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Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di “riforma” dello Stato. Corte d’Assise di Forlì, “Processo Ruffilli” – Documento dei militanti delle BR-Pcc Cappello Maria, Cherubini Tiziana, De Luca Antonio, Galloni Franco, Grilli Franco, Lupo Rossella, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio e dei militanti rivoluzionari Bencini Daniele, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco allegato agli Atti.

Oggi in questo tribunale lo Stato cerca la sua rivincita sulla Guerriglia. È la DC a volerlo, per essere stata ancora una volta disarticolata nel suo progetto politico centrale dall’attività rivoluzionaria delle BR per la costruzione del PCC.

La mostrificazione dei militanti delle BR e dei rivoluzionari prigionieri dovrebbe dare, nelle intenzioni dello Stato, un’immagine di forza sullo scontro rivoluzionario che politicamente è priva di gambe, e tanto più perché è attuata sui prigionieri. Significativamente, nell’ambito di questo processo, si evidenzia la debolezza politica dello Stato, e della DC nello specifico, rispetto alla dimostrazione pratica che la prassi rivoluzionaria può disarticolare ed inceppare i progetti politici centrali che rappresentano gli interessi della borghesia imperialista.

Le modalità di gestione del processo riflettono inevitabilmente le leggi della guerra, seppure nella particolare forma politica del rapporto Guerriglia/Stato, per cui sui prigionieri BR e rivoluzionari, in qualità di ostaggi in mano allo Stato, dentro agli equilibri generali dei rapporti di forza tra classe e Stato, si esprime il tentativo di gestione delle contraddizioni di classe sulle quali ha inciso la prassi rivoluzionaria; e ciò è tanto più vero se lo si relaziona alla situazione attuale dello scontro. Da qui la necessità di fare ricorso, in questa fase, anche a questo specifico piano di intervento. Ribaltiamo questo piano e ne evidenziamo i limiti e la povertà d’intenti in quanto nessuna mistificazione processuale, nessun stravolgimento della presenza politica dei militanti BR e rivoluzionari prigionieri, nessuna plateale dimostrazione di muscoli dello Stato può negare la contraddizione che questo stesso processo esprime, ovvero il dato politico che le BR nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione hanno posto nel determinare l’avanzamento del terreno rivoluzionario col quale lo Stato deve misurarsi.

Nonostante la rigida gabbia giuridica in cui si vuole relegare la contraddizione rappresentata in questo processo, esso mette a nudo impietosamente la realtà politica: il più organico progetto politico elaborato dalla DC per affrontare i delicati mutamenti del generale processo di riassetto dello Stato, è stato sostanzialmente incrinato negli equilibri politici che lo sostenevano ad opera dell’opposizione di classe e dell’attacco portato dalle BR.

La messa a punto del progetto politico demitiano nasce dalla necessità di riformare le istituzioni a partire dal modo con cui l’Esecutivo esercita il governo del paese, una necessità posta dai mutamenti emersi in questa fase dell’imperialismo e nel contempo dalla necessità di normalizzare il contesto di classe e il suo piano rivoluzionario.

Un difficile percorso delle forze politiche e delle istituzioni borghesi, proceduto per affrontamento contingente delle contraddizioni a partire dal fallimento del progetto di “unità nazionale”. I governi di coalizione a presidenza “laica”, che hanno ereditato i problemi irrisolti dall’incompiuto progetto moroteo, pur nell’apparente emergenzialità delle soluzioni, hanno effettuato in ultima analisi cambiamenti significativi del quadro istituzionale, ratificando modifiche di fondo nel rapporto classe/Stato. Ciò è potuto avvenire sulla base dell’offensiva controrivoluzionaria attuata dallo Stato negli anni ’80 per rompere gli equilibri politici relativi ai rapporti di forza tra le classi, permettendo così alla borghesia imperialista di acquisire il vantaggio su cui poi ha avviato i programmi antiproletari.

L’arretramento del progetto di “unità nazionale” lasciava irrisolte le ragioni di fondo in cui tale progetto si inseriva, vale a dire l’ulteriore balzo compiuto dal sistema capitalistico dopo quello attuato a tappe forzate del dopoguerra. Il progetto demitiano si colloca come ulteriore importante momento di progettualità politica tesa a dare corpo alle esigenze generali della borghesia imperialista e, per altro verso, come espressione del “rinnovamento” del Partito, teso al recupero delle condizioni politiche per riconquistare la Presidenza del Consiglio, ponendosi al centro degli equilibri da instaurare per l’affermazione del progetto medesimo. Ma questi equilibri politici non nascono ovviamente da mediazioni tra partiti e negli ambiti interborghesi, per quanto il grado di avanzamento delle contraddizioni si rifletta in una instabilità di tutti gli ambiti del potere dello Stato; la base principale su cui si sono potuti inserire questi nuovi equilibri politici, nasce dalle modifiche apportate con la controrivoluzione degli anni ’80 nella mediazione politica tra classe e Stato, poiché la sua sostanza è stata incorporata nelle relazioni politiche tra le classi.

Il riferimento ai modelli di democrazia rappresentativa europei, per non diventare un obiettivo vuoto, ha dovuto tener conto del tipo di conflitto di classe esistente in Italia; per questo il progetto demitiano presupponeva di potersi instaurare nel contesto di uno scontro di classe in cui fosse nettamente ridimensionata la presenza politica della sua avanguardia rivoluzionaria: le Brigate Rosse.

Questo si era proposto l’offensiva controrivoluzionaria degli anni ’80 attraverso i diversi livelli di controguerriglia messi in campo: dalle torture dell’82, al progetto di “soluzione politica” per la guerriglia, elaborato dai massimi vertici dello Stato. Ma invece di eliminare il problema dello scontro rivoluzionario diretto dalle BR, come nei propositi della borghesia e dello Stato, esso si è risolto paradossalmente nel salto di qualità della guerriglia, proprio a causa dell’approfondimento dei termini complessivi dello scontro classe/Stato, rivoluzione/controrivoluzione.

La maturità complessiva acquisita dalle BR, nonostante gli errori e la giovinezza politica, nonostante il duro attacco ricevuto, ha permesso, nella dialettica sul terreno rivoluzionario con le istanze dell’autonomia di classe, di misurarsi con i nuovi termini dello scontro di classe e di forgiare nelle condizioni della controrivoluzione il suo riadeguamento teorico, politico, organizzativo, mantenendo nel contempo ferme le discriminanti strategiche di fondo. Mentre sul piano generale della lotta di classe il quadro di scontro che si prefigurava era caratterizzato da una vasta conflittualità politica e sociale di molteplici settori di classe che, avendo fatto i conti con la controrivoluzione degli anni ’80 e con l’arretramento generale che essa ha provocato, cercava di dotarsi di strumenti idonei e forme nuove di organizzazione. Una conflittualità dai caratteri fortemente resistenziali, ma non difensivi, che nei suoi settori più maturi ha rappresentato la continuità con il filone dell’autonomia di classe storicamente determinatasi in Italia, e che è tale anche per la presenza ventennale della guerriglia. A lato di questo terreno prettamente soggettivo, riguardante tutti i piani dello scontro di classe, sullo sfondo si è maturato il progressivo montare delle contraddizioni generali che scaturiscono dalla crisi e il premere delle esigenze relative alla formazione dei nuovi termini monopolistici.

Questo è il quadro entro cui si erano coagulati i fragili equilibri che riconducevano al progetto demitiano, o, meglio, all’attuazione di alcuni passaggi del progetto di riforma (la regolamentazione delle funzioni delle due Camere per funzionalizzarle alle decisioni dell’Esecutivo; la riforma delle autonomie locali, con parziale sperimentazione delle nuove regole elettorali), mentre il nodo sostanziale della riforma, la modifica della legge elettorale, non poteva che essere un punto di arrivo in cui doveva (e dovrebbe) convergere non solo la maggioranza di governo ma anche l’opposizione istituzionale, essendo questa una modifica che tocca l’impianto costituzionale del paese, attraverso il consolidamento degli equilibri politici generali tra le classi. Un progetto molto articolato, quindi, sia nelle tappe politiche da mettere in pratica sia nei fini perseguiti, i quali sono così sintetizzati dalla nostra Organizzazione, nella rivendicazione:

«…l’obiettivo è quello della “democrazia governante” dove al massimo dell’accentramento del potere reale corrisponde il massimo della democrazia formale. È questo il progetto politico demitiano, formalmente teso alla costruzione di una “democrazia finalmente matura”; nei fatti teso a concentrare tutti i poteri nelle mani della maggioranza di governo nel nome di un interesse generale del paese che nella realtà è solo l’interesse generale della frazione dominante di borghesia imperialista, nella normale dialettica tra maggioranza e opposizione in cui la maggioranza ha gli strumenti di governo e l’opposizione ha la facoltà di critica senza però poter intervenire direttamente nei processi decisionali, in un gioco in cui apparentemente i partiti rappresentano l’intera società, mentre nella realtà rappresentano solo gli interessi della frazione dominante di borghesia imperialista. Un progetto politico che nel complesso tende a svincolare il governo della società dalle spinte antagoniste, garantendo la stabilità politica del sistema; è per questo che il progetto politico demitiano è in questo momento il “cuore dello Stato”, in quanto da un lato sancisce l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi della borghesia imperialista, dall’altro assesta e ratifica i rapporti di forza tra classe e Stato, in favore di quest’ultimo: da ciò il suo carattere controrivoluzionario e antiproletario…».

È all’interno di questo contesto che tale progetto, centralmente dominante nei rapporti politici tra classe e Stato, è attaccato e disarticolato dalla nostra Organizzazione, un intervento che porta in sé tutte le potenzialità politiche e strategiche insite nel riadeguamento dell’avanguardia combattente, e in quanto tale capace di portare la sua iniziativa politica e militare ancora una volta al punto più alto dello scontro tra le classi: ovvero laddove si determina la ridefinizione dei rapporti politici tra classe e Stato, dei rapporti di forza, delle modalità infine di governo relative alla mediazione politica tra le classi.

Un intervento rivoluzionario che, essendo espressione dell’attività complessiva operata dalle BR, ha spostato in avanti il livello dello scontro; una dinamica consapevolmente prodotta e calibrata dalle BR ai rapporti di forza generali e alle condizioni dello scontro, un contesto che si è riflesso sulla rideterminazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. L’attacco delle BR all’ideatore del progetto, nonché elemento politico di spicco nel ricomporre e ricondurre le forze politiche intorno agli equilibri necessari per effettuare i passaggi del progetto, ha di fatto aperto un varco, avendo colto l’elemento di coesione di quegli equilibri su cui dovevano stringersi le intese politiche; in questo senso ha contribuito sostanzialmente al suo ripiego e ad un relativo scompaginamento del quadro politico e istituzionale, questo poiché ha riguardato l’incrinamento degli equilibri legati all’aspetto dominante della contraddizione classe/Stato, che per la sua importanza rimette parzialmente e relativamente in gioco gli equilibri tra le classi.

In questo senso la disarticolazione del progetto dominante della borghesia imperialista permette di acquisire lo spazio politico, il termine relativo di rapporto di forza per l’avanzamento della dinamica complessiva dell’attività rivoluzionaria a partire dalla dialettica attacco-costruzione-organizzazione-attacco, chiarendo anche che l’iniziativa politico-militare non procede per “simbolismi” (non si riferisce cioè ad obiettivi simbolici) che servano a svelare la natura delle contraddizioni di classe (che caso mai ne è un effetto), ma essa è il concreto modo, storicamente determinato, di procedere di questo particolare tipo di conflitto che è la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli imperialiste. Quindi l’attacco si pone l’obiettivo di “danneggiare” il nemico di classe (disarticolazione) all’interno dei giusti criteri affermatisi nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione, calibramento dell’attacco stesso, che permettono di avere il massimo di risultato politico con il minimo sforzo, data la disparità di forze esistente tra la guerriglia e lo Stato.

Da questo agire l’avanguardia combattente sintetizza il vantaggio materiale in forza politica, attraverso la costruzione-consolidamento dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata adeguato ai livelli di scontro e agli obiettivi della fase rivoluzionaria. Il ridimensionamento del progetto di riforma della DC ha significato sostanzialmente uno spostamento di rotta nell’avanzare del processo di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, vale a dire che esso procede dentro a spinte e controspinte senza al momento ricondursi ad una precisa progettualità. Le attuali difficoltà non significano invalidamento assoluto delle linee direttrici su cui dovrà imperniarsi la riforma, e questo indipendentemente dalla situazione congiunturale molto contraddittoria.

La natura del contesto di scontro politico classe/Stato e il piano di scontro rivoluzionario chiariscono il portato di tali contraddizioni, da cui scaturisce l’impasse politico dello Stato a porre mano ai passaggi ulteriori, impasse propria dell’attuale fase politica che di riflesso si ripercuote sugli assetti politici della maggioranza stessa e, in primo luogo, non può che riflettersi dentro la DC in quanto forza politica che fino ad ora si è fatta carico dell’elaborazione e dell’attuazione degli indirizzi politici sui quali marcia il processo di riadeguamento dello Stato.

I passaggi e le proposte di legge su cui erano stati predisposti accordi, durante il governo De Mita, se non si sono arenati procedono con difficoltà (vedi legge sulle autonomie locali e referendum), sfasature che rientrano tra i costi politici derivati dalla caduta del progetto demitiano. Mentre per altro verso l’attuale Esecutivo, sulla base delle precedenti modifiche istituzionali, anche attraverso forzature della massima asprezza, ha operato per dare un forte impulso ai passaggi già fatti nella direzione di armonizzare agli accordi di maggioranza l’attività delle Camere, le quali devono tendere ad un ruolo di ratifica delle decisioni dell’Esecutivo.

Un contesto che, dentro la direttrice di rafforzamento del ruolo e degli strumenti dell’Esecutivo, investe tutto il quadro dei rapporti: Presidenza del Consiglio/governo, governo/maggioranza, maggioranza/opposizione; questo nel contesto di direttive di irreggimentazione che si esprimono a livello delle forze di maggioranza attraverso filtri di indirizzo-controllo la cui elaborazione è sempre più centralizzata; nonché sugli sviluppi parlamentari, nelle modifiche delle regole che vigono nell’attività del Consiglio di Gabinetto e nelle attività dei Ministeri. Queste modifiche, permanendo all’interno dell’attuale funzione istituzionale delle due Camere, producono una continua instabilità parlamentare, riflettendo la contraddizione, il contrasto fra rappresentanza istituzionale in quelle aule e il conflitto reale tra le classi nel paese; un conflitto reso assai acuto dalla possibilità di legiferare su questioni di enorme rilevanza per le condizioni di vita politiche e materiali del proletariato (ad esempio tagli alle spese sociali, revisione del diritto di sciopero, ecc.).

Il prodursi di modifiche sostanziali nell’ambito istituzionale attraverso una serie di colpi di mano crea sì una situazione di relativa instabilità, ma lavora anche alla preparazione di condizioni funzionali per impattare quello che è il vero nodo di questa fase istituzionale: la riforma elettorale. Questo in un contesto in cui non si formano equilibri politici stabili nella maggioranza ed è fumosa ed incerta la modalità di coinvolgimento delle opposizioni istituzionali, per quanto l’insieme dei partiti esprima palesemente una volontà di “piegare” le istituzioni ai propri schemi di potere nella futura configurazione della riforma elettorale.

Nella sostanza è molto problematico risolvere con formule varie di rappresentanza partitica l’urto del conflitto di classe, cosa che tra l’altro avviene solo formalmente; l’aspirazione a conformarsi verso i modelli di democrazia rappresentativa europei deve fare i conti con i caratteri tipici della situazione italiana, non solo per le particolarità di sviluppo dello Stato, ma soprattutto e in conseguenza del tipo di lotta di classe, per una coscienza anti-istituzionale e anti-statale affermatasi negli strati più maturi della classe. È questo il fattore che non permette evoluzioni scontate del sistema di rappresentanze istituzionali borghese e, d’altro canto, l’esigenza del governo delle contraddizioni necessario per legiferare, quindi formalizzare le decisioni prese, spinge verso una dinamica di rafforzamento del governo, del ruolo della Presidenza del Consiglio; un fattore politico che, nel quadro più complessivo del paese, prefigura ed avvicina la svolta ad una “Seconda Repubblica”. Inoltre, sulla situazione politica interna, si ribalta l’andamento determinato dal quadro politico internazionale, ovvero il movimento della catena imperialista all’interno di un preciso approfondimento della tendenza alla guerra.

Ciò si ripercuote nel nostro paese come elemento di accelerazione delle contraddizioni mettendo al contempo in risalto anche tutti i limiti e le caratteristiche inerenti alla formazione dello Stato in Italia. La tendenza al rafforzamento delle forme politiche della dittatura borghese è appunto un processo altamente contraddittorio a causa del contesto materiale su cui deve riflettersi; una concretezza che, oltre a dimostrare quanto sia difficile “pianificare” soluzioni istituzionali, mette in risalto le difficoltà nell’affrontare le contraddizioni prodotte dalla crisi economica e dall’approfondimento della dinamica dell’imperialismo, acutizzandosi molti ordini di conflitto, principalmente tra campo proletario e Stato e tra tutte le fasce di borghesia. Ciò provoca forti squilibri negli assetti dello Stato, il cui contesto deve essere governato negli interessi della frazione dominante di borghesia imperialista, interessi che divaricano maggiormente le contraddizioni, poiché le soluzioni prese investono le condizioni di vita del proletariato.

In sintesi, da un lato lo sviluppo dello scontro di classe nel nostro paese che esprime una elevata maturità per la presenza del processo rivoluzionario e dall’altro le contraddizioni generali della crisi, sono i fattori principali che decidono in ultima istanza l’attuabilità dei progetti borghesi, gli equilibri possibili e le modalità entro cui possono esplicarsi.

Per comprendere la complessità e contraddittorietà dei processi di riadeguamento che attraversano tutti gli Stati a capitalismo maturo, bisogna fare riferimento al grado di crisi-sviluppo in questa fase dell’imperialismo: nella misura in cui se ne approfondiscono e se ne definiscono i nuovi termini, ne deriva la necessità del riadeguamento degli Stati quali “involucri sovrastrutturali del capitalismo”.

La funzione degli Stati si è andata a complessificare attraverso salti di qualità in relazione alle tappe dello sviluppo storico del capitalismo. Le caratteristiche dello Stato contemporaneo nei suoi tratti fondamentali vanno fatte risalire alla grande crisi del ’29, una crisi che attraversò tutta la catena imperialista di quel tempo e costrinse gli Stati ad intervenire direttamente nell’economia (ad esempio furono definite politiche di bilancio specifiche a quel tipo di crisi, regolamentata la formazione del mercato del lavoro e del credito, lo Stato si fece capitalista reale); furono adottate in sintesi una moltitudine di interventi di politica economica per difendere e promuovere il proprio capitale monopolistico a base nazionale, indipendentemente dai caratteri assunti dalle forme-Stato di quel periodo. Esemplificativo di questo dato è lo Stato fascista, il quale faceva riferimento al nascente capitale monopolistico e che era contemporaneamente la risposta controrivoluzionaria della borghesia alla rivoluzione sovietica e ai moti insurrezionali combattuti dal movimento consiliare del biennio rosso.

Con la seconda guerra mondiale, nel contesto creato dal bipolarismo, con la nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati, espressione dello sviluppo ineguale del capitalismo e delle posizioni economiche e politiche acquisite nel corso dello stesso conflitto dalle borghesie nazionali, comincia quel processo di integrazione gerarchizzata della catena imperialista che nei suoi tratti principali a tutt’oggi conosciamo; un processo che sotto il dominio del capitale finanziario ha visto affermarsi un piano di internazionalizzazione delle economie e della produzione – pur all’interno della spinta concorrenziale e anarchica del capitale e delle sue ricorrenti crisi cicliche. Ciò ha trasformato il capitale monopolistico a base nazionale in capitale multinazionale-multiproduttivo; un processo che, fin dal suo inizio, ha portato alla formazione di una frazione dominante di borghesia imperialista e del proletariato metropolitano in ogni singolo Stato della catena imperialista.

Questo dato storico evidenzia come lo Stato abbia definito nel tempo un maggior peso e qualità dei suoi interventi di politica economica, pur permanendo essi nella sfera della circolazione. Infatti, più le politiche economiche assumono peso nel supportare e favorire il ciclo capitalistico, più le funzioni dello Stato tendono a complessificarsi; con ciò lo Stato non perde la sua natura, non diventa soltanto il comitato d’affari della frazione dominante della borghesia imperialista né tantomeno il “semplice“ mediatore del conflitto di classe; questa duplice natura viene invece esaltata nel ruolo e nella funzione politica dello Stato, poiché, quale organo delle forme mature di dittatura borghese, riflette nel rapporto conflittuale con il proletariato i livelli di controrivoluzione stabilitisi storicamente nel corso dello scontro di classe.

Le attuali tendenze di riassetto degli Stati per le contraddizioni provocate dalla crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali e mezzi di lavoro, sono soggette a percorsi contraddittori dovendo far fronte al portato di contraddizioni sul piano politico e sociale, poiché l’acutezza della crisi restringe il campo delle risposte possibili cui la borghesia imperialista può far ricorso. Dentro questo quadro complessivo l’erosione progressiva dei margini di manovra nell’attuazione di politiche controtendenziali, determina una crescente difficoltà per gli Stati a ricucire e spostare in avanti le contraddizioni che si producono su tutti i piani, derivandone una generale instabilità politica. Ciò si riflette nella necessità di rafforzare quegli strumenti politici di cui lo Stato dispone per pesare sugli equilibri generali a favore della borghesia imperialista determinando un “irrigidimento” della mediazione politica.

I processi di riassetto degli Stati sono collocati all’interno della tendenza dell’imperialismo in questa fase. Dal punto di vista generale si assiste all’approfondimento dei processi di integrazione e interdipendenza tra le economie della catena relativamente alla maturazione dei nuovi livelli di concentrazione e centralizzazione del capitale monopolistico, un movimento da cui scaturiscono le attuali condizioni della concorrenza intermonopolistica nei mercati capitalistici. Un processo economico di fondo che muove ad un maggior compattamento dei paesi della catena imperialista a partire dai livelli di integrazione politico-economico-militare affermatasi nel dopoguerra. Linee di compattamento caratterizzate nel loro movimento dall’avanzamento della tendenza alla guerra entro gli equilibri stabiliti dalla dominanza della contraddizione Est/Ovest a partire dall’aggravarsi della crisi economica.

Da qui la necessità per i paesi della catena imperialista di stabilire risposte concertate sul piano delle politiche economiche e per altro verso di ridefinire le relazioni politiche e militari tra i paesi del blocco. Questo spinge all’avanzamento qualitativo dei rapporti interimperialistici, principalmente a partire dai processi di coesione politica dell’Europa Occidentale che si riflettono sul piano politico e militare dell’Alleanza occidentale.

Un piano che investe tutti gli Stati della catena e che li spinge ad attivizzarsi intorno alla definizione di queste politiche (le quali procedono in modo nient’affatto lineare a causa delle contraddizioni interimperialiste). Scelte che si riflettono nel contesto di ogni Stato e che investono gli stessi processi di rifunzionalizzazione. In altre parole, la definizione qualitativa delle politiche concertate investe le funzioni politiche che riguardano il modo con cui lo Stato si relaziona al piano internazionale e assume il suo ruolo nella catena imperialista. Tale dinamica, nella misura in cui favorisce attraverso questi processi di coesione la definizione qualitativa delle scelte politiche dell’imperialismo, rafforza i singoli Stati relativamente alla loro collocazione nella catena e di conseguenza si riflette anche sulla forza politica di cui la borghesia imperialista può disporre nel rapporto generale col proletariato.

In sintesi, lo sviluppo integrato delle economie, di conseguenza le similitudini politico-sociali dei paesi della catena, determina una tendenza all’omogeneizzazione dei caratteri della forma-stato; una tendenza che, proprio perché investe il contesto di ogni Stato, dà luogo ad un processo che, contrariamente a quanto fenomenicamente appare, va ad esaltare la funzione dello Stato. Questo perché lo Stato, essendo la sovrastruttura del modo di produzione capitalistico, non può non riflettere la natura concorrenziale e di sviluppo ineguale dello stesso. I processi di coesione economica e politica avvengono in un contesto fortemente concorrenziale, non è quindi un processo pacifico di unità sovranazionale.

Non bisogna scambiare la tendenza naturale del capitale ad espandere la propria influenza con un processo di formazione di uno Stato sovranazionale, questo perché in primo luogo lo Stato, storicamente, è manifestazione e prodotto dell’antagonismo tra le classi e la sua forza concreta è sempre l’espressione della concreta lotta politica tra le classi; non può quindi la forma-Stato riferirsi ad una generica inconciliabilità tra le classi. Per questo complesso di fattori il superimperialismo è privo di fondamento scientifico.

Da questa analisi generale che definisce il quadro storico e la fase dell’imperialismo, ne discende sul terreno rivoluzionario l’assunzione dell’antimperialismo come dovere prioritario di ogni forza rivoluzionaria conseguente – a maggior ragione per le guerriglie dell’Europa Occidentale – poiché operano all’interno del cuore dell’imperialismo, sapendone però collocare il piano e la portata rispetto all’antimperialismo praticato dalle forze rivoluzionarie nella periferia. Per la guerriglia del centro imperialista si è trattato di attualizzare l’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni dello scontro nella metropoli imperialista.

Si è reso cioè evidente che, stante l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico-militare, è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo in quest’area geo-politica per realizzare il processo rivoluzionario, sia che si tratti di rivoluzione socialista, sia che si tratti di liberazione nazionale.

L’antimperialismo per le BR si materializza nel contributo alla costruzione e consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo. In altri termini, per la nostra Organizzazione la tematica dell’antimperialismo deve imperniarsi intorno allo sviluppo di politiche di alleanza con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo in quest’area geo-politica (europea, mediorientale, mediterranea) al fine di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo. Più precisamente, si tratta di lavorare a concretizzare, in successivi momenti di unità, l’attacco all’imperialismo, all’interno del criterio politico che l’attività del Fronte non deve essere impedita dalle peculiarità di analisi e di concezione politica delle diverse forze rivoluzionarie che vi lavorano, né tantomeno discriminare l’attività del Fronte come unica attività rivoluzionaria, ma essa deve stringere l’unità realizzabile nell’attacco pratico.

Per questo affermiamo insieme alla RAF che «non si tratta di fondere ciascuna organizzazione in un’unica organizzazione ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo». In questo senso cioè il consolidamento della politica di Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria.

L’antimperialismo per le BR vive in unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato, costituendo entrambi i perni su cui si costruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata.

Se dal punto di vista della sostanza dell’analisi leninista dello Stato nulla è cambiato nell’arco di questo tempo storico, l’espressione e il ruolo della macchina statale nella fase dell’imperialismo si sono però complessificati, rendendo relativamente più stabile la dittatura della borghesia. Il relativo affinamento delle sue forme di dominio è il risultato di un salto di qualità avvenuto con la fine del secondo conflitto mondiale.

Già il contesto creatosi col bipolarismo ha rafforzato quei processi di integrazione economica tra i paesi della catena stringendoli nel piano politico-militare dell’Alleanza Atlantica all’interno della contraddizione Est/Ovest.

In questo quadro va inserita pienamente la controrivoluzione imperialista capeggiata dagli USA che ha operato nella repressione-contenimento dei processi rivoluzionari e di liberazione sviluppatisi nel corso della guerra che attraversavano molti paesi europei. Dal tipo di restaurazione che ne è risultata con la normalizzazione imperialista ne è derivata l’incorporazione della sua sostanza nelle relazioni politiche che la borghesia ha instaurato con la classe, definendosi al suo interno un preciso tipo di relazioni: la controrivoluzione preventiva come politica costante finalizzata a contenere e a non far collimare l’antagonismo con il terreno rivoluzionario.

