordinare equilibri politici, aree di influenza in tutto il mondo, così da modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza internazionali su tutte le direttrici delle contraddizioni economiche e politiche proprie di questa epoca storica: dal bipolarismo, vale a dire il carattere che devono assumere le relazioni Est/Ovest, ad una ricollocazione delle relazioni economiche tra Nord e Sud (ciò a partire dal ridimensionamento/annientamento delle legittime aspirazioni all’affrancamento dal giogo imperialista e a uno sviluppo economico sociale più consono agli interessi delle masse proletarie e contadine immiserite dalla relazione economica e dal modello di sviluppo negato, imposto dall’imperialismo), fino ad intervenire nella contraddizione proletariato/borghesia per legare il proletariato internazionale ai tassi di sfruttamento necessari all’odierno ciclo di crisi-sviluppo del modo di produzione capitalistico nella fase imperialista dominata dai monopoli multinazionali-multiproduttivi.

Per ragioni storiche, economiche, politiche e geografiche queste direttrici di contraddizioni trovano convergenza e si intersecano nell’area europea-mediterranea-mediorientale: le contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico relative all’Europa occidentale, la contraddizione Est/Ovest che su quest’area preme nella linea di confine tra i blocchi scaturita dalla II guerra mondiale, la contraddizione Nord/Sud in quanto area dove vengono a contatto i paesi dell’occidente capitalistico e i paesi dipendenti, nello specifico perché i conflitti che si producono nella regione mediterranea-mediorientale riguardano direttamente l’Europa in quanto questa è la sua naturale zona di influenza.

La regione mediorientale si presenta con confini altamente instabili tra i blocchi perché non definiti nel dopoguerra, oltre che per i motivi economici delle rotte e delle fonti energetiche, per i processi di decolonizzazione ed emancipazione nazionale in corso. Con l’imposizione della entità sionista che ha sancito l’espropriazione imperialista-sionista della terra palestinese, il mondo arabo diventa teatro della strategia imperialista tesa a pacificare anche “manu militari” l’area in questione, allo scopo di allargare e stabilizzare la propria orbita di influenza. In questo senso questa regione, di estremo interesse strategico, viene ad assumere tutte le condizioni perché vi si attui lo scontro preliminare sia politico che militare atto a preparare le migliori condizioni di partenza che possono preludere alla ridefinizione delle zone di influenza. In questo può caratterizzarsi come un “detonatore“ di un conflitto di ben più vaste dimensioni. Per tutti questi fattori e per le contraddizioni che vi convergono questa è l’area di massima crisi nel mondo.

In sintesi, l’intervento militare nella regione mediorientale non si esaurisce nei motivi storici, economici, politici e militari propri della regione, ma si intreccia indissolubilmente con gli avvenimenti e i processi economici e politici della catena imperialista che vedono l’Europa al centro della ridefinizione degli equilibri politici scaturiti dagli accordi di Yalta, questo perché l’intervento nel Golfo, oltre ad essere dettato da ragioni politiche di carattere strategico, è il portato degli scompensi dell’economia capitalistica; d’altronde un intervento sul rapporto Nord/Sud tale da svolgere la sua funzione riequilibratrice sulla caduta tendenziale del saggio di profitto medio (agendo sulle riserve di manodopera, sulle materie prime a basso costo e sull’allocazione di produzioni a bassa composizione organica) a questo stadio della crisi può avvenire solo all’interno di una più generale ridefinizione internazionale del lavoro e dei mercati la quale ha il suo centro nei paesi industrializzati e nella ridefinizione dei rapporti di forza tra Est e Ovest che dominano le relazioni internazionali. Per questo la guerra imperialista nella regione mediorientale è un ulteriore passaggio in avanti della tendenza alla guerra.

L’aggressione imperialista all’Irak per lo scenario in cui si è data e per la sua possibile evoluzione fa risaltare l’antimperialismo come contraddizione politicamente in primo piano, a partire dall’attività combattente delle forze rivoluzionarie della regione e dalla vasta resistenza delle masse arabe contro l’aggressione imperialista-sionista, rilanciando le legittime aspirazioni all’autodeterminazione dei popoli. Ciò che qualifica l’antimperialismo manifestato dalle masse arabe e in primo luogo dalle loro forze rivoluzionarie combattenti è il livello qualitativo prodotto dai precedenti passaggi effettuati dai processi di emancipazione popolare e nazionale ricchi di esperienze proprie del contesto storico-politico arabo. La rivoluzione algerina, il movimento nasseriano, fino al livello più avanzato espresso dalla resistenza dei popoli palestinese e libanese, sono fra i punti fermi più qualificanti di un percorso che ha maturato un elevato patrimonio di lotte, soprattutto a livello di guerra popolare di liberazione nazionale, che è il risultato del confronto costante con le complesse strategie imperialiste di carattere prettamente controrivoluzionario dispiegate nella regione in funzione di una sua normalizzazione e pacificazione, strategie che, attraverso continui tentativi di destabilizzazione dei paesi arabi che di volta in volta si oppongono ai progetti imperialisti, tendono anche ad ostacolare il coagularsi dell’unità araba.

Un patrimonio politico e rivoluzionario che nel contesto di quest’ultima aggressione imperialista sta maturando un ulteriore salto di qualità che può trarre forza anche dal legame tra un rinnovato nazionalismo arabo (espresso anche da settori di borghesia progressista) e le spinte più radicali e determinate delle masse popolari. Un legame in cui l’antimperialismo è il collante e che caratterizza la vasta opposizione espressa in tutta l’area mediorientale-nordafricana a partire dalla resistenza organizzata dalle forze rivoluzionarie col dispiegamento dell’attività combattente anche all’interno degli Stati arabi schierati con la coalizione occidentale, facendo così anche di questi paesi un territorio nemico per le truppe di invasione e rendendo perciò queste alleanze molto instabili.

Nello stesso tempo questa mobilitazione tende al superamento delle divisioni artificiosamente immesse dalle politiche imperialiste nella regione. Una resistenza e una contrapposizione che ha alla base profonde ragioni materiali relative alla necessità di affermare i propri diritti di autodeterminazione nazionale e emancipazione sociale soffocati dal colonialismo prima e dall’imperialismo poi. Tale resistenza inoltre in questa fase storica si sostanzia a partire da una accresciuta consapevolezza che rende insostenibile l’accettazione di un nuovo ordine imperialista che può imporsi solo nella distruzione massificata della regione e del popolo arabo.

Questo insieme di fattori politici è alla base della forte spinta e tensione che sottolinea le attuali mobilitazioni popolari e la resistenza delle proprie forze rivoluzionarie combattenti contro la presenza imperialista. In questo senso la contrapposizione ad essa è destinata a giocare un ruolo nella futura evoluzione dello scontro. Infatti l’imperialismo con la scelta di iniziare il conflitto ha aperto uno scontro i cui fattori in gioco non sono pianificabili nella pura logica militare poiché la guerra che si sta svolgendo nella regione ha in sé la possibilità di sviluppare la dinamica di uno scontro tra popoli che combattono per l’autodeterminazione e la logica di guerra imperialista: un piano di scontro questo che per l’imperialismo è strategicamente perdente. Per queste ragioni il conflitto è tutto da giocare nel lungo termine, indipendentemente dall’esito militare di quella che può considerarsi solo una prima battaglia.

La propaganda imperialista, in particolare del Pentagono e dell’amministrazione statunitense, sul futuro “ordine mondiale” già in marcia non nasconde, né può farlo, la natura economica che sta alla base degli avvenimenti politici di questi ultimi anni, caratterizzati da un crescente bellicismo. Infatti la grave crisi in cui si dibatte l’economia capitalistica è in ultima istanza la base del manifesto bellicismo imperialista.

Questo dimostra quanto l’opzione bellica sia una tendenza naturale e necessaria per dare ossigeno all’economia disastrata della catena, nonché come la potenza militare dell’Alleanza, per quanto distruttrice sia minata proprio nel cuore dell’imperialismo nel cuore dell’economia capitalistica.

La dinamica di sviluppo degli attuali termini di crisi-recessione ha implicazioni che richiamano nella sostanza a quelle che precedettero la II guerra mondiale, dinamiche di fondo che, presentandosi in un quadro storico mutato, seguono forme e modi di attuazione relativi alle concrete relazioni politiche e militari esistenti tra le forze in campo. Un contesto gravido di processi economici che tendono a riprodurre i passaggi chiave del processo di crisi-sviluppo dell’economia capitalistica nella sua fase monopolistica, con la differenza che in questa fase storica avvengono in un ambito economico di integrazione-interdipendenza dato dall’internazionalizzazione del capitale finanziario e industriale, a dominanza Usa; di conseguenza vi è 1’immediata interrelazione e concatenazione delle stesse contraddizioni prodotte dalla crisi, nonché delle controtendenze e scelte di politica economica. Allo stesso tempo la gerarchizzazione della catena fa sì che prevalgano le controtendenze e le scelte del paese dominante. Oggi come allora, da ben oltre un decennio, l’intero ambito dei paesi capitalistici è attraversato da una strisciante stasi produttiva che ha provocato un progressivo avanzare della recessione e stagnazione economica.

Su questo sfondo, aggravatosi criticamente negli ultimi anni, si stagliano i passaggi principali che, come nel precedente periodo storico, furono sintomo di un approfondimento della tendenza alla guerra, passaggi che in termini generali sono relativi a: il riarmo, il salto in avanti del capitale che matura oggettivamente nel contesto della crisi; la presenza dell’ambito di penetrazione adeguato per i capitali sovraprodotti. Oggi, in questa fase storica, queste dinamiche generali si presentano così: A) Il riarmo, come principale controtendenza alla crisi, adottato soprattutto da Usa e Gb, ma anche da altri paesi capitalistici, soprattutto europei, seppure con intensità diverse e in ambito Nato; B) Un ulteriore salto nel processo di internazionalizzazione dei capitali e della produzione che ha il suo perno nel mercato europeo; C) L’individuazione dell’ambito economico dei paesi dell’Est, per il grado di sviluppo della loro struttura economica, come quello adeguato e complementare per l’impiego dei capitali sovraprodotti e per il livello tecnologico raggiunto dalla produzione capitalistica.

A) Il riarmo è una politica economica di sostegno a cui lo Stato storicamente ricorre nel contesto della crisi generalizzata e di estesi processi recessivi a fronte di mercati capitalistici saturi e di una condizione generale matura per la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Elementi questi che sono tutti presenti nell’andamento dell’economia mondiale. Politica economica che si basa sull’immobilizzo dei capitali eccedenti nella produzione di armi storicamente legata alle tecnologie più avanzate ed implica l’armamento del paese che l’adotta essendo altra cosa dalla produzione bellica per il mercato. Infatti il riarmo non consente di rimettere in circolo i capitali immobilizzati e la sua adozione è fattore economico di accelerazione dello sbocco bellico racchiudendo in sé tutte le condizioni della bancarotta finanziaria per gli Stati che ne fanno ricorso. Nel quadro economico attuale il riarmo è diventato il terreno privilegiato di politica economica principalmente per Usa e Gb e, tendenzialmente allargato a tutta la catena; un terreno privilegiato anche perché la sua adozione comporta il controllo sull’alta tecnologia, quindi la leadership degli Usa in questo campo, campo su cui ruotano i termini della concorrenza monopolistica. Per altro verso Usa e Gb sono anche i paesi maggiormente gravati dalle contraddizioni economiche conseguenti a questa scelta; in questo senso per questi due paesi i fattori di crisi e la necessità di una loro soluzione adeguata premono fortemente sulle scelte politiche e militari, spingendo su questa direzione l’insieme della catena imperialista.