Gli Stati usciti dal dopoguerra sono quindi espressione dell’ulteriore sviluppo dell’imperialismo, e nelle sue forme politiche sono andati a consolidarsi i caratteri delle democrazie rappresentative contemporanee. La questione principale da rilevare è una relativa similitudine nella mediazione politica classe/Stato in tutti gli Stati a capitalismo maturo. In altre parole quel complesso di modalità, forme, strumenti con cui lo Stato si rapporta alla classe e governa l’insieme della società, a partire dal fatto che lo Stato è espressione dell’antagonismo inconciliabile tra le classi e contemporaneamente mediatore del conflitto, nonché rappresentante degli interessi generali della borghesia imperialista; quindi la mediazione politica è la risultante nelle forme e nei modi del rapporto di forza e politico dello scontro di classe, la cui sostanza viene appunto mediata, cioè veicolata, dagli strumenti e organismi politici istituzionalmente preposti a tale scopo. Al suo interno vi influiscono da un lato l’insieme dei “tamponi” politici che costituiscono la controrivoluzione preventiva, dall’altro la forza politica che la classe operaia e il proletariato si sono conquistati nei loro processi di lotta e di emancipazione generale a cavallo di questo secolo. Una risultante che per la sua consistenza storica è un dato affermato nei caratteri della mediazione politica.

Questi dati danno alla mediazione politica la caratteristica di “tenere” entro tempi determinati le lacerazioni e le forzature che lo Stato cerca di operare in determinate circostanze di scontro. Essa, in linea di massima, non consente un “uso indiscriminato” (di massa e prolungato nel tempo) degli strumenti coercitivi e repressivi straordinari (vale a dire uccisioni, torture…) contro l’opposizione di classe, pena lo stravolgere la mediazione, l’uscire quindi dalle forme politiche che si sono stabilite mediamente a livello generale, a meno di non riferirsi a specifiche condizioni di scontro nelle quali è attiva la presenza del processo rivoluzionario.

Ma anche in questo caso l’uso di questi strumenti è sempre calibrato agli specifici caratteri dello scontro, per come esso si è formato storicamente, che ad esempio “obbligano” ad un ricorso massificato di strumenti repressivo-coercitivi, in Irlanda, in Spagna, mentre per quanto riguarda la RFT, l’Italia e la Francia, il ricorso a misure “straordinarie” è necessariamente limitato a determinate circostanze dello scontro, con un più marcato carattere selettivo. Il fattore rivoluzionario, infatti, si riflette nella mediazione politica per l’influenza che ha nei rapporti di forza tra le classi; il conseguente contesto del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che si determina, sottopone la mediazione politica all’assorbimento delle modifiche sostanziali conseguenti all’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. Questo complesso sistema di pesi e contrappesi politici, giuridici e istituzionali che fanno capo all’uso della democrazia rappresentativa contemporanea è il relativo affinamento compiuto dalle forme politiche di dominio negli Stati a capitalismo maturo.

Quello che si può affermare quindi, è che i caratteri generali e fondamentali della guerriglia, validi in ogni Stato a capitalismo maturo, determinano un processo di maturazione nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione che obbligatoriamente si generalizza in ogni contesto e in ogni Stato. Cosicché l’avanzamento del processo rivoluzionario che si sviluppa anche in paesi che non hanno avuto precedenti, deve misurarsi per forza di cose con il livello dato, nel contesto generale, dal rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Sui caratteri della democrazia rappresentativa contemporanea italiana si sono inseriti il complesso di fattori che derivano dal contesto storico-politico ed economico-sociale in cui lo Stato stesso si è formato. Fattori che ne hanno in parte condizionato lo sviluppo dando luogo alla sua relativa originalità nello specifico percorso seguito dalle forme di dominio borghese.

La nascita della Repubblica è il risultato dei rapporti di forza proletariato/borghesia usciti dal dopoguerra, data la qualità del processo di liberazione dal nazifascismo che, per la storia politica del proletariato, così ricca di esperienze in termini di lotte sociali e tentativi di sbocchi rivoluzionari, era caratterizzata oggettivamente da un movimento insurrezionale di massa e con connotazione classista e, al tempo stesso, è il risultato di un processo molto originale nella formazione/sviluppo del capitale monopolistico a base multinazionale che nella sua evoluzione a tappe forzate ha portato l’Italia a trasformarsi nel breve arco di un quarantennio da paese agricolo industriale a paese industrializzato.

Da questi due fattori principali è necessariamente derivata la classe dominante e le sue rappresentanze politiche, le cui caratteristiche risentono, da una lato della velocità di formazione della democrazia rappresentativa nel contesto del bipolarismo, dall’altro del fatto che essa nel formarsi ex novo sulle condizioni mutate dell’imperialismo nel periodo post-bellico, aveva come riferimento storico concreto l’esperienza dello Stato liberale monarchico ed aveva ereditato in parte apparati e personale politico del regime fascista.

La collocazione dell’Italia nell’Alleanza Atlantica ne ha fortemente caratterizzato lo sviluppo politico ed economico, dato il rapporto instauratosi con gli USA che, se da un lato risentiva del più generale processo di normalizzazione dell’Europa Occidentale teso a creare le condizioni politiche necessarie alla penetrazione del capitale finanziario USA, dall’altro ha avuto con essa un tipo di relazioni bilaterali particolarmente stretto e su più piani, testimoniato sia dall’influenza statunitense nel quadro politico interno, sia dal supporto particolare offerto dal Piano Marshall, data l’arretratezza economica dell’Italia.

Il plasmarsi della sovrastruttura statale sulle condizioni dettate dal ripristino dell’ordine imperialista e in un contesto di classe ricco di fermenti rivoluzionari ha condizionato la stessa impalcatura istituzionale e, ciò che è più importante, il personale e le forze politiche atte al suo funzionamento.

La stessa formazione della DC avviene in questo contesto, assumendo nel dopoguerra la rappresentanza più fedele della borghesia imperialista e assicurandone gli interessi generali attraverso il concorso delle altre forze politiche in grado di articolare la necessaria dialettica interborghese. Nello stesso tempo ottemperando alla funzione di stabilizzazione e normalizzazione del quadro politico interno, all’interno del quale l’insieme dei partiti costituiranno il garante democratico delle feroci politiche antiproletarie degasperiane. Una normalizzazione e stabilizzazione che si è avvalsa, nelle diverse fasi dello scontro, di forzature vere e proprie nelle relazioni politiche tra classe e Stato, operate anche attraverso l’uso del terrorismo di Stato (da Portella delle Ginestre alle stragi degli anni ’70 e ’80). È in relazione a queste caratteristiche che possiamo rilevare nel percorso storico e politico dello Stato della borghesia imperialista nostrana dentro al processo di assestamento/approfondimento delle forze di dominio borghese, un unico tratto antiproletario e controrivoluzionario inerente alla natura e allo sviluppo dello scontro di classe, un filo organico dentro il procedere non lineare di questo scontro che va dalla nascita della democrazia rappresentativa all’attuale “fase costituente” che evolve verso una “Seconda Repubblica”.

Un filo che passa per il disarmo politico e militare del movimento di resistenza e per la restaurazione borghese degli anni ’50, attuata con feroci politiche antiproletarie così da ottenere un contesto pacificato necessario ai nuovi termini di produzione nell’ambito della concorrenza intermonopolistica e all’accumulazione del capitale in pieno ciclo espansivo. È non a caso di quegli anni il primo tentativo di “manipolazione” del sistema elettorale (la legge truffa) tendente ad agevolare forme di governo “forti” e stabili.

Per giungere poi alla politica del centro-sinistra degli anni ’60, tesa ad adeguare il governo del paese alla nuova situazione economico-sociale, quando con i fatti di Piazza Statuto si ravvisa l’esordio politico della nuova figura operaia nata dal modello tayloristico adottato nella nuova organizzazione del lavoro, frutto del salto tecnologico compiuto nella produzione e nei conseguenti nuovi livelli di sfruttamento: dunque il centro-sinistra come l’equilibrio politico più adatto alle necessità di adeguare la sfera della mediazione politica attraverso un nuovo quadro politico-istituzionale per smussare e contenere gli aspetti più avanzati della lotta di classe.

È poi la volta del tentativo neo-gollista di stampo fanfaniano dei primi anni ’70 teso a contrastare in termini reazionari le forti spinte dell’autonomia di classe e dell’esordio della guerriglia.

Nell’evolvere della crisi economica, l’unità nazionale morotea è tesa a porre gli elementi di superamento del sistema di potere costruito intorno allo “stato sociale” nel suo duplice senso: di tentativo di cooptazione della classe alle scelte borghesi tramite le rappresentanze istituzionali (anticipando così la sostanza del “neocorporativismo”) e di processo di riqualificazione dei partiti, così da porre mano alle modifiche istituzionali indispensabili a determinare un quadro politico stabile. Ciò in presenza di un forte scontro politico di classe e del suo legarsi dialetticamente alla strategia della lotta armata. Due elementi il cui peso andrà a determinare la messa in crisi del progetto moroteo.

Per giungere alla controffensiva dello Stato degli anni ’80, vera e propria controrivoluzione che consente alla borghesia imperialista di riconquistare posizioni di forza nei confronti del campo proletario.

Una controffensiva che si colloca proprio a partire dallo spessore del conflitto di classe e che ha trovato nel terreno rivoluzionario diretto dalle BR il suo punto più alto e la sua risoluzione di potere. E per questo è partita dall’attacco alla nostra Organizzazione e alle espressioni più mature dell’autonomia di classe, per riversare il suo peso sull’intero corpo di classe, incidendo sulle condizioni politiche e materiali del proletariato. Una dinamica controrivoluzionaria che, per le sue caratteristiche, ha modificato la mediazione politica tra classe e Stato, il modo stesso di governare il conflitto di classe in riferimento all’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione e alle dinamiche di sviluppo dell’autonomia di classe, poiché le loro caratteristiche sono influenzate dalla dialettica instaurata con la guerriglia. Un elemento politico questo che ha comportato una pressione estesa su tutte le componenti dell’autonomia di classe dentro specifici calibramenti, finalizzati ad impedire che si esprimesse e si coagulasse l’antagonismo contro lo Stato. Un intervento che ha permesso in questo contesto di aprire la strada e gestire le ristrutturazioni economiche rese impellenti dalla crisi. All’interno di questo quadro poi si sono rese possibili le forzature necessarie per dare corso alle prime ratifiche sul piano istituzionale dei rapporti di forza favorevoli alla borghesia, di cui i Patti neocorporativi sono stati primo elemento e base di ulteriore avanzamento, concretizzando, nella modifica delle relazioni industriali, con l’avocazione al vertice della contrattazione, i termini verso i quali devono conformarsi le parti sociali, che sanciscono nella sostanza il modello di rappresentanza istituzionale sganciato dagli interessi di classe.

Da questo passaggio politico significativo assestato nei confronti della classe sono scaturiti i momenti di equilibrio all’interno delle coalizioni (i governi “laici”) che hanno dato concretizzazione, dentro la tendenza alla centralizzazione delle funzioni politiche dello Stato, ai processi di esecutivizzazione. Processi che nell’ultimo decennio hanno maturato sostanziali passaggi tesi a svincolare e impermeabilizzare l’azione di governo, nella forma, dalle spinte di natura particolaristica dei partiti, nella sostanza, dalle spinte della lotta di classe.

Dentro alla tendenza generale di riadeguamento dello Stato, calato nello specifico contesto italiano, è scaturito il progetto politico demitiano.

Non di un tentativo “reazionario” si tratta ma di avanzamento delle forme di dominio della borghesia imperialista, di affinamento della democrazia formale. Un progetto da un lato teso a sancire l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi della borghesia imperialista, dall’altro a ratificare e dare assestamento ai rapporti di forza classe/Stato. Riferito quindi alle esigenze della frazione di borghesia imperialista nostrana e all’altezza delle posizioni che l’Italia deve assumere nel contesto imperialista, soprattutto nello specifico europeo, e che possono avanzare solo dentro la ridefinizione dei rapporti di forza tra classe e Stato che permettono di procedere all’attuazione di quei provvedimenti di politica economica imposti dal ciclo, attraverso la modifica degli strumenti e dei soggetti istituzionali con cui lo Stato si rapporta al proletariato, nel modo di governare il conflitto di classe, teso a sancire, assestare e dare avanzamento ai caratteri della controrivoluzione incorporandoli nel quadro della mediazione politica classe/Stato.

L’ossatura del progetto politico demitiano per questo era imperniata sulla formazione di coalizioni che si possono alternare alla guida del governo, dandogli così un carattere di forte stabilità, una maggioranza ed un Esecutivo in grado di garantire da un lato risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico interno e internazionale. Il massimo cioè della “democrazia formale”, dove l’alternanza fa la funzione dell’opposizione per riuscire a contenere le spinte conflittuali che si producono nel paese.

Un disegno complesso che necessita anche di stimolare la funzione della democrazia rappresentativa attraverso strumenti ad hoc nella raccolta di consenso attivo attorno alle scelte dell’Esecutivo e della maggioranza che lo presiede.

Un processo teso, attraverso fasi di transizione, ad approdare ad una nuova fase che nello snodo della riforma elettorale apra il terreno ad una “Seconda Repubblica”. Passaggi transitori di un’importanza fondamentale sia nel verificare la tenuta politica degli schieramenti, sia nel tradurre sul piano concreto i processi di riformulazione degli apparati dello Stato, riferiti all’armonizzazione del loro ruolo intorno alle scelte politiche dell’Esecutivo (Magistratura, Corte Costituzionale, Corte dei Conti, autonomie locali). La proposta di riforma degli enti locali intendeva fornire un terreno concreto alla sperimentazione dei termini di rifunzionalizzazione complessiva, da un lato tesa a funzionalizzare i poteri decentrati – sia in termini di spesa che di gestione – all’Esecutivo, dall’altro e soprattutto, come primo banco di prova della praticabilità di una nuova legge elettorale.

Infatti il nodo più delicato è il processo di modifica del ruolo e delle funzioni che le forze politiche devono rivestire dentro una nuova geografia politica, in quanto questo terreno investe i rapporti politici tra le classi, cioè gli strumenti attraverso i quali la rifunzionalizzazione dello Stato deve essere mediata in relazione alle condizioni politiche generali del paese. Strettamente legate a ciò sono le esigenze, ben presenti nel progetto demitiano, di riadeguamento dei partiti nel ruotare intorno a questo processo di rifunzionalizzazione, dentro ad un “modello“ di “democrazia compiuta” che il progetto politico persegue.

Un progetto politico che rappresenta il secondo tentativo organico da parte delle forze politiche borghesi di rapportarsi con una visione complessiva al problema del riassetto dello Stato, e in entrambi i casi, è stata la DC a farsene carico. Con il fallimento del progetto moroteo, nella sostanza restano irrisolti tutti i nodi che ne avevano determinato l’elaborazione, dalle contraddizioni politiche e sociali, allo scontro di classe e rivoluzionario, alle contraddizioni interborghesi fin dentro la stessa DC. E’ proprio il fallimento dell’unità nazionale che determinerà in quel momento la realizzazione di “staffette” che vedranno le forze “laiche” alla guida degli Esecutivi, quali forze politiche dotate dell’elasticità/trasformismo necessari per garantire la governabilità e funzionalità del sistema, un elemento questo che rende conto della complessità della democrazia rappresentativa e di quanto gli equilibri politici che si instaurano tra le forze di maggioranza siano relativi al livello di scontro generale tra le classi.

Successivamente l’interconnettersi di due fattori, ovvero la dinamica di avvitamento delle stesse forze laiche incapaci di fare i conti con il complesso di fattori posti dalla nuova fase politica, e l’elaborazione del progetto demitiano, nel percorso interno al partito che ne ha permesso la definizione, consentirà alla DC di riacquisire il ruolo di perno degli equilibri politici attorno a cui far ruotare le forze politiche borghesi (di maggioranza e di opposizione) e di maturare un importante passaggio nel processo di riadeguamento.

Il progetto demitiano, riallacciandosi alla “terza fase” morotea, intendeva colmare lo scarto derivante dal tipo di sviluppo storico dello Stato in Italia rispetto alle esigenze che il quadro di crisi imperialista poneva sempre più all’ordine del giorno “pianificando” i passaggi volti al rafforzamento della democrazia rappresentativa (le “staffette” travestite da “alternanza”) in un processo di accentramento della sostanza del potere nell’Esecutivo.

Ma ancora una volta, per la seconda volta, il progetto democristiano ha dovuto fare i conti con la realtà dello scontro di classe e con l’intervento dell’avanguardia combattente: una realtà che, contrariamente alle velleità borghesi, non si presta ad essere pianificata e sistematizzata.

Come la storia ben dimostra, essendo la Dc per il suo ruolo da sempre individuata dal proletariato come il nemico dichiarato, è per questo oggetto di numerosi atti di giustizia proletaria. Sul piano generale della lotta di classe il quadro di scontro che si configurava veniva così giustamente focalizzato dalla nostra Organizzazione nella rivendicazione:

«… la classe, dopo un primo momento di difesa delle precedenti condizioni di vita politiche e materiali, ha dovuto confrontarsi subito con i nuovi termini di relazioni industriali propri del neocorporativismo, messi in campo per imbrigliare e depotenziare qualsiasi possibilità di espressione di autonomia e organizzazione di classe. Quindi non tanto di classe sulla difensiva si può parlare (ciò sarebbe una visione statica dello scontro) ma di una classe non propriamente pacificata che cerca di fornirsi degli strumenti idonei a sfondare gli steccati costruiti dal neocorporativismo, nonostante i durissimi attacchi politici e materiali che lo Stato in prima persona decide di operare.

I tentativi della classe di organizzarsi al di fuori delle gabbie neocorporative producono di riflesso le cosiddette crisi di rappresentatività del sindacato.

Una spinta conflittuale che trae forza dallo spessore della lotta di classe sviluppatasi in Italia, che non riempie le prime pagine dei giornali ma che vive costantemente sia nei principali poli industriali sia nei centri della piccola industria. Una lotta tenacemente perseguita dalle avanguardie di classe, che pur vivendo nella condizione generale di controrivoluzione (basti pensare al clima da caserma nei posti di lavoro), si misura concretamente con essa…».

Lo sforzo di fare apparire il progetto demitiano come asettico e idilliaco, privo di riferimenti con le condizioni politiche e materiali vissute nello scontro, come una cosa che riguarda solo il modo di sedersi a Montecitorio, si è infranto con la realtà, facendo i conti con la nostra Organizzazione che, attaccando il nodo centrale dei progetti borghesi antiproletari e controrivoluzionari, ha inciso dentro le contraddizioni politiche riferite al terreno materiale di praticabilità, scompaginando gli equilibri politici atti a far marciare il progetto, portandone al punto critico le contraddizioni, le quali solo all’apparenza si riferiscono all’ambito interborghese, nella sostanza fanno i conti con gli equilibri generali, politici e di forza tra classe e Stato e con quanto su questo terreno l’attività rivoluzionaria ha inciso.

Una dinamica che si ripercuote sui caratteri della fase attuale, nel senso che, pur non essendo inficiata la linea di tendenza contenuta nel progetto, questa si caratterizza per un procedere non lineare e contraddittorio: le modifiche del quadro istituzionale si arenano intorno al nodo sostanziale del riassetto istituzionale parlamentare sulla base delle modifiche della legge elettorale.

Si assiste al proliferare di proposte tra loro divergenti, non tanto perché espressione pura di interessi particolaristici (come quella del PSI), ma perché incapaci di portare ad una sintesi politica quale quella contenuta nel progetto demitiano. Nei fatti tali proposte, a parte le improponibili oscillazioni intorno a “modelli di importazione” sganciati dal contesto politico italiano, non fanno che ruotare per approssimazione intorno agli elementi del progetto stesso, cioè intorno al modello di “riforma elettorale” imperniato sulla formazione di coalizioni alternative da sottoporre alle scelte dell’elettorato.

Un’ipotesi questa in cui va a ruotare il PCI stesso, attivizzandosi in funzione di garante del “rinnovamento delle istituzioni borghesi” e della modifica delle “regole del gioco” spacciandole come condizioni atte a favorire l’alternanza del PCI. Un’ipotesi che mostra tutta la sua velleità, perché non tiene conto che, stante gli equilibri politici con cui si approda al modello di riforma elettorale, nella sostanza favorisce la stabilità e la funzionalità degli Esecutivi formati dalle forze di regime, consentendogli di superare gli scogli di una situazione in cui al dirigismo del governo non si è più in grado di affiancare sul piano formale la dialettica maggioranza/opposizione sulla quale s’impernia l’attuale democrazia rappresentativa.

Un processo quindi niente affatto lineare e che si riflette nelle oscillazioni del PCI tra il conformarsi alla sua nuova collocazione entro il quadro borghese, e la necessità di operare una funzione di controllo e incanalamento delle tensioni di classe; il tutto in presenza di uno scontro di classe e rivoluzionario che per la sua storia e i suoi livelli di maturità non si cancella certo con colpi di spugna.

In questo senso le necessità sulle quali il progetto demitiano è sorto permangono tutte e si approfondiscono, si aggrava cioè il divario tra quadro politico-istituzionale e contesto reale delle contraddizioni che deve governare, e che rende necessario un salto nella modalità di governo, tanto più sostanziale quanto più, dentro a questo sfasamento, alle vecchie contraddizioni irrisolte, si aggiungono quelle riproducentesi ad un nuovo livello.

Lo stallo dell’ipotesi politica organica di cui il progetto demitiano era espressione più avanzata, si è tradotto in questa fase in ripercussioni interne alla stessa DC, da un lato legate allo “scompaginamento” del personale politico che si era potuto coagulare intorno al progetto demitiano, di cui la sconfitta della sinistra interna è un effetto, dall’altro per le scadenze imposte anche dal quadro reale di accelerazione delle contraddizioni. Da qui la necessità di ricorrere in questa fase a vecchi metodi di contenimento delle contraddizioni, riaggiornati con tutto il loro portato destabilizzante, gestiti da personale politico riciclato da fasi precedenti e pertanto portatore di limiti sul terreno specifico delle problematiche relative al porre mano ai passaggi della “riforma dello Stato” e alla ricostruzione intorno a ciò delle necessarie alleanze e punti possibili di equilibrio.

Il processo contraddittorio apertosi in questa fase, che tende verso una Seconda Repubblica, per i passaggi effettuati, mostra l’accelerazione dei processi di accentramento dei poteri nell’Esecutivo, così come la necessità di operare “a suon di forzature” nei rapporti politici complessivi, là dove ieri si credeva di potervi far fronte con il processo di sviluppo della democrazia formale e attraverso la formazione di false alternanze di governo. In realtà l’unica alternanza che si è realizzata è stata quella all’interno della DC, tutta relativa alle contraddizioni che sono maturate in questo processo nel suo procedere e misurarsi con il terreno reale del contesto di classe e dell’intervento della nostra Organizzazione.

Per concludere: questa la natura e le basi da cui scaturiscono i caratteri degli odierni processi che investono la rifunzionalizzazione dello Stato dentro ai dati generali propri di questa fase dell’imperialismo, dall’intersecarsi del movimento delle crisi capitalistiche con l’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che si colloca concretamente e specificatamente dentro alle peculiarità strutturali, agli equilibri politici propri del contesto storico-politico italiano. Un processo che investe le forme e i meccanismi del potere che, se da un lato rende l’Italia ben inserita nel contesto generale dei paesi della catena imperialista, dall’altro trova i suoi punti di squilibrio nell’estrema complessità dei fattori che intervengono nello scontro, per la natura di classe dello stesso, e che, riversandosi negli equilibri politici, rendono questo quadro quanto mai instabile e problematico.

E questo perché sul piano del rapporto classe/Stato, l’attuale Esecutivo si misura con il livello maturato dal conflitto di classe entro un clima di aspro scontro politico e sociale che esprime la vasta resistenza proletaria ai costi della crisi e agli effetti della riforma dei poteri dello Stato. Un conflitto che pertanto si caratterizza per la connotazione politica che giocoforza assume nel misurarsi con l’intervento e le scelte dell’Esecutivo sulle principali questioni che riguardano il conflitto di classe: dalla contrattazione della forza-lavoro al rimodellamento di nuove “relazioni industriali”, alle misure antisciopero fino agli interventi manu militari nelle vertenze più calde.

Il dato di sostanza che esprime lo scontro di classe nel nostro paese è riferibile allo spessore politico raggiunto dal movimento di classe, uno spessore che è tale per il legame dialettico con l’attività rivoluzionaria diretta dalle BR, per la propositività che la proposta strategica della lotta armata alla classe ha determinato sul terreno rivoluzionario. In sintesi, è la dialettica attività della guerriglia/autonomia di classe che ha sedimentato una base di qualità che permane (e si riproduce) nel rapporto di scontro tra campo proletario e Stato.

Una base di qualità da cui sono sempre scaturiti, nei diversi momenti dello scontro, forze d’avanguardia e processi di aggregazione e organizzazione conseguenti. Questa maturazione politica dello scontro di classe, essendo un elemento che si riflette nella mediazione politica, è pertanto non eliminabile nella sua sostanza dalla stessa controrivoluzione (che può contribuire invece a ridimensionarne il peso relativamente ai rapporti di forza più generali).

Un contesto in cui l’approfondimento dello scontro non ha a che vedere con meccaniche interpretazioni che vedono tradursi l’aggravamento delle condizioni di vita proletarie con un aumento dell’antagonismo contro lo Stato, ha a che fare invece con l’aumentato peso della soggettività nello scontro generale. Un elemento questo che condiziona le dinamiche della guerra di classe, a partire dal rapporto che si instaura tra attività della guerriglia e relativo affinamento delle risposte controrivoluzionarie dello Stato, all’interno del più generale rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Le caratteristiche politiche dello scontro di classe in una certa misura si riflettono sulla stessa dinamica spontanea delle lotte dovendo esse fare i conti con il livello stabilitosi nelle relazioni tra le classi; in questo senso si comprende come l’avanzamento stesso del piano di scontro generale si misuri con questo dato condizionandone il terreno di risoluzione.

Per questa ragione l’affermazione degli interessi generali del proletariato è quanto mai legata all’attività rivoluzionaria della guerriglia, al terreno di sviluppo della guerra di classe, il solo in grado di incidere sui rapporti di forza e rompere i reticoli della mediazione politica, in modo da aprire la dialettica che consente il rafforzamento (relativo) del campo proletario, riportando cioè sul terreno del potere il contesto dello scontro proletariato/borghesia.

Per inciso va detto che lo spazio aperto dal terreno rivoluzionario diretto dalle BR si riflette anche su tutti i piani dello scontro, compreso quello capitale/lavoro.

 

I termini del programma politico delle BR per la costruzione del PCC

Il dato politico centrale che emerge per parte rivoluzionaria è la valenza dell’attacco al cuore dello Stato, la valenza e la centralità della questione dello Stato nella prassi rivoluzionaria delle BR. Non una contrapposizione generica al potere della borghesia ma la contrapposizione scientifica alla sede del suo potere politico.

In questo senso le BR fanno propria la concezione leninista dello Stato, quindi del rapporto che con esso devono avere al fine del suo abbattimento per conquistare il potere politico ed instaurare la dittatura del proletariato.

Questa concezione fondamentale per i comunisti è correttamente inserita dalle BR nella concreta situazione storica in modo da misurarsi adeguatamente con le diversità sopravvenute nelle forme di dominio della borghesia imperialista.

Il rapporto Guerriglia/Stato è quindi il corrispettivo storico del rapporto che i comunisti, nel dirigere il processo rivoluzionario, stabiliscono con esso. Ciò che è mutato è il modo con cui viene perseguito il suo abbattimento, poiché è inserito all’interno del processo di guerra di classe di lunga durata, in cui l’avanguardia combattente deve assolvere alla funzione di mettere in campo, nelle specifiche modalità dell’operare della Guerriglia, il combattimento contro lo Stato. Esso è praticato in prima persona dalla Guerriglia a livello dell’attività d’avanguardia che le compete, nei momenti di attacco e di organizzazione calibrati alla fase di scontro in atto.

Attraverso l’attacco, quello che è immediatamente il piano di relazione su cui agisce la Guerriglia è la natura di guerra dello scontro di classe, una natura dominata dall’aspetto politico, il quale riveste come un “involucro” le contraddizioni (e le relazioni) classe/Stato. L’attività di combattimento contro lo Stato esplicita al suo punto più alto questa natura, esaltando nel contempo l’aspetto politico dello scontro nel momento in cui la disarticolazione degli equilibri politici causa una ricaduta in termini di relativa crisi del quadro politico statale.

Quello che la ventennale prassi rivoluzionaria delle BR ha dimostrato è che l’attacco allo Stato nei nodi politici centrali che lo contrappongono alla classe, lo costringe ad un relativo ripiegamento nelle sue scelte, mettendo in essere la possibilità di trasformare lo sbandamento relativo dei progetti borghesi in forza politica da riversare nell’attività di costruzione per stringere le forze proletarie che politicamente e materialmente si dialettizzano con la linea politica delle BR, nella disposizione e organizzazione sulla lotta armata calibrata, nelle forme e nei modi, alla fase di scontro. La forza politica, che momentaneamente deriva dall’attacco operato, viene tradotta in organizzazione di classe sulla lotta armata, perché lo scontro rivoluzionario diretto dalla Guerriglia nelle metropoli imperialiste non può costruire “basi rosse”, non può avere retroterra logistici, perché lo scontro rivoluzionario nei centri imperialisti è una guerra senza fronti dove l’attività controrivoluzionaria dello Stato si dispiega contro l’intero campo proletario (Guerriglia, movimento rivoluzionario, classe), dove il processo rivoluzionario avanza in una condizione d’accerchiamento strategico almeno fino alla fase finale dello scontro rivoluzionario.

In poche parole, l’attività d’avanguardia delle BR nell’attacco allo Stato, rende concretamente praticabile l’inceppamento e l’arretramento non solo dei progetti borghesi in generale ma, quello che è più importante, l’inceppamento dei processi di rafforzamento dello Stato che rappresentano il processo stesso di rafforzamento della dittatura borghese.

Una prassi che, unitamente all’altro fondamentale termine di programma perseguito, l’antimperialismo nella pratica di Fronte, materializza la possibilità e necessità dell’avanzamento della guerra di classe di lunga durata, essendo questa l’espressione storicamente determinata del processo rivoluzionario in questa fase storica. Un processo che le BR, con la loro nascita, si sono assunte attraverso la proposta alla classe della strategia della lotta armata, da iniziare fin da subito, come il modo adeguato per incidere nello scontro sul terreno del potere. Un processo di guerra dunque, perché la Guerriglia deve unificare nella sua attività il politico e il militare; unità che è implicita a tutti gli aspetti che compongono il processo rivoluzionario, il quale avanza nella contemporanea espressione (assolvimento) dell’aspetto militare con l’aspetto politico, perché nello scontro rivoluzionario nei paesi imperialisti la natura di guerra, che pure esiste nella lotta di classe, è una questione che deve essere affrontata immediatamente, data l’impossibilità di separarla (rimandarla) nel tempo, nella sola offensiva insurrezionale che prelude la presa del potere.

Nella realtà storica attuale vi è l’impossibilità di praticare un’attività rivoluzionaria di classe solamente politica; essa è impossibile da conseguire e consolidare: non può essere conseguita perché, sottraendosi al livello storico raggiunto dallo scontro, non vi incide; non può essere consolidata dati i mezzi esistenti per vanificarla e disperderla, per l’affinamento delle forze di dominio della borghesia imperialista. Queste hanno la possibilità di assorbire l’urto delle istanze prodotte dalla lotta di classe, dentro a selettivi processi che consentono di diluire e neutralizzare tali istanze nelle maglie degli strumenti della mediazione politica e nel contempo di procedere alla repressione/criminalizzazione delle sue espressioni antagoniste, in grado quindi di “normalizzare” qualunque attività che non fa i conti con il problema di rompere un tale reticolo o che si esprimesse nelle vecchie forme.

La Guerriglia nelle metropoli imperialiste non è semplicemente un surrogato della guerra, una tecnica militare, ma l’organizzazione adeguata a misurarsi contro lo Stato, a rompere il reticolo della mediazione politica che caratterizza il rapporto politico tra le classi, è l’unità del politico e del militare, è rompere con il monopolio della violenza della classe dominante per praticare gli interessi generali del proletariato e collocarli nella loro giusta dimensione: scontro per il potere con il fine del superamento della società divisa in classi.

L’attacco al cuore dello Stato si è definito come una parola d’ordine prioritaria (elemento di programma), una direttrice di combattimento fondamentale, nella coscienza che è a partire dal rapporto classe/Stato che si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata.

Non si tratta, come nel passato, di disarticolare – mettendoli sullo stesso piano – tutti i centri della macchina statale (periferici e centrali) anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello Stato visto in una separatezza dei suoi apparati (politici, burocratici e militari) a sua volta derivata da una visione semplificata e un po’ manualistica delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe, ricondotta a due sole fasi principali: quella dell’accumulo di capitale rivoluzionario e il suo dispiegamento nella guerra civile.

L’esperienza acquisita dalle BR ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nell’andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello Stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni l’attacco allo Stato, al suo cuore congiunturale, va inteso nel giusto criterio, affermatosi nella pratica, come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento dell’attacco.

Centralità: si può affermare che date le condizioni politiche di scontro, il suo approfondimento, la capacità di disarticolare (intesa in termini relativi e non assoluti) risiede in primo luogo nella capacità tutta politica d’individuare, all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi, il progetto politico centrale della borghesia imperialista.

Selezione: sta nella capacità d’individuare il personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio delle forze che tale progetto sostengono.

Calibramento: sta nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado di approfondimento dello scontro (ad esempio, anche in caso di arretramento, il livello d’intervento non può prescindere dal punto di scontro più alto assestato), allo stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie, allo stato dei rapporti di forza generali sia interni al paese che negli equilibri internazionali tra imperialismo e antimperialismo.

Questi i criteri che guidano l’attacco e la scelta dell’obiettivo e che permettono alla Guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo del vantaggio politico e materiale.

In ultima analisi possiamo affermare che questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro, poiché solo la fase della guerra civile dispiegata consente di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.

La continuità nella prassi e dentro i salti di qualità operati dal complesso del processo rivoluzionario al cui interno sono situati i momenti qualificanti dell’attacco al cuore dello Stato, hanno contrassegnato i passaggi salienti del processo di guerra di classe, in stretta relazione con i nodi sostanziali dello scontro di classe generale, un’interrelazione che ha evidenziato come l’attività rivoluzionaria delle BR abbia influito nella configurazione dei caratteri dello scontro e specificatamente nello sviluppo dei caratteri dell’autonomia di classe.

Quello che il complesso processo di riadeguamento delle BR nel contesto della Ritirata Strategica ha definito, è la maturazione di una conoscenza complessiva dell’andamento dello scontro rivoluzionario, avendone saputo sintetizzare gli elementi di continuità/rottura dentro alla prassi sviluppata nel processo di riadeguamento stesso.

Ciò permette alle BR di usufruire di un patrimonio di esperienze che danno all’agire rivoluzionario una maggiore padronanza nel definire la conoscenza della conduzione della guerra di classe di lunga durata entro la direttrice della strategia della lotta armata che è disposizione generale delle forze e piano sistematico d’azione fino al raggiungimento dell’obiettivo di tappa, strategia che si basa sul fatto che fin da subito l’avanguardia armata si pone come direzione e organizza i settori di classe e i rivoluzionari che si dialettizzano e si dispongono sulla lotta armata. Questo perché tutto il complesso dell’esperienza rivoluzionaria fin qui prodotta contiene degli insegnamenti che vanno oltre la loro valenza politica immediata nel momento in cui viene praticata, poiché essi indicano principi e leggi di movimento che hanno un loro valore generale derivando dal procedere dell’unità del politico e del militare. In sintesi ciò permette alle BR di precisare il profilo specifico del corso del processo rivoluzionario nel nostro paese: vale a dire non una semplice sommatoria delle diverse fasi rivoluzionarie fin qui succedutesi, ma l’individuazione più netta della stessa strategia della lotta armata, arricchita dalle peculiarità politiche del terreno di scontro che si sviluppa negli Stati a capitalismo maturo. Un terreno che mette le forze rivoluzionarie nella necessità di misurarsi con le modifiche apportate nello scontro dal rapporto rivoluzione/controrivoluzione e che ha posto alla nostra Organizzazione la necessità di attuare le “tattiche” (che traggono la loro natura dalle leggi generali della guerra rivoluzionaria) adeguate a sostenere i livelli raggiunti dallo scontro a partire dal fatto che si concretizzano in condizioni di volta in volta mutate proprio a causa dell’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

In questo senso si comprende perché nella fase rivoluzionaria di “Ricostruzione”, che si sviluppa all’interno della Ritirata Strategica, l’attività rivoluzionaria è obbligata ad un movimento continuo d’avanzate e ritirate, dato il livello di affinamento della risposta controrivoluzionaria e, su un altro piano, per le condizioni politico-generali in cui si sviluppa lo scontro rivoluzionario.

Per ben comprendere questo dato di fondo è necessario fare alcune considerazioni sulla dinamica generale rivoluzione/controrivoluzione che si è espressa nel nostro paese, precisando alcuni elementi di sostanza per parte rivoluzionaria.

Sono le BR che aprono soggettivamente il processo rivoluzionario nella piena coscienza della loro funzione e che si attrezzano per condurre la guerra di classe di lunga durata assumendosi il ruolo di “reparto d’avanguardia dell’esercito di classe in formazione”. In questa concezione offensiva pongono le solide basi del processo rivoluzionario in Italia e trovano sostanzialmente impreparati lo Stato e la borghesia che, unitamente alle contraddizioni politico-sociali, vengono scossi dall’agire rivoluzionario delle BR a partire dalla stretta dialettica che queste instaurano con le istanze politiche dell’autonomia di classe (è anche per questo livello un po’ “incerto” del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che gli errori iniziali trovano un rapido recupero dentro al metodo prassi-teoria-prassi).

Ma tanto è incisiva l’azione rivoluzionaria delle BR, altrettanto consistente e mirata va a configurarsi la risposta controrivoluzionaria: dall’uso di infiltrati e spie dei servizi segreti degli anni iniziali, al varo dei reparti speciali di Dalla Chiesa, sono queste le risposte che vanno a caratterizzare le prime fasi della politica antiguerriglia. Questa andrà a configurarsi sempre più chiaramente come la punta avanzata del conformarsi e dell’approfondirsi del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, il quale è espressione del procedere complessivo dello scontro rivoluzionario nella dialettica generale con il movimento dell’autonomia di classe in rapporto alle controrisposte dello Stato.

Per questa ragione la dinamica generale del rapporto rivoluzione/controrivoluzione prende forma da come si è sviluppata nel movimento di classe e nel movimento rivoluzionario l’indicazione di organizzarsi sulla lotta armata, una caratterizzazione che ha costituito una ricchissima base di esperienza sulle modalità e sulla praticabilità del terreno della guerra di classe (indipendentemente dagli errori di indirizzo e di finalità derivati dall’imprecisa definizione delle fasi rivoluzionarie). In questo senso ha avuto un peso importante nella formazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione come componente massificata dello scontro rivoluzionario, un peso che è tale per essere il prodotto della dialettica realizzata dalle BR con il campo proletario.

È da questo contesto che prenderanno forma e si matureranno le risposte controrivoluzionarie dello Stato e che sfoceranno nella controffensiva degli anni ’80. Una controffensiva che, per l’ampiezza della sua portata e per le modalità con cui ha operato, ha strappato letteralmente i margini dei rapporti di forza per incidere nella mediazione politica. Su questa controrivoluzione gravano gli specifici interventi di controguerriglia sulla nostra Organizzazione, avendo essi rappresentato aperte risposte di guerra che cozzano e rompono gli involucri formali della “democrazia“ borghese, esplicitando al massimo l’intima natura dello scontro e nello stesso tempo lo Stato, rafforzando l’attività controrivoluzionaria, manifesta la sua illegittimità storica e politica rispetto agli interessi generali del proletariato.

A questo punto vanno considerate le ragioni per cui questo focale passaggio del processo rivoluzionario si è evoluto nel suo approfondimento invece che nel suo esaurimento (così come auspicato dalla borghesia e dallo Stato), tenendo conto del fattore generale relativo al fatto che il processo rivoluzionario diretto dalle BR ha suscitato man mano una controrivoluzione che ha maturato il suo portato proprio in concomitanza del ricentramento politico-organizzativo operato dalle BR per superare gli errori di giovinezza politica (economicismo, soggettivismo). A questo approfondimento vi influiscono ragioni di carattere generale e ragioni strettamente inerenti a come le BR hanno affrontato soggettivamente questo passaggio.

Partendo da quest’ultimo dato, che è anche il principale, è certamente la capacità dimostrata dalle BR di misurarsi con le nuove condizioni dello scontro che ha consentito di mantenere una capacità di resistenza e tenuta nell’impatto con la controffensiva, poiché tale capacità è stata l’espressione, sul piano dell’attività pratica, dell’iniziale processo di ricentramento (operato con Dozier sul terreno dell’antimperialismo e con Taliercio sul piano classe/Stato); in questo senso queste iniziative combattenti hanno in parte controbilanciato gli effetti negativi della controrivoluzione, mantenendo il terreno della propositività rivoluzionaria. E’ questa capacità di correggere gli errori dentro ad un piano che non è empirismo, ma la giusta risoluzione delle contraddizioni col metodo prassi-teoria-prassi, che consentirà alle BR di assumere la scelta più appropriata: la Ritirata Strategica.

Sono queste iniziative combattenti e queste decisioni politiche maturate dalle BR, unitamente alle consolidate basi di rappresentanza rivoluzionaria nel tessuto proletario, che imprimeranno al rapporto rivoluzione/controrivoluzione un movimento verso l’approfondimento dello scontro rivoluzionario e non verso il suo esaurimento. (Approfondimento che si evidenzierà in tutta la sua portata a seguito del processo di riadeguamento complessivo delle BR).

Questo aspetto prettamente soggettivo va poi relazionato al fattore politico a carattere generale, ovvero l’impossibilità per la borghesia e per lo Stato di risolvere militarmente il problema del processo rivoluzionario, il problema rappresentato dalla proposta della strategia della lotta armata come alternativa effettiva per la classe al potere della borghesia imperialista, dato il tipo di scontro di classe storicamente prodottosi nel paese. In sintesi, il dato generale che si è maturato nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione evidenzia il legame tra politiche antiguerriglia verso le BR e loro riversamento nel contesto dello scontro di classe; più precisamente, del loro ribaltamento verso gli ambiti politici delle avanguardie di classe, una relazione che, dopo l’80, sarà caratterizzante nell’azione dello Stato, tendente a smorzare l’espressione dell’antagonismo di classe che si dialettizza con l’attività rivoluzionaria delle BR.

Si evidenzia altresì come alle mutate condizioni prodotte dall’evolvere del rapporto rivoluzione/controrivoluzione le BR hanno saputo adeguare, pur dentro un processo non lineare, la prassi complessiva messa in campo, riqualificando l’impianto politico-organizzativo. Insegnamenti che, essendosi forgiati nel vivo dello scontro e nelle condizioni durissime di questi anni, hanno sancito dentro un salto di qualità un punto di non ritorno nel processo rivoluzionario determinandone il suo avanzamento.

Questa fase della guerra di classe è segnata, dal lato dell’attività controrivoluzionaria dello Stato, da una riformulazione complessiva di tutti i termini della mediazione politica tra le classi e, da parte rivoluzionaria, è inserita nella fase generale definita dalle BR di Ritirata Strategica, cioè un periodo politico non quantificabile in anni, nel quale l’attività rivoluzionaria è prevalentemente tesa ad un ripiegamento delle forze, in modo da mantenere e rilanciare la capacità offensiva espressa dalla Guerriglia. All’interno dell’unità del politico e del militare, la Ritirata Strategica non è risolvibile semplicemente nella ricollocazione di un corpo di tesi, essa ha investito ed investe non solo l’adeguamento dell’impianto politico e organizzativo, ma soprattutto il modo in cui si costruiscono i termini politico-militari dell’andamento della guerra di classe.

Per i caratteri di questa fase, diventano di fondamentale importanza i criteri con i quali si sviluppa l’attacco, si definiscono gli assi programmatici e la disposizione-strutturazione delle forze in campo.

Se la Ritirata Strategica è una fase a carattere generale, al suo interno si è definita la fase di ricostruzione delle forze proletarie e rivoluzionarie e degli strumenti politico-militari per attrezzare il campo proletario nello scontro prolungato contro lo Stato. Ovvero la fase di Ricostruzione, che già vive nell’attività rivoluzionaria, muove per creare le condizioni politiche e materiali atte a modificare e spostare in avanti il piano rivoluzionario e, di conseguenza, le posizioni del campo proletario. Stante la fase di scontro tra le classi, misurarsi con le condizioni politiche del rapporto classe/Stato mette in luce la necessaria dialettica Guerriglia/autonomia di classe a partire dalla direttrice dell’attacco allo Stato. Una dialettica che, a livello dell’organizzazione di classe sulla lotta armata, tenendo conto della concretezza dello scontro, deve agire sul binario costruzione-formazione: ovvero ricostruzione nell’ambito operaio e proletario delle condizioni politiche e materiali relative all’affermazione del terreno della lotta armata; formazione delle forze che si dispongono, in modo da renderle adeguate al livello di scontro contro lo Stato.

Un termine di lavoro in cui le BR fanno vivere, nella formazione delle forze che si dispongono, il patrimonio di vent’anni di attività rivoluzionaria rilanciata alla maturità e progettualità attuali.

Riassumendo, la fase di Ricostruzione è un passaggio delicato e complesso ed investe il tipo di riadeguamento stesso intrapreso dalle BR, cioè riferito alla capacità non solo di riqualificare l’impianto e il tipo di caratterizzazione del quadro militante, ma questo in relazione alla necessità di determinare una direzione e organizzazione delle forze in grado di muovere nel duplice binario ricostruzione-formazione; un passaggio non lineare perché è un percorso materiale collocato per intero all’interno delle contraddizioni generate dal confronto rivoluzione/controrivoluzione.

L’adeguamento nella capacità di esprimere la direzione idonea alle mutate condizioni dello scontro comporta un salto di qualità nella centralizzazione delle forze in campo intorno all’attività generale delle BR, cioè emerge la necessità politica che l’attività delle BR si muova in termini di forte centralizzazione politica che nell’accezione leninista significa: centralizzazione delle direttive politiche sull’intero movimento delle forze, decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse sedi e istanze organizzate. Più precisamente la centralizzazione deve rispondere alla capacità di responsabilizzare le forze in un piano di lavoro le cui caratteristiche politiche siano patrimonio di tutti, ma non interpretabili spontaneamente dai diversi livelli organizzati. La centralizzazione nell’attività del movimento delle forze è condizione che richiede il massimo dell’utilizzo politico delle medesime, all’interno di una disposizione volta a farle muovere come un corpo solo intorno alle iniziative dell’Organizzazione. Ciò avviene solo dentro ad un piano di lavoro definito, all’interno del quale tutte le forze concorrono non per spontaneo apporto, ma disposte ed organizzate in modo da contribuire confacentemente. Una dinamica politica e organizzativa che può avvenire appunto nel duplice movimento: centralizzazione politica-decentralizzazione delle responsabilità. Si tratta in sintesi di formare le forze all’interno di una disposizione che permette di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro richiede per rispondere alle necessità che derivano da questo livello di sviluppo della guerra di classe.

Questo adeguamento allo scontro implica la capacità di esprimere un livello di direzione politico-organizzativa adeguato alla centralizzazione nella disposizione delle forze sull’attività delle BR, livello di direzione che nel suo complesso muove verso un avanzamento del processo di costruzione del Partito Comunista Combattente.

Questo perché i caratteri del processo rivoluzionario, negli Stati a capitalismo maturo, comportano il fatto che l’avanguardia armata del proletariato si configuri come una forza rivoluzionaria che assume i principi di funzionamento di un esercito rivoluzionario; in altre parole le BR sono una forza rivoluzionaria che pur essendo il nucleo fondante il partito, non sono il Partito Comunista Combattente. Questo perché il nodo della direzione rivoluzionaria, determinata dal partito nella guerra di classe, non si scioglie con un atto di fondazione, ma esso è un vero e proprio processo di fabbricazione-costruzione del partito, che si configura come tale all’interno del percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe. In sintesi, la direzione rivoluzionaria dello scontro di classe si realizza agendo da partito per costruire il partito.

 

Il programma politico praticato dalla nostra Organizzazione si sviluppa su questi termini:
– Il principale termine programmatico su cui si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata è l’attacco al cuore dello Stato fino al suo abbattimento, inteso nelle sue politiche dominanti che di volta in volta lo oppongono alla classe; attualmente esse sono identificabili nei progetti di “riforma” dello Stato, i quali, modificando profondamente gli assetti istituzionali, hanno maturato concretamente la svolta verso una “Seconda Repubblica”.

– Sul piano dell’antimperialismo le BR lavorano ad una politica di alleanze contro il nemico comune, con tutte le forze rivoluzionarie che operano nell’area; ciò al fine di indebolire e ridimensionare l’imperialismo, costruendo offensive comuni contro le sue politiche centrali.
Perciò le BR lavorano alla costruzione-rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista. Nel quadro di queste attività e dentro gli accordi politici raggiunti con la RAF, rivendichiamo l’iniziativa politico-militare fatta dalla RAF contro Alfred Herrhausen e ne evidenziamo la sua centralità in rapporto alle politiche di coesione in Europa occidentale che sono tutte interne al rafforzamento della catena imperialista.

– Al livello dell’organizzazione di classe sulla lotta armata, ribadiamo i termini che scaturiscono dalla fase di “Ricostruzione”. Essi si esplicano sul duplice piano di lavoro costruzione-formazione e sono tesi a ricostruire nel tessuto di classe i livelli di riorganizzazione delle forze proletarie e rivoluzionarie in modo da disporle adeguatamente sul terreno della lotta armata nello scontro contro lo Stato. La fase di ricostruzione è termine prioritario nel mutamento dei rapporti di forza tra campo proletario e Stato e si pone come un tassello fondamentale per la ricostruzione dei livelli politico-militari che costituiscono i termini di avanzamento della guerra di classe di lunga durata.
Questi termini programmatici sono il terreno pratico su cui le BR sviluppano e verificano la loro capacità di attacco e assolvono alla funzione di direzione politica dello scontro all’interno della proposta strategica della lotta armata alla classe. Su questi termini di programma le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente lavorano e danno sostanza alla parola d’ordine dell’unità dei comunisti.

– Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di “riforma” dello Stato.

– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

– Attaccare le linee centrali della coesione dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.

– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica.

– Onore al militante dei GRAPO José Manuel Sevillano Martin ucciso in questi giorni in carcere dallo Stato imperialista spagnolo.

– Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti!

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cappello Maria, Cherubini Tiziana, De Luca Antonio, Galloni Franco, Grilli Franco, Lupo Rossella, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio. I militanti rivoluzionari: Bencini Daniele, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco

Forlì, 22 maggio 1990

Unità dei prigionieri politici europei nella lotta contro il blocco imperialista. Alcuni compagni del carcere di Trani

La lotta dei prigionieri politici del PCE(r) e dei GRAPO è un esempio per tutti i prigionieri comunisti e rivoluzionari nelle carceri dell’Europa Occidentale.