B) La crisi e la recessione generalizzata in cui versano i paesi della catena, pur esprimendo il massimo di debolezza, è anche la condizione in cui si matura il suo potenziale sviluppo, dentro alla dinamica di centralizzazione e concentrazione del capitale. Questo ha dato luogo ai processi di fusione e formazione di nuovi cartelli monopolistici che sono stati terreno privilegiato di investimento del capitale sovraprodotto, processi che ruotano principalmente nell’ambito del mercato capitalistico intereuropeo, con la Rft nella posizione economicamente dominante. Questa dinamica, scaturendo dalla integrazione economica già data, ha prodotto un ulteriore salto nell’internazionalizzazione dei capitali. Formazioni monopolistiche quindi a forte concentrazione di capitali che, a fronte del sostanziale restringimento della base produttiva, hanno approfondito i fattori di crisi relativi alla valorizzazione, tenendo anche conto della saturazione dei mercati capitalistici entro cui si dà la spartizione delle quote.

C) Il processo di penetrazione economica nei paesi dell’Est, relativo agli investimenti finanziari e produttivi operati principalmente dai paesi europei, soprattutto dalla Rft, si è reso possibile a partire dalle “aperture“ economiche che questi paesi hanno offerto (nel contesto della maturazione di contraddizioni e problematiche proprie a questo campo) e nello stesso tempo per la spinta dei capitali sovraprodotti alla ricerca di sbocchi appetibili. Con queste premesse gli investimenti all’Est sono diventati un ambíto terreno per i trust finanziari e industriali che muovono alla conquista delle migliori posizioni. Uno sbocco che, al contrario delle aspettative, si è dimostrato un palliativo a causa dei limiti che ha la semplice espansione dell’ambito di penetrazione dei capitali in un contesto di sovrapproduzione dei capitali.

Questo rimanda al meccanismo della crisi capitalistica e al suo processo di risoluzione. Secondo l’analisi marxista-leninista la crisi di sovrapproduzione di capitali e mezzi di produzione che non possono operare come tali trova risoluzione solo dentro al movimento di distruzione/ridefinizione/espansione; la semplice espansione del mercato dei capitali ad uno stadio di approfondimento della crisi non può risolvere nel lungo periodo la crisi stessa, e cioè la questione della valorizzazione.

Per questa ragione nel contesto di recessione e di mercati capitalistici saturi storicamente il capitale ricorre alla guerra come mezzo per distruggere il sovrappiù di capitali prodotto, così da poter rilanciare su nuove basi l’accumulazione, ridefinire e allargare su nuove posizioni di forza i mercati capitalistici e l’assetto interno alla gerarchizzazione della catena, nonché le zone di influenza mondiali. In questo senso, dall’evolvere della crisi si può analizzare la tendenza alla guerra, come intrinseca alle caratteristiche del capitalismo.

L’ultima guerra mondiale è stata l’inevitabile sbocco della grande crisi del ’29 e ha disegnato l’attuale quadro mondiale dominato dall’imperialismo Usa e in cui la contraddizione dominante, prima interimperialistica, è ora la contraddizione Est/Ovest quale terreno di realizzazione della tendenza alla guerra. Per questo motivo, dato il grado raggiunto dalla crisi, un nuovo ciclo economico con il rilancio dell’accumulazione capitalistica su scala adeguata al livello di sviluppo dell’imperialismo può essere dato solo nel confronto con il piano storicamente stabilito dalle sfere di influenza, la necessaria divisione internazionale del lavoro e dei mercati può avvenire cioè solo a scapito della sfera contrapposta, in primo luogo perché i paesi dell’Est presentano un ambiente economico sufficientemente sviluppato per consentirlo, e inoltre solo all’interno di questa ridefinizione l’imperialismo può rimodellare i rapporti di dipendenza con i paesi periferici.

La radicalizzazione della crisi, col progressivo esaurirsi dell’effetto delle controtendenze, ha provocato un salto nella tendenza alla guerra; ma il passaggio dalla tendenza alla guerra alla guerra guerreggiata non ha niente di deterministico. La guerra in quanto atto politico oggettivo è il risultato né meccanico né predeterminato dell’intrecciarsi di più fattori: quando le contraddizioni date dalla crisi, per il loro livello critico, non trovano risoluzione sul terreno economico, esse premono sul piano politico portando a maturazione, in un processo di rotture nei rapporti politici e di forza tra i diversi soggetti in campo, le premesse dello sbocco bellico.

L’attuale situazione, in quanto si colloca dentro alle condizioni di crisi generalizzata del capitalismo, a fronte della profonda recessione e dell’avvitarsi sull’utilizzo del riarmo, nella impossibilità di valorizzare i capitali sovraprodotti, ha visto un rapido montare di salti e rotture culminate, come primo momento, nell’annessione della Ddr da parte della Rft, e nella guerra del Golfo Persico. Due eventi solo apparentemente scollegati, ma invece strettamente complementari l’uno all’altro, proprio perché prodotti dalla stessa dinamica, eventi che richiamano subito alle annessioni e invasioni che precedettero e caratterizzarono l’escalation verso lo scatenamento della II guerra mondiale.

Questo perché lo stadio raggiunto dalla crisi economica non può risolversi con il parziale allargamento della sfera di penetrazione dei capitali che avviene attraverso annessioni e aggressioni, perciò queste stesse diventano da un lato fattori di instabilità economica per l’imperialismo e dall’altro i primi fondamentali passaggi politici di rottura e accelerazione di un processo che può evolvere verso un conflitto allargato. Allo stesso modo i massicci interventi di finanziamento alla guerra del Golfo da parte di paesi non immediatamente belligeranti come il Giappone e la Rft (pur essendo quest’ultima parzialmente presente nel conflitto) rimandano, rispondendo alla stessa logica, ai ben noti “prestiti di guerra” americani che finanziarono il II conflitto mondiale, quale sbocco del surplus finanziario che proprio questi paesi presentano al più alto livello.

La situazione innescata dall’imperialismo con l’aggressione all’Irak, per gli equilibri politico-militari che ne risultano, è gravida di sviluppi che oggi più che mai aprono, nelle intenzioni dell’imperialismo, la prospettiva di un nuovo conflitto mondiale, le cui proporzioni non possono che superare, e di gran lunga, i costi che l’imperialismo ha già imposto nella sua storia. Una prospettiva che scaturisce prima ancora che dal potenziale distruttivo delle armi, dalla funzione della guerra imperialista, per la risoluzione delle contraddizioni accumulate e approfondite dalla crisi. In tale quadro, le modalità con cui è avvenuta l’aggressione all’Irak presentano fin da subito sotto molti aspetti i caratteri con cui può darsi questo sviluppo, e cioè: una guerra enormemente distruttiva, che ha coalizzato l’intera catena imperialista e che vede il coinvolgimento mondiale, per un verso o per l’altro, di tutti i paesi. Primo obiettivo è la conquista di una posizione che, sotto l’aspetto politico-militare, è di importanza strategica e che prelude all’escalation nel confronto con l’Est. Un’escalation che non va intesa necessariamente come un processo di allargamento a macchia d’ olio di episodi bellici o come processo lineare nel tempo, soprattutto in quanto si tratta di un confronto che già da tempo si gioca su molteplici piani, che procedono l’uno accanto all’altro interagendo sulla contraddizione Est/Ovest: da un lato il piano oggettivo dato dalla spinta della crisi economica dell’imperialismo e il piano che riguarda i passaggi concreti sul terreno politico e militare dell’alleanza imperialista; dall’altro l’indebolimento che attraversa nel suo insieme i paesi dell’Est, indebolimento da cui l’imperialismo cerca di trarre vantaggio anche attraverso tentativi di destabilizzazione.

Un quadro complesso, nel quale l’aggressione militare imperialista condotta in un’area di confine instabile quale il Medio Oriente costituisce l’aspetto attualmente più rilevante. Su questo insieme di fattori si stanno oggi stabilendo i reali rapporti di forza tra i due campi contrapposti nel senso favorevole all’imperialismo. Ciò non significa rafforzamento del campo imperialista in quanto tale, ma relativamente all’indebolimento del campo avverso.

La coalizione dell’intero campo imperialista nell’occupazione del Medio Oriente è il risultato delle caratteristiche storiche della catena, che fanno sì che nessun paese possa non essere investito e sottrarsi ai fattori strutturali di crisi, pur permanendo ineliminabili contraddizioni e dislivelli e pur essendo gli Usa il paese che allo stato attuale ha il maggior bisogno di sbocco bellico. Uno schieramento attivo che risponde pienamente alle impellenze della frazione dominante di borghesia imperialista e che vede gli Usa stringere nei rapporti politici e militari intorno alle sue scelte tutti i paesi del campo imperialista in quanto scelte di interesse generale. Da qui l’immediato coinvolgimento di tutti i paesi della catena come non si era mai verificato nei precedenti eventi bellici. In questo senso risalta il significato politico della larga partecipazione, a prima vista oltre ogni logica militare, e, quale aspetto più significativo, la effettiva qualificazione dell’intervento delle potenze occidentali come Nato. A dimostrazione del fatto che i rapporti politico-militari istituzionalizzati nella Nato e in generale le relazioni politico-militari della catena hanno mantenuto costantemente nella loro sostanza la funzione per cui dopo la II guerra mondiale furono istituite e nel tempo potenziate; ciò perché un quadro storico, con le contraddizioni che lo caratterizzano, non può mutare linearmente e pacificamente.

La messa in campo della Nato nella sua complessità è un salto che non ha precedenti dalla sua fondazione. L’Alleanza atlantica, organismo politico-militare fondato alla fine della II guerra mondiale per la difesa degli interessi occidentali in funzione antisovietica all’esterno e di stabilizzazione controrivoluzionaria all’interno, ha svolto il suo compito relazionandosi alle necessità delle diverse congiunture internazionali, rafforzando nel contempo le prerogative per cui è stata creata, che si sintetizzano nelle dottrine politico-militari che, da difensive, si sono mutate in offensive, riflettendo fedelmente i fini dell’alleanza nell’organizzazione militare, nelle sue strutture operative e politiche.

Da questo punto di vista l’aggressione all’Irak ha rivestito anche la funzione di sperimentare sul campo il modello di operatività “interforce” e dei sistemi d’arma accumulati col riarmo, la sperimentazione, in sintesi, della conduzione della guerra, le cui modalità sono andate oltre al confronto militare con l’Irak, perché ha consentito da un lato la verifica del grado di coesione politica dei paesi imperialisti all’interno del ruolo loro assegnato nella disposizione gerarchica dell’Alleanza atlantica, che ha confermato l’allineamento sostanziale alla direzione Usa della guerra, dall’altro la verifica relativa della praticabilità o meno di modalità operative definite per un teatro di guerra ben più vasto. Una sperimentazione di queste modalità che, va detto, in gran parte sganciata dal modo concreto con cui è stata effettuata l’aggressione, la quale è proceduta attraverso l’utilizzo dei mezzi di distruzione di massa, ovvero una guerra basata in principal modo sul massacro della popolazione civile.

Nello stesso tempo ogni singolo Stato imperialista ha potuto verificare l’impatto che l’iniziale attivizzazione dello “stato di belligeranza” ha al proprio interno, a partire dai rapporti politici di classe in riferimento all’opposizione proletaria e rivoluzionaria contro la guerra, soprattutto perché la partecipazione alla guerra richiede interventi che, per caratteristiche e profondità, non possono essere considerati transitori.

In questo contesto l’Italia svolge a pieno titolo il ruolo assegnatole nel fianco-sud della Nato, al di là della sordina messa alla sua partecipazione nella guerra di aggressione all’Irak. Un ruolo di massima importanza strategica date le caratteristiche della regione mediorientale-mediterranea e soprattutto perché questa regione è teatro di questo conflitto. Un ruolo fino a ieri teso alla pacificazione-contenimento dei conflitti che si producevano nell’area attraverso un attivismo prevalentemente espresso sul piano politico-diplomatico per riuscire a ricucire e supportare gli strappi operati dalle precedenti forzature guerrafondaie Usa e oggi invece indirizzato al rafforzamento delle posizioni imperialiste da conseguire anche militarmente su tutti i piani di contraddizione che si intrecciano nell’area.