  1. Il 25 maggio scorso a Madrid è morto il compagno José Manuel Martin, militante prigioniero dei GRAPO. È caduto al 6° mese di sciopero della fame per ottenere il raggruppamento. È morto ucciso dall’alimentazione forzata con cui lo Stato spagnolo vuole stroncare la resistenza collettiva dei prigionieri. Le compagne e i compagni che con lui hanno iniziato questa lotta durissima stanno andando avanti. Sono 58 i prigionieri dei GRAPO, del PCE(r) e libertari che dal novembre ’89 lottano contro la politica della “dispersione” adottata dallo Stato per attaccarli. Dividendoli in 56 carceri sparse in tutto il territorio nazionale e coloniale, il governo Gonzales e i carcerieri della Istitución Penitenciaria erano sicuri di aver creato le condizioni per ottenere un arretramento della militanza, della forza e della coscienza politica dei compagni.
    Davanti alla compattezza della loro lotta e alla mobilitazione che essa ha suscitato nel movimento di classe in Spagna e in tutta Europa, a febbraio Gonzales in prima persona ha risolto la contraddizione creata dalla Magistratura di Sorveglianza sul passaggio all’alimentazione forzata. L’esecutivo spagnolo ha imposto la “soluzione coma”, cioè l’alimentazione forzata usata in modo da indurre nei prigionieri uno stato comatoso che li elimini lentamente. Con la “dispersione”, il diktat che si voleva imporre ai prigionieri era: «o carcerazione normalizzata o isolamento»; adesso invece il diktat è «o arresi o morti»!
  1. La lotta dei compagni spagnoli è politicamente centrale per la situazione dei prigionieri rivoluzionari in tutta Europa. La loro è, sostanzialmente, la nostra lotta, al di là delle specifiche differenze di condizioni, valutazioni o indirizzo politico. La politica infame che li vuole “morti o arresi” è direttamente influenzata da una concertazione e decisione tra gli Stati europei con cui tutti facciamo i conti. Le motivazioni che guidano l’iniziativa contro i compagni spagnoli non sono dissimili da quelle che spingono i governi in Francia e RFT. E sono le stesse che hanno portato all’attacco delle guardie contro i compagni del Blocco B di Novara.
    I governi europei oppongono rigidamente la ragione terroristica della “sicurezza di Stato” a qualsiasi attività ed espansione politica dei prigionieri della guerriglia che non possa essere gestita sul terreno della “riconciliazione con lo Stato”. Condizioni di vita, di socialità e di comunicazione che sono minima cosa rispetto agli spazi di libertà concessi a piene mani a tutti i prigionieri che attaccano la lotta armata, suscitano invece uno scontro violentissimo se riguardano compagni che mantengono la loro identità rivoluzionaria. La parola d’ordine imperialista è: «Abolire i prigionieri rivoluzionari come fattore politico». Solamente doverne giustificare l’esistenza come soggetti attivi dopo anni e anni di isolamento, di uccisioni e pestaggi, di soluzioni politiche, è già ammettere una contraddizione irrisolta per i governi. Ancor più inaccettabile è la lotta collettiva perché rilanciando le ragioni generali della lotta per il comunismo nelle metropoli, amplifica un dato che nessuna propaganda borghese riesce a far sparire completamente: le società europee non sono pacificate, ma la crisi che le attraversa è ancora profonda, la rivoluzione proletaria è sempre il nemico politico principale.
    Lo scontro nelle carceri è tutto politico e ha come oggetto l’identità collettiva e comunista dei prigionieri!
  1. Gli Stati europei si avvalgono di politiche e strumenti comunemente elaborati per ottenere con ogni mezzo la frantumazione dei collettivi dei prigionieri rivoluzionari. È un obiettivo che rientra nella necessità di controllo delle specifiche situazioni nazionali e che ha, allo stesso tempo, un peso non marginale in vista del salto all’integrazione politica ed economica verso cui preme la grande borghesia industriale e finanziaria europea. La linea principale di intervento contro i prigionieri elaborata negli organismi di coordinamento continentale della counterinsurgency è quella del condizionamento progressivo. Del logoramento attraverso una pressione continua esercitata con l’uso flessibile dell’isolamento, così da impedire qualsiasi pratica politica e piegare l’identità comunista. È questa linea che informa in specifiche modalità il trattamento dei prigionieri rivoluzionari in Francia, in RFT, in Spagna, in Belgio… Ed è sempre essa che regola in ogni loro variegata sfumatura qui in Italia le sezioni speciali per piccoli gruppi di Novara, di Cuneo, di Trani, di Ascoli, nonché quella di Latina per le compagne; ed anche la prigionia dei combattenti arabi e palestinesi. In sua funzione il blitz di Novara, o le minacce e provocazioni contro singoli compagni, o il controllo diretto esercitato dai servizi di sicurezza (attraverso l’ufficio V del Ministero di Grazia e Giustizia) sulla corrispondenza e sui colloqui. Una linea generale che si traduce in un obiettivo più immediato: i prigionieri non devono svolgere alcun ruolo attivo nello scontro rivoluzionario in Europa. I vari “specialisti della sicurezza” hanno da tempo raggiunto la convinzione che “staccare la spina” ai prigionieri sia molto utile per contrastare il rafforzamento e l’evoluzione unitaria delle lotte rivoluzionarie in Europa. Ai primi di dicembre ’89 in RFT, alla riunione dell’“Immenauschuss” (Commissione Interni, comitato cui partecipano i ministri di Interno e giustizia, funzionari ed esperti di sicurezza dei diversi partiti), subito dopo l’azione della RAF contro Herrhausen il ministro degli interni rimarcò l’influenza sicuramente avuta dai prigionieri e quindi la necessità di ulteriori misure per limitarne l’attività politica, non mancando di inquadrare nel suo mirino quei prigionieri che dall’Italia discutono coi prigionieri tedeschi. Del resto, già nell’85/86 la Procura Federale aveva incriminato per “Associazione Terroristica Internazionale” i prigionieri spagnoli che avevano solidarizzato con lo sciopero della fame dei prigionieri RAF e Resistenza. Nei mesi scorsi a più riprese le compagne e i compagni prigionieri della RAF sono stati ulteriormente isolati per non “essersi dissociati dall’azione contro Herrhausen”; la loro comunicazione con l’esterno bloccata per aver lottato a fianco dei prigionieri spagnoli. Lo Stato tedesco con il suo consolidato apparato controrivoluzionario si pone sempre alla guida nell’iniziativa contro i prigionieri nei paesi europei; come tutti sanno è sua la matrice della “soluzione coma” contro i prigionieri che lottano con lo sciopero della fame.
    Lottare uniti per obiettivi di fondo comuni è un passo che è davanti a tutti i prigionieri che in Europa non vogliono far passare la loro identità nel tritacarne del “reinserimento nella società borghese”.
    L’azzeramento della attività ed identità politica dei prigionieri è un obiettivo importante per i governi europei e non si può pensare di contrastarlo su un terreno di iniziativa parziale. Meno che mai ci si può illudere di aggirarlo non sviluppando iniziative.
    Bisogna invece riflettere seriamente sui significati che sta acquistando oggi, in questa fase storica, la questione dei prigionieri della guerriglia.
    L’interesse che spinge l’azione degli apparati controrivoluzionari ha travalicato i dispositivi antiguerriglia di attacco immediato a specifiche organizzazioni con l’uso dei prigionieri come ostaggi, nel senso che non c’è più solo questo. L’attacco alla soggettività politica dei prigionieri assume una valenza più ampia se inquadrato dentro l’opera di lobotomia della prospettiva comunista e antimperialista che la borghesia multinazionale sta perseguendo come elemento essenziale di governo della crisi del suo sistema politico e economico.
    Nelle carceri dei paesi del “Blocco Europeo” ci sono centinaia di militanti che “coprono” tutto l’arco delle esperienze rivoluzionarie ed antimperialiste di questi venti anni. Della guerriglia per il comunismo e dei movimenti di liberazione di tutta l’area europea e mediterranea.
    È la prospettiva che essi, nel loro insieme hanno aperto, la nostra posta in gioco.
    La sua continuità è il cuore dello scontro.
    Le campagne di guerra psicologica in cui l’anticomunismo storico si integra volutamente col modello “lotta al terrorismo internazionale” hanno un carattere preventivo. Perché esse puntano ad impedire che la continuità della lotta rivoluzionaria si saldi ai conflitti che le necessità di ridispiegamento imperialista fanno nascere in tutta Europa come nel tricontinente del Sud. In questo c’è la ragione e la condizione dell’accentuato accanimento e della scientificità con cui i vari apparati si stanno dedicando al logoramento dei prigionieri militanti.
    Il blocco europeo in formazione stringe i tempi su tutti i piani e si sente già così forte da tirare fuori la sua faccia totalitaria antiproletaria e razzista, e da proiettarla a livello planetario.
    La percezione di questa qualità di scontro a livello europeo, nel movimento si é manifestata nella continuità con cui la solidarietà coi prigionieri si é tradotta in iniziative politicamente centrate di contenuto antimperialista e internazionalista.
    A fianco dei compagni della RAF e Resistenza, dei compagni di AD, oggi dei compagni spagnoli, in Danimarca, Spagna, Olanda, RFT, Belgio e Svizzera, Grecia e in parte anche in Italia, azioni offensive e mobilitazioni di massa hanno espresso la consapevolezza che sconfiggere le politiche di isolamento non si determina come “difesa” da episodi di repressione, ma interamente dentro (come parte importante) l’avanzamento come prospettiva strategica di lotta del proletariato internazionale contro il capitalismo e il suo sviluppo distruttivo.
    Un movimento e una coscienza che vanno rafforzati.
    Per questo nella nostra solidarietà ai compagni dei GRAPO, e ieri ai compagni di AD e RAF, c’è anche questa determinazione politica: che l’unità tra i prigionieri sia un contributo affinché aumentino i momenti e i terreni di unità tra i rivoluzionari in Europa.
  1. La necessità di guardare al processo rivoluzionario con un’ottica sempre più continentale e mediterranea, come parte di uno scontro mondiale, non nasce oggi e non nasce certo attorno alla lotta dei prigionieri.
    In questo decennio le organizzazioni che hanno contribuito alla proposta del Fronte hanno concretamente già posto le basi affinché questo importante sviluppo si traduca in coscienza e prassi rivoluzionaria stabile.
    È attorno a queste basi che si sono moltiplicate le esperienze perché è maturata la valutazione che i principali problemi di prospettiva rivoluzionaria, sono comuni a tutti. Non solo, ma che la loro qualità richiede che essi siano affrontati insieme!
    La lotta rivoluzionaria per il comunismo a tutti i livelli in cui si esprime deve puntare ad un concentramento di prospettiva comune.
    Oggi poi, gli sviluppi susseguitisi in campo rivoluzionario si trovano a misurarsi con gli innumerevoli cambiamenti economici e politici, venuti a compimento nel sistema capitalistico, nella sua configurazione ormai pienamente mondiale; perché essi premono sui rapporti di potere nelle singole nazioni e nello scontro mondiale.
    Una situazione complessa all’interno della quale l’avanzamento della prospettiva comunista ed antimperialista deve alimentarsi di un confronto ad ampio raggio che non esclude nessuna soggettività rivoluzionaria esistente, compresi i collettivi dei prigionieri militanti.
    Il capitalismo USA-EUR-GIAP pretende di celebrare chissà quali trionfi planetari, mentre mai come ora è indebolito da fenomeni disgregativi. Quelli che spaccia per successi sono il prodotto spesso inevitabile di una lunga e insuperata crisi globale del sistema che ha il suo vorticoso “buco nero” negli USA che vedono incrinata la loro centralità sul piano economico e politico.
    Se è già dalla fine dell’800 che si può parlare di mercato mondiale capitalistico oggi ciò ha un significato pieno. Un significato che riflette l’accelerazione nei processi di integrazione geografica (regionale e mondiale), produttiva, finanziaria e politica, nell’economia capitalistica avutasi in questi venti anni!
    Processi che si portano dentro evidenti trasformazioni qualitative su tutti i piani della formazione sociale, ma che non hanno risolto le principali contraddizioni della crisi apertasi nei primi anni ’70.
    Al contrario, l’insieme delle risposte imperialiste alla crisi comincia a generarne di nuove riversandosi sui rapporti sociali, sullo spazio territoriale che di questo è prodotto e luogo, in modo ancor più distruttivo.
    A livello planetario come nel singolo territorio per le classi dominanti è sempre più difficile governare le contraddizioni economiche, politiche, sociali che i loro stessi interessi contribuiscono ad esasperare. La realtà della interdipendenza nel mercato mondiale (il fatto che nessuna economia possa starne fuori, qualsiasi sia il suo grado di sviluppo) su cui la borghesia imperialista ha fondato il potere di non far precipitare la crisi, riversandone i costi maggiori verso i continenti del sud e recentemente verso l’est, oltre che sul proletariato dei paesi del centro, comincia ad agire come centro moltiplicatore delle contraddizioni.
    La qualità politica attraverso cui l’imperialismo dei paesi forti impone al proletariato i suoi interessi a livello globale e di singolo territorio è la stessa. Questo è un elemento determinante che permette ai rivoluzionari di lottare oggi con una visione unitaria dello scontro. Di affermare una strategia complessiva e non parziale attorno a cui ricomporre le diverse spinte rivoluzionarie in una fase di così veloci cambiamenti.
    Lo scontro rivoluzione/imperialismo, da tempo non può più seguire i confini Est/Ovest e traccia invece nuove discriminanti e nuove unità a livello mondiale. Oggi le necessità di stretta integrazione, divenute dominanti in molti paesi che sono stati “socialisti” o di “democrazia popolare”, agiscono in senso controrivoluzionario. Le linee di costruzione della soggettività proletaria e comunista in questa dimensione storica, hanno, nell’affermazione del terreno di connessione strategica tra lotta anticapitalista e lotta antimperialista nelle metropoli europee e in quelle del Tricontinente, uno dei tracciati centrali.
    Qui in Europa abbiamo davanti a noi il processo di strutturazione del Mercato Unico e dell’unità politica tra gli Stati. Il cosiddetto “Blocco Europeo”. Un processo che, visto nell’ampiezza delle sue determinazioni politiche e per i riflessi che ha per il proletariato in Europa, nel Mediterraneo e nel Sud del mondo, sintetizza l’insieme delle risposte imperialiste alla crisi e ne costituisce uno dei punti di svolta. Un processo che condizionerà sempre di più la lotta di classe in ogni paese e su cui si misureranno le possibilità di sviluppo rivoluzionario.
  1. In tutte le sezioni speciali in cui sono tenuti in isolamento per piccoli gruppi i prigionieri comunisti in Italia, c’è stata in febbraio un’iniziativa collettiva di lotta, attuata dalla maggioranza di essi contro l’attacco delle guardie ai compagni del Blocco B di Novara di fine gennaio.
    Più recentemente in molti ci siamo attivati a fianco della lotta dei prigionieri spagnoli.
    L’attacco ai compagni di Novara ha chiarito una volta di più che la politica dello Stato contro i prigionieri non è un “residuo emergenziale”. Essa persegue sempre i suoi obiettivi distruttivi. Lo staff di esperti e di carabinieri installati al Ministero di Giustizia, che sovrintendono concretamente al trattamento dei prigionieri, utilizza tutti i dispositivi e tutti i metodi più o meno scientifici sperimentati in questi anni, in funzione della situazione politica di oggi. Bisogna valutare le forme attuali di applicazione dell’isolamento rispetto ai suoi obiettivi. Cioè azzerare progressivamente i livelli di vita e organizzazione collettiva mantenuti dai prigionieri in anni di lotta, per impedire che essi siano parte attiva del movimento: individualizzare e spoliticizzare. Più in generale, differenziare e tenere sotto pressione tutti quei prigionieri, comunisti e no, che non rientrano nei meccanismi della cosiddetta “risocializzazione”. Questo è un dato inconfutabile che pone una volta di più la necessità politica di collocare stabilmente la resistenza dei prigionieri nella lotta rivoluzionaria di questo paese.
    La mobilitazione che c’è stata in vari poli metropolitani di gruppi di compagni e situazioni di lotta a fianco dei prigionieri di Novara e oggi in sostegno dei compagni spagnoli, segna un passaggio importante.
    Nella maggior parte di questi momenti di mobilitazione è emersa la consapevolezza che la situazione e la lotta dei prigionieri in Europa va affrontata nel suo insieme. Separare le diverse situazioni significherebbe ridurle ad una parzialità senza sbocco. Solo nel quadro generale di avanzamento della prospettiva rivoluzionaria in Europa e nel Mediterraneo si sblocca realmente la politica di annientamento contro i prigionieri.
    Qui in Italia, il movimento rivoluzionario si scontra con la volontà dello Stato di stabilire un rapporto di forze schiacciante contro ogni lotta proletaria accerchiandola, depotenziandola, tagliando le gambe a qualsiasi sviluppo. Le campagne d’ordine di Gava, Andreotti e Craxi proteggono i margini di profitto e la rifondazione istituzionale indispensabile alla grande borghesia italiana per competere nella unificazione europea. Segnando comunque una forte involuzione della realtà italiana comune a quella di tutte le società metropolitane.
    Nessuna semplificazione è possibile.
    I compagni prigionieri e i collettivi rivoluzionari che hanno la consapevolezza che la situazione attuale nelle carceri non è di “equilibrio”, ma di iniziativa dello Stato per ottenere un arretramento della soggettività dei prigionieri, devono individuare insieme i passaggi per ottenere un mutamento.
    Prima di ciò bisogna stabilire con chiarezza il terreno politico su cui è possibile realisticamente contrastare la politica statale e ricomporre la necessaria dialettica tra i prigionieri rivoluzionari e le molteplici soggettività dell’autonomia di classe.
    È l’esperienza concreta che evidenzia quale è questo terreno: affrontare le diverse situazioni di isolamento imposte dagli Stati europei nel loro insieme e nel significato che assumono dentro la formazione del blocco imperialista europeo, come lotta unitaria dei prigionieri e del movimento rivoluzionario in Europa.
    In questa dimensione e qualità può vivere tutto lo spessore della lotta per il comunismo nella metropoli: l’unità internazionalista per una prospettiva rivoluzionaria comune.

Abbracciamo i compagni prigionieri in Spagna, in Francia, in RFT e sosterremo la loro lotta per il raggruppamento.

José Manuel Sevillano Martin è nel nostro cuore e nella nostra rabbia.

Lottare insieme

Alcuni compagni del carcere di Trani

Giugno 1990

Lottare uniti contro l’imperialismo in Europa e nel Tricontinente del Sud. Seconda Corte di Assise di Roma – Documento di alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta, Luciano Farina, Giovanni Senzani, allegato agli atti del processo BR-Romiti.

«La decisione di lottare contro il sistema imperialista e per un mondo in cui gli uomini possano condurre una vita libera e autodeterminata, non può essere subordinata al fatto che in una determinata fase sia più forte la propria parte o il nemico, e dunque se la vittoria sia a portata di mano o se debba essere combattuta fino alla fine in una lunga lotta. La decisione per la lotta rivoluzionaria può venire solo dalla propria esperienza nel sistema e dalla sua brutalità e distruttività e dai propri obiettivi ed idee – appunto come si vuole vivere» (Rote Armee Fraktion, 27.7.1990).

Lo scenario degli anni ’90 si è aperto con alcuni fatti destinati ad influenzare in modo determinante lo sviluppo presente e futuro del mondo.

Il primo è rappresentato dal costituirsi della “Grande Germania”, dopo il crollo del sistema economico-politico-militare dei paesi del Patto di Varsavia e dal suo emergere come punto di forza e di predominio all’interno dell’Europa, e ciò fa assurgere l’intero blocco europeo-occidentale al ruolo di potenza mondiale. L’incorporazione della Germania Orientale che si celebra in questi giorni svela a tutti non solo l’evidente realtà di un “Quarto Reich” che sta decollando, ma quella di una borghesia europea decisa a perseguire i suoi interessi sulla pelle dei proletari dell’est, dell’ovest e del sud. Come dicono i compagni della RAF, comincia una nuova «aggressione contro i popoli dell’Europa condotta con i mezzi dell’economia e della politica» e, contemporaneamente, il capitalismo tedesco-europeo vuole lanciarsi «in un nuovo giro di vite nella sottomissione e nel saccheggio dei popoli del Tricontinente». Per questo si apre per i proletari ed i rivoluzionari «una lunga fase di lotta contro l’appena formato potere mondiale grande-germanico/europeo-occidentale».

Il secondo fatto è ancora più scatenante: l’invasione e l’occupazione della regione del Golfo da parte degli USA e dei loro alleati europei occidentali. Con questo atto “oggettivo” di guerra – una vera e propria aggressione – inizia un’epoca nuova in cui il quadro della crisi globale dell’imperialismo tende a tradursi in quello della guerra globale.

Il periodo successivo al ridefinirsi del rigido bipolarismo est/ovest – il cosiddetto post-guerra fredda – comincia in modo traumatico e si manifesta come un periodo di forte instabilità in cui l’interdipendenza del mercato mondiale moltiplica le contraddizioni ed i conflitti assumono una nuova globalità. La ricerca di un nuovo ordine mondiale capitalista diventa sempre più urgente e difficile.

Il terzo fatto è costituito dal ruolo dell’Italia in questa fase di passaggio del dispiegamento imperialista europeo. Lo Stato italiano sta assumendo le maggiori responsabilità nel Fronte Sud della NATO e nel processo di unificazione politica europea attraverso il suo personale inserito al vertice delle strutture comunitarie europee. Ciò si sta traducendo in una rifunzionalizzazione e centralizzazione delle strutture dello Stato che aggrediscono tutte le contraddizioni sociali e in un attacco diretto alle condizioni materiali di vita dell’intero proletariato. L’esempio più chiaro è la nuova manovra finanziaria di questo periodo, vero e proprio insieme di provvedimenti da economia di guerra che pesano soprattutto sui proletari.

Per mesi la propaganda borghese ha teso ad inculcare in tutti l’idea di una ininterrotta era di pace sotto la guida del capitalismo, ormai padrone del mondo dopo il “crollo del comunismo” ovunque. La realtà si incarica invece di riportare in primo piano la materialità delle contraddizioni che attraversano il mondo con un nuovo scenario di guerra.

Assistiamo ormai al concretizzarsi sempre più sconvolgente dello scontro, della guerra del nord contro il sud del mondo; una continua accumulazione di ricchezza e di miseria come poli di una contraddizione che il capitalismo non fa che accentuare in ogni angolo del pianeta, dalle metropoli dell’occidente sviluppato alle periferie del Tricontinente. La contraddizione tra proletariato e borghesia afferma la sua centralità ed assume un carattere scatenante in tutte le aree.

Quello che è cambiato, e che non fa che moltiplicare gli effetti dello scontro tra proletariato e borghesia, è il prevalere, rispetto al consueto quadro della contraddizione est/ovest, che per anni ha fornito una chiave di lettura del mondo in base ad un sistema bipolare ed ha segnato i confini anche dello scontro tra rivoluzione e imperialismo, di quello della contraddizione nord/sud, dentro cui la lotta dei popoli contro la borghesia acquista oggi nuova profondità e radicalità.

La lotta anticapitalista e antimperialista nelle metropoli europee e nel Tricontinente trova un terreno comune di unità nell’iniziativa contro il nuovo dispiegamento imperialista nel mondo intero, quindi contro il sistema economico-politico-militare che ruota attorno agli USA.

In questo senso l’invasione occidentale della regione del Golfo non è altro che il coagularsi delle linee di sviluppo delle lotte del prossimo futuro; i proletari ed i popoli del mondo intero contro l’imperialismo come sistema unitario, contro un sistema di potere e di sfruttamento che è solo distruttività della vita umana qui nel centro e là nella periferia.

Gli USA oggi cercano di uscire con nuova determinazione dalla crisi di egemonia che li attanaglia ormai da anni e che ha segnato tutta la storia dell’Occidente dopo la sconfitta del Vietnam. Dopo la prova generale in Centro America con l’indisturbato assalto a Panama, gli USA passano ad un attacco di ben altre proporzioni, perché vorrebbe essere risolutivo per la definizione del nuovo ordine mondiale e come tale viene rivestito del carattere di una vera e propria moderna crociata, contro l’Iraq e l’intero popolo arabo, che “mettono in pericolo” il benessere e la pace armata dell’Occidente.

In realtà la regione del Golfo è una zona vitale per gli interessi del mondo capitalistico che sul piano energetico dipende in modo rilevante dal petrolio dell’area; quindi il suo controllo è necessario per garantire lo stesso processo produttivo dei paesi occidentali. D’altra parte, fin dal 1980 l’Heritage Foundation, nel suo documento strategico “Mandato per la supremazia”, elaborato per i programmi a lungo periodo dell’Amministrazione Reagan, affermava a chiare lettere che dovevano essere «intraprese efficaci azioni per ristabilire una presenza militare americana credibile in quest’area». Oggi questo si è realizzato concretamente e secondo gli strateghi USA dovrebbe svilupparsi ulteriormente in una “NATO araba”.

Dalla strategia della guerra a bassa intensità sviluppata dall’Amministrazione Reagan, gli USA stanno muovendosi verso la strategia dell’aggressione ad alta intensità dell’Amministrazione Bush, a cui partecipano direttamente – economicamente, politicamente e militarmente – Europa e Giappone, con al seguito gli Stati arabi reazionari, loro nuovi alleati, e uno Stato d’Israele ancora più armato, bellicista e razzista.

Questa è la nuova realtà che i mass-media ci rovesciano addosso ogni giorno con una tempesta di bollettini di guerra e che le masse arabe palestinesi stanno affrontando nella loro terra. La nuova crociata – il più ampio concentramento di potenza militare dalla fine della seconda guerra mondiale – viene vista per quello che è dai suoi destinatari: un attacco occidentale, bianco e razzista contro la vita presente e futura delle masse arabe e palestinesi che va respinto, un attacco ben simboleggiato dalla bandiera con il teschio delle forze d’occupazione USA.

Le masse arabe palestinesi si sono mobilitate subito contro l’invasione del Golfo denunciando il ruolo delle “monarchie feudali arabe” che l’avevano sollecitata per sopravvivere. Dalla Giordania, all’Iran, all’Algeria, ai territori occupati della Palestina, dove l’Intifadah palestinese ha abbinato, nella sua lotta quotidiana, l’invasione USA del Golfo all’occupazione sionista della Palestina, facendo appello ai popoli arabi e ai movimenti dell’area «affinché si uniscano in un unico fronte, forte e saldamente unito, per affrontare la prevista aggressione americana e costringerla ad andarsene, spazzandola via dalla pura terra della missione islamica per proteggere la dignità araba» (Comando Nazionale Unificato dell’Intifadah n. 61, 31 agosto 1990).

Ci sono tutte le premesse perché l’aggressione americana ed europea si trasformi in un nuovo Vietnam, destinato a durare a lungo nel tempo e ad avere una globalità tutta nuova, specifica a questo periodo storico.

Questo scontro coinvolge già tutti i proletari e i popoli del mondo, che sono i primi a pagarne i costi, a cominciare dalle centinaia di migliaia di proletari in fuga dalla zona del Golfo, trasformati da forza-lavoro sottopagata in profughi abbandonati a se stessi, ed è parte dello scontro generale tra rivoluzione ed imperialismo. Esso può diventare un terreno di costruzione e sviluppo della soggettività rivoluzionaria attraverso l’affermazione della connessione strategica tra la lotta anticapitalista ed antimperialista in Europa e nel Tricontinente (Asia, Africa e America Latina). Un aspetto di quel nuovo internazionalismo proletario che si sviluppa nelle condizioni oggettive – storiche – dello scontro di questa epoca che fa sì che gli interessi dei proletari e dei popoli dell’Europa e del Tricontinente diventino “gli interessi comuni” nella lotta unitaria contro l’imperialismo.

In Europa siamo di fronte ad un profondo e sempre più accelerato processo di ristrutturazione in vista dell’istituzione del Mercato Unico e del costruirsi dell’unità politica degli Stati Europei. Questo processo è una risposta imperialista alla crisi e comporta enormi riflessi sul proletariato in Europa, nel Mediterraneo e nel sud del mondo. E un primo esempio indicativo sono le decisioni economiche, politiche e militari omogenee rapidamente concertate dagli Stati del blocco europeo sulla questione del Golfo, in collegamento con gli USA.

Questo processo avrà riflessi sulla lotta di classe in ogni paese europeo e su di esso si misureranno sempre più le possibilità di sviluppo rivoluzionario, perché sempre più i proletari di ogni territorio avranno di fronte le nuove concentrazioni capitalistiche sorte su base continentale e le corrispondenti istituzioni politiche che coordinano ed omogeneizzano le loro iniziative.

Per l’Europa, e in generale per gli altri paesi del centro (USA e Giappone), è vitale avere un retroterra pacificato in cui poter portare a termine i processi di ristrutturazione capitalistica sotto la spinta dei grandi oligopoli finanziari multinazionali e da cui lanciare l’aggressione al resto del mondo. In questa prospettiva di sfruttamento e miseria per le masse proletarie in cui la distruttività del sistema imperialista raggiunge livelli mai visti, non c’è spazio per le lotte proletarie che devono essere svuotate di ogni potenzialità antagonista, non c’è spazio per l’opposizione politica rivoluzionaria, che deve essere delegittimata e distrutta… Gli anni ’90, se non possono perpetuare la stagione d’oro del capitalismo del decennio precedente, come amano ricordare in Italia Agnelli e il suo compare Romiti, devono per lo meno consentire lo “sviluppo” dei capitali più forti ed attrezzati nonostante l’approfondirsi della crisi economica nelle aree del centro.

La FIAT, ad esempio, non ha alcun problema ad osannare da una parte i suoi profitti e, dall’altra, ad attrezzarsi per affrontare la nuova situazione che si sta determinando, inventando la mistica della “qualità totale“ rinnovando la concretezza della cassa integrazione e, contemporaneamente, preparandosi ad espandere il suo settore di produzioni di guerra.

In questo quadro, mentre ritornano in primo piano le ragioni della guerra imperialista e si afferma il carattere reazionario della società borghese, si mantiene il dato strutturale della controrivoluzione preventiva che si è stabilizzato nell’attacco al progetto delle organizzazioni della lotta armata negli anni ’70 e ’80.

La “guerra al terrorismo” è un obiettivo irrinunciabile dell’imperialismo nel cercare di garantirsi il livello di pace sociale necessario per portare avanti i suoi processi di ristrutturazione e “sviluppo”. Ciò si traduce nella politica integrata degli Stati europei contro il movimento rivoluzionario e le forze combattenti, in particolare contro la politica di fronte che si va costruendo a livello continentale.

Anche l’attacco ai prigionieri rivoluzionari europei è parte di questa politica imperialista in quanto essi sono un’espressione della continuità della lotta al capitalismo e all’imperialismo all’interno delle metropoli europee. Un attacco questo che serve a delegittimare e spoliticizzare l’intera esperienza rivoluzionaria europea degli ultimi vent’anni.

Per questo di fronte alla lotta dei prigionieri dei GRAPO e del PCE(r) in Spagna contro l’isolamento e per ottenere il raggruppamento – lotta che dura ormai da dieci mesi e che ha già visto la morte del compagno Josè Sevillano Martin – gli Stati europei e gli organismi sovranazionali della repressione sono più che mai uniti e a fianco dello Stato spagnolo e del suo governo “socialista” nella strategia di annientamento dei compagni. Il vero contenuto di queste politiche è sempre la distruzione del soggetto rivoluzionario e ciò stabilisce anche i fondamenti per un terreno di lotta comune per tutti i prigionieri, come parte della lotta tra rivoluzione e imperialismo in Europa. Respingere l’attacco ai collettivi di prigionieri in Spagna e in tutte le carceri imperialiste dell’Europa significa anche respingere e scuotere il potere che sfrutta e opprime milioni di uomini e donne qui nel centro e nel Tricontinente del sud.

Lottiamo insieme e vinceremo insieme.

Onore al compagno Josè Sevillano Martin e a tutti i compagni prigionieri caduti nella lotta contro il carcere imperialista.

Alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta: Luciano Farina, Giovanni Senzani

Roma, 3 ottobre 1990

 

Sulle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario. Corte d’Appello di Parigi, prima Chambre d’accusation. Documento dei militanti delle BR per la costruzione del PCC Giorgieri Simonetta, Vendetti Carla e dei militanti rivoluzionari Bortone Nicola e Gino Giunti letto all’appello all’ordinanza di prolungamento della carcerazione preventiva.

Se si considera questa istruttoria nei suoi termini particolari, slegata dal contesto generale in cui è inserita, quello che risalta maggiormente è il fatto, apparentemente anormale, per cui lo Stato francese si pone il problema (e si assume l’onere) di giudicare l’attività rivoluzionaria delle BR per la costruzione del PCC, organizzazione comunista combattente italiana. Ma questa istruttoria (e tutto ciò che l’ha preceduta in termini di cooperazione tra gli apparati antiguerriglia italiano e francese) assume tutta un’altra dimensione e mostra la sua coerenza e funzionalità se la si legge per quello che è: conseguenza e manifestazione concreta del processo in atto, in Europa occidentale in particolare, di coesione e collaborazione sul piano controrivoluzionario; in quanto tale esprime l’attuale connotazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, imperialismo/antimperialismo. Questo processo di coesione, a sua volta, traduce in termini concreti l’assunzione, da un punto di vista sovranazionale e da parte delle istanze politiche, del “problema guerriglia” come problema comune che investe con la stessa intensità tutti i paesi imperialisti dell’Europa occidentale. Il proseguimento, cioè, di linee generali operative comuni e coordinate nelle sedi politiche, si impone come riflesso sul piano politico-militare dell’affermarsi di un interesse generale comune su questo terreno. La stretta collaborazione dei corpi antiguerriglia e dei Servizi Segreti dei diversi paesi non è che un aspetto; l’altro aspetto è la tendenza alla creazione di uno spazio giuridico europeo che, ad esempio, sposta su un altro piano la questione delle estradizioni risolvendola ad un livello più alto ed unitario in cui ogni paese si fa carico di amministrare la giustizia anche per conto degli altri (e questo presuppone un’unanimità di vedute, di metri di misura, di impostazione giuridica con cui riferirsi all’attività rivoluzionaria e darvi risposte politico-militari, informate nella sostanza dai comuni interessi e obiettivi); l’altro aspetto ancora, di più lungo respiro ed a carattere prettamente politico, sono i progetti di “soluzione politica” per la guerriglia che, se pure con diverse forme e seguendo itinerari differenti, marciano in Italia come in Germania, Spagna ecc… Già da questi piani emerge con chiarezza che l’obiettivo di contrastare la guerriglia viene assunto da tutti i paesi imperialisti europei negli stessi termini di fondo, ad un livello tendenzialmente uguale di partecipazione, responsabilità e coinvolgimento (di mezzi, strutture e, soprattutto, volontà politica centralizzata).

Ma anche questo dato va collocato dentro un contesto più complessivo in cui le misure controrivoluzionarie concordate non rappresentano che una delle direttrici su cui si misurano e procedono le politiche di coesione tese a compattare i paesi dell’Europa dell’ovest all’interno degli interessi del blocco occidentale. È a partire dall’acutizzarsi della crisi economica e nel quadro generale della tendenza alla guerra che le scelte e le politiche della catena imperialista prendono forma e si caratterizzano come portato e approfondimento del processo di armonizzazione e responsabilizzazione dei paesi che la compongono (pur nella diversità di ruolo e di diversi gradi in cui si manifesta la crisi), all’interno delle finalità generali di rafforzamento della catena stessa e modifica degli equilibri dell’assetto post-bellico. In questo contesto l’Europa occidentale manifesta il suo ruolo centrale e il carattere altamente dinamico dei suoi processi di coesione politica, economica e militare, anche se si tiene conto delle spinte contraddittorie che discendono dalla dialettica concorrenza/integrazione. La discontinuità che ne risulta non impedisce infatti che si succedano atti concreti di cooperazione e coordinamento, fattivi e durevoli, e che si sanciscano via via intese (sul piano politico, economico e militare) come risultante del collimare dei reciproci interessi con l’interesse generale del blocco imperialista. La collaborazione e gli accordi che fanno avanzare questo processo sul piano controrivoluzionario sono forse il dato più lineare, meno contraddittorio, rispetto a ciò che si produce sugli altri piani della coesione europea, più soggetti a contrastanti interessi nell’ambito interborghese, proprio perché più netta è l’individuazione dell’interesse comune che, su questo piano, coinvolge tutti i paesi del blocco occidentale.

Al tempo stesso, l’esperienza che la borghesia imperialista ha acquisito in relazione all’importanza politica e strategica della guerriglia, sia nel centro che nell’area mediterranea-mediorientale, ne costituisce il filo conduttore e qualificante che dà concretezza non solo alle finalità ma anche ai mezzi per perseguirla. Ne deriva, in termini generali, che gli scambi, i contatti, gli atti politici concreti, integrano e spostano ad un livello più alto l’attività antiguerrigliera dei diversi stati europei occidentali, generalizzando l’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che la guerriglia stessa ha contribuito a determinare; parallelamente modificano l’approccio di ognuno di questi paesi con l’attività antimperialista delle Forze Rivoluzionarie (sia del centro che della periferia) influendo sulla connotazione del rapporto imperialismo/antimperialismo. Infatti è evidente che il rafforzamento e la stabilità politica di ogni paese della catena è importante e condiziona le tappe del procedere della strategia imperialista, e quindi combattere e ridurre ogni espressione dell’attività guerrigliera, sia essa “classista” o “nazionalista” diventa interesse generale del blocco occidentale. D’altra parte quest’ultimo ha piena coscienza del fatto che tra le varie forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo emerge sempre più evidente l’esistenza di un interesse comune, che disegna nettamente i confini di un fronte oggettivo. Di più, e in particolare, il salto di qualità insito nella costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, finalizzato a stringere nell’attacco pratico l’unità realizzabile tra le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo nell’area geopolitica (Europa occidentale, Mediterraneo, Medioriente), amplifica la minaccia concreta che la guerriglia rappresenta per l’imperialismo nella misura in cui non solo aumenta l’efficacia dell’attacco ma soprattutto pone i termini per perseguire soggettivamente l’unità che, sul terreno dell’antimperialismo, già esiste oggettivamente tra Forze Rivoluzionarie, in particolare nell’area di massima crisi. Di conseguenza ancor più si stringono i vincoli politici, si accelerano i processi in atto, si intensificano gli scambi e la cooperazione a livello innanzitutto politico (che orienta poi l’attività della controguerriglia). Molto sinteticamente questi sono i termini che segnano attualmente l’approfondimento delle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario. Tornando a questa istruttoria, è quindi evidente che essa sia tutta interna al piano della guerra rivoluzionaria, di cui rappresenta un momento (anche poco significativo), un piano che ne evidenzia la natura di classe e controrivoluzionaria e, d’altra parte, che qualifica la nostra attuale condizione di prigionieri politici.

I militanti delle BR per la costruzione del PCC: Giorgieri Simonetta, Vendetti Carla. Il militante rivoluzionario: Bortone Nicola. Si associa Gino Giunti militante rivoluzionario

Parigi, 20 settembre 1990

 

Roma: Dichiarazione dei militanti arabi Hamidan Karmawi e Hammami Ahmed allegata agli atti del processo per “banda armata”

Oggi in quest’aula, dopo 5 anni di prigionia nelle carceri speciali italiane, ci viene contestata l’appartenenza ad una “banda armata”. Con questo tentativo lo Stato italiano, in seguito a forti pressioni dei sionisti avvalorate anche dallo Stato francese, cerca di delegittimare l’organizzazione “15 maggio per la liberazione della Palestina”.

Si tenta di fare passare per terrorismo la lotta rivoluzionaria della nostra organizzazione. Organizzazione legittimata invece da tutto il popolo palestinese, per combattere l’imperialismo e l’entità sionista che lo rappresenta nel cuore dei territori arabi. Gli Stati imperialisti, e in questo caso la Francia e l’Italia, stanno svolgendo pienamente il loro ruolo concreto di attacco alle forze palestinesi che lottano per l’autodeterminazione e l’emancipazione del nostro popolo.

Questo ruolo viene svolto di fatto, poiché formalmente questi paesi cosiddetti “democratici” riconoscono la giustezza dell’autodeterminazione dei popoli. Evidentemente sostengono la giusta causa palestinese solo a parole e sostengono anche chi solo a parole vuole mutare la condizione palestinese, poiché la vera lotta rivoluzionaria contrasta con gli interessi dell’imperialismo nell’area.

L’imperialismo è il vero responsabile della diaspora del nostro popolo, con l’insediamento pilotato dei sionisti nel ’48 nella nostra patria. Quindi è chiaro che ogni soluzione appoggiata e ricercata dai paesi imperialisti non può che fare gli interessi degli Israeliani e sulla pelle del popolo palestinese, come dimostrano oltre quaranta anni di massacri.

1947/48 – i massacri dei villaggi di Deir Yassin, Qabia, Kafar Kassem.

1967 – Il massacro effettuato con la guerra dei sei giorni con il tentativo di stroncare la resistenza palestinese e araba.

1968 – La battaglia del KARAMAH dove il popolo palestinese ha affrontato eroicamente l’esercito sionista affiancato dai suoi alleati.

1972 – Il massacro di 25.000 Palestinesi in Giordania (Settembre Nero)

1976 – il massacro di TAL AL ZAATAR (con l’assedio durato 52 giorni prima del massacro di 3000 persone).

1982 – l’invasione del Libano con il costante obiettivo di stroncare la resistenza palestinese, invasione che ha provocato numerose vittime nei combattimenti che sono durati 80 giorni. Vanno ricordati gli infami massacri di Sabra e Shatila. Nello stesso anno venivano assassinati in Italia dal Mossad, (i servizi segreti israeliani – ndr), che agisce liberamente in tutto l’Occidente, due Palestinesi: uno era il vice presidente dell’OLP e l’altro un giornalista.

1987 – Inizio dell’intifadah popolare con oltre 1000 morti, 40.000 feriti e più di 70.000 palestinesi imprigionati fino ad oggi.

1990 – La strage di Rishion Sion con 15 Palestinesi assassinati dalla polizia israeliana.

 

Senza dimenticare i crimini commessi dall’usurpatore sionista contro tutto il mondo arabo oltre che contro tutti i Palestinesi. Dall’attacco all’Irak nell’81 all’attacco dell’imperialismo americano alla Libia nell’86, o ancora i numerosi attacchi terroristici come l’assassinio di Abu Jihad il 16/4/88 a Tunisi. Ma a fare da protagonista nell’attacco contro il movimento di liberazione nei paesi arabi in generale e contro il movimento di liberazione palestinese in particolare è il sistema imperialista USA in testa e la sua creatura sionista, ivi compresa l’Europa occidentale. Una riprova lampante di ciò è il coinvolgimento dello Stato italiano e degli Stati imperialisti europei nelle operazioni di guerra condotte dagli USA contro la Libia. Infatti, durante la crisi USA-Libia, i dodici Stati europei della CEE il 14 aprile dell’86 all’Aia raggiunsero una posizione comune nei confronti della Libia, che venne associata per la prima volta in un documento comunitario al terrorismo, in perfetta linea con gli USA e la NATO. La notte stessa che venne raggiunta questa coesione europea (tra il 10 e il 15 aprile dell’86) i bombardieri USA colpivano Tripoli e Bengasi. Il 19 aprile i dodici Stati europei ebbero il “coraggio” di affermare che per risolvere la crisi USA-Libia «… tutto deve essere fatto per evitare qualsiasi azione militare».

Il sostegno europeo si concretizza non solo attraverso accordi militari, ma anche e soprattutto attraverso precisi accordi politici ed economici, sottoscritti dai singoli Stati nazionali e dalla CEE, che vengono rilanciati anche di fronte ai massacri quotidiani di bambini, donne e vecchi palestinesi che lottano per la vita e per la libertà. Il vostro aiuto ad Israele è in realtà realisticamente interessato a garantire l’esistenza dell’entità sionista. Perché uguali sono gli interessi imperialistici, terroristici, razzisti…

In altre parole questo è il vostro prodotto storico.

A questo punto vorremmo essere noi a chiedervi: «chi commercia con Israele dotandolo di armi chimiche e di tecnologie per la repressione del nostro popolo?». Non c’è alcun dubbio che le risposte le troverete nei vostri accordi politici e nella esportazione delle vostre industrie di morte con quelle sioniste…

I massacri che abbiamo elencato prima sono purtroppo solo una parte dei crimini commessi dai sionisti sostenuti dall’Occidente imperialista e principalmente dagli americani. Giornalmente, infatti, sin dal suo insediamento in Palestina, l’entità sionista ha massacrato migliaia e migliaia di Palestinesi inermi, senza che ciò faccia più notizia sui mass-media, pronti invece ad indignarsi ad ogni minima reazione della resistenza palestinese, la quale con sempre maggiore coscienza si oppone all’arroganza politica sionista ed imperialista, contrastando i nefasti progetti che passano sulla pelle del nostro popolo, combattendo con tutti i mezzi a disposizione ed ovunque è possibile assestare duri colpi al nostro mortale nemico.

Da parte nostra, dei combattenti rivoluzionari arabo-palestinesi segregati nelle carceri imperialiste europee, e delle masse palestinesi che lottano nella Palestina occupata, sappiamo che l’attuale politica fascista-sionista a Gaza e in Cisgiordania e in tutta la terra palestinese è interamente rivolta a contenere e a reprimere lo sviluppo e l’accrescimento dell’intifadah. Ma noi siamo fermamente convinti che la repressione nella terra occupata non riuscirà a smantellare la struttura della società palestinese in cammino, perché questa società vive nel cuore, negli occhi e nella coscienza di tutto il nostro eroico popolo.

L’intifadah esplodendo tre anni fa come lotta popolare e come resistenza di massa, costruita giorno dopo giorno affinché si possa realizzare presto il nostro sogno di libertà, ha contribuito a smascherare la vera natura criminale del sionismo, pagando un altissimo prezzo in vite umane.

Quindi, come militanti dell’Organizzazione 15 maggio per la liberazione della Palestina rivendichiamo la giusta lotta contro il sionismo e l’imperialismo mondiale e così come siamo orgogliosi di essere parte integrante del movimento che lotta per la libertà della propria terra e per la libertà di tutti gli uomini, siamo altresì coscienti che la vostra accusa di “banda armata” rientra tra le velleità dei paesi imperialisti di condannare ed affossare la legittima lotta della nostra organizzazione, della resistenza palestinese e di tutto il movimento rivoluzionario arabo, che si scontra con gli interessi sionisti e di conseguenza con quelli dell’imperialismo. Che sono anche i vostri…

Lunga sarà ancora la lotta per l’autodeterminazione del nostro popolo ma non è certo la determinazione che ci manca, come abbiamo dimostrato da sempre e nonostante i continui massacri e l’entità del nemico.

La coscienza odierna espressa dai diversi movimenti, palestinesi e arabi, di ricercare una unità d’intenti contro il nemico comune ed in sostegno dell’intifadah sia dentro che fuori la Palestina occupata, apre nuove prospettive alla nostra lotta di liberazione.

Consumate dunque in quest’aula il vostro rituale e condannate attraverso noi i combattenti palestinesi e arabi ed anche il popolo tutto; svolgete il vostro ruolo a fianco dei macellai di Deir Yassin come sostanzialmente avete sempre fatto…

 

Solidarietà e sostegno all’intifadah.

Onore ai martiri palestinesi, onore a tutti i combattenti antimperialisti e antisionisti caduti.

Unità delle forze rivoluzionarie contro il nemico comune.

Palestina libera. Lotta fino alla vittoria

I militanti arabi: Hamidan Karmawi, Hammami Ahmed

Roma, 5 luglio 1990

 

Elenco delle azioni compiute negli ultimi anni a Roma dal terrorismo israeliano:

16 Ottobre 1972 – Wael Zwaiter viene ucciso nell’atrio dell’edificio in cui abitava a Roma.

9 Ottobre 1981 – Abu Sharar Majed, il responsabile del dipartimento informazioni dell’OLP, rimane ucciso nell’attentato dinamitardo all’Hotel Flora a Roma.

17 Giugno 1982 – Hussein Kamal, il vice capo della delegazione dell’OLP in Italia, e Matar Nazih, studente palestinese, vengono uccisi in un attentato a Roma.

15 Dicembre 1984 – Ismail Darwish, membro dell’Ufficio Politico dell’OLP, viene assassinato a colpi di pistola a Roma.

Roma: La mia assenza è un atto d’accusa. Comunicato del militante arabo Hamidan Karmawi Ibrahim

La mia assenza dall’aula di questo tribunale è un atto d’accusa contro una sentenza che è stata già decisa nel momento in cui questa istruttoria è cominciata. Una decisione frutto dell’accordo italo-francese e per conto degli interessi imperialisti occidentali che ha il compito di disarmare i legittimi rappresentanti del popolo palestinese e delle sue organizzazioni che resistono all’aggressione e all’occupazione sionista.

L’ambizioso compito di questa corte è quello di decretare l’illegalità di un popolo che lotta per la sua esistenza e per la sua identità, un compito tanto arduo che non potrà non infrangersi di fronte alla volontà dei milioni di oppressi in tutto il Sud del mondo di riprendere in mano il proprio destino.

Voi siete chiamati a dire, a nome dei vostri governi, che allo sfruttamento, alla deportazione, al genocidio, si può solo rispondere porgendo l’altra guancia e che la libertà del popolo palestinese potrà arrivarci solo dalla vostra presunta magnanimità.

Voi avete il compito di stabilire quali sono tra i palestinesi-arabi coloro che più ne rappresentano le aspirazioni e i diritti, cioè siete chiamati ad eleggere a rappresentanti dei palestinesi coloro che più si accordano con gli interessi dei governi che rappresentate.

Voi avete il compito di stabilire qual è il giusto prezzo che il nostro popolo deve pagare per essere libero… di servire gli interessi imperialisti nella regione araba, ma il popolo arabo-palestinese non si lascia soggiogare e autonomamente sceglie le adeguate strategie di lotta che gli permetteranno di riconquistare la propria libertà.

Volete processarci per “banda armata”, perché il vostro pensiero è troppo piccolo per contenere la grandezza di un popolo che non si lascia intimorire dalla potenza bellica nemica e dei suoi sostenitori, perché il potere che rappresentate sa imporsi solo come una banda che con armi alla mano sostiene il sionismo e i suoi complotti. L’unica banda armata che il popolo arabo-palestinese conosce è quella di Shamir-Sharon-Bush e dei loro sostenitori.

L’Organizzazione “15 Maggio per la liberazione della Palestina” è una delle organizzazioni che il popolo arabo-palestinese si è dato e la sua legittimità mai potrà essere messa in discussione dai vostri tribunali speciali; il suo solo riconoscimento gli viene dal sostegno del popolo stesso.

Condannando me in realtà voi volete condannare un popolo che autonomamente si organizza per resistere alla barbarie sionista, ma il vostro è – e resterà – un sogno che diventerà un incubo finché continuerete ad ignorare il diritto ad esistere dei palestinesi e della nostra Lotta di Liberazione.

Fate pure i vostri giochi in quest’aula, io non ci sarò, perché sarò sempre e soltanto là dove il popolo arabo-palestinese rimetterà in gioco il grigio futuro al quale vorreste costringerlo.

La Lotta di Liberazione del popolo palestinese non si processa!

Abbasso il terrorismo sionista-amerikano e quello dei loro sostenitori!

Viva la Lotta di Liberazione dei popoli di tutto il mondo!

Viva l’Intifadah!

Il militante arabo Hamidan Karmawi Ibrahim

Roma, 17 settembre 1990

Il tallone imperialista nel Tricontinente e la “crisi del Golfo”. Carcere di Novara – Documento del militante delle Br-Pcc Sandro Padula

Un determinato rapporto esiste fra la generale situazione del Tricontinente (America Latina, Africa, molti paesi dell’Asia meridionale) e la “crisi del Golfo”. Per comprenderlo fino in fondo può essere utile analizzare come i principali avvenimenti economici internazionali si sono riflessi, negli ultimi decenni, sia nella maggior parte del Tricontinente che nella realtà costituita dall’OPEC.

Fra tali avvenimenti, quello di fondamentale rilievo e da cui occorre partire è, nella seconda metà degli anni ’60, l’emergere della sovraccumulazione capitalistica nell’area OCSE.

In quegli anni, lo sviluppo della sovraccumulazione capitalistica porta con sé una sviluppata e determinata sovrapproduzione di capitale monetario, cioè una massa enorme di capitale monetario che non riesce a trasformarsi in capitale produttivo di plusvalore e che, in dialettica alla crescita del deficit della bilancia dei pagamenti degli USA, ha tra le proprie espressioni anche quella costituita da un’alta quota di xeno-dollari.

Si crea così una situazione tale da mettere in risalto l’obsolescenza del sistema monetario internazionale stabilito a Bretton Woods e basato sui cambi relativamente fissi e sulla convertibilità del dollaro in oro.

La rottura del trattato di Bretton Woods avviene ufficialmente nell’agosto del 1971, ad opera del presidente degli USA Richard Nixon. In seguito, nel dicembre dello stesso anno e nel febbraio del 1973, il dollaro viene svalutato; di conseguenza perdono valore gli xeno-dollari che fra l’altro sono detenuti anche dalle banche centrali di moltissimi paesi in giro per il mondo e si crea così un decisivo canale di internazionalizzazione dell’inflazione.

In quelle condizioni viene alimentata una dinamica di crescita dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale, che sono espressi in dollari e che ricevono spinte verso l’alto anche grazie alla domanda costituita dalla “ripresa” del 1971-1972 ed a forti accaparramenti speculativi: sulla base di queste premesse scaturisce un forte “shock petrolifero” subito dopo la guerra del Kippur nell’ottobre 1973.

I “petro-dollari”, ricavati dall’aumento del prezzo del petrolio e detenuti dai paesi OPEC, cominciano ad essere riciclati, una parte in cambio di armi e di altre merci dei paesi a capitalismo avanzato ed il resto va ad aggiungersi al mercato internazionale dei capitali.

A quel punto, specialmente durante e dopo la recessione internazionale del 1974-1975, la sovrabbondante liquidità internazionale viene in buona misura drenata dalla bancocrazia dei paesi a capitalismo avanzato e si sviluppa una gigantesca catena di prestiti, anche perché i debitori in quegli anni devono rimborsare tassi di interesse che, in termini reali, sembrano sopportabili in una situazione di alti tassi di inflazione.

Da allora l’economia mondiale si caratterizza per la formazione di una grande catena di debiti interni ed internazionali. I paesi a capitalismo avanzato sono i principali fruitori di prestiti esteri; i debiti esteri del Tricontinente, al contrario, costituiscono una parte minoritaria dell’indebitamento estero complessivo. Nonostante ciò, di fronte al più gigantesco sistema di usura mai esistito sulla faccia della terra, nel giro di un decennio il debito estero diventa sempre più una specie di catena attorno al collo del Tricontinente.

Nel corso degli anni ’70 i flussi creditizi che la bancocrazia dei paesi capitalisticamente avanzati indirizza verso il Tricontinente confluiscono soprattutto in un ristretto numero di paesi, nei paesi che allora risultano più “dinamici” in campo economico (Messico, Venezuela, Argentina, Brasile, Corea del sud, ecc.). Però, a diverso grado, tali flussi tendono anche a confluire negli altri “paesi in via di sviluppo” ed alla fine del 1979 l’indebitamento estero della totalità di questi paesi raggiunge la non trascurabile cifra di 475 miliardi di dollari.

Gli avvenimenti successivi dell’economia capitalistica internazionale – il rialzo dei tassi di interesse negli USA nel 1979, il secondo “shock petrolifero” prodottosi sul finire dello stesso anno in connessione alla “rivoluzione islamica” in Iran e la recessione internazionale dei primi anni ’80 – provocano una situazione in cui all’accresciuto carico del servizio del debito corrisponde dialetticamente un’accresciuta difficoltà del Tricontinente a rispettare gli impegni verso i creditori e tutto ciò porta alle dichiarazioni di insolvenza del 1982-1983.

Tutto ciò, inoltre, significa che molti paesi della periferia del sistema capitalistico internazionale sono letteralmente prigionieri del debito estero e lo sono proprio perché alla base del sistema usuraio che li attanaglia ci sono economie locali extra-vertite e dipendenti a livello produttivo, commerciale e tecnologico nei confronti dell’imperialismo.

Soprattutto dopo la recessione del 1974-1975 la penetrazione delle imprese capitalistiche transnazionali nei paesi del Tricontinente si indirizza sempre più verso investimenti ad alta composizione organica di capitale, cioè verso quegli investimenti che vengono definiti “ad alto contenuto tecnologico” e che hanno la necessità di un numero relativamente basso di lavoratori. Questo tipo di orientamento, che nei paesi del Tricontinente si avvale dell’utilizzo di una forza-lavoro a costo molto più basso rispetto a quella dei paesi a capitalismo avanzato, è riconducibile alla necessità di ogni impresa transnazionale di “pianificare” le proprie attività in modo da garantire che le merci prodotte siano destinate soprattutto al mercato mondiale e siano adeguatamente concorrenziali a tale livello.

In pratica le imprese capitalistiche transnazionali contribuiscono ad orientare le economie locali del Tricontinente verso uno “sviluppo” sempre più extra-vertito e squilibrato e tale “sviluppo” contribuisce a far crescere le migrazioni di forza-lavoro dalle campagne alle città. In questo senso, la penetrazione delle imprese capitalistiche transnazionali contribuisce ad accelerare il ritmo di crescita dell’urbanizzazione sul Tricontinente, il cui costo è in ampia misura sobbarcato dagli Stati locali. Questi ultimi a loro volta, vedendo ingigantire il debito pubblico, ed a fronte di fughe di capitali, crescenti spese militari, bilance commerciali in disavanzo e controlli stranieri su quote significative delle locali risorse reali e liquide, sono costretti a ricorrere in continuazione ai prestiti dall’estero ed a cercare di aumentare le esportazioni per pagare il corrispondente “servizio del debito”.

Soprattutto dopo la recessione del 1974-1975, fra il capitale esportato dai paesi sviluppati ai paesi del Tricontinente, si contrae il capitale da prestito statale ed interstatale mentre aumenta, insieme al flusso degli investimenti diretti nella produzione capitalistica, il flusso di capitale da prestito privato. Quest’ultima forma di esportazione di capitale subisce però un netto calo dopo l’esplodere della crisi finanziaria del 1982, cioè dopo le dichiarazioni di insolvenza iniziate con quella del Messico, e da quell’anno il Tricontinente paga per il servizio del debito estero più di quanto riceve a livello di finanziamenti.

Il debito estero del Tricontinente in rapporto al prodotto interno lordo rimane però abbastanza alto: dal 1985 al 1990, pur diminuendo in modo leggero, tale rapporto ammonta a oltre un terzo. Per molti versi è come se i governi e le banche creditrici dei paesi a capitalismo avanzato avessero la proprietà di oltre un terzo di questo prodotto interno lordo. E’ ovvio che si tratta di una proprietà soltanto potenziale, ma i “signori del denaro” non si fanno tanti scrupoli per trasformare una parte di essa in proprietà effettiva!

Proprio con la scusa del problema debitorio, infatti, le politiche del FMI e della Banca Mondiale, che in genere vengono preconfezionate nei vertici dei ministri finanziari e/o dei governatori delle banche centrali dei principali paesi dell’OCSE, puntano a rafforzare la subordinazione economica dei paesi del Tricontinente rispetto ai paesi a capitalismo avanzato, alle imprese ed alle banche imperialiste transnazionali.

Come dimostrano il piano Baker ed il successivo piano Brady, le “soluzioni” che vengono lanciate nelle assemblee congiunte del FMI e della Banca Mondiale per affrontare il problema del debito estero dei “paesi in via di sviluppo” presuppongono sempre l’accettazione di una più forte dipendenza economica da parte di questi paesi all’interno del sistema capitalistico internazionale. Il problema del debito estero costituisce infatti una specie di “cavallo di Troia” per accrescere il potere dei capitali oligopolistico-finanziari transnazionali e per disarticolare il peso economico effettivo degli Stati del Tricontinente nelle rispettive economie. Non a caso, mentre i paesi debitori del Tricontinente continuano ad essere divisi fra loro, aumentano fra le stesse oligarchie autoctone di questi paesi gli orientamenti favorevoli alla conversione di parte dei debiti esteri in titoli negoziabili o in investimenti diretti, così come aumentano le tendenze favorevoli alle privatizzazioni delle imprese statali ed alla creazione di condizioni più idonee alla penetrazione dei capitali e delle merci provenienti dai paesi a capitalismo avanzato. In pratica, la via intrapresa da molte oligarchie autoctone dei paesi della periferia del sistema capitalistico internazionale per “governare” la spinosa questione del debito estero sembra essere quella di accettare una maggiore dipendenza economica dall’imperialismo e di scaricare sulle spalle delle masse popolari i costi di questa accentuata subalternità economica.

Le politiche economiche di queste oligarchie autoctone dei paesi del Tricontinente suscitano spesso rivolte proletarie e popolari contro il peggioramento delle condizioni di vita e contro l’accettazione dei “programmi di aggiustamento” stabiliti dal Fondo Monetario Internazionale.