Salto di qualità dato dall’adeguarsi complessivo al nuovo livello di responsabilizzazione imposto da un quadro complessivamente mutato. Un ruolo che implica un farsi carico della funzione controrivoluzionaria perseguita attivamente dall’Italia contro i popoli della regione, e in primo luogo contro le loro forze rivoluzionarie; a questo fine mira il potenziamento dell’unità politico-operativa tra servizi segreti italiani e quelli degli altri Stati imperialisti, approfondendo i livelli di cooperazione e operatività degli stessi. Un aspetto, quello controrivoluzionario, del fianco sud della Nato, che, all’interno del conflitto in atto, non può che riflettersi nell’approfondimento del rapporto che si stabilisce tra imperialismo e antimperialismo, un rapporto su cui si misurano non solo le forze rivoluzionarie dei movimenti di liberazione e le guerriglie comuniste della regione, ma anche la guerriglia che agisce in Europa occidentale, questo per le implicazioni che subentrano nello scontro dalla stessa partecipazione dei paesi europei alla guerra, le quali si riflettono in primo luogo nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Lo scontro di classe, in un contesto che evolve alla guerra, tende a subire un approfondimento inevitabile che rimanda alla dinamica propria della borghesia imperialista, la quale storicamente cerca di garantirsi la “pacificazione interna” per poter fare la guerra. Una costante che in questa fase storica assume una precisa configurazione che si richiama alle più generali caratteristiche assunte dalle forme di dominio della borghesia imperialista. Forma di dominio che in sintesi si esprime nella tipica mediazione politica che lo Stato instaura con la classe subalterna, che comporta l’uso di strumenti e degli organismi della democrazia rappresentativa, i soli legittimati a rappresentare la classe, dal piano capitale/lavoro al piano politico generale, al cui interno deve essere convogliato l’antagonismo di classe; un complesso reticolo che nella sua sostanza racchiude l’essenza della controrivoluzione preventiva, storicamente prodottasi nel rapporto di scontro tra le classi, un affinamento della funzione politica rispetto al governo del conflitto di classe che tutti gli Stati a capitalismo avanzato hanno maturato.

In questa fase che evolve verso la guerra, in particolare per lo Stato si tratta da un lato di potenziare al massimo i meccanismi di controrivoluzione preventiva, dall’altro di assicurarsi condizioni, nei rapporti di forza, che gli consentano il contenimento dello scontro approfondendo ulteriormente la funzione politica, in senso antiproletario e controrivoluzionario di tutte le istituzioni statali.

Le scelte belliciste dello Stato nel nostro paese si riversano nello scontro acutizzandone le contraddizioni e divaricando maggiormente gli interessi di classe. Una dinamica di schieramento che attraversa tutti gli ambiti sociali, determinata proprio dai chiari interessi che sono presenti con la guerra: gli interessi della frazione dominante della borghesia imperialista, che in tal modo cerca di risolvere la sua profonda crisi scaricandone i costi ancora una volta sul proletariato che, oltre a subire un’ulteriore compressione delle condizioni di vita politiche e materiali, ha davanti a sé anche la prospettiva di fare da “carne da cannone” nei progetti di guerra della borghesia imperialista.

Alle iniziative guerrafondaie dell’esecutivo si sono contrapposte le mobilitazioni di tutte le componenti proletarie che hanno espresso subito e nettamente l’indisponibilità a farsi coinvolgere nel massacro perpetrato dall’imperialismo, e che, a livello dell’attività spontanea, hanno manifestato la chiarezza dovuta alla propria posizione di classe sul significato della guerra e sul modo di opporvisi; tant’è che gli scioperi spontanei contro di essa e la richiesta legittima dello sciopero generale, con il forte significato politico che contengono, hanno avuto momenti di organizzazione ovunque, malgrado siano state oggetto di un capillare controllo e contenimento, a partire dalle concrete intimidazioni operate dall’esecutivo e con il contributo effettivo dei sindacati mobilitati con tutto il loro peso politico e organizzativo per assolvere al ruolo ormai collaudato di ammortizzamento delle istanze di classe politicamente più avanzate.

Questo dentro a un clima politico in cui l’esecutivo tende ad imporre alla classe la più profonda “normalizzazione” a partire dalla classe operaia, nel tentativo di ridimensionare ulteriormente il peso politico espresso nel rapporto di scontro, a cominciare dalle espressioni più avanzate rappresentate dalla sua autonomia politica.

Un clima politico che riflette i mutamenti avvenuti nel contesto generale del paese in cui sono maturati, soprattutto negli ultimi anni, i passaggi che evolvono ad una seconda repubblica dentro a equilibri politici e nei rapporti di forza tra le classi a favore della borghesia imperialista, e dentro a modifiche profonde negli assetti del potere statale relativi in primo luogo ad un forte accentramento dei poteri nell’esecutivo, e in particolare nella Presidenza del Consiglio. Poteri ulteriormente accresciuti dalle particolari funzioni di cui è investito l’esecutivo con la partecipazione alla guerra.

Di fatto, con la guerra, si è reso quanto mai evidente il divario tra scontro reale nel paese e suo governo formale nelle sedi politico-istituzionali, nella necessità di svincolare il governo delle contraddizioni che si attua in quelle sedi dal reale portato dello scontro. Nell’ambito parlamentare e istituzionale, in sintesi, si esprime l’unanimismo delle forze politiche alle scelte guerrafondaie dell’esecutivo, un allineamento sostanziale espressione degli interessi della borghesia imperialista, che sta alla base della possibilità di soprassedere senza eccessive scosse sul piano istituzionale e parlamentare alle norme che regolano la partecipazione alla guerra per poi procedere su tutto l’arco delle necessità che riguardano il governo del paese e le urgenti misure programmatiche per far fronte alla crisi economica. Questo terreno è anche l’unico spazio politico possibile su cui sono chiamate a dialettizzarsi le rappresentanze istituzionali della classe e su cui il neonato Pds non ha esitato a relazionarsi, anche in vista di una verifica per la futura collocazione che potrebbe avere nel quadro della “Riforma istituzionale” in gestazione.

L’impossibilità per il proletariato di contare politicamente e di pesare sui rapporti di forza con gli strumenti consentiti dalla democrazia rappresentativa borghese, con questa operazione bellica è ancor più in evidenza, nell’impossibilità di far valere i suoi interessi di classe e, in questi, la sua irriducibile opposizione alla guerra voluta dalla borghesia imperialista e dal suo Stato.

Una condizione di scontro che ripropone tutte intere le ragioni per cui si è affermata la strategia della lotta armata nel nostro paese e in generale la lotta armata nel centro imperialista, riconferma la giustezza della attività svolta sul piano rivoluzionario dalle Brigate Rosse e rilancia con la forza dei fatti la propositività della sua linea politica e degli obiettivi programmatici.

Ciò che lo scontro chiama in causa è in primo luogo l’azione e il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria, l’azione e il ruolo della guerriglia nel nostro paese, come del resto negli Stati imperialisti, proprio a partire dalla forza di rottura data dalla sua impostazione offensiva verso il sistema di potere della borghesia imperialista.

L’esperienza accumulata dalla guerriglia, nello specifico europeo, ha in sé tutte le possibilità di confrontarsi con il piano controrivoluzionario che lo Stato e l’imperialismo nel suo insieme rovesciano nello scontro, perché la guerriglia ha fatto proprie, dentro alla prassi messa in campo, le leggi fondamentali dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata, nonché le modalità politiche e militari basilari entro cui si sviluppa. Ciò che la realtà storica pone in evidenza è che nei centri imperialisti lo sviluppo della guerra di classe, e in essa dell’esercito proletario in formazione, diretto dalla sua avanguardia politico-militare, rappresenta storicamente per il campo proletario il livello più avanzato della scienza rivoluzionaria di trasformazione della società in senso socialista, ovvero un avanzamento del marxismo-leninismo sul terreno rivoluzionario. Per questo la sua potenzialità di rottura è un fattore di dimensioni storiche che dà alla guerriglia un ruolo di assoluta preminenza in senso strategico nel confronto con lo Stato e l’imperialismo.

Soprattutto dalla fine del secondo conflitto mondiale, nello specifico del centro imperialista, il processo rivoluzionario si dà come costruzione della guerra di classe necessariamente di lunga durata. La guerriglia, avanguardia e motore di questo processo, si è posta alla testa dello scontro di classe rompendo con l’inadeguatezza dell’impostazione terzinternazionalista, incapace di conseguire la conquista del potere politico nei paesi a capitalismo maturo. E questo per i mutamenti avvenuti sul piano storico-politico ed economico-sociale con lo sviluppo dell’imperialismo, mutamenti entro cui si è definito l’affinamento delle forme di dominio della borghesia imperialista; un affinamento che contiene la controrivoluzione preventiva quale politica costante verso le istanze antagoniste del proletariato. Ciò non consente di accumulare forza politica nel tempo da riversare sul piano militare nel momento finale dello scontro, anche per il venir meno della cosiddetta “situazione eccezionale“. Per questo la guerriglia si esprime nell’unità del politico e del militare come il dato nuovo e più avanzato della guerra di classe nelle metropoli imperialiste. Un principio che unifica nell’azione della guerriglia il piano politico dello scontro con il piano della guerra, un piano quest’ultimo che pure vive nello scontro di classe, ma che deve essere affrontato contemporaneamente all’aspetto politico che resta comunque dominante.

Uno scontro i cui caratteri eminentemente politici derivano dalle modalità di governo del conflitto di classe sviluppato dalla borghesia imperialista dentro al tipo di mediazione politica tra le classi propria delle democrazie rappresentative contemporanee. Queste peculiarità si riflettono dentro alle leggi generali dello scontro rivoluzione/controrivoluzione caratterizzando la guerra di classe come una guerra senza fronti che vive nel cuore stesso del nemico di classe e nella impossibilità di usufruire di basi rosse liberate. Uno scontro che, per i caratteri politici detti, vive un andamento fortemente discontinuo, caratteri che pure influiscono sulla condizione immanente dell’accerchiamento strategico. L’accerchiamento strategico è determinato dal fatto che il potere è nelle mani del nemico completamente fino al suo rovesciamento; i rapporti di forza, intesi in termini generali, sono dunque sempre favorevoli al nemico di classe; la rottura nei rapporti di forza a favore del campo proletario che l’avanguardia rivoluzionaria opera è quindi sempre relativa. Contemporaneamente vige il principio che la guerra di classe è strategicamente vincente, infatti la borghesia vi interviene per mantenere il potere, ma non può “distruggere” il proletariato, chiave di volta del modo di produzione capitalistico, in quanto creatore di plusvalore. Il proletariato rivoluzionario al contrario combatte per il potere, e in questo processo vive e si sviluppa come classe rivoluzionaria.

Dentro a questi dati generali sui quali si è affermata la lotta armata in Europa, vive l’apporto qualitativo delle BR, acquisito in venti anni di prassi rivoluzionaria, con la maturazione del patrimonio teorico, politico e organizzativo che costituisce fondamento dello sviluppo rivoluzionario nel nostro paese.