Nei paesi del Tricontinente si approfondisce la dipendenza economica nei confronti dell’imperialismo e con questo presupposto strutturale, proprio in risposta ad esso, si sviluppano non solo le rivolte proletarie e popolari ma anche i nuovi e grandi flussi migratori di forza-lavoro dal Sud del mondo verso i paesi a capitalismo avanzato.

I neocolonialisti dei paesi a capitalismo avanzato prima fanno di tutto per saccheggiare le risorse reali e liquide del Tricontinente e poi fingono di non capire i motivi di questi nuovi e grandi flussi migratori internazionali! Comunque, al di là di questa totale ipocrisia, è indubbio ormai che la presente crisi debitoria costituisce sempre più un pretesto per il dispiegamento del neocolonialismo e quindi per una più ferrea dipendenza economica del Tricontinente verso i paesi a capitalismo avanzato ed in particolare verso le imprese e le banche imperialiste transnazionali.

Negli anni ’80 perfino i paesi OPEC subiscono una compressione della propria forza economica nell’ambito del sistema capitalistico internazionale. Infatti questi paesi, che dopo il 1973 acquisiscono una grande abbondanza di risorse valutarie, negli anni ’80 cessano di svolgere il ruolo di “nuovi finanziatori” a livello internazionale ed il Giappone comincia a prendere il loro posto rispetto a tale funzione.

Dopo la recessione internazionale del 1980-1982, il relativo completamento della prima grande ondata di ristrutturazione tecnologico-produttiva basata sull’informatica all’interno dei paesi a capitalismo avanzato, il grande rialzo del dollaro nel triennio 1983-1985, il successivo calo del dollaro ed il “contro-shock petrolifero” del 1986 con i grandi e continui ribassi del prezzo del petrolio, i paesi OPEC vedono peggiorare drasticamente la propria situazione economica rispetto agli anni ’70 e molti di essi diventano debitori verso l’estero.

L’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi sono fra i pochi paesi dell’OPEC che negli anni ’80 riescono ad avere una situazione economica non troppo dissimile, anche se in genere peggiorata, rispetto a quella del decennio precedente.

Le condizioni diventano difficili per la maggior parte dei paesi dell’OPEC specialmente quando, dalla metà degli anni ’80 ed a partire dagli USA, emergono nell’area OCSE diversi sintomi di una crescita economica oscillante verso la stagnazione e/o verso la recessione, quei sintomi che fra l’altro provocano i crolli delle borse mondiali nell’ottobre 1987 e nell’ottobre 1989, i nuovi cali del dollaro e le nuove difficoltà per la Borsa di Tokio nella prima metà del 1990.

In questo caotico teatro dell’economia capitalistica internazionale, pertanto, si accumulano le contraddizioni sul mercato mondiale, si acutizzano nel Tricontinente le contraddizioni fra i paesi OPEC e i paesi produttori di petrolio non aderenti a tale organizzazione (soprattutto per la crescita delle quote di mercato dei “nuovi produttori” come l’Angola e l’Egitto) e poi esplodono le contraddizioni all’interno dell’OPEC fra i paesi – come l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi – che puntano ad aumentare molto l’estrazione del petrolio e quelli che invece – come l’Irak, l’Iran e la Libia – puntano a non farla aumentare troppo per evitare prezzi del petrolio troppo bassi ed inadeguati rispetto alle esigenze delle proprie economie.

Per questo motivo, a cui si aggiunge il vecchio desiderio di avere un significativo sbocco nel Golfo Persico, l’oligarchia autoctona dell’Irak giunge alla decisione di occupare il Kuwait.

Dopo aver ricevuto per anni, dagli stessi paesi a capitalismo avanzato e dagli stessi paesi OPEC più ricchi, quelle montagne di crediti (e di armi) utilizzate per condurre la guerra contro il “pericolo iraniano“ e per reprimere la locale parte della popolazione curda, l’Irak arriva al punto di rendere operativa la decisione di invadere il ricco sceiccato del Kuwait.

Con la “crisi del Golfo” apertasi ad agosto si alza così il sipario per una nuova ondata di rialzi del prezzo del petrolio e per un clima politico ed economico strumentalizzato soprattutto dagli USA e, con particolare sciacallaggio, dalle principali compagnie petrolifere del mondo: Exxon (USA), Royal Dutch (Olanda), Mobil (USA), British Petroleum (Gran Bretagna), Texaco (USA), Chevron (USA) ed Amoco (USA).

La “questione petrolifera” torna quindi alla ribalta della cronaca internazionale e con essa emerge di nuovo e con gravità il più generale problema del rapporto di dominio economico dei paesi a capitalismo avanzato rispetto ai paesi del Tricontinente.

Dopo il 1973 i paesi a capitalismo avanzato danno vita all’Agenzia Internazionale per l’Energia (allo scopo di contrastare e di addomesticare le politiche dell’OPEC) e cominciano a prendere misure per approfondire la diversificazione delle fonti energetiche da utilizzare. La “questione petrolifera”, comunque, continua a mantenere una propria specifica importanza ed il petrolio, che nel 1989 copre il 40% del mercato mondiale dell’energia, mantiene ancora lo scettro della principale fonte energetica mercificata.

L’URSS, l’Arabia Saudita e gli USA sono i principali paesi produttori di petrolio. Un ruolo significativo è svolto anche dalla Gran Bretagna, in particolare dal 1975 con l’estrazione del petrolio del mare del Nord. Ad ogni modo, i principali riflettori della “questione petrolifera” sono puntati sul Medio Oriente, un’area in cui si trovano i 2/3 delle riserve conosciute di petrolio e da cui oggi viene garantito il 20% circa delle esportazioni mondiali petrolifere.

I paesi del centro del sistema capitalistico internazionale hanno molteplici interessi in Medio Oriente, ad esempio, attraverso determinate articolazioni di proprie banche e di proprie imprese, fra cui determinate articolazioni di proprie compagnie che estraggono e/o raffinano il greggio. Inoltre i paesi a capitalismo avanzato, compresi gli stessi Stati Uniti d’America, sono grandi importatori di petrolio. Per questi motivi economici a cui si affiancano determinati interessi politico-militari da molto tempo chiariti dal Pentagono e dalla NATO, il Medio Oriente viene considerato come un territorio di “interesse vitale” dagli USA e dall’intero blocco dei paesi capitalisticamente sviluppati.

Non per niente, infatti, l’attuale politica degli USA e degli altri paesi a capitalismo avanzato rispetto al Medio Oriente punta a mantenere e rafforzare il controllo dei flussi petroliferi, ad approfondire l’addomesticamente delle scelte dell’OPEC, a comprimere il peso complessivo (proprietà e rendite) degli Stati locali nei confronti delle rispettive economie, a porre un argine contro lo sviluppo del “fondamentalismo islamico“, ad indebolire il sostegno arabo ed internazionale alla lotta dei palestinesi, ad isolare e distruggere le forze rivoluzionarie, e ad indebolire l’influenza effettiva dell’URSS nel mondo arabo ed in particolare rispetto ai paesi arabi moderati e/o reazionari con cui dalla metà degli anni ’80 Mosca mantiene regolari rapporti diplomatici o migliora le relazioni. Tutto ciò è collegato anche alla considerazione che diversi paesi dell’Est europeo (come Polonia, Cecoslovacchia ed Ungheria), mentre diventano più aperti alla penetrazione delle imprese capitalistiche transnazionali, continuano a richiedere petrolio sovietico, ma a differenza del passato lo devono pagare a prezzi di mercato (dal primo gennaio 1991 con dollari o altre valute convertibili) ed hanno intenzione di aumentare i propri rifornimenti petroliferi dall’area mediorientale.

Se questi sono gli scopi politici comuni dei paesi a capitalismo avanzato rispetto al Medio Oriente, è altrettanto vero che la “crisi del Golfo“ risulta strumentalizzata soprattutto dagli USA. Infatti, proprio con la scusa della “crisi del Golfo“, gli USA foraggiano il proprio complesso militar-industriale-scientifico anche per dare una risposta all’avanzamento della recessione economica interna a quell’avanzamento della dinamica recessiva iniziato nella prima metà del 1990 e provocato dalla sovraccumulazione capitalistica (e dalla connessa caduta del saggio di profitto) determinatasi nel 1989 all’interno della propria economia. Inoltre, sempre con la stessa scusa, gli USA puntano particolarmente a rendere duratura e stabile la propria influenza politico-militare in Arabia Saudita ed a costituire una «struttura di sicurezza regionale che garantisca pace e prosperità nel Medio Oriente» (dichiarazione di James Baker, segretario di Stato degli USA del 5 settembre 1990), cioè un’organizzazione, finanziata da diversi paesi, simile alla NATO e sostanzialmente integrata alla NATO stessa.

In pratica, dopo il 1989 dell’Europa dell’est, le condizioni internazionali dischiudono nuovi spazi di manovra all’arroganza degli USA e degli altri paesi capitalisticamente sviluppati.

Mentre il “blocco dell’est” risulta drasticamente ridimensionato e l’URSS, sconvolta da gravi problemi interni, conduce politiche estere di compromesso a tutti i costi con i paesi a capitalismo avanzato rispetto alle crisi internazionali e regionali, il “blocco dell’ovest” guidato a livello politico-militare dagli USA si sente più libero di sviluppare la propria politica imperialista nell’area mediorientale e tende a far leva su tale politica anche per lanciare un messaggio di fermezza contro chi nel Tricontinente e nel resto del mondo non accetta di mettere o di mantenere la propria testa sotto il tallone dell’imperialismo e soprattutto contro chi lotta per liberarsi da esso.

Dalla fine della seconda guerra mondiale l’arroganza della borghesia imperialista e dei suoi rappresentanti politici non è mai stata grande come adesso, come in questo inizio degli anni ’90.

Questa arroganza, però, è suscettibile di far nascere, proprio di contro ad essa, una maggiore consapevolezza della grande barbarie generata dal modo di produzione capitalistico e dei limiti storici verso cui si incammina tale modo di produzione.

In questa situazione, infatti, si approfondiscono i motivi che rendono importante lo sviluppo di adeguate ed unitarie sensibilità di segno rivoluzionario nelle fila del proletariato internazionale e dei popoli oppressi.

In questa situazione, inoltre, diventa possibile e necessaria una maggiore coscienza che le cause fondamentali delle contraddizioni internazionali trovano le proprie radici più profonde nei paesi in cui il modo di produzione capitalistico è più sviluppato, cioè negli USA e negli altri paesi del blocco dei paesi a capitalismo avanzato.

Queste radici si trovano quindi anche nell’Europa Occidentale che tende a costituire un unico mercato per merci e capitali e che, attraverso una crescita della coesione monetaria, militare e politica, cerca di aumentare il proprio specifico potere nello scenario internazionale.

Queste radici si trovano allora anche in quell’Italia che tende a costituire una “Seconda Repubblica” caratterizzata da un maggior potere dell’Esecutivo per “governare” i conflitti sociali e da una politica estera di maggior impegno del “bel Paese” in quanto pilastro fondamentale del “fianco sud” della CEE, della UEO e della NATO.

In definitiva, è negli USA, negli altri paesi del blocco dei paesi a capitalismo avanzato, quindi nella stessa Europa Occidentale e nella stessa Italia che ci sono le radici più profonde delle contraddizioni internazionali, cioè le radici più profonde di un sistema sociale che cerca di conservare e rafforzare il tallone imperialista sul Tricontinente, sul proletariato internazionale, sui popoli oppressi ed in genere sul mondo d’oggi.

Il militante delle BR-PCC Sandro Padula.

Carcere speciale di Novara, Blocco B

Settembre 1990

NO ALL’ISOLAMENTO! Documento di un gruppo di compagni del carcere di Trani

Venerdì 12-10, i prigionieri della sezione speciale del carcere di Trani si sono fermati all’aria contro l’imposizione di una ulteriore misura di isolamento che ha colpito un compagno di questo carcere.

Una risposta ad un nuovo attacco rivolto non solo al compagno colpito dal provvedimento, non solo ai prigionieri di questo campo, ma che tocca direttamente l’insieme dei prigionieri comunisti presenti nel circuito speciale.

A metà di questo mese il compagno Giovanni Gentile Schiavone è stato messo in “isolamento diurno” per due mesi. Si tratta di una misura di “aggravamento della pena” stabilita in questo caso come in altre centinaia di casi, dalle sentenze che sono state e che vengono erogate dai tribunali speciali dello Stato.

“Isolamento diurno” significa detenzione cubicolare, esclusione da ogni tipo di socialità e contatto con gli altri prigionieri, aria da solo, per tutto l’arco della giornata e per tutto il periodo stabilito dalla sentenza.

Questa forma di annientamento viene ora integrandosi e sovrapponendosi al trattamento cui i prigionieri rivoluzionari sono già sottoposti (frazionamento dei prigionieri in diverse carceri, in gruppi limitati a composizione bloccata, con selezione dei colloqui, corrispondenza e di ogni forma di rapporto con l’esterno, sottoposti a pressioni continue, fino ad episodi come il pestaggio dei compagni del Blocco B di Novara…). È a tutti gli effetti uno strumento ulteriore di pressione mirante a restringere i residui spazi di vivibilità e soprattutto ad azzerare ogni forma di agibilità politica: «i prigionieri non devono svolgere nessuna militanza attiva nello scontro rivoluzionario».

Il significato politico di questa misura, la sua essenza, è resa evidente dal fatto che – al di là delle responsabilità proprie della direzione di Trani (che si è assunta il compito di aprire la strada all’utilizzo di questo nuovo strumento di attacco contro i prigionieri) – la decisione è stata presa dalla Procura Generale di Roma e dal Ministero di Grazia e Giustizia. Il fatto che questo tipo di isolamento, scarsamente utilizzato in passato, venga ripescato e applicato oggi, a distanza di anni, la sua possibile generalizzabilità, ne rivelano l’obiettivo reale: la distruzione dell’identità politica di quei prigionieri che non rientrano nei processi di riconciliazione e ricompatibilizzazione dello Stato.

In questo non c’è nulla di casuale. È sempre più evidente infatti il carattere unitario di questa strategia a livello europeo contro tutti i prigionieri della guerriglia: l’isolamento come linea di attacco che informa la politica controrivoluzionaria di ogni singolo paese.

L’attacco cui sono sottoposti i prigionieri rivoluzionari in Europa occidentale, la necessità di eliminarli come contraddizione politica, è un obiettivo tutto interno alle dinamiche di ridefinizione degli assetti internazionali e al processo di costruzione del blocco europeo occidentale.

A questo scopo le stesse modificazioni del ruolo e degli apparati dello Stato segnano qui e in tutta l’area europea una forte radicalizzazione delle contraddizioni di classe, esaltate ed accelerate dalle esigenze di produzione imperialista e di guerra.

La duplice dimensione di questo processo sta definendo sempre più concretamente quale sia il terreno su cui è possibile collocare e sviluppare la lotta dei prigionieri.

I termini in cui lo Stato qui sta affrontando la contraddizione rappresentata dai prigionieri rivoluzionari sono interni al più generale quadro determinato dai processi di ridefinizione degli Stati imperialisti e di ristrutturazione capitalista, che stanno determinando un modello di “impatto frontale” nella soluzione delle contraddizioni cui deve far fronte ad esempio tanto la ripresa dell’iniziativa operaia che il movimento di lotta alla ristrutturazione dell’università, che l’opposizione alla crociata imperialista nel Golfo. Tutto ciò porta alla luce il terreno e il livello attuale di scontro per tutte le forze proletarie e rivoluzionarie.

Così come è chiaro che, impattare realmente la strategia imperialista di annientamento dei prigionieri politici significa lottare contro le diverse situazioni di isolamento imposte dagli Stati europei nel loro insieme come lotta unitaria dei prigionieri e del movimento rivoluzionario in Europa occidentale.

Lottare insieme

Un gruppo di compagni del carcere di Trani

Trani, 13 ottobre 1990

 

Analisi sull’imperialismo. Documento di un gruppo di compagni detenuti nel carcere di Cuneo

Premessa

Dai primi anni ’80 in Italia si è acuito quel processo di: tendenza reazionaria, riforme istituzionali con caratteristiche autoritarie, esecutivizzazione ecc. di cui oggi si iniziano a vedere i “primi” risultati concreti.

Tutti i compagni in Italia si rendono conto di quanto queste tendenze stiano prendendo piede; ma essere d’accordo su questo dato non basta, la storia ci ha dimostrato che si può a volte partire dagli stessi elementi per arrivare a conclusioni diverse. Quel che è certo è che esiste un grosso ritardo di cui il movimento comunista internazionale soffre ormai da tempo; tanti sono i nodi insoluti sul piano teorico, strategico, tattico, politico, e questo crea confusione.

In Italia è ormai da tempo che s’impone un’analisi attenta della borghesia dominante, del grande capitale, dello Stato, dell’opposizione borghese (PCI o Partito Democratico della Sinistra o come si vorrà chiamare la “cosa”, e CGIL), dello sviluppo raggiunto dalla lotta proletaria nei suoi contenuti e forme di espressione, della trasformazione in atto delle classi sociali in un paese avanzato, dei compiti dei comunisti e dei rivoluzionari nell’attuale fase di sviluppo dell’imperialismo. Non è infatti possibile comprendere verso dove andiamo senza affrontare questi nodi.

Ciò che ci interessa in questa sede quindi è iniziare ad introdurre alcuni spunti di riflessione inerenti la natura dell’imperialismo in generale ed il modo in cui si è sviluppato il capitale fino ad oggi.

Negli ultimi tempi si fa un gran parlare nel movimento rivoluzionario di trasformazione della democrazia borghese in autoritarismo, affermarsi della reazione e negarsi del carattere progressista del capitalismo nell’attuale società avanzata, di differenza tra la fase di ascesa del capitalismo e la sua fase di disfacimento iniziata con l’era dell’imperialismo, di modificazioni avvenute e in atto nella forma dello Stato borghese, di distinzione tra fase del liberalismo e fase imperialista, di rapporto tra fase di sviluppo del capitalismo e crescita delle lotte proletarie, di relazione tra il periodo fascista e l’assetto mondiale determinatosi dopo il secondo conflitto. Questioni peraltro tutte importanti perché sono sintomatiche dell’evoluzione avvenuta nella società in cui viviamo. Interpretarle nel modo giusto è quindi fondamentale perché ci pone nella condizione di elaborare una strategia ed una linea politica conseguente; ma per far ciò va fornita a questi dati una giusta collocazione. Diversamente si rischia di cadere nell’estremismo o nel pressapochismo, arrivando o ad assolutizzare un aspetto del problema, e cioè la reazione (che certamente non può essere negata come dato emergente) giungendo a presagire la possibile rinascita (magari sotto altre vesti) di forme di violenza organizzata e legalizzata di tipo fascista dello Stato borghese, dimostrando di non aver compreso la storia e la natura dell’imperialismo; oppure, sempre assolutizzando quell’aspetto, arrivare alla conclusione che la borghesia dominante, essendo arrivata alla sua “ultima spiaggia”, ha creato le condizioni affinché dal secondo conflitto mondiale in poi, si aprisse un nuovo scenario caratterizzato dalla guerra tra le classi nei paesi imperialisti, per poi affermare, sempre guidati da quella logica, che è la “democrazia rappresentativa”, e cioè l’applicazione della massima “democrazia formale”, a informare il progetto di “rifunzionalizzazione dello Stato imperialista”. Chi dà questa interpretazione delle cose dimostra tra l’altro, oltre ad un’enorme confusione, da un lato di non capire neanche che differenza passa tra politica e guerra, da un altro lato di non sapere affatto perché, in che forma e con quali contenuti si produce la lotta e l’unità interborghese finalizzata allo sviluppo della società imperialista, e inoltre di ignorare del tutto le leggi che informano l’andamento ciclico delle lotte proletarie, espressione dell’antagonismo tra le classi; così la propria logica soggettivista raggiunge l’apice e colloca i fautori di queste tesi sempre più al di fuori del campo di analisi ed elaborazione marxista.

Una terza conseguenza degli errori di interpretazione e collocazione cui accennato sopra consiste nell’affermare genericamente che la società borghese con il suo sviluppo ha segnato da una parte la fine della democrazia borghese, tramutatasi in autoritarismo, e dall’altra ha creato le condizioni affinché la democrazia potesse svilupparsi, dimostrando in questo modo semplicemente che si vuole fare uso delle leggi della dialettica, non applicandole però nei fatti fino in fondo, in quanto così procedendo si rischia o di dire tutto e il contrario di tutto oppure di dare un giudizio inesatto di quello che la realtà ci pone dinanzi agli occhi.

Utilizzare il metodo storico e dialettico per analizzare i fenomeni è sempre positivo perché ci permette di vedere le cose in movimento, ci fornisce gli strumenti per comprendere che c’è sempre un aspetto che emerge su un altro e che nella contraddizione un aspetto principale può divenire secondario e viceversa ecc.; ma è pur vero che bisogna mettersi nella condizione di appropriarsi compiutamente di questo strumento per poterlo applicare in modo esatto.

È abbastanza chiaro a questo punto che se si continua a ragionare in modo estremista e/o approssimativo non si potrà né comprendere come combattere i nostri nemici né riuscire a superare questo momento di crisi del movimento rivoluzionario e di stasi del dibattito al suo interno.

Proprio facendo uso del materialismo storico e dialettico possiamo vedere la relazione che esiste tra gli elementi che Marx individua come caratterizzanti il modo di produzione capitalista (MPC) e quelli stabiliti da Lenin come i 5 pilastri dello sviluppo dell’imperialismo. Solo in questo modo si può capire cosa intendeva dire Lenin quando affermava che l’imperialismo è solo un particolare stadio del capitalismo e che politicamente l’imperialismo è «… in generale, tendenza alla violenza e alla reazione», comprendendo che oggi, nella fase di imperialismo maturo, permangono tutte le caratteristiche del capitalismo esposte da Marx e Lenin, anche se alcune sono prevalenti rispetto ad altre.

Qualcuno a questo punto potrebbe obiettare che il marxismo non è un dogma e cioè che i suoi principi devono essere applicati alla realtà concreta. A costoro rispondiamo che i comunisti devono analizzare la società per trasformarla, quindi ne debbono capire l’evoluzione, debbono comprendere cosa si cela dietro un fenomeno, quali sono le leggi che lo guidano, in che senso un aspetto che divenga prevalente può assumere un carattere di “novità”, ma non debbono inventarsi mai nulla: non si può fare politica attraverso i “colpi di scena”.

Certamente è vero che il marxismo-leninismo non ha potuto approfondire tutti gli aspetti, così come è anche vero che esso non ci dice cosa dobbiamo fare negli anni ’90 o dovremo fare nel 2000, ed inoltre è giusto ritenere che l’imperialismo si sia trasformato; ma è anche vero che questa scienza è una guida per l’azione e quindi traccia le coordinate fondamentali relative alle leggi generali di sviluppo della società capitalista da un punto di vista strutturale e sovrastrutturale.

Alcuni potrebbero ancora obiettare che certi aspetti, soprattutto relativi all’ambito politico dell’imperialismo, sono stati analizzati insufficientemente da Lenin, così come egli stesso dice nell’introduzione al I capitolo dell’opuscolo sull’imperialismo: «Nelle pagine seguenti vogliamo fare il tentativo di esporre… la connessione e i rapporti reciproci tra le caratteristiche economiche fondamentali dell’imperialismo. Non ci occuperemo, benché lo meritino, dei lati non economici del problema». Avendo, comunque, precedentemente spiegato che: «L’opuscolo è stato scritto tenendo conto della censura zarista. Per tale motivo sono stato costretto ad attenermi ad un’analisi teorica, soprattutto economica, ma anche a formulare le poche osservazioni politiche indispensabili con la più grande prudenza, mediante allusioni e metafore… Come è penoso rileggere ora… quei passi dell’opuscolo che per riguardo alla censura zarista sono contorti, compressi, serrati in una morsa!». Ma è forse possibile credere che la trattazione che il marxismo-leninismo fa di alcuni elementi generali di politica relativi al carattere “democratico” e “reazionario” dell’imperialismo e dello Stato non siano sufficienti a fornirci i punti di applicazione teorici e strategici per comprendere come si sviluppa la nostra società?

Noi pensiamo che sia più onesto che ogni compagno faccia propri i principi del marxismo-leninismo e riconosca i limiti che il movimento comunista internazionale si porta dietro dal dopoguerra.

L’obiettivo che ci proponiamo con questo scritto è di iniziare a contribuire alla formazione di quadri comunisti, senza i quali non può neanche ipotizzarsi la fondazione di un Partito per il proletariato nel nostro paese. La formazione teorica di ogni compagno e il metodo dialettico storico e logico che ognuno di noi deve acquisire rappresentano la linfa di questo progetto.

Continuare nell’opera di analisi materialistica e scientifica della società borghese significa riuscire ad impadronirsi delle questioni e dei concetti del marxismo-leninismo, affrontare le cose isolatamente per poi pronunciarsi criticamente sulle modifiche avvenute nell’ambito economico, politico e sociale da quando i fondatori del socialismo scientifico da ultimi hanno spiegato l’evolversi della società nei suoi vari aspetti.

Se non si compiono questi primi due sforzi (formazione teorica e ripresa dell’analisi della società borghese, di ogni aspetto importante già visionato nei testi marxisti: per esempio, critica dell’economia politica-imperialismo, funzioni e compiti dello Stato borghese, ecc.) ogni iniziativa tesa alla ricerca dell’unità dei comunisti sarà destinata prima o poi a fallire.

 

Ottobre 1990

SCHEMA

Per comprendere meglio il problema di cui vogliamo trattare bisogna distinguere:

  1. A) Da un punto di vista economico:
    1 – Il carattere “progressista” del capitalismo e il suo carattere “conservatore”.
    2 – I periodi di accumulazione e di crisi del capitale.
    3 – La fase di ascesa e la fase di disfacimento del MPC.
    4 – Il rapporto crisi-guerra imperialista.
  1. B) Da un punto di vista politico:
    – Il carattere “democratico” della borghesia al potere e la sua espressione “reazionaria”.
  1. A) Da un punto di vista economico.
    L’epoca del capitalismo ha attraversato vari periodi di sviluppo in cui si è “trasformata” la sua esistenza.

1 – Il carattere “progressista” del capitalismo e il suo carattere “conservatore”.
La natura della nascente borghesia affermatasi nella lotta contro il feudalesimo ha assunto un carattere progressista in quanto è stata espressione, a differenza delle classi dominanti che l’hanno preceduta, di un continuo rivoluzionamento della produzione, di una insaziabile nonché inevitabile trasformazione dei mezzi di produzione, quindi dello sviluppo delle forze produttive a cui si accompagnava libera concorrenza, estensione della produzione e dei mercati, ecc.
Essa ha dovuto guidare sempre questo sviluppo sotto l’egida della proprietà privata, alla cui base si pone il rapporto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La borghesia si incarica quindi di informare i Rapporti Sociali di Produzione con la legge dell’accumulazione. Anche questi ultimi, però, vengono oggettivamente spinti verso una trasformazione, a causa del continuo rivoluzionamento delle forze produttive, ed ecco a questo punto fuoruscire l’animo conservatore e quindi reazionario della borghesia paurosa per il suo futuro.
La contraddizione tra carattere sociale della produzione e forma privata della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e di scambio è alla base, oltre che della contraddizione fondamentale del MPC, anche del dualismo che si crea tra carattere “progressista” e “conservatore” del capitalismo in tutte le sue fasi di sviluppo.
L’aumento maggiore del capitale costante rispetto al capitale variabile nella produzione non è altro infatti che l’espressione in termini di valore di un più alto grado di sviluppo delle forze produttive, che da una parte crea riduzione del tempo di lavoro necessario per la riproduzione della classe operaia (ciò che permette di allungare il plusvalore prodotto singolarmente) e consente di dare stimolo e possibilità al capitalista di immettersi sempre in modo nuovo e competitivo sul mercato; dall’altra genera riduzione crescente della massa di plusvalore sociale prodotto, crisi dell’accumulazione, contraddizione tra il carattere sociale della produzione (e cioè, per esempio, di una produzione che si trasforma in produzione per tutta la società) e carattere privato dell’appropriazione, nonché l’impossibilità da parte della maggioranza della popolazione di appropriarsi e godere della stragrande ricchezza prodotta nella società, a causa della continua riduzione della massa di plusvalore sociale prodotto.
Va anche detto che il progresso tecnico può a volte essere limitato dal monopolio capitalistico in singoli rami industriali, in singoli paesi e per periodi di tempo determinati, in quanto i capitalisti più forti, in condizioni particolari, possono arrivare a monopolizzare alcune fette di mercato e muoversi in questi rami come meglio credono (la concorrenza viene così ostacolata): ciò spiega Lenin nel paragrafo “Parassitismo e putrefazione del capitalismo” dell’opuscolo sull’imperialismo. Ma questo processo, tendenzialmente inevitabile nella nostra società, non agisce a senso unico.
Il monopolio capitalistico porta in sé la tendenza alla massima concentrazione e centralizzazione del capitale, e quindi alla stagnazione, ma produce anche aumento della concorrenza tra i grandi e quindi quel meccanismo che induce ogni capitalista a ridurre continuamente i costi di produzione e ad elevare i profitti operando una costante innovazione.
Ciò dimostra che «i movimenti del progresso tecnico e quindi di ogni altro progresso» possono, in una fase di dominio imperialista, essere paralizzati solo fino ad un certo punto poiché agiscono come tendenze, come processi che quando si producono lo fanno solo transitoriamente, come spiega sempre Lenin nello stesso opuscolo.
Il capitale non può quindi attestarsi ad uno stadio raggiunto dal suo sviluppo, ma deve sempre rimodernare: le sue macchine, le sue tecniche, la sua scienza, il grado di “specializzazione” della forza lavoro ecc., finalizzando il tutto all’estrazione del massimo profitto ed al mantenimento dei rapporti capitalistici di produzione.
Quindi è “innovatore” per natura ma è anche “conservatore” per necessità.

Conclusione
La borghesia se vuole sopravvivere, non può che “trasformarsi” continuamente e sviluppare la società, anche se questo processo deve costantemente essere “piegato”, in quanto genera la sua negazione.

 

2 – I periodi di accumulazione e di crisi del capitale
I periodi di espansione e quelli di crisi informano l’esistenza di tutto il MPC, dalla sua affermazione fino ai giorni nostri. Abbiamo visto nel primo punto che il sistema capitalista vive in funzione della crescita dell’accumulazione, attraverso la continua valorizzazione del capitale con sempre maggior plusvalore; questa necessità mette in moto quel meccanismo di incremento delle forze produttive tale da generare la caduta del saggio medio di profitto e da provocare la crisi.
Noi sappiamo che le crisi del capitale esprimono il carattere transitorio dell’attuale MPC, indicando il fatto che lo sviluppo delle forze produttive è talmente rapido e sfrenato da arrivare ad un punto tale da entrare in contraddizione con gli attuali rapporti di produzione, che quindi agiscono da ostacolo all’ulteriore sviluppo delle prime.
Ma sappiamo anche che le crisi sono cicliche, così come siamo a conoscenza del fatto che la caduta del saggio medio di profitto è tendenziale, cioè è ostacolata da quell’insieme di controtendenze che agiscono come argine alla legge di caduta.
Marx, nel capitolo del III Libro de “Il Capitale” dedicato alle “Cause antagonistiche”, spiega il fatto che gli stessi elementi su cui il capitale fa leva per generare valorizzazione, agiscono come causa della caduta del profitto, e quindi il capitalista non può che operare principalmente su essi per rallentare la crisi.
Tra queste controtendenze Marx cita: 1) l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro; 2) la riduzione del salario al di sotto del valore della forza-lavoro; 3) la diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante; 4) la condizione di relativa sovrappopolazione (e cioè l’esercito industriale di riserva che aumenta quanto più è sviluppato il paese capitalista in questione; 5) lo sviluppo del commercio estero; 6) l’accrescimento del capitale azionario.
Esse fanno in modo che a periodi di crisi di sovrapproduzione si succedano momenti di ripresa, a dire il vero sempre più brevi e difficili da realizzarsi e al cui seguito si pongono altri periodi di crisi sempre più insidiose, ravvicinate nel tempo ed estese.
Non è quindi la crisi che caratterizza i nostri giorni, visto che già nell’Ottocento il capitale ne ha dovute superare non poche; sono l’ampiezza e la portata della crisi capitalistica che sono diverse: nell’Ottocento si verificano crisi commerciali e industriali abbastanza circoscritte (a parte quella del 1873), nel nostro secolo crisi che o hanno anticipato la guerra (vedi il 1913 e la grande crisi del ’29) oppure hanno avuto ripercussioni in tutti i campi (vedi la recessione del 1963, la crisi del petrolio del 1973-’75, la recessione del 1980 e la crisi dei nostri giorni).
Le crisi sono sempre state accompagnate da misure e circostanze analoghe a quelle che attualmente assumono i connotati specifici di: da una parte, richiesta di massima innovazione (di processo e di prodotto), ricerca, sviluppo; da un’altra parte, sovrapproduzione che ostacola la completa valorizzazione; da un’altra parte ancora, messa in opera di meccanismi controtendenziali relativi alla riduzione del salario operaio (vedi le riforme operate sulla struttura del salario), all’utilizzo della forza-lavoro funzionale alle necessità del capitale (vedi flessibilità, mobilità), all’uso della forza-lavoro giovanile super sfruttata (vedi contratti di formazione), all’aumento dello sfruttamento del capitale sul lavoro (vedi il prolungamento dell’orario e il pieno utilizzo degli impianti attraverso il lavoro festivo, prefestivo e notturno), alla nocività sul lavoro (vedi la mancanza di norme di sicurezza), ai forti finanziamenti dati alle imprese a sostegno dell’accumulazione; e, per finire, dai momenti di relativo respiro che, pur con difficoltà, le imprese più forti riescono ad avere (vedi il brillante bilancio conseguito dalla Fiat nell’89 a seguito di un fatturato in aumento del 18% rispetto all’88).
Ma non basta dire che la crisi economica del capitale non è prerogativa della fase imperialista, oppure soffermarsi sul fatto che la differenza col passato è da ricercare nell’ampiezza e portata della crisi stessa: bisogna capire che relazione si stabilisce tra accumulazione e crisi.
Il processo di accumulazione si prefigge la massima estrazione di plusvalore, ma con l’aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile si ha caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Essa però non comporta una riduzione automatica della quantità dei profitti ottenuti: caduta del saggio medio di profitto ed aumento della massa dei profitti sono le due facce della stessa medaglia. Con il processo di accumulazione si ha quindi accrescimento del saggio del plusvalore, caduta tendenziale del saggio medio di profitto, aumento della massa dei profitti, diminuzione della massa di plusvalore sociale prodotto (queste circostanze, com’è ovvio, si realizzano dialetticamente, con eccezioni che possono riguardare singole imprese o branche della produzione).
Ciò che va osservato è che accumulazione e crisi agiscono insieme, convivono contraddittoriamente. Marx ci spiega che è la stessa legge dell’accumulazione a generare la caduta del saggio di profitto e quindi le crisi: «… le stesse leggi della produzione e dell’accumulazione aumentano in progressione crescente, insieme alla massa, il valore del capitale costante più rapidamente di quanto avviene per la parte variabile del capitale convertita in lavoro vivo. Le stesse leggi producono quindi per il capitale sociale un aumento della massa assoluta del profitto e una diminuzione del saggio di profitto» (“Il Capitale“, libro III).
Se ci soffermiamo un attimo ad analizzare la situazione di alcune grandi imprese noteremo come il loro andamento sia costantemente ondulatorio; da un versante assistiamo ad una continua produzione di capitale eccedente, cioè sovrapprodotto, accompagnata dall’applicazione di misure controtendenziali che permettano alle imprese di rallentare la riduzione del saggio medio di profitto, da un altro versante si verifica un aumento della massa dei profitti e quindi fatturati di fine anno più alti rispetto a quelli precedenti: cioè un bilancio positivo.
Mettendo in relazione i dati attuali con quelli fornitici da Marx in merito agli elementi propri dello sviluppo del capitalismo, ci rendiamo conto della continuità che si afferma nel tempo. Con l’aumento della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione il capitale riesce sempre meno ad avere respiro, di conseguenza finché è in vita è costretto ad usare tutte le “armi” che possiede: da un lato per trovare nuove fonti di profitto, dall’altro per mantenere gli attuali rapporti di produzione.
Il capitalismo infatti non crollerà mai da solo, nonostante la sua sempre più elevata instabilità. Esso è costretto continuamente a trovare il modo per arginare la contraddizione che lo perseguita. L’arroganza che la borghesia esprime con sempre maggior virulenza, manifesta la sua necessità di conservazione dinanzi ad una lotta di classe che, a seguito della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, diviene oggettivamente sempre più preoccupante.

Conclusione
– Durante lo sviluppo del modo di produzione capitalista si sono intervallati periodi di crisi, causati dalla riduzione del saggio medio di profitto, accompagnati da momenti di accumulazione ed espansione.
– Accumulazione e crisi sono due aspetti del medesimo processo: nel mentre si crea aumento del saggio di pv e aumento della massa dei profitti, si crea anche riduzione della massa di plusvalore sociale prodotto e riduzione tendenziale del saggio medio di profitto.
– Più il capitalismo entra in una fase di putrefazione, quindi si acuisce la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, e più le crisi da cicliche diventano permanenti e insidiose; ma questo non significa che si arresti lo sviluppo delle forze produttive, il capitalismo senza questo sviluppo non potrebbe alimentarsi.
– Inevitabilmente il carattere autoritario, che la borghesia aveva già espresso prima che sorgesse l’imperialismo, si afferma; ma a causa dell’impossibilità di negare lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, questo carattere autoritario non può essere l’aspetto definitivo e assoluto.
– L’autoritarismo e la reazione della borghesia non sono oggi più marcati che nel passato (vedi XIX secolo), oggi si esprimono “semplicemente” con maggiore continuità a causa della crisi e in modo più insidioso a causa dello sviluppo delle contraddizioni che esso stesso genera.

 

3 – La fase di ascesa e la fase di disfacimento del MPC
Abbiamo già accennato al fatto che il carattere autoritario non nasce con l’imperialismo, anche se in questa fase assume altri connotati.
La borghesia durante il periodo della sua affermazione (e quindi in un’epoca di espansione durante la quale il proletariato comincia a formarsi come classe) determinò degli eccessi enormi di sfruttamento in fabbrica. Le nuove macchine rendevano sempre più precarie le condizioni di vita degli operai, la concorrenza capitalistica e le crisi commerciali rendevano instabile il salario operaio.
Sin dalla sua nascita quindi la classe dei capitalisti non ha riguardi per la forza lavoro: solo i limiti storici e fisici imposti dalla società la costringono ad una relativa ed apparente “ragionevolezza” (nell’Ottocento, per esempio, sul limite della giornata lavorativa).
È evidente che in un periodo ancora di formazione delle due classi principali della società (il proletariato e la borghesia) ciò che anima la classe al potere (e cioè la bramosia di accumulazione) riesce ad affermarsi con poche difficoltà (pur dovendo ancora lottare contro i residui del vecchio modo di produzione).
Proprio per questo motivo, non avendo ostacoli determinanti, essa non pone limiti alla sua sete di dominio, soprattutto a ridosso di crisi.
Scrive Marx nel I libro de “Il Capitale”: «Gli ispettori di fabbrica riferiscono come segue sul periodo della crisi dal 1857 al 1858: “si può ritenere illogico che abbia luogo un qualsiasi sovraccarico di lavoro in un momento nel quale il commercio va così male; ma proprio questa cattiva situazione sprona gente senza scrupoli a trasgressioni; costoro si assicurano così un profitto straordinario… ” Lo stesso fenomeno si ripete su scala minore durante la terribile crisi del cotone del 1861-65».
Dunque a cosa servì e che caratteristiche assunse il progresso che pur si ebbe a quei tempi?
Se da una parte le leggi “liberali” di quel periodo si imposero come “leggi naturali del modo di produzione”, «i fabbricanti non permisero questo “progresso” senza un “regresso” che lo compensasse». Per esempio nel periodo dal 1844 al 1847 «… la giornata lavorativa di dodici ore ebbe validità generale ed uniforme in tutte le branche industriali soggette alla legislazione sulle fabbriche», ma nello stesso tempo sotto la spinta dei fabbricanti «… la Camera dei Comuni ridusse da nove a otto anni l’età minima dei fanciulli da consumare col lavoro, per garantire la “provvista addizionale di ragazzi di fabbrica” dovuta al capitale in nome di Dio e della legge».
Di esempi se ne potrebbero fare tanti – basterebbe citare altre frasi di Marx che troviamo su “Il Capitale” – per mostrare la barbarie naturale della borghesia e il fatto che il suo “progresso” ha sempre dovuto fare i conti con le proprie leggi di sviluppo e con la lotta di classe.
Questa situazione contraddittoria si manifesta, come abbiamo visto, in un periodo di ascesa del capitalismo.
Ciò che quindi distingue la fase di ascesa da quella di disfacimento del MPC non è l’espressione più o meno marcata della “arroganza” borghese, ma il modo in cui si manifestano ed alternano periodi di ripresa con periodi di crisi di sovrapproduzione.
Un’altra distinzione che si afferma con lo sviluppo del capitalismo la troviamo nel modo di estrarre plusvalore.
Fino a che è stato possibile, il capitalista ha operato lo sfruttamento dell’operaio produttivo attraverso il prolungamento della giornata lavorativa, estraendo così plusvalore assoluto; ma con il rivoluzionamento continuo delle condizioni tecniche e sociali del processo produttivo si è arrivati all’estrazione del plusvalore relativo.
Il prolungamento della giornata lavorativa e l’accorciamento del tempo di lavoro necessario rispetto al tempo di pluslavoro, sono entrambi mezzi usati dai capitalisti per aumentare il saggio di plusvalore, ma mentre il capitalista dell’Ottocento pur sfruttando i suoi operai e costringendoli a condizioni di vita e di lavoro disumane, non poteva allungare la giornata lavorativa oltre limiti fisici, storici e sociali – e quindi non poteva estrarre plusvalore all’infinito – il capitalista dei nostri giorni pur ricorrendo a forme di sfruttamento apparentemente più civili riesce ad ottenere un maggior saggio di plusvalore, intensificando i ritmi, aumentando la produttività, ecc.
Non è per caso che Marx definisce l’estrazione di plusvalore relativo come il «modo di produzione specificatamente capitalistico».
Se da un lato quindi i capitalisti, all’inizio, apparivano più barbari per il modo in cui applicavano le leggi del profitto, da un altro lato il loro sfruttare la classe operaia veniva limitato, non potendo svilupparsi oltre un certo grado. L’attuale capitalista invece, pur se appare nella forma più democratico, risulta nei fatti molto più “attrezzato” alla torchiatura della forza-lavoro.
Quanto detto si riferisce al tipo di relazione esistente tra estrazione di plusvalore assoluto e relativo da un lato, e progresso e conservazione, democrazia e reazione, dall’altro.
Se Marx definisce ne “Il Capitale” l’estrazione di plusvalore relativo come la forma specificatamente capitalistica dello sfruttamento, essa è sì meno brutale dell’allungamento della giornata lavorativa, ma più conforme al continuo sviluppo delle forze produttive nell’ambito dei rapporti di produzione capitalistici; quindi è oppressione e violenza di classe come e più dell’estrazione del plusvalore assoluto.
La dominanza dell’estrazione del plusvalore relativo si afferma ben prima dell’imperialismo, ma lo sviluppo di quest’ultimo ne fa in ogni luogo della terra la parola d’ordine di tutte le borghesie e loro frazioni.
La “conquista” dei mezzi per accrescere lo sfruttamento, il plusvalore relativo, è spesso faticosa per i paesi arretrati e portatrice di contraddizioni interborghesi, come è stato da Lenin ben spiegato ne “L’imperialismo” parlando della «… oppressione imperialista e lo sfruttamento della maggior parte delle nazioni della terra per opera del parassitismo capitalista di un pugno di stati ricchi…» e, dopo poche righe, dicendo che «L’esportazione di capitali influisce sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce, accelerando tale sviluppo. Pertanto… non può non dare origine a una più elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo» (1).
Nel periodo del tardo capitalismo le crisi, come abbiamo già detto, assumono sempre più un carattere generale, acuto, nonché si riducono i mezzi per prevenirle (tendenza questa che Marx ed Engels avevano già individuato nel “Manifesto del Partito Comunista”). Difatti con il suo avanzare il capitale, per far fronte alle sue difficoltà, si espande facendo assumere alla crisi un carattere mondiale.
«L’imperialismo nasce con la concentrazione della produzione, la formazione dei monopoli capitalistici, la fusione e simbiosi delle banche con l’industria, l’esportazione di capitali, la spartizione della terra tra le grandi potenze» – diceva Lenin. Ma, nello stesso opuscolo sull’imperialismo, egli pone l’accento sul fatto che la storia dei monopoli capitalistici non inizia con il XX secolo, anche se solo nel Novecento essi si sono definitivamente affermati come base del “nuovo capitalismo”.
Lenin spiega che tutte le caratteristiche dell’imperialismo erano già in nuce nella fase nascente del capitalismo. Egli fa riferimento alle opere dove Marx spiega come alla base della tendenza ai monopoli vi sia la spinta alla concentrazione della produzione, creata originariamente proprio da quella libera concorrenza che l’imperialismo tende ad ostacolare.
I monopoli, che nella fase dell’imperialismo sono alla base della formazione del capitale finanziario, sono sostenuti da quel «sistema creditizio, delle società per azioni, ecc. (che) permettono agli individui di trasformare il denaro in capitale senza divenire essi stessi dei capitalisti industriali» (“Il Capitale”, libro III).
Il credito bancario, la speculazione in titoli di borsa, le società per azioni, ecc., di cui Marx ci ha spiegato i meccanismi, dimostrano il parassitismo e l’imputridimento del capitalismo. Aumentano la concentrazione del capitale e le crisi economiche di sovrapproduzione, elementi che con lo sviluppo dell’imperialismo hanno assunto un’importanza eccezionale.
«Il sistema creditizio affretta dunque lo sviluppo delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione» (“Il Capitale”, libro III).
Il credito quindi crea meccanismi contraddittori: permette il rapido trasferimento di capitale da un settore all’altro grazie a prestiti o investimenti; accelera lo sviluppo di quelle società il cui capitale si concentra intorno all’emissione di titoli; aumenta la concorrenza, ecc.
Partendo da ciò che Marx diceva sul sistema delle banche e sulla relazione tra questo capitale e quello industriale, vediamo che rapporto si stabilisce tra i due.
Le banche hanno il compito di assorbire capitali o depositi: cioè avere una forte disponibilità finanziaria, vendere denaro, svolgere e finanziare attività di investimento. Tramite le banche quindi il capitale industriale e commerciale può disporre di tutti i risparmi monetari esistenti in un paese. In questo modo il capitalista può sia ricevere in prestito dalla banca un capitale (rappresentante di una parte di plusvalore prodotto precedentemente) che deve servigli per creare nuovo profitto e che deve essere restituito come capitale realizzato addizionato di interesse ad un saggio non troppo elevato in quanto più questo aumenta e più si riduce il profitto dell’imprenditore in questione; sia investire una parte del suo capitale eccedente in sempre nuove e più contorte attività che possano permettergli di concentrare nelle sue mani una massa sempre più alta di plusvalore prodotto nella società.
La riduzione del saggio medio di profitto causata dal minore impiego di capitale variabile in rapporto al capitale costante crea una produzione eccedente di capitali, in quanto il plusvalore che si ottiene è insufficiente a valorizzare la totalità del capitale; si generano in questo modo attività di speculazione, nuovi investimenti di capitali ecc. al fine di assicurare in un modo o nell’altro un extraprofitto. E si crea un vero caos in campo finanziario.
Il costituirsi di istituzioni bancarie sempre più concentrate e forti da un lato, e di concentrazioni monopolistiche nel campo industriale dall’altro, favoriscono la riproduzione del capitale finanziario e di una oligarchia finanziaria che concentra e centralizza il capitale bancario e industriale. Nella fase dell’imperialismo l’affermazione del capitale finanziario è necessaria e possibile in quanto per le sue caratteristiche (massima concorrenza e quindi concentrazione e centralizzazione, esportazione di capitali su ampia scala, sviluppo dei monopoli, ecc.) permette di rallentare la caduta del saggio medio di profitto anche se i suoi stessi meccanismi producono crisi. È un cane che si morde la coda.
Ciò che emerge dalla formazione del capitale finanziario è che se da un lato si stabilisce una stretta unità d’intenti tra industria e banche, dall’altro il capitale bancario sta dinnanzi al capitale industriale come una classe particolare di capitalisti.
Ma nonostante l’affermarsi del capitale finanziario nell’epoca del capitalismo maturo, ciò che ha importanza ai fini della produzione capitalistica è il capitale industriale che dirige il processo di produzione il quale a sua volta informa il processo di circolazione, senza i quali il capitale finanziario non avrebbe motivo di esistere in questa società (e lo dice anche De Benedetti in un’intervista: «… ho una certa capacità e una certa intuizione per la finanza e l’ho usata a vantaggio delle mie aziende…. Negli anni ’90 ci sarà un ritorno ai problemi industriali concreti, dopo un incredibile sviluppo della finanza che ha permesso di rivoluzionare il sistema industriale»).
Se è vero che con l’imperialismo il capitale finanziario si afferma, è anche vero che la crisi del capitale ha origine dalla produzione, ed è qui che il capitale agisce in primo luogo per arginare la propria caduta. La contrazione della base produttiva che si determina nella nostra società a causa della crisi, non può che produrre da un lato recessione economica, dall’altro riduzione delle entrate dello Stato a causa della compressione dei salari operai in termini reali e della riduzione della forza-lavoro impiegata nella produzione.
Abbiamo visto nei punti precedenti l’importanza che ha la produzione di plusvalore per i nostri capitalisti e quindi per tutta la società borghese e il caos che la sovrapproduzione determina. Abbiamo detto che le recessioni si allungano e divengono sempre più gravi, le “riprese economiche” si hanno con sempre più difficoltà e per brevi periodi; abbiamo inoltre affermato che, così come nel passato, si ha compressione del salario in tutte le forme, diminuzione dell’occupazione, intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro: tutti processi ormai acquisiti e consolidati particolarmente nei paesi avanzati dell’Occidente.
Sullo sviluppo intensivo di questo processo, oggi come ieri, la borghesia poggia la necessità e la possibilità di aumentare la propria competitività sul mercato internazionale, modificando la struttura del salario, subordinando questo alla produttività e quindi al profitto, riformando la contrattazione collettiva e il mercato del lavoro.
È ovvio che nella società capitalistica l’Esecutivo (come entità e non come coalizione) si adoperi per sostenere l’accumulazione e in questo senso orienti le sue politiche.
La riduzione del tempo di lavoro necessario alla riproduzione della classe operaia viene perseguita attraverso tutti i meccanismi che Marx già individuava come controtendenze alla caduta; inoltre – ripetiamo – la riduzione del costo del lavoro (praticata in questi anni attraverso vari meccanismi: attacco alla contingenza, fiscalizzazioine degli oneri sociali, attacco al salario indiretto), riducendo la paga netta dell’operaio, contrae anche le entrate dello Stato, nella misura in cui sono rappresentate anche da oneri sociali e tasse; quindi per controbilanciare questa contrazione diviene inevitabile l’aumento della tassazione diretta e indiretta, la diminuzione delle spese e il ricorso al debito pubblico. Quest’ultima circostanza aziona peraltro nella nostra società un contorto meccanismo anche nel campo finanziario: da un lato le banche investono parte dei loro depositi nell’acquisto di titoli di Stato riducendo così le proprie disponibilità finanziarie, dall’altro la domanda di credito aumenta facendo lievitare il costo del denaro; ciò si riflette negativamente sugli industriali, che dovranno pagare maggiori costi per proseguire nel processo innovativo.
Aumenta perciò il denaro offerto per l’acquisto dei titoli di Stato, ma il restringimento del complesso delle entrate statali, accompagnandosi alla crescente domanda di denaro, sempre da parte dello Stato, si risolve in nuove emissioni di titoli, ricominciando da capo il circolo vizioso.
A questo punto è chiaro che la necessità che il capitale ha di ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione dei mezzi di sussistenza della classe operaia innesca un meccanismo perverso in tutta la società, creando continua riduzione del salario e dei redditi diretti e indiretti, continuo aumento dello sfruttamento operaio, sempre nuovo ricorso al debito pubblico e costante contrazione della base produttiva; a ciò si accompagnano misure di prevenzione delle lotte, attività di controllo dei flussi e riflussi dell’antagonismo e forme di repressione dell’autonomia di classe (vedi per esempio la legge di modifica del diritto di sciopero).
Il quadro descritto dimostra quindi che, più che mai, nella fase di imperialismo maturo:

  1. a) la massa del plusvalore sociale prodotto è insufficiente a valorizzare l’insieme del capitale, quindi tutto si muove in funzione e per arginare questo limite;
  2. b) le prime controtendenze utilizzate dal capitale per frenare la sua crisi sono applicate direttamente al processo di produzione di plusvalore;
  3. c) il ricorso spropositato agli investimenti prettamente finanziari, la concentrazione e la centralizzazione in monopoli capitalistici ecc., sono tutte conseguenze dell’eccedenza di capitali che si determina e della riduzione della massa di plusvalore sociale estratto, ed agiscono anche come controtendenze;
  4. d) la necessità di stringere alleanze fa nascere il capitale collettivo, che con lo sviluppo dei monopoli acuisce le contraddizioni interborghesi in quanto eleva ed aumenta la concorrenza.