Le BR si qualificano fin dalla loro nascita per la proposta della strategia della lotta armata fatta a tutta la classe, un’impostazione strategica su cui si organizzano e si dispongono fin da subito le avanguardie più coscienti sul terreno della lotta armata, calibrandone la disposizione alla fase di scontro e ai rapporti di forza generali, e su cui è indirizzato dall’inizio alla fine lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata. Una strategia che è tale in riferimento alle specificità dello scontro di classe determinatosi storicamente in Italia per le caratteristiche qualitative dell’autonomia di classe sostanzialmente antistituzionale, antistatuale e antirevisionista. Il proletariato metropolitano a dominanza operaia è perciò la base sociale di riferimento della lotta armata, la base sociale da cui sono nate le BR e in cui costantemente si riproducono, la base sociale di cui rappresentano gli interessi generali di contro al potere della borghesia imperialista sul terreno rivoluzionario; per questo uno dei principi fondamentali della nostra organizzazione è quello di sviluppare la lotta armata a partire dai poli industriali del nostro paese.

Le BR hanno potuto verificare le importantissime implicazioni che vivono operando nell’unità del politico e del militare che agendo come una matrice condiziona tutto il modo in cui si sviluppa la guerra di classe: dai meccanismi che consentono a una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi rivoluzionaria, al processo rivoluzionario nel suo complesso. In altre parole, per le BR nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare e agire militarmente e dare il primo posto alla politica, esse svolgono la loro iniziativa rivoluzionaria secondo una linea di massa politico-militare. All’interno di questo principio condizionante, la questione del partito nella guerra di classe non è risolvibile con un atto di fondazione, ma si dà come processo di costruzione-fabbricazione in relazione alla costruzione delle condizioni politico-militari della guerra di classe. Nella sua più precisa definizione e progettualità si maturano le condizioni per il salto al partito, per il salto da organizzatori di ristrette avanguardie alla direzione di interi settori di classe organizzati nella guerra di classe. Le BR in questo processo si pongono come nucleo fondante il partito operando la funzione di avanguardia, “agendo da partito per costruire il partito”, per questo le BR rappresentano fin dalla loro nascita l’organizzazione del reparto più avanzato della classe operaia, nucleo strategico di direzione dell’esercito proletario in formazione nella prospettiva di sviluppo della guerra di classe di lunga durata. In questo senso le BR sono una formazione di guerriglia modellata sul principio di funzionamento di un esercito rivoluzionario il cui modello politico e organizzativo si fonda sui principi della clandestinità e compartimentazione, principi che consentono di esplicitare il carattere offensivo della guerriglia. Un’organizzazione di quadri politico-militari strutturata in istanze superiori e inferiori regolate dal centralismo democratico.

La pratica combattente della guerriglia urbana, con la sua impostazione offensiva, ha permesso e permette alle BR di incidere nello scontro, individuando con chiarezza il nodo politico centrale che oppone la classe proletaria allo Stato nelle politiche dominanti della congiuntura; ovvero il fatto di colpire con precisione il cuore dello Stato ha permesso e permette alle BR di spostare volta per volta sia pure in termini relativi i rapporti di forza a favore della classe, trasformando il momentaneo vantaggio raggiunto in organizzazione di classe sul terreno della lotta armata. Questa dialettica che dall’attacco, attraverso la costruzione di nuove forze e la loro disposizione sul terreno rivoluzionario, permette di ritornare all’attacco sempre al più alto livello qualitativo, calibrato alle condizioni dello scontro, è la direttrice nella quale si sviluppa la guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico.

Nello sviluppo dell’attività rivoluzionaria dentro ai nodi centrali di scontro tra classe e Stato che si sono succeduti nel nostro paese, le BR hanno costituito e costituiscono l’alternativa rivoluzionaria in grado di contrapporsi al dominio della borghesia imperialista e del suo Stato, di concretizzare nell’azione offensiva della guerriglia la sola possibilità di far inceppare e arretrare i progetti centrali dello Stato, in particolar modo quelli tesi al suo rafforzamento, un processo di scontro che ha innescato necessariamente la risposta controrivoluzionaria dello Stato al radicamento della prospettiva rivoluzionaria. Molto concretamente è questa la dinamica complessiva in cui è inserito l’attacco al progetto demitiano di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato. Un’iniziativa politico-militare che, intervenendo al punto più alto dello scontro tra le classi, ha contribuito a far arretrare sostanzialmente il progetto più organico della borghesia imperialista per affrontare i gravi problemi posti dall’approfondimento capitalistico e dall’acutizzazione della sua crisi e nel contempo per fornirsi degli strumenti di governo adeguati a svincolarsi dal conflitto di classe e dal suo portato rivoluzionario. Un attacco che ha dimostrato ancora una volta come la disarticolazione del progetto dominante che oppone classe e Stato nella congiuntura, a partire dall’indebolimento relativo che si determina per il nemico di classe, consente di acquisire i termini più favorevoli sul terreno della costruzione-organizzazione. La portata offensiva dell’attacco portato dalle BR è il punto più alto dell’attività rivoluzionaria complessiva che esprime la qualità del riadeguamento intrapreso dalle BR dall’apertura della Ritirata strategica, nel contesto di un forte scontro caratterizzato dal relativo ripiegamento del campo proletario, dall’approfondimento dei termini controrivoluzionari dello Stato, mentre per parte rivoluzionaria vive la fase di Ricostruzione, che è nello stesso tempo un obiettivo programmatico a livello dell’organizzazione di classe sulla lotta armata. Un’attività complessiva che si relaziona alla condotta della guerra informata dalla fase generale di Ritirata strategica, ovvero una condotta tesa “a un ripiegamento delle forze mantenendo e rilanciando nel contempo la capacità offensiva della guerriglia”.

Fase di Ricostruzione che si presenta problematica e difficile nel contesto controrivoluzionario che si è imposto nel paese e si svolge dentro a un movimento avanzate-ritirate. Per questo l’agire rivoluzionario deve operare sul duplice piano di lavoro costruzione-formazione, teso a ricostruire nel tessuto di classe i livelli di organizzazione politico-militare delle forze rivoluzionarie e proletarie in modo da attrezzarle, strutturarle e disporle adeguatamente nello scontro contro lo Stato, e teso alla formazione dei rivoluzionari stessi perché acquisiscano la dimensione dello scontro rivoluzionario oggi a partire dalla ricca esperienza accumulata dalle BR in questi venti anni. La fase di Ricostruzione è quindi un termine prioritario per il mutamento dei rapporti di forza tra campo proletario e Stato, costituendo altresì un elemento fondamentale di avanzamento della guerra di classe di lunga durata.

In unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato per le BR è prioritario condurre l’attacco all’imperialismo, un piano di combattimento questo da sempre patrimonio storico della nostra organizzazione. Infatti il processo rivoluzionario condotto in Italia dalle BR è sin da subito caratterizzato come processo rivoluzionario internazionalista e antimperialista; le BR conducono il processo di guerra di classe di lunga durata facendo vivere nella dialettica tra guerriglia e autonomia di classe i contenuti dell’internazionalismo e dell’antimperialismo per tutto il corso del processo rivoluzionario, consapevolmente fin dall’inizio. Un’impostazione che poggia sulle stesse ragioni oggettive e soggettive per cui si è sviluppata la guerriglia e che ha comportato l’attualizzazione dell’internazionalismo proletario alle concrete condizioni storiche. Un’impostazione che, attraverso la pratica politico-militare, ha raggiunto un nuovo livello di qualità nella promozione e nel contributo al rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista, come il passaggio politico più avanzato per collocare l’antimperialismo al livello dello scontro imperialismo/antimperialismo in questa condizione storica. In altre parole la necessità di praticare una politica di Fronte si misura con i livelli di integrazione economica, politica e militare maturati storicamente dalla catena, che rendono necessario l’indebolimento e la destabilizzazione dell’imperialismo affinché sia possibile la rottura rivoluzionaria in un singolo paese. Una condizione che nella nostra area geopolitica è resa più complessa dalle politiche imperialiste che si riversano, seppure in modo diverso, sia contro le condizioni del proletariato metropolitano e l’attività della sua avanguardia rivoluzionaria, la guerriglia, sia contro i popoli della regione che combattono per 1’autodeterminazione. Un contesto che fa dell’imperialismo il nemico comune tracciando l’unità oggettiva tra questi due differenti piani di scontro rivoluzionario. Da qui la necessità di unificare soggettivamente nell’attacco all’imperialismo, alle sue politiche centrali, non solo la guerriglia che opera nel cuore dell’Europa occidentale, ma anche le forze rivoluzionarie di liberazione nazionale che operano nell’area, a maggior ragione tenendo conto dei processi di coesione politica dell’Europa occidentale interni al rafforzamento della catena e al materializzarsi della tendenza alla guerra proprio in quest’area, nonché dell’attività controrivoluzionaria dell’imperialismo.

Fattori che pongono il Fronte come l’organismo politico-militare adeguato per impattare l’attività imperialista nell’area così da provocarne il relativo indebolimento. Attività di Fronte che per le BR si concretizza in una politica di alleanze tra le forze rivoluzionarie presenti nell’area geopolitica per raggiungere l’unità di attacco contro il nemico comune in riferimento alle politiche di coesione sul piano economico-politico-militare-controrivoluzionario dell’Europa occidentale e del suo intervento sul piano politico-diplomatico-militare inserito nelle più generali iniziative dell’imperialismo per “normalizzare” la regione mediorientale-mediterranea.

Criteri di alleanza che non devono essere condizionati dalle differenze che caratterizzano ogni forza rivoluzionaria e che non significano fusione in una unica organizzazione né fanno dell’attività di Fronte la sola attività praticata, ma sulla base dell’attacco al nemico comune si costruiscono di volta in volta i diversi momenti di unità e i livelli di cooperazione raggiungibili. Un’unità possibile e necessaria pur tenendo conto del diverso portato dei processi rivoluzionari che si sviluppano nel centro imperialista dai processi di liberazione nazionale della periferia; differenze oggettive che possono condurre a un arricchimento qualitativo nella politica di alleanza e di conseguenza nella incisività dell’attacco all’imperialismo.

L’analisi delle BR sugli specifici caratteri dell’area geopolitica europea-mediorientale-mediterranea consente di comprendere appieno la portata dei processi di guerra innescati dall’imperialismo nel Golfo Persico e di collocare altresì la portata politica dell’antimperialismo che da questo contesto si sviluppa. Le azioni delle forze rivoluzionarie nella regione, la vasta mobilitazione delle masse arabe, le iniziative di combattimento della guerriglia nel centro imperialista e le mobilitazioni spontanee dell’autonomia di classe hanno affermato l’unità di intenti che esiste tra proletariato del centro e popoli della periferia contro la crisi del’imperialismo e i suoi risvolti guerrafondai.

Nel quadro dell’attività antimperialista rivendichiamo il contributo fattivo alla promozione e costruzione del Fronte Combattente Antimperialista da parte delle BR con le azioni Dozier, Hunt, Conti e l’approdo al testo comune RAF-BR dell’88 concretizzatosi con l’azione Tietmeyer. Una prassi antimperialista che segna un percorso pratico in dialettica con le altre forze rivoluzionarie nella proposta-contributo del Fronte Combattente Antimperialista. Sosteniamo infine le iniziative politico militari della RAF, fino alle più recenti contro l’ambasciata Usa a Bonn e contro Rohwedder.

Il lungo percorso pratico di assunzione soggettiva della convergenza di interessi della lotta contro l’imperialismo, e dunque della costruzione e consolidamento del Fronte, non è un processo lineare, ma ha i suoi passaggi di qualità, poiché si è svolto e si svolge nel confronto continuo con la controrivoluzione, e con lo sviluppo delle lotte rivoluzionarie nel fuoco concreto della storia.

Dentro ai principali assi programmatici dell’attacco allo Stato e all’imperialismo la nostra Organizzazione, nella dialettica con le istanze più mature dell’autonomia politica di classe, ha costruito e costruisce i termini dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata. Obiettivi programmatici e impostazione strategica su cui molto concretamente ruota l’unità dei comunisti e su cui si dà avanzamento alla costruzione del partito comunista combattente.

Il portato e la dimensione dell’attività delle BR risalta chiaramente non solo per il fallimento dei progetti politici più antiproletari e controrivoluzionari dello Stato e nel contributo dato alla tenuta e riorganizzazione del campo proletario anche di fronte agli attacchi più duri portati dalla borghesia e dal padronato, ma risalta in quei significativi passaggi politici che le BR hanno effettuato nel riadeguamento dell’attività di direzione-organizzazione nel combattimento contro lo Stato, avvenuto nel vivo dello scontro, nelle difficili condizioni degli anni ottanta. Passaggi politici tali da dare oggi una maggiore maturità alla stessa proposta rivoluzionaria, alle modalità di sviluppo, organizzazione e movimento della guerra di classe di lunga durata in un paese del centro imperialista. Ed è proprio questo dato politico qualitativo, il rapporto tra l’attività di avanguardia delle BR e il contesto dello scontro di classe in Italia, che ha contribuito a determinare uno spessore politico a questo stesso scontro non facilmente riconducibile agli obiettivi di “pacificazione” pianificati dalla borghesia imperialista e perseguiti con rinnovata impellenza soprattutto in questa fase di scontro. In altre parole, seppure lo scontro rivoluzionario procede tra avanzate e ritirate dentro al suo andamento discontinuo, la stessa esperienza delle BR ha verificato come gli avanzamenti che di volta in volta si producono e le conoscenze acquisite sulla conduzione stessa della guerra di classe determinano un peso politico che permane nei caratteri dello scontro rivoluzionario, da cui non è possibile prescindere. All’interno di questa dinamica anche il prevedibile approfondimento del piano controrivoluzionario nello scontro per parte dello Stato e dell’imperialismo, soprattutto come portato dell’accelerazione della tendenza alla guerra, non cade su una condizione di classe priva di strumenti per contrapporvisi e misurarsi adeguatamente, a partire proprio dall’esistenza della guerriglia e della sua valenza strategica.

Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente e militanti rivoluzionari prigionieri non riconosciamo alcuna legittimità a questo tribunale e allo Stato che rappresenta. Dei nostri atti politici rispondiamo solo alla nostra organizzazione, e con essa al proletariato di cui è l’avanguardia rivoluzionaria. Ribadiamo che il processo qui celebrato non è che un momento del rapporto tra guerriglia e Stato. Lo scontro nella sua complessità politica e rivoluzionaria si gioca fuori da queste aule; per questo per noi e meglio di noi parla la guerriglia in attività.

– Attaccare e disarticolare i progetti controrivoluzionari e antiproletari di rifunzionalizzazione dello Stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare i progetti imperialisti della coesione politica europea e di “normalizzazione” della regione mediorientale.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area.
– Trasformare la guerra imperialista in guerra di classe rivoluzionaria.
– Onore ai compagni e combattenti antimperialisti caduti.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

 

Bologna, aprile 1991

 

Sesta Corte Penale, Napoli – Documento di Anna Cotone del Collettivo Comunisti Prigionieri “Wotta Sitta” allegato agli atti del processo-stralcio del Moro Ter

Lo scontro rivoluzionario e di classe è stato investito da una nuova dimensione ovunque a partire dalla guerra del Golfo. Per gli USA è stato il primo passo per l’imposizione del loro nuovo ordine mondiale per l’epoca del post-guerra fredda. La guerra è stata locale, ma la posta in gioco era ed è mondiale.

Quella che si sta aprendo è una nuova epoca di mutamenti profondi degli equilibri di potere e delle relazioni internazionali, e conseguentemente di guerra e di guerre che mettono in discussione tutti gli assetti precedenti del sistema imperialista.

Questo sistema, così come si era dato a partire dalla divisione internazionale di Yalta, è divenuto del tutto incapace di reggere gli effetti della crisi del capitale internazionale e lo sviluppo delle contraddizioni da essa generate.

La costituzione di un blocco europeo come risposta alla crisi internazionale del capitale e del sistema ha subíto una concreta accelerazione dentro il processo di coesione internazionale imposto dalla guerra, ma questa spinta determinata dalla escalation militare USA-imperialista ha messo a nudo ancora di più la disgregazione del sistema per la borghesia imperialista.

Tutto ciò significa che la guerra da parte degli Stati imperialisti rideterminerà ulteriormente questa nuova fase storica in cui l’imperialismo ha la necessità di rafforzare il suo potere sul piano economico, politico, militare.

La guerra del Golfo come risposta globale della borghesia alla crisi del vecchio ordine, ha acuito e approfondito gli effetti delle contraddizioni principali generati dalla crisi stessa in tutto il mondo.

Nell’area mediorientale si è evidenziata una volta di più la linea di demarcazione antimperialista e si è polarizzata ulteriormente la contraddizione tra proletariato e borghesia.

In tutto il Medio Oriente si è addensato un processo di lotta e di liberazione. Non c’è stato solo l’attacco contro il popolo iracheno. C’è la lotta del popolo palestinese che combatte contro il sionismo. C’è il popolo kurdo che lotta per la sua indipendenza. C’è il proletariato turco che combatte contro la borghesia fascista. C’è l’intero popolo arabo che resiste alla egemonia degli USA e ai diktat del Fondo Monetario Internazionale.

Nell’insieme queste lotte costituiscono la lotta del proletariato arabo contro l’imperialismo e contro i regimi che stanno collaborando alla pacificazione forzata nell’area. La guerra ha posto quest’intero processo di lotta direttamente contro la borghesia imperialista a livello internazionale.

C’è un filo rosso che lega questa tappa della guerra imperialista alla linea controrivoluzionaria di gestione della crisi USA-imperialista da oltre un ventennio, il cui inizio coincise, non a caso, con la sconfitta americana in Vietnam. Da allora, le linee imperialiste di gestione della crisi hanno per oggetto la tenuta della globalità del sistema guidato dagli USA. E in questo momento è più che mai necessario ricordare che la crisi di egemonia USA caratterizza storicamente questa fase di scontro che attraversiamo, nel senso che la disgregazione di questo sistema imperialista è l’orizzonte storico delle forze rivoluzionarie di questa epoca.

L’unità delle forze rivoluzionarie nel fronte rivoluzionario antimperialista e l’organizzazione della lotta di classe internazionale sono la forza politica e sociale in grado di produrre una spinta al processo di emancipazione e rivoluzione sociale in questa epoca di mutamenti.

Una cosa deve essere chiara: la situazione attuale caratterizzata da profondi cambiamenti apre oggettivamente uno spazio ulteriore all’iniziativa rivoluzionaria, ma non ci può essere avanzamento per il proletariato internazionale se non si costruisce un punto di forza in grado di spezzare i rapporti di potere, di nuovo, in qualche punto.

Oggi sta nascendo un “nuovo” movimento contro la guerra, che è di proporzioni mondiali e con un preciso segno di classe antimperialista. L’internazionalismo proletario può diventare “nuovo” proprio riappropriandosi del significato originario datogli da Marx e dai comunisti della Prima Internazionale: proletari di tutto il mondo uniti contro il capitalismo e la sua barbarie per conquistare una dimensione di vita pienamente umana.

Questo significato originario è stato progressivamente stravolto dal revisionismo che “di fronte all’immaturità delle contraddizioni oggettive” ha subordinato meccanicamente a queste la prospettiva rivoluzionaria. Ha portato la priorità dello sviluppo capitalistico nelle aree non industriali (del sud America come del sud Europa) e la mentalità corporativa e sciovinista nelle aree più sviluppate; ha diviso strutturalmente gli sfruttati e ha negato la possibilità del comunismo. E gli eredi di questa politica infame nel centro imperialista – socialdemocratici e riformisti vecchi e nuovi – hanno riproposto ora, nelle nuove condizioni, il loro ruolo per dividere la classe dal movimento rivoluzionario e isolare l’antagonismo proletario, e impedire lo sviluppo della coscienza antimperialista.

Oggi la lotta antimperialista contro il genocidio dei popoli e la “nuova colonializzazione” del Medio Oriente e del sud del mondo deve diventare parte integrante della lotta di tutti i proletari in Italia, come in Spagna, in Germania, in Grecia, in Turchia e in tutto il resto d’Europa. Deve diventare una conquista della coscienza proletaria così come lo è diventata l’autonomia di classe e l’organizzazione autodeterminata delle lotte.

L’unità delle lotte del proletariato delle metropoli del “centro” con quelle del Tricontinente del sud può costituire la base di classe su cui costruire la forza per accelerare l’agonia del sistema imperialista.

L’attacco della RAF al futuro governatore di Bonn a Berlino Est, Rohwedder, è un coltello nel fianco della strategia di unificazione imperialista, che ha nel progetto pantedesco il perno del processo di rafforzamento del suo potere nella divisione internazionale imperialista.

L’annessione della ex DDR ratificata nell’ottobre ’90 non ha fatto altro che mettere sotto gli occhi di centinaia di migliaia di proletari e operai la natura bestiale degli interessi capitalistici, e ha mostrato la profondità delle contraddizioni del sistema che stanno alla base della spinta all’integrazione europea.

In questa fase la gestione imperialista della crisi del sistema sta oggettivamente bruciando via via molte illusioni e false concezioni, e il carattere disumanizzante e oppressivo dell’imperialismo viene fuori senza demagogie, nemico diretto nelle lotte di tutti i proletari. La “nuova” penetrazione capitalista è palesemente senza consenso tanto nei territori dove si è imposta con l’occupazione militare, tanto laddove si è “offerta” attraverso la sua politica di pressione.

L’attacco della RAF è un passo nella direzione dell’unificazione delle lotte e dell’antagonismo proletario dentro la politica della guerriglia, per bloccare le vie d’uscita dalla crisi, «contro i progetti reazionari pantedeschi ed europeo-occidentali di sottomissione e di sfruttamento degli uomini qui e nel Tricontinente».

Lottare insieme.
Uniti si vince.
Onore a tutti i combattenti caduti contro l’imperialismo.
Onore al compagno Jesús Rojas Antonio Cardenal.

Anna Cotone del Collettivo Comunisti Prigionieri “Wotta Sitta!”

 

Napoli, 18 aprile 1991

 

 

Guerra alla guerra imperialista. Seconda Corte di Assise di Roma – Dichiarazione dei militanti BR-PCC Giuseppe Armante, Antonio De Luca, Franco La Maestra allegata agli atti del processo del 7-1-91