Il capitale quindi fa uso di varie controtendenze di cui alcune, incidendo direttamente sul processo di produzione di plusvalore (vedi le “cause antagonistiche”) assumono un’importanza maggiore rappresentando la base da cui le altre traggono alimento. Ma queste controtendenze agiscono innanzitutto come fondamento dello sviluppo dell’accumulazione.
Le spinte ai processi di integrazione e concentrazione economica, accompagnate alla maggiore competitività delle imprese sul piano internazionale, sono fenomeni quotidiani. Raccogliendo le proprie forze e continuando la lotta al loro interno, i singoli capitalisti possono riuscire a contrastare momentaneamente la riduzione del saggio medio di profitto; ne sono la prova le varie joint-ventures, accordi e fusioni nel settore industriale, in quello della distribuzione ecc., a livello nazionale e internazionale.
La centralizzazione dei capitali permette sostanzialmente ai più forti nei vari settori di divenirlo ancora di più e quindi di acquisire nuove fonti di profitto. Questo grazie al fatto che settori produttivi o commerciali sono inondati da una crisi talmente elevata da non permettere a tutti di fronteggiare la concorrenza, cosicché intere aziende vengono cedute o integrate ad altre gestioni.
Esiste poi una forma di concentrazione particolare che si determina tra capitale pubblico e privato: le “privatizzazioni” di settori quali sanità, trasporti, credito, ecc. Va rilevato che esse non nascono oggi; alcuni dati relativi ad un rapporto del CENSIS dimostrano chiaramente che una combinazione tra gestione privata e pubblica esiste da tempo (ancora sanità e trasporti e poi previdenza, PPTT, pubblica istruzione, ecc.) ma che essa, per come si presenta, è oggi insufficiente per permettere il pieno “risanamento” di questi settori.
Il sistema pubblico, a causa del forte debito in cui versa, non riesce a rendere competitiva la sua attuale gestione maggioritaria. Ma il positivo andamento dell’economia nazionale è nell’interesse di tutta la borghesia (e le privatizzazioni particolarmente interessano il capitale privato) quindi, seppure a malincuore per alcuni, questa ristrutturazione si impone come inevitabile.
La concentrazione e la centralizzazione del capitale si accompagnano alla ristrutturazione finanziaria. Il settore finanziario, unendo il capitale industriale a quello bancario, diviene il luogo ove maggiore è la lotta interborghese finalizzata alla concentrazione e centralizzazione monopolistiche.
Processi tutti molto dolorosi per la borghesia che, pur se da un lato è unita nella definizione dei progetti antiproletari, da un altro lato è in lotta al suo interno, anche se nella lotta è costretta a raggiungere la massima unità per cercare di recuperare quote di plusvalore sociale e utilizzarlo al fine di valorizzare il proprio capitale. Ma ciò crea accumulo di altro capitale eccedente e quindi nuove contraddizioni.
Possiamo a questo punto aggiungere che anche le indicazioni dei vari istituti economici internazionali (FMI, BM) creati dalla borghesia, operano controtendenzialmente alla crisi. Questi organismi, al cui interno convivono unità e lotta, si fanno portatori sul piano internazionale degli interessi antiproletari dell’imperialismo ed amministrano l’economia mondiale in modo ad esso confacente. In questo senso si indirizzano le politiche di queste istituzioni, sia nei confronti di quei paesi avanzati che più di altri attraversano una forte crisi economica e finanziaria (per esempio l’Italia), richiamandoli all’applicazione della politica del “rigore“; sia nei riguardi dei paesi della periferia verso cui il sostegno economico è sì fuori discussione, ma deve essere accompagnato da una gestione interna che si renda responsabile dei propri compiti dinanzi ad un’economia in sfacelo e che sappia quindi adeguatamente far valere la legge dell’accumulazione.
Le proposte di queste strutture sovranazionali indirizzano i governi, a livello mondiale, nella ricerca di un proprio “risanamento” attraverso una ferrea applicazione della regola del profitto, della massima produttività, dell’aumento dello sfruttamento, ecc., in cui la centralità è ricoperta dalla produzione.
L’applicazione delle principali “cause antagonistiche” esposte da Marx come elementi su cui i capitalisti agiscono per favorire l’accumulazione ed arginare, in periodi di crisi, la caduta del saggio medio di profitto, rappresenta un importante fine dei vari accordi stipulati in sede internazionale dai paesi più avanzati che militano in questi organismi.
In questo senso tali istituzioni operano anche in modo controtendenziale alle crisi odierne.
La necessità di trovare nuove fonti di profitto, abbiamo visto, induce i capitalisti ad esportare i propri capitali eccedenti; ciò aumenta su un versante l’integrazione internazionale e la concorrenza, sull’altro la dipendenza economica di alcuni paesi da altri. Questo andamento viene ovviamente guidato dai paesi più avanzati e quindi dai capitali più forti, sia in Occidente che nelle altre aree del mondo.
A parte i paesi avanzati, tra cui si creano monopoli, si stabiliscono concentrazioni e centralizzazioni, si effettuano tutte quelle operazioni che anche sul piano internazionale permettono di arginare la legge di caduta come appena descritto (paesi in cui più lo sviluppo capitalistico è avanzato e più le crisi di sovrapproduzione si fanno sentire), l’imperialismo riguardo alle altre aree si muove in diverso modo.
A questo proposito è il caso di riallacciarci a quanto detto più sopra in merito alle controtendenze alla caduta del saggio medio di profitto. Partiamo dal ragionamento di Marx nel libro III de “Il Capitale”, (cap. XIV sulle “Cause antagonistiche”): «I capitali investiti nel commercio estero possono presentare un saggio del profitto più alto soprattutto in quanto così fanno concorrenza a merci prodotte da altri paesi a condizioni meno propizie; in tal caso il paese più progredito vende i suoi prodotti a un prezzo più alto del loro valore, sebbene più basso di quello dei paesi concorrenti. Fintantoché il lavoro del paese più progredito viene impiegato come lavoro di un peso specifico superiore, il saggio del profitto aumenta, giacché il lavoro che non è retribuito come lavoro di qualità superiore, viene venduto come tale. La stessa situazione può stabilirsi nei confronti di un paese con il quale si abbiano rapporti d’importazione ed esportazione: esso fornisce in natura una quantità di lavoro oggettivato più alta di quella che riceve e ciononostante ottiene la merce ad un prezzo più basso di quanto non potrebbe produrre esso stesso… Del resto, quanto ai capitali investiti nelle colonie ecc., essi possono fornire un saggio del profitto superiore sia in quanto generalmente il saggio del profitto è più alto in questi paesi in seguito all’inadeguato sviluppo della produzione, sia in quanto… il lavoro viene sfruttato in maniera più intensa».
Sulla base di ciò il marxista Lenin ha potuto approfondire il concetto di esportazione di capitali quale dato caratteristico dell’imperialismo, quale ulteriore sviluppo della semplice esportazione di merci. Ma solo analizzando questo dato nella sua natura di “causa antagonistica”, di controtendenza alla caduta del profitto, si può chiarire un importantissimo aspetto economico dell’imperialismo: maggiore gravità e intensificazione delle crisi e conseguente sviluppo delle controtendenze. Ciò premesso riportiamo Lenin: «Finché il capitalismo resta tale, l’eccedenza dei capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse… ma ad elevare tali profitti mediante l’esportazione all’estero, nei paesi meno progrediti (2). In questi ultimi il profitto ordinario è assai alto, poiché colà vi sono pochi capitali, il terreno vi è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo» (3) (“L’imperialismo”).
Quindi da una parte nei paesi in via di sviluppo l’imperialismo può raggiungere maggiori profitti (paesi che peraltro sono fortemente indebitati con l’Occidente industrializzato ma ai quali, pur se sottoposti ad una forte pressione dagli istituti internazionali al fine di riavere i soldi stanziati, non si riducono i prestiti e non s’impongono grossi interessi, visto che non riuscirebbero mai a pagarli; tutto questo conferma la necessità che ha l’imperialismo occidentale di continuare ad invadere e sfruttare questi mercati, e l’interesse economico che pure muove le borghesie dei paesi arretrati a stipulare accordi con l’Occidente), dall’altra parte nel Sud-Est asiatico e nei paesi dell’Est europeo le potenze occidentali devono agire diversamente.
Per quanto riguarda il Sud-Est asiatico, se è vero che in quest’area ancora non sviluppata completamente è possibile per il “nostro” capitalista raggiungere comunque dei maggiori margini di profitto, avere forza-lavoro a costo minore, “piazzare” il proprio capitale, ecc., va detto che all’interno di questa zona (Corea del Sud, Taiwan, Hong-Kong, Singapore) si sta sviluppando l’industria nazionale ad un ritmo che le permette sempre più di attestarsi ad un livello di progresso capitalistico.
Per quanto riguarda invece l’apertura all’Est, l’Europa industrializzata e tutto l’impero occidentale iniziano a manifestare una particolare attenzione. Non vogliamo qui analizzare ciò che in questa parte del mondo sta avvenendo e perché, vorremmo solo accennare a cos’è che muove l’imperialismo verso Est. È chiaro che questa area geografica e politica è colpita da una grossa e forte crisi economica, quindi è costretta a modernizzare il suo apparato produttivo e renderlo competitivo sul mercato internazionale. Per far questo si agisce su vari fronti: ristrutturazione interna, modifica della struttura produttiva, convertibilità della moneta, allargamento delle esportazioni, creazione di joint-ventures per associare capitale straniero e nazionale.
Lo slancio degli scambi che in particolare l’URSS sta stabilendo con l’Occidente ha origine dal suo bisogno di modernizzazione tecnologica e dalle carenze produttive interne all’agricoltura, e dalla nuova possibilità che si crea in questo modo per i paesi occidentali di poter esportare parte di quel capitale che risulta sovrapprodotto.
È abbastanza chiaro a questo punto il motivo per cui gli occidentali vedono di buon grado l’apertura dei mercati dell’Est; non è un caso che essi si scannino tra loro per cercare di avere il migliore posto nell’invasione e penetrazione di questa area. Sentiamo cosa dice Agnelli al riguardo, e cosa propone: il mercato dell’Est rappresenta «il mercato mondiale che ha la più forte potenzialità di crescita (e) lo sviluppo dell’ECU come moneta europea deve essere visto come contributo all’integrazione dell’Europa occidentale e al tempo stesso come base della ricostruzione di quella orientale».
La recessione mondiale in cui si trovano ad operare i capitalisti, può essere in qualche modo “arrestata” momentaneamente con l’apertura di questi nuovi mercati.

La situazione internazionale fin qui descritta ci permette di tracciare cinque considerazioni:
1) Le potenze imperialiste non possono fare a meno di invadere e sfruttare nuove aree. 2) Tutto il mondo è ormai dominato dal capitalismo, e solo a causa di fattori strutturali interni storici, politici, economici e sociali i vari paesi si collocano su piani diversi. 3) Il MPC operante su scala mondiale rende necessaria ovunque la realizzazione della legge del valore. 4) In queste condizioni il proletariato, ormai esistente su tutto il globo, pur distinto per il modo in cui viene sfruttato, si trova ad avere immediatamente dinanzi un nemico interno da combattere rappresentato dalla propria borghesia, che per quanto in alcune zone possa essere ancora “stracciona”, non è certo da meno – nel suo rapporto con la classe avversa – della borghesia che controlla New York. 5) Il proletariato è quindi destinato a svilupparsi in intensità ed estensione, a livello internazionale, come classe e vedrà aumentare il suo sfruttamento.

Esportazione di capitali, spartizione internazionale del mercato, nascita di monopoli nazionali ed internazionali in tutti i campi, concentrazione e centralizzazione del capitale a livello mondiale, mostrano in definitiva di essere per un verso espressione della bramosia di accumulazione, quindi di sviluppo, e per un altro verso di essere accompagnati da sopruso, violenza, quindi dal regresso.
Abbiamo quindi spiegato sommariamente come la società borghese risulti immersa nelle contraddizioni. La formazione e la riproduzione di una borghesia dominante non significa infatti tranquilla convivenza tra i detentori del potere imperialista, anzi, più si accresce la crisi e più la lotta risulta acuta in seno alla borghesia, per quanto la necessità di rimanere uniti in certe condizioni divenga sempre più pressante.
Qualche compagno a questo punto potrebbe chiedersi se esista, dunque, un cuore nel corpo dell’imperialismo.
La scienza marxista ci insegna che la produzione rappresenta l’anima del capitalismo e quindi che il capitale industriale si distingue qualitativamente da tutte le altre forme di gestione economica (commercio, banche, finanza) e politica della società capitalistica, di cui in ogni modo non può fare a meno. Inoltre, da un punto di vista programmatico, sappiamo che in tutto il mondo capitalista si stipulano accordi, si emanano leggi, si creano cartelli, ecc. al solo fine di aumentare l’accumulazione, e che congiunturalmente esistono progetti di ordine economico e politico (che devono marciare conseguentemente a questo fine) che si pongono al centro di tutte le scelte, le lotte, le coalizioni della borghesia.
Ma sappiamo anche che i progetti sono sottoposti a continue trasformazioni; quindi, per quanto sulla base di obiettivi strategici da raggiungere emergano, a livello congiunturale, degli aspetti centrali – intorno ai quali si concentra l’attenzione dell’intera classe dominante in un dato paese – diciamo anche che questi aspetti: primo, non possono mai rappresentare da soli tutte le speranze di tutta la borghesia; secondo, pur avendo un’oggettiva centralità, essa non potrà che essere transitoria. Non esiste quindi un cuore dell’imperialismo.
Sempre riguardo al significato che si attribuisce al termine “borghesia dominante”, vogliamo dire due parole su quella parte di borghesia che esprime il proprio potere economico e politico attraverso l’illegalità. La formazione di questa borghesia si distingue dalla gestione centrale del potere economico, politico e finanziario.
La sua formazione e la sua esistenza derivano prevalentemente da quella divisione storica nel nostro paese, che neanche con l’unità d’Italia si è superata, che ha dato origine alla cosiddetta “questione meridionale” e che ha prodotto lo sviluppo separato (economico e politico) del Centro-Sud da una parte e del Nord dall’altra (con l’insediamento delle grandi industrie nell’Italia settentrionale).
La crisi generale del sistema capitalistico, la ricerca frenetica di sempre nuove strade per accaparrarsi profitti, la necessità – che si è imposta in alcuni periodi – di prevenire e reprimere movimenti proletari di lotta e fenomeni rivoluzionari nel nostro paese, hanno sicuramente favorito lo sviluppo di forme illegali entro cui venivano e vengono coinvolte varie frazioni di borghesia, e attraverso cui si è potuta svolgere una lotta intestina senza esclusione di colpi.
Tutto ciò invece che attenuarle, aumenta le contraddizioni in seno alla classe dominante, dove il grande capitale ha la parte del leone.
Nella lotta interborghese, insomma, quella che si afferma o si riafferma come borghesia dominante rappresenta, e continuerà a rappresentare, gli interessi del grande capitale.

Conclusione
– Il marxismo come scienza rivoluzionaria ci fa comprendere pienamente che l’imperialismo non rappresenta altro se non la degenerazione del capitalismo. Periodo in cui le contraddizioni si acuiscono, la crisi avanza, le controtendenze riescono sempre meno a porre rimedio alla legge di caduta.
– Ciò che distingue la fase di ascesa da quella di disfacimento del capitalismo è l’entità delle crisi economiche e finanziarie, tale da indurre il capitale nei suoi diversi periodi di sviluppo a far sempre più leva sulle controtendenze in suo possesso per poter sopravvivere. Questi mezzi però generano sempre più altra crisi, rilanciando ad un livello superiore quelle stesse contraddizioni che, ad un livello inferiore, avevano ostacolato.
– Tutti i meccanismi adoperati dall’imperialismo in funzione controtendenziale, si basano sulla necessità di porre un freno alla riduzione della massa di plusvalore sociale prodotto, quindi le controtendenze che il capitale privilegia sono quelle che incidono direttamente sul processo di formazione del plusvalore.
– La crisi, la nascita e la crescita dei monopoli, i giochi di borsa, la spartizione dei mercati, generano da una parte alleanza tra capitalisti, dall’altra lotta interborghese a livello nazionale e mondiale.
– La necessità del sostegno all’accumulazione produce unità nella distinzione tra capitale bancario, capitale industriale e Stato. Cosicché la borghesia dominante presenta il suo interno interessi omogenei, ma contraddittori nella misura in cui gli interessi della singola parte sono messi in discussione dalle altre.
– Nella unità e lotta che si genera nella borghesia solo gli interessi del grande capitale hanno la supremazia (interessi che peraltro sono sottoposti alle leggi della dialettica e quindi della continua trasformazione).
– La presenza dell’imperialismo nelle aree della periferia e l’apertura dell’Est all’Europa occidentale agiscono in modo controtendenziale alla crisi e quindi sono favorite e sviluppate ovunque siano possibili.
– La dominanza nell’imperialismo, proprio in quanto fase di sviluppo del MPC, è costituita dal rapporto che si crea tra: estrazione di plusvalore/crisi che questo genera/“cause antagonistiche” e ulteriori controtendenze che si affermano sul piano economico, finanziario, politico, informate però dalle prime (le “cause antagonistiche”).
– La contraddizione principale nel mondo è quella tra proletariato e borghesia.

 

4 – Il rapporto crisi/guerra imperialista
Le crisi del capitale possono essere quindi arginate con l’utilizzo di varie controtendenze. Ma arriva il momento in cui l’uso delle controtendenze fin qui esaminate diviene insufficiente allo scopo.
Nella società capitalistica la riduzione del tempo di lavoro necessario per la produzione dei mezzi di sussistenza operaia, la compressione del salario al di sotto del loro valore, l’invasione di nuovi mercati, la concentrazione, ecc., si affermano con sempre maggiore difficoltà a causa delle contraddizioni del capitale e dell’inevitabile lotta di classe che si genera.
Questa tendenza già operante induce gli Stati e i governi borghesi, ad un certo punto, a “far politica con altri mezzi”.
Le guerre imperialiste permettono di distruggere capitali e di rigenerare una nuova fase di accumulazione ed espansione. Le guerre capitaliste hanno sempre sancito sul piano economico l’instabilità di un paese, di un regime, di un sistema.
La storia è costellata di guerre continue; la guerra imperialista rappresenta l’ultima controtendenza a cui il capitale ricorre per poter ricominciare la corsa verso lo sviluppo e l’accumulazione. Le guerre sono sempre state anticipate da invasioni coloniali o imperialiste, penetrazioni di mercati da parte di capitali, ecc. (basti pensare alle espansioni coloniali inglesi nel Mediterraneo, in Africa e in Asia, o a quelle francesi, tedesche e russe dell’Ottocento, o all’invasione italiana della Libia e così via).
Vediamo ad esempio che alla prima grande guerra imperialista si accompagna un periodo molto ampio di depressione economica e di ristagno, nonché un forte contrasto tra gli imperi tedesco, francese e inglese; così come la grande crisi del ’29 e le invasioni mondiali accompagnarono il conflitto del 1939-’45. Che la borghesia lo voglia o meno, il superamento della crisi attraverso la guerra diviene inevitabile.
Abbiamo detto che le guerre imperialiste servono al capitale per aprire nuovi periodi di ripresa dell’accumulazione, la quale solo in periodi di relativa pace può svilupparsi pienamente (infatti solo alcuni settori – come quelli bellici – possono accentuare la propria produzione nei periodi di guerra). Il capitale vive in funzione dell’accumulazione e quindi le guerre imperialiste, proprio perché devastanti e distruttrici di capitali, non possono durare in eterno.
L’obiettivo per la borghesia dominante è il profitto e non la distruzione di capitali, quindi è la guerra che è funzionale allo sviluppo e non il contrario, sviluppo che perciò non può che affermarsi compiutamente in periodi di pace borghese.
Abbiamo detto che le guerre imperialiste ad un certo punto divengono inevitabili: aggiungiamo che la tendenza oggi operante è quella alla guerra imperialista; essa dovrà distruggere una quantità di capitali eccedenti spropositata.
Le guerre imperialiste si sono sempre accompagnate a periodi di grossa violenza; gli Stati borghesi, dinnanzi alle dimensioni che assumerà questo nuovo conflitto, dovranno quindi predisporre gli strumenti idonei per dirigerlo e per contrastare gli inevitabili “colpi di testa“ dei concorrenti, nonché la contrapposizione operaia e proletaria.
Se è vero che in un periodo di “pace”, in cui comunque aumentano le contraddizioni oggettive, la reazione del capitale si esprime in modo sempre più intensivo, è pur vero che questa reazione dovrà a sua volta trasformarsi a ridosso di un conflitto mondiale interborghese o alle porte di un conflitto tra proletariato e borghesia.
Se è vero che l’unità tra gli imperialisti cresce, e che contemporaneamente aumenta la divisione creata dalla lotta tra diversi interessi al loro interno, nel sistema imperialista si determinano aree più deboli, aree dove la contraddizione tra rapporti di produzione e forze produttive vive e si sviluppa pienamente, paesi in cui la lotta tra proletariato e borghesia assume dimensioni rilevanti, dove – in parole povere – si concentrano tutti i problemi legati all’imperialismo; questi paesi è quindi ipotizzabile che inneschino il futuro conflitto mondiale, per le forti contraddizioni e l’alta instabilità sociale che li attanagliano.
Se pur l’interesse dell’imperialismo sarà quello di distruggere in ultima istanza masse consistenti di capitali per rigenerarsi, nessuno vorrà pagare anche le conseguenze in negativo di una guerra mondiale; quindi le potenze imperialiste cercheranno, così come hanno fatto nel passato, di circoscrivere materialmente l’area ove avrà luogo il conflitto.
Noi non possiamo certo sapere quale sarà, nè dove si verificherà la scintilla che darà via al terzo conflitto mondiale – se nel Centro Europa, in Medioriente o altrove – ma possiamo sicuramente affermare tre cose: primo, che la guerra mondiale si configurerà come una guerra interimperialista e quindi come una guerra che vedrà in campo paesi eguali tra loro, ove la crisi imperialista sarà acuta e forte la necessità di darle soluzione; secondo, che l’“eguaglianza” tra le potenze imperialiste belligeranti non esclude le differenze al loro interno e, in particolare, l’esistenza di un “anello debole della catena imperialista”; terzo, che lo scatenamento di una guerra mondiale dovrà essere preceduto da forti contraddizioni tra i paesi dell’Occidente industrializzato, accompagnate da un’enorme recessione e da altri grossi fattori di crisi, economici e non, ai quali non potrà darsi soluzione pacifica.

Conclusione
– I conflitti nella storia delle società divise in classi sono sempre esistiti, e continueranno a prodursi fino a che esisterà il capitalismo.
– La guerra è la “continuazione della politica con altri mezzi” e rappresenta l’ultima ed inevitabile controtendenza per il capitalismo per poter rilanciare l’accumulazione.
– Durante i periodi di guerra imperialista si ha distruzione di capitali, quindi le guerre non possono essere perenni; la guerra è funzionale alla creazione di condizioni che permettano una maggiore estrazione di plusvalore. Quest’ultima però può ottenersi nelle migliori condizioni solo in periodi di “pace”.
– La tendenza oggi vigente è quella alla guerra interimperialista. I paesi che vi saranno direttamente coinvolti dovranno prepararsi ad affrontare questa situazione, premesso il dato che comunque la guerra non può essere pianificata, così come nulla può esserlo nella società borghese.
– La guerra, indipendentemente da dove si innescherà, vedrà in campo paesi che pur con delle differenze si configureranno come eguali tra loro, in quanto imperialisti.
– La violenza imperialista, che pure oggi emerge, non ha paragone nella forma e nell’entità, con quella che si esprimerà nel contesto di un conflitto.
– Ancora una volta la guerra imperialista avrà come teatro prevalentemente quei paesi imperialisti “anelli deboli” della catena. Ma è pure vero che proprio in questi paesi maturano più facilmente le condizioni affinché, ancora una volta, la tendenza alla guerra imperialista dia origine alla guerra rivoluzionaria. L’Italia è sicuramente uno di questi paesi.

 

  1. B) Da un punto di vista politico

«La repubblica democratica contraddice “logicamente” al capitalismo, perché “ufficialmente” eguaglia il ricco e il povero. È questa una contraddizione tra la struttura economica e la sovrastruttura politica. Nel mondo imperialista si ha la stessa contraddizione, approfondita e aggravata dal fatto che la sostituzione della libera concorrenza con il monopolio rende ancora più “difficile” la realizzazione di tutte le libertà politiche» (Lenin, “Intorno a una caricatura del marxismo”).
Il quesito si pone tra due termini, quello economico e quello politico.
– Il carattere “democratico” della borghesia al potere e la sua espressione “reazionaria”.
Nei vari punti sopra esposti abbiamo constatato come il capitalismo sia, da un punto di vista economico, “progresso” perché non può che proiettarsi in avanti, ma anche “conservazione” perché deve mantenere a tutti i costi gli attuali rapporti di produzione.
Ora cerchiamo di capire che influenza eserciti l’andamento economico sull’espressione politica del capitale nelle sue varie forme. Se infatti politicamente l’imperialismo esprime in generale reazione (anche perché, a causa della crisi, si muove guidato dalla volontà di sopraffazione, di rapina, ecc.), in particolare le forme di espressione politica dell’imperialismo possono, anzi debbono, far leva sulla massima “apertura democratica” tale da permettergli il più ampio movimento. Ed anche qui si crea una contraddizione inevitabile.
La democrazia borghese, che pure è stata espressione del progresso della società, del passaggio dal Medioevo ai giorni nostri, è formale: esprime cioè da una parte la libertà di pochi di arricchirsi, lucrare, ecc., e dall’altra “la libertà” per molti di vendere la propria forza-lavoro, di farsi sfruttare. Le conquiste che si sono ottenute sotto l’egida della borghesia (dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, riduzione della giornata lavorativa per tutta la forza-lavoro occupata nell’Ottocento, suffragio universale nel 1848, ecc.) sono state sempre il risultato di due elementi ugualmente importanti e complementari tra loro: le leggi proprie dello sviluppo del capitale e la pressione esercitata dalle lotte proletarie sull’andamento della società. Lotte che ovviamente all’inizio non erano espressione di una classe organizzata ma che con il tempo lo sono divenute.
Dicevano Marx ed Engels: «Il proletariato attraversa diversi gradi di evoluzione; la sua lotta contro la borghesia incomincia colla sua esistenza». Se il carattere democratico della borghesia è dunque formale, è anche vero che le lotte proletarie possono modificare l’andamento delle cose, naturalmente in modo relativo fintanto che permangono gli attuali rapporti di produzione.
Se è vero che la reazione è un aspetto emergente dell’imperialismo, è anche vero che la reazione in politica non è solo prerogativa di questo stadio di sviluppo del capitalismo. Guardando indietro, infatti, possiamo vedere che proprio alle spalle della nostra storia si verificano eventi che confermano questo dato. In un periodo in cui per esempio il liberalismo si affermò in politica, dopo l’unità d’Italia, si succedettero nel nostro paese coalizioni di destra e di sinistra.
Qui non ci interessa analizzare la differenza esistente tra la natura reazionaria, legata allo sviluppo e alle contraddizioni del capitalismo, che in politica l’imperialismo assume e le forme di espressione sovrastrutturali che si manifestano nelle varie forme dello Stato borghese. Ma possiamo dire che solo in alcuni periodi, e per ragioni ben precise, il suo carattere per natura reazionario si tramuta in violenza aperta. Il fascismo è in questo senso emblematico, esso ha rappresentato e rappresenta solo una forma della reazione imperialista.
Il fascismo si è manifestato in vari modi nella storia. Una cosa è stato quello nato prima del secondo conflitto mondiale e terminato con la guerra, un’altra cosa sono le dittature che anche dopo il ’45 hanno dominato in alcuni Stati. Non è questa la sede in cui vogliamo esprimerci in merito a tali differenze, anche se ciò sarebbe necessario, vogliamo qui soltanto sottolineare alcune cose.
Innanzitutto che nel primo caso la nascita così come il declino del fascismo sono stati funzionali alle esigenze delle diverse fasi di sviluppo dell’imperialismo in quei paesi collocati in una posizione geografica strategica, e che solo potenzialmente potevano affermarsi come vere e proprie potenze capitaliste.
Nel secondo caso queste dittature perpetuatesi nel tempo si sono rese necessarie per le borghesie di questi paesi a causa delle condizioni di arretratezza economica, di sottosviluppo della struttura produttiva, di miseria in cui era ridotta la maggioranza della popolazione, delle contraddizioni sociali molto forti.
Ma l’obbligo di ricorrere alla dittatura fascista era anche una forma di schiavitù per queste borghesie: se da un lato infatti la forma autoritaria di gestione statale era per loro l’unica possibile date le circostanze, dall’altro lo sviluppo interno ne veniva rallentato e le aspirazioni di crescita in senso imperialista risultavano così ostacolate fintanto che permaneva quella forma di potere statale.
Riprendendo il discorso sui diversi modi in cui si è manifestata la dittatura fascista, possiamo distinguere:
1) paesi centroeuropei (quindi con una posizione strategica) come l’Italia e la Germania, ove il fascismo si è imposto a fronte di una forte crisi (ad esempio la depressione del ’29 colpì in modo particolare la Germania), di eccessivi ritardi nell’industrializzazione (l’Italia, pur capitalista, era ancora un paese arretrato e diviso al suo interno; la disoccupazione e la miseria si aggravarono in Italia e in Germania dopo la crisi del ’29), di forti sommovimenti proletari e contadini, alimentati dalla povertà crescente e fortemente influenzati dalla recente e vicina rivoluzione bolscevica.
Tutte le conseguenze della grande depressione del ’29 e della crisi di sovrapproduzione di capitale erano presenti in quest’area (ove tra l’altro, con la guerra che seguì, si distrusse capitale eccedente) ma ciò non fu in contraddizione con lo sviluppo di nuove forze produttive in questi paesi ancora poco industrializzati. I dati parlano da soli: in Italia in quel periodo si ebbe uno sviluppo dell’industria nazionale, e in particolare del settore metallurgico; la costituzione dell’IRI; l’ultimazione dell’acquedotto pugliese; bonifiche integrali, soprattutto nella zona pontina; la creazione di infrastrutture; la battaglia del grano che portò ad un aumento della produzione cerealicola; e, contemporaneamente a ciò, diminuzione dei salari del 30% e dei redditi del 20%; aumento della disoccupazione, ecc.
Quindi con il fascismo da un lato si svilupparono le forze produttive e si determinò un progresso, dall’altro ci fu un immiserimento delle masse, repressione, distruzione (guerra).

2) Paesi come la Spagna, la Grecia, il Portogallo che si collocano ai margini dell’Europa e la cui arretratezza economica è testimoniata anche dalla composizione di classe interna. Questi paesi vengono investiti dalla dittatura fascista con tempi e modi differenti rispetto ad altri e vedono ripristinata la democrazia formale in tempi abbastanza recenti (metà degli anni ’70). Oggi Spagna