La nostra presenza in quest’aula, come prigionieri militanti delle BR-PCC è tesa a ribadire la necessità-possibilità della lotta armata, come unica strategia possibile per la conquista del potere da parte del proletariato, a fronte di condizioni storico politiche maturate dallo sviluppo dell’imperialismo in questa fase storica. Ribadiamo altresì la validità del percorso di riadeguamento intrapreso dalle BR-PCC a partire dalle difficili condizioni di arretramento della classe proletaria in seguito alla controffensiva dello Stato degli anni ’80. Un percorso tutto interno a queste condizioni, dove le BR, attraverso un processo di riadeguamento dell’attività di direzione politico militare dello scontro di classe, non solo hanno mantenuta aperta l’alternativa rivoluzionaria, ma si sono concretamente misurate con i nodi politici che via via maturavano nel rapporto di scontro tra proletariato e borghesia. Un piano di iniziativa rivoluzionaria che ha permesso di sviluppare per linee interne alla classe il necessario lavoro di costruzione dell’organizzazione proletaria sul terreno della lotta armata per il comunismo dando così sviluppo alla guerra rivoluzionaria di classe di lunga durata. Un percorso di riadeguamento che si è sviluppato sull’asse strategico dell’attacco al cuore dello Stato e sulla necessità-possibilità di sviluppare una politica di alleanze tra forze rivoluzionarie nell’area geopolitica Europa occidentale-Mediterraneo-Medio Oriente attraverso la costruzione del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire l’imperialismo attaccando le politiche centrali che lo sostengono e lo attraversano. Una politica di alleanze antimperialiste che conferma una necessità improcrastinabile per i comunisti di trasformazione rivoluzionaria dell’intero sistema imperialista e che aderisce ad un’impietosa analisi storica che definisce la storia dell’imperialismo come storia di barbarie e massacro dei popoli. Il mantenimento dell’egemonia imperialista sul mondo a fronte della sua profonda crisi economica, e la necessità di stabilire un nuovo ordine economico-politico a suo favore è la ragione che lo spinge di nuovo ad una guerra. Questa è la sostanza dell’aggressione al popolo arabo, altroché la violazione del “diritto internazionale”, altroché operazioni di “polizia internazionale” sotto l’egida dell’ONU tese a ristabilire presunte sovranità nazionali defraudate, ma una sequenza di massacri pianificati di devastazioni catastrofiche che ricadono come una nemesi sulle masse arabe e sul proletariato del centro imperialista. Un intervento imperialista costretto a misurarsi con la vasta resistenza del popolo arabo, con un forte sentimento antimperialista maturato in anni e anni di sfruttamento, di povertà e di pesanti costi imposti dagli interessi capitalistici, come portato del rapporto di subalternità e dipendenza economico politica di questi paesi all’imperialismo. Sono gli stessi scenari di guerra scatenati dalla borghesia imperialista a risottolineare non solo la necessità ma lo spessore strategico e l’importanza dell’attività del Fronte Combattente Antimperialista. Il contributo dato dalle BR sul terreno dell’antimperialismo si è reso tangibile nelle azioni Dozier, Hunt e Conti, contro l’attivismo imperialista dell’Italia e contro le politiche di riarmo. In conclusione intendiamo affermare che le continue provocazioni che da sempre lo Stato ha partorito attraverso l’intensa attività di controguerriglia allo scopo di ridimensionare lo spessore politico della guerriglia, delle BR, non sono certamente una novità, sono grotteschi tentativi di mistificare il portato e la valenza politica della proposta strategica della lotta armata alla classe e tentare velleitariamente di relegare l’iniziativa rivoluzionaria nella sfera pre-politica della marginalità criminale. Consci del fatto che il riconoscimento politico le BR se lo sono conquistato in vent’anni di attività politico-militare, rigettiamo le vostre squallide provocazioni. Non riconosciamo a questo tribunale nessuna legittimità di giudizio in quanto esso è l’espressione e il garante del potere della borghesia. Per questo non intendiamo presenziare all’apologia di questa farsa che ormai volge al fine. Il processo rivoluzionario non si processa né tanto meno si arresta, i suoi esiti si decidono fuori di quest’aula.

Guerra alla guerra imperialista
Onore ai comunisti e ai combattenti antimperialisti caduti
Onore alla combattente Faddwa Hassan caduta nel Sud del Libano in un attacco contro i sionisti

I militanti BR- PCC Giuseppe Armante, Antonio De Luca, Franco La Maestra

 

Corte d’Appello di Parigi, Prima Camera d’Accusa: Dichiarazione dei militanti delle Br-Pcc Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti e dei militanti rivoluzionari Nicola Bortone e Gino Giunti

Come militanti delle BR-PCC e militanti rivoluzionari prigionieri, esprimiamo la nostra piena adesione all’iniziativa combattente portata dalla Rote Armee Fraktion contro Detlev Rohwedder dirigente responsabile della Treuhandanstalt. Questa gigantesca istituzione economico-politica svolge un ruolo di primo piano nell’operazione di penetrazione del capitale finanziario occidentale nell’Est della Germania, di “colonizzazione” e svendita della sua capacità produttiva, di “ristrutturazione” del suo tessuto economico-industriale secondo le leggi e le regole dell’imperialismo. E se da una parte ciò si traduce in un attacco su tutti i piani, economico e politico, alla classe operaia e al proletariato di questa “Germania di seconda categoria”, dall’altra parte l’indirizzo espressamente dato alle scorribande speculative e altamente profittevoli dei capitali occidentali accelera la formazione e il rafforzamento delle aggregazioni monopolistiche (tedesche ed intereuropee) e spinge in avanti il processo di coesione/formazione economica e politica dell’Europa Occidentale, rafforzando in essa il ruolo della Germania, punta di lancia del dinamismo europeo in questa fase.

L’attuale fase economica di crisi/recessione sempre più acuta, l’accumularsi delle contraddizioni che è venuto maturando in questi anni di “reaganomics”, di economia drogata, di effimero boom dei profitti e reale deindustrializzazione, rende sempre più necessario e urgente stringere i paesi della catena ad un maggior compattamento e responsabilizzazione, sia sul piano economico che politico e militare, nell’obiettivo strategico di rafforzare l’imperialismo e puntare alla ridefinizione degli equilibri sanciti nel dopoguerra tra Est e Ovest.

Su questo processo complesso e contraddittorio la “grande” Germania svolge un ruolo preminente, forzando e pilotando nelle tappe successive dell’integrazione europea. Il maggior peso economico e politico, acquisito a partire dalla “riunificazione” e nel procedere delle operazioni di assorbimento/saccheggio della ex-RDT, le consente di gravare ulteriormente sui termini concreti dell’avanzamento della coesione/formazione dell’Europa Occidentale; di svolgere con più forza un ruolo d’indirizzo politico in funzione degli interessi e necessità del grande capitale finanziario e industriale; di spingere verso un livello più alto di coordinamento e armonizzazione delle politiche economiche tutti i paesi del blocco imperialista; di dirigere i flussi finanziari e controllare le fusioni tre i grandi monopoli europei così come l’andamento dei mercati; di pilotare gli investimenti destinati ai paesi dell’Est, URSS in testa, con tutto quello che ciò comporta in termini di pressioni politiche; di ricucire in ultima istanza verso l’interesse generale della catena gli strappi provocati dalle forti spinte contraddittorie della sempre più feroce concorrenza intermonopolistica. Una complessità di interventi che si traducono, tra l’altro, in una maggior centralità tedesca (rispetto ai suoi partner europei) nell’operare sull’asse degli equilibri Est/Ovest. Infatti se le dinamiche che coinvolgono la ex-RDT si affermano a fronte di un quadro di instabilità e modificazione dei rapporti di forza sulla direttrice Est/Ovest, di cui sono un’espressione concreta, al tempo stesso premono sugli equilibri esistenti forzando sul piano economico e politico.

Lo schieramento degli interessi imperialisti che si afferma via via dal collimare dei reciproci interessi chiarisce come il ruolo dell’Europa Occidentale, e in essa della Germania, non si colloca in antagonismo con le finalità degli Stati Uniti ma al contrario entrambe concorrono ad avvicinare lo stesso obiettivo: la rottura del vecchio assetto post-bellico per la sua ridefinizione mondiale.

Un processo che avanza nel quadro della tendenza alla guerra. Al di là delle campagne demagogiche di “disarmo e distensione”, sono i reali processi di riarmo e aggressione che segnano le tappe del procedere della tendenza alla guerra, di cui un passaggio essenziale è stato segnato con l’attacco imperialista contro l’Irak. Questa guerra di aggressione, e la conseguente presenza militare massiccia e diretta dell’imperialismo, ha determinato la rottura dei precedenti equilibri politici nell’area, ratificando e imponendo rapporti di forza più favorevoli al blocco occidentale nell’ambito della contraddizione Est/Ovest, rapporti di forza mutati che hanno informato di riflesso il piano di contraddizione Nord/Sud: in questo l’Europa Occidentale è coinvolta per assumere in pieno il ruolo attivo che le è proprio in un’area geopolitica che è sua naturale zona d’influenza.

Al tempo stesso questa guerra ha affermato a un livello superiore l’interesse generale della catena assestando una maggiore coesione/compattamento dell’insieme del sistema integrato e gerarchico a dominanza USA a fronte delle attuali necessità dettate dallo sviluppo/crisi dell’imperialismo. È dunque chiaro come anche questo livello d’intervento nell’area incida sulla contraddizione proletariato/borghesia sul piano internazionale. Ma la “pax” forcaiola auspicata dall’imperialismo è ben lungi dall’esser realizzata, e l’occidente ha messo a nudo agli occhi dei rivoluzionari e degli sfruttati di tutto il mondo la sua debolezza strategica, la sua natura di “tigre di carta”.

Infatti la determinazione rivoluzionaria del popolo palestinese, la resistenza e l’antagonismo opposte dal popolo arabo in generale, la vitalità e l’incisività espresse dalla guerriglia, in Medio Oriente come nel centro imperialista, dimostrano nei fatti che è possibile resistere, è possibile combattere, è possibile vincere. Ma non solo. Dimostrano anche che esiste un alto livello reale di unità oggettiva tra i diversi processi rivoluzionari del centro e della periferia. In questo la necessità e la possibilità di lavorare per costruire e rafforzare il Fronte Combattente Antimperialista si afferma in tutta la sua concretezza.

L’obiettivo di attaccare l’imperialismo nelle sue politiche centrali per indebolirlo e ridimensionarlo nell’area geopolitica Europa-Mediterraneo-Medio Oriente trova, in questa politica di alleanze, il suo livello più alto di realizzazione superando una concezione solidaristica dell’antimperialismo e ridefinendo in termini attuali la teoria/prassi leninista dell’internazionalismo proletario. Costruire la forza politica e pratica per portare attacchi coscienti e mirati al potere imperialista è un percorso concreto che ha visto e vede la nostra Organizzazione attivamente impegnata a stringere, attraverso passaggi successivi concreti, l’unità realizzabile nell’attacco pratico con tutte le forze rivoluzionarie che nell’area combattono l’imperialismo. A partire dalla consapevolezza che le differenze storiche, di sviluppo e di impianto politico delle singole Organizzazioni, le differenze secondarie di analisi non possono essere di ostacolo alla necessaria unificazione dell’attività antimperialista delle forze combattenti, le BR-PCC hanno contribuito e contribuiscono alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo. Così facendo viene perseguita soggettivamente l’unità dialettica da far vivere in offensive comuni, e che già esiste oggettivamente tra forze e percorsi rivoluzionari sia del centro che della periferia. Fermo restando che per le BR-PCC l’antimperialismo nella politica di Fronte è un asse programmatico che vive in dialettica con l’attacco al cuore dello Stato, primo punto di programma, quest’ultimo, su cui si costruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata.

– Attaccare e disarticolare i progetti di riforma dello Stato.
– Attaccare i progetti imperialisti della coesione politica europea e di “normalizzazione” dell’area mediorientale.
– Costruire l’unità delle forze combattenti sull’attacco: organizzare il Fronte.
– Combattere insieme.
– Trasformare la guerra imperialista in guerra di classe rivoluzionaria.
– Onore ai compagni combattenti antimperialisti caduti.

I militanti delle BR-PCC: Simonetta Giorgieri, Carla Vendetti. I militanti rivoluzionari: Nicola Bortone, Gino Giunti

 

Parigi, 16 maggio 1991

Carcere di Novara. Intervento dei Compagni del Collettivo Wotta Sitta alla “Giornata internazionale sulla questione della prigionia rivoluzionaria nel mondo” del 19.6.91

E se tutti fossimo capaci di unirci perché i nostri colpi fossero più forti e sicuri, perché ogni tipo di aiuto ai popoli in lotta fosse ancora più efficace, come sarebbe grande il futuro, e quanto vicino!
(Ernesto Che Guevara)

Cinque anni fa, le truppe dell’esercito e della marina peruviani, su ordine del boia Alan Garcia, attaccarono con una vera e propria azione di guerra, tre carceri nei pressi di Lima – El Fronton, Lurigancho e Callao – e sterminarono oltre 300 prigionieri e prigioniere, comunisti e rivoluzionari, militanti del movimento di opposizione e della guerriglia di Sendero Luminoso.

Questo infame massacro non va ricordato solo in quanto ennesima conferma della barbarie imperialista, ma anche, e soprattutto, per rafforzare la coscienza della lotta mortale che in America Latina, come in tutto il mondo, oppone il proletariato internazionale e i popoli oppressi al sistema di dominio e sfruttamento del capitale, e per mettere al giusto posto il contributo che danno a questa lotta i rivoluzionari prigionieri in ogni realtà di scontro.

La lotta dei rivoluzionari prigionieri nelle carceri imperialiste è sempre stata una parte importante nel processo rivoluzionario nel suo insieme. Nella fase attuale l’andamento della lotta rivoluzionaria nelle principali aree di scontro con l’imperialismo conferma e ripropone, se mai ce ne fosse bisogno, questo dato politico.

 

  1. Alla fine degli anni ’80 la borghesia imperialista, fiancheggiata dal riformismo internazionale, annunciava l’inizio di una “era di pace”, in cui la fine della “guerra fredda” tra le due superpotenze e la “sconfitta del comunismo” avrebbe eliminato la “minaccia della guerra nel mondo” e ricomposto i conflitti regionali con soluzioni politiche e mediazioni ad alto livello.
    Dopo qualche anno l’iniziativa imperialista in tutte le principali aree di crisi ha riportato tutti alla realtà: dalla caduta della giunta rivoluzionaria Sandinista in Nicaragua sotto il ricatto della Contra e degli USA, all’invasione americana di Panama con il massacro di 5000 persone; dall’annessione della RDT nella cosiddetta “Grande Germania”, alla guerra nel Golfo con la distruzione dell’Irak e centinaia di migliaia di morti sotto i più massicci bombardamenti che si ricordino dalla seconda guerra mondiale, perpetrati dalla gigantesca macchina militare USA ed Europeo-Occidentale.
    Sono solo alcuni dei fatti più importanti della “nuova era di pace”, che mostrano i propositi dell’imperialismo occidentale in questa fase: dare un colpo duraturo ai movimenti rivoluzionari e di liberazione, ristabilire le gerarchie nei confronti di quelle borghesie nazionali che portano avanti politiche dissonanti, affermare nuovi equilibri di potere a suo favore dopo il frantumarsi del Blocco dell’Est, nel quadro del propagandato “nuovo ordine mondiale”.
    Un’illusione di potenza che gli strateghi dei centri imperialisti vedono velocemente infrangersi nella moltiplicazione delle contraddizioni e dei conflitti che volevano eliminare. Ogni masso che l’imperialismo solleva gli ricade inevitabilmente sui piedi!
    Il frastuono della guerra imperialista non ha ridotto al silenzio i movimenti rivoluzionari e di liberazione; al contrario, dalla Palestina e dalla Turchia, al Perù e Centroamerica, come nel cuore dell’Europa, essi hanno preso la parola con il combattimento, riproponendo ad un livello più alto la presenza del processo rivoluzionario nel mondo.
    In questo innalzamento dello scontro, ogni movimento e forza rivoluzionaria, ogni militante, deve necessariamente rafforzare i propri livelli di coscienza e internità alla classe e la connessione tra le diverse realtà di lotta. È proprio questo dato politico a caratterizzare la condizione e la lotta dei prigionieri rivoluzionari nelle carceri dell’imperialismo.

 

  1. Nello scenario dell’offensiva imperialista che ha segnato questi primi anni ’90, in Europa e in altri paesi occidentali, governi, partiti, “associazioni culturali”, capitalisti e mass-media, preparano le celebrazioni del “Cinquecentenario della scoperta dell’America” per il 1992.
    È una scadenza che va posta all’attenzione per diverse ragioni. Innanzitutto perché, ben lungi dall’essere solo una delle tante celebrazioni di “vittoria del capitalismo” o della “civiltà occidentale”, essa costituisce una enorme operazione politica, economica e ideologica che serve ad intensificare lo sfruttamento e l’oppressione dei paesi del Tricontinente e dell’America Latina in primo luogo.
    Per fare qualche esempio concreto, la Spagna, in questo contesto, intende creare nelle sue ex colonie una propria area di influenza politica ed economica sul modello del Commonwealth. Questo progetto è in realtà una testa di ponte per un processo di penetrazione della CEE in Centro e Sud America, in cui tra l’altro l’Italia è impegnata a fondo e vi sono coinvolti anche USA, Giappone e… Israele!
    Un altro elemento importante è il formarsi attorno a questa scadenza, di un vasto movimento in America Latina, Stati Uniti ed Europa, che pur nella diversità delle esperienze contiene in sé i percorsi della lotta storica all’oppressione del capitale, e intende trasformare questa “commemorazione” della borghesia in un momento di lotta internazionalista e di critica radicale al sistema imperialista.
    Nei movimenti rivoluzionari latinoamericani è sempre più radicata la coscienza che l’imperialismo può essere vinto solo in un processo di lotta unitario insieme alle altre realtà rivoluzionarie del mondo.
    Si tratta dunque di un piano di iniziativa e mobilitazione che riguarda direttamente il movimento rivoluzionario e antimperialista europeo e internazionale.
    Per noi prigionieri questa dimensione vale anche come terreno di connessione e interazione tra diverse realtà di lotta nelle carceri imperialiste, per affrontare questo scontro specifico nell’ambito del movimento rivoluzionario internazionale.

 

  1. In questo quadro vogliamo focalizzare la situazione dei prigionieri rivoluzionari negli USA; una realtà che presenta importanti connessioni, a livello oggettivo come soggettivo, con la mobilitazione antimperialista contro il “Cinquecentenario”, e con la dimensione di lotta che stiamo delineando.
    Nelle carceri speciali statunitensi ci sono attualmente oltre 150 prigionieri e prigioniere rivoluzionari. In maggioranza sono neri, per lo più ex membri del Black Panther Party e del Black Liberation Army. Ci sono poi 20 prigionieri antimperialisti bianchi, numerosi Indiani d’America e oltre 30 prigionieri del movimento di liberazione portoricano.
    La maggior parte hanno condanne pesantissime, come Leonard Peltier e Jeronimo Pratt, in carcere da oltre 20 anni, fino alla situazione del compagno Mumia Abu Jamal, tra i fondatori del Black Panther Party, condannato alla pena capitale nell’82 e rinchiuso nel braccio della morte del carcere di Huntingdon in Pennsylvania.
    Bush, come i suoi predecessori, ha sempre negato l’esistenza di prigionieri politici in USA; una mistificazione che regge sempre meno.
    In questi anni, nonostante l’onnipresente controrivoluzione preventiva che da sempre in USA colpisce ogni forma di opposizione allo Stato, si è creata una significativa mobilitazione con iniziative su molti piani, dalle manifestazioni contro le carceri, alla controinformazione, ad azioni legali sul terreno dei diritti umani. Tutto ciò ha sfondato il black-out sulla lotta dei prigionieri, suscitando un grosso appoggio a livello internazionale nei movimenti antimperialisti. Un primo importante risultato di queste iniziative è stata la chiusura dell’infame “Unità di Massima Sicurezza” femminile di Lexington.
    I prigionieri politici e di guerra in USA sono il riflesso dei movimenti che negli ultimi 20 anni hanno scosso la società americana; movimenti prodotti da un intreccio di contraddizioni interne alla struttura stessa di questa società.
    «La storia americana è il risultato del conflitto tra gli invasori europei e gli Indiani d’America, tra i padroni bianchi e gli schiavi neri, l’esercito colonizzatore e i colonizzati, i padroni e gli operai, i maschi oppressori e le donne, gli imperialisti e gli antimperialisti». Così scrivevano i Weathermen in Prateria in fiamme.
    La metropoli imperialista USA porta nel suo codice genetico tutte le tappe dello sfruttamento e della distruzione di interi popoli, che hanno consentito l’affermarsi di questa formazione sociale nel quadro storico dello sviluppo del modo di produzione capitalistico nel mondo.
    Questo è il legame intimo che affianca le lotte antimperialiste e di liberazione nazionale negli Stati Uniti a quelle dei movimenti rivoluzionari in America Latina e nel Tricontinente, come allo scontro di classe in Europa Occidentale; ed è anche il senso della lotta dei prigionieri politici e di guerra nelle carceri nordamericane.

 

  1. In Europa Occidentale ci troviamo di fronte, da diversi anni, al rapido sviluppo del progetto di unificazione economica e politica che i vari governi, gruppi capitalistici multinazionali e la borghesia nel suo insieme perseguono in questa fase per contrastare la crisi ed affrontare la competizione tra blocchi economici capitalistici nel mondo.
    Gli effetti di questo processo di concentrazione economica e politica cominciano ad essere evidenti, tanto nella strategia di penetrazione del capitale europeo all’Est e in altre aree, quanto sul piano del riadeguamento militare. Recentemente i governi degli Stati-NATO hanno annunciato la formazione di una “Forza di rapido intervento”, con 100.000 soldati, inglesi, tedeschi, belgi, olandesi, italiani, spagnoli, greci e turchi, sotto il comando americano, con il compito di intervenire anche “fuori dalla tradizionale area di intervento” per “difendere gli interessi dell’Europa Occidentale”. La guerra del Golfo ha originato un modello di intervento che gli Stati europei hanno fatto proprio, aumentando considerevolmente il loro peso e responsabilità nella strategia globale dell’imperialismo occidentale.
    Questa dinamica imperialista rende ineludibile per i governi europei la pacificazione forzata dei vari conflitti sociali che attraversano da 20 anni il continente in lungo e in largo. Non è un caso che la strategia controrivoluzionaria occupi un posto di primo piano, tanto nelle politiche nazionali dei vari Stati che negli accordi in sede europea. L’ormai collaudato “Gruppo TREVI” (organismo di direzione e centralizzazione della repressione nella CEE) e gli “Accordi di Schengen” (per controllare i flussi dell’immigrazione dal Tricontinente), sono i pilastri su cui si costruisce tutta la politica della “sicurezza” in Europa.
    Oggi il movimento rivoluzionario, le organizzazioni d’avanguardia, i collettivi antagonisti, le realtà di lotta proletarie, fino ai prigionieri, devono costruire il proprio percorso in presenza di un apparato ed una strategia controrivoluzionaria fortemente integrati a livello continentale.
    L’unificazione europea, con al suo centro la nuova “Grande Germania”, non può tollerare l’attività dei movimenti antagonisti, delle organizzazioni di guerriglia, e neanche l’esistenza di prigionieri che in carcere continuano la lotta come parte viva del movimento rivoluzionario.
    – È questo nocciolo duro della politica imperialista Europeo-Occidentale che ha segnato lo scontro tra i compagni prigionieri dei GRAPO e del PCE(r) e il governo di Felipe González sulla questione del loro nuovo raggruppamento.
    Dopo circa 15 mesi di sciopero della fame e di tortura con l’alimentazione forzata, dopo la morte del compagno José Manuel Sevillano, la lotta è stata sospesa per evitare uno stallo, con altre perdite, a fronte di una situazione profondamente mutata dagli avvenimenti internazionali.
    Eppure in questa durissima lotta i compagni spagnoli hanno dato al governo González, agli strateghi della controrivoluzione europea, una lezione di determinazione politica soggettiva e di rigore rivoluzionario.
    La consapevolezza che il tentativo del governo del PSOE di distruggere la loro identità e militanza collettiva con l’isolamento e la dispersione in numerose carceri, fosse parte in realtà di un attacco generalizzato alla classe e al movimento rivoluzionario, li ha portati a contrastare questa strategia, rifiutando la condizione di ostaggi impotenti a cui li si voleva relegare, prendendo l’iniziativa per il loro raggruppamento con una chiara internità agli interessi e obiettivi della lotta rivoluzionaria in Spagna e in Europa.
    Non c’è quindi nessuna sconfitta, questa lotta è solo interrotta e ciò che in essa si è costruito in termini di coscienza, solidarietà e quadro di comunicazione sarà la condizione per riprenderla con più forza e porre fine all’isolamento dei compagni.
    – In Germania, dopo l’inglobamento della RDT, il governo tedesco con tutto il suo apparato di “sicurezza“ è impegnato in una forsennata e paranoica attività repressiva, volta ad impedire che il movimento rivoluzionario e antimperialista coaguli e politicizzi le contraddizioni indotte dal processo della cosiddetta “Grande Germania”.
    Nella ex RDT è in atto una gigantesca operazione politica ed economica che sta letteralmente liquidando tutto il preesistente assetto sociale per poter ricostruire dalle fondamenta strutture e uomini funzionali ai progetti di dominio e sfruttamento della nuova potenza capitalistica tedesca.
    Ma le aspirazioni di Kohl ad uno sviluppo pacifico di questo processo sono fortemente frustrate sia dalle lotte delle masse dell’Est, evidentemente poco disposte a scomparire dalla scena, sia dall’iniziativa rivoluzionaria del movimento, con in testa la guerriglia della RAF.
    Gli sgherri del “Cancelliere” non sanno più cosa inventare per fermare l’azione delle forze rivoluzionarie, e oltre all’attacco generalizzato alle situazioni di movimento (come le case occupate, i giornali di controinformazione, i collettivi antagonisti), la campagna repressiva si rivolge con il consueto accanimento contro i prigionieri della RAF e della Resistenza. A parte le pressioni su familiari e aree di solidarietà, è in atto una manovra degli apparati di “sicurezza” dello Stato per falsificare e “riscrivere” l’esperienza RAF in termini di “longa manus della STASI” nel tentativo di legare la lotta alla guerriglia alla demonizzazione e liquidazione della ex Germania Orientale. Una costruzione così grossolana che neanche le dichiarazioni pilotate di alcuni traditori fuoriusciti dalla RAF, riescono a rendere credibile.
    È un susseguirsi di provocazioni e campagne stampa contro i compagni prigionieri, che ultimamente si sta traducendo nella minaccia esplicita di ripristinare l’isolamento assoluto anche per quei militanti in situazioni di socialità minima (4 compagne in un carcere!) strappate con lo sciopero della fame dell’89.
    I compagni prigionieri sono impegnati a contrastare quotidianamente questo ennesimo attacco.
    – In situazione analoga si trovano i prigionieri rivoluzionari di Action Directe che si sono visti togliere gradatamente spazi e condizioni di vita ottenuti con lo sciopero della fame dell’88. Un isolamento fisico e comunicativo e il solito corollario di provocazioni. Il governo del “socialista” Mitterrand, con il suo staff di democratici ex sessantottini, apprezza molto – e applica volentieri – la scienza controrivoluzionaria del gruppo TREVI! Contro questa situazione, i 4 compagni di AD sono in lotta dal primo gennaio con uno sciopero della fame a staffetta.
    Questo scontro, pur con aspetti specifici, è affrontato anche dai compagni delle Cellule Comuniste Combattenti, isolati da oltre 5 anni nelle carceri belghe; dai prigionieri dell’ETA, che sono in condizioni simili ai GRAPO; dai prigionieri irlandesi dell’IRA e altre organizzazioni rivoluzionarie che da 20 anni sostengono una lotta durissima contro la politica carceraria inglese. Attualmente oltre 200 di questi compagni sono condannati all’ergastolo e detenuti negli H-Blocks (1).
    Completano il quadro i numerosi combattenti arabi, palestinesi, curdi, presenti in molte carceri del continente, testimonianza esplicita del ruolo dell’imperialismo europeo contro le lotte rivoluzionarie e di liberazione dell’area Mediterraneo-Mediorientale.

 

  1. Ogni movimento ha sempre avuto i suoi prigionieri. Su questo terreno passa una delle linee di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione, tra proletariato internazionale e borghesia imperialista.
    È questo l’elemento che rende necessario affrontare in un’ottica internazionale la “questione” dei prigionieri rivoluzionari. Ma non solo.
    L’imperialismo, in decenni di controrivoluzione, ha creato una scienza e un modello del trattamento carcerario ormai generalizzati. Il sistema carcerario USA e quello Europeo-Occidentale sono riprodotti in tutti gli Stati imperialisti e nei loro satelliti. Non c’è molta differenza tra le carceri speciali USA e canadesi e quelle europee o quelle sudamericane. Così come prende sempre più piede nel trattamento dei prigionieri rivoluzionari il binomio reinserimento-abiura o annientamento, che qui in Italia conosciamo bene…
    La logica che portò il governo tedesco agli assassinii dei compagni della RAF a Stammheim nel ’77 è la stessa del massacro “Aprista” (2) dei prigionieri peruviani nell’86; è la stessa del regime carcerario di De Klerk contro le migliaia di combattenti del popolo di Azania, che attualmente in 200 sono in sciopero della fame per ottenere la liberazione. È la stessa del governo sionista con i suoi campi di concentramento nel deserto del Negev per i combattenti palestinesi.
    In Turchia le carceri speciali, piene di rivoluzionari curdi, di Dev Sol e di altre organizzazioni rivoluzionarie, con molti condannati a morte, sono state progettate da ingegneri americani. Il governo fascista di Ozal, con amnistie-truffa e altre grottesche operazioni di maquillage democratico, vuole rendere accettabili alla CEE i quotidiani massacri di rivoluzionari e proletari turchi e curdi in carcere e fuori. Ovunque, dove si sviluppano movimenti antimperialisti e rivoluzionari, l’imperialismo individua nei prigionieri un terreno su cui proseguire la sua strategia controrivoluzionaria.

 

  1. Il Italia la borghesia imperialista sta accelerando tutti i processi di ridefinizione dell’assetto istituzionale e del sistema politico, allo scopo di mettere lo Stato in condizioni di dirigere l’integrazione della struttura economica, politica e sociale italiana nella formazione Europeo-Occidentale.
    Questa dinamica, unitamente al continuo riadeguamento della struttura produttiva, si traduce in una forte pressione verso il proletariato metropolitano. Nei fatti non c’è realtà di classe dove non ci sia un intensificarsi della lotta.
    Di fronte al riproporsi della conflittualità sociale che ha sempre caratterizzato la realtà italiana, e alla possibilità di una nuova politicizzazione dello scontro, la borghesia riadegua la sua politica controrivoluzionaria.
    La cosiddetta “sicurezza sociale” infatti, assieme alle riforme istituzionali e all’intervento sull’enorme deficit economico-finanziario, è un punto fondamentale del programma dell’attuale governo.
    La politica repressiva e controrivoluzionaria qui, oggi si ritaglia sulla necessità di impattare, a livello preventivo, un conflitto sociale molto più complesso che in passato, dove alle “vecchie” contraddizioni se ne sommano di nuove (si pensi allo scontro sugli immigrati o alla crescita fortissima del divario tra Nord e Sud). Per questo tutto l’armamentario di “leggi speciali”, apparati di polizia e reti di controllo sociale, trattamento carcerario, accumulato dallo Stato in 20 anni di scontro di classe, trova oggi ridefinizione e collocazione organica nei programmi dello Stato rifondato. Ma questo in realtà vale per tutta la politica controrivoluzionaria dello Stato italiano dal dopoguerra in poi.
    I vertici della Democrazia Cristiana difendono e rivendicano con tracotanza la legittimità della struttura “Gladio” che, nel quadro europeo della strategia anticomunista della CIA e della NATO, ha segnato a forza di stragi antiproletarie il tentativo dell’imperialismo di ricacciare indietro il movimento rivoluzionario e di classe in Italia dai primi anni ’50 fino agli anni ’70 e ’80.
    La continuità della controrivoluzione imperialista deve vivere, non importa in quali forme, anche nella “seconda repubblica”!
    Sono queste le condizioni che le nuove lotte proletarie e i percorsi rivoluzionari devono affrontare per sviluppare la loro prospettiva. E questo vale naturalmente anche nel carcere.
    Per il governo, i partiti e i media borghesi, oggi gli unici “prigionieri politici” esistenti in Italia sono i dissociati e tutta la fauna degli aspiranti al “reinserimento sociale”, vezzeggiati da ministri e partiti riformisti.
    Per chi continua la sua lotta di rivoluzionario in carcere c’è la pioggia di ergastoli ai processi e il progressivo irrigidimento del trattamento nelle sezioni speciali con situazioni di gruppi limitati di prigionieri, sottoposti a continue pressioni e isolamento politico e fisico.
    È una strategia che in tutti questi anni, come ora, mira ad occultare una contraddizione politica che lo Stato non può riconoscere.

 

  1. Affrontare lo scontro politico sul carcere come questione a sé, o in ambito “locale“, non avrebbe senso. La lotta dei prigionieri rivoluzionari va concepita sia come parte della lotta per la costruzione dell’avanguardia e dello sviluppo del movimento rivoluzionario italiano, sia come azione cosciente all’interno di una visione internazionale del processo rivoluzionario.
    In questo bisogna partire dal punto più avanzato della lotta dei prigionieri rivoluzionari in Europa Occidentale.
    Lo scontro per il raggruppamento e contro l’isolamento sostenuto da molti anni dai prigionieri della RAF e della Resistenza in RFT, e in seguito dai prigionieri di AD in Francia, e su cui si è sviluppata una estesa dialettica e iniziativa con il movimento rivoluzionario e altri prigionieri in molti paesi europei, all’interno del processo del Fronte Rivoluzionario, ha cominciato a delineare un soggetto unitario sul piano della lotta contro il carcere imperialista. In questo senso costituisce un punto di riferimento per tutti coloro che concepiscono questa lotta come parte del percorso dell’unità dei rivoluzionari e della lotta antimperialista.
    Naturalmente il quadro delle esperienze a cui riferirsi è molto più ampio: dalla importantissima lotta dei prigionieri spagnoli, a quella dei compagni di IRA ed ETA, dei prigionieri delle CCC in Belgio e dei combattenti arabi, palestinesi e curdi in carcere in Europa.
    Nelle lotte di tutti questi rivoluzionari prigionieri è emerso un dato molto chiaro: l’isolamento e la politica imperialista contro i prigionieri della guerriglia, nelle specifiche realtà di scontro, possono essere battuti in modo duraturo solo lavorando a far avanzare tutto il piano della lotta al carcere imperialista in Europa all’interno dello sviluppo del processo rivoluzionario nel suo insieme.
    Concepire la lotta contro l’isolamento e per il raggruppamento dei prigionieri in RFT, Francia, Spagna, Belgio, ecc., come terreno stabile della propria iniziativa complessiva, è la dimensione concreta e attuale che permette alle istanze del movimento di stabilire la giusta dialettica tra le lotte proletarie e questo scontro specifico, trasformandolo in un arricchimento di tutta la lotta rivoluzionaria.
    Ciò che unisce i prigionieri rivoluzionari alle altre situazioni di classe, non è solo l’incondizionata solidarietà che deve sempre esistere tra rivoluzionari e proletari in lotta, ma, soprattutto, il rapporto e la tensione unitaria tra chi in situazioni diverse lavora per “mandare all’inferno l’imperialismo”.
    Rafforzare la lotta dei prigionieri rivoluzionari qui in Europa, costruire tutte le connessioni possibili con le lotte dei compagni prigionieri in America Latina, in USA, in Medio Oriente e ovunque, significa dare un contributo sia allo sviluppo dei movimenti rivoluzionari in quelle aree, sia all’avanzamento generale del processo rivoluzionario nel mondo.

I Compagni del Collettivo Wotta Sitta del carcere di Novara

Giugno ’91

 

Note

(1) H-Bloks: carceri di massima sicurezza in Irlanda del Nord.
(2) “Aprista”: da Apra, partito di Alan García presidente del Perù fino al 1991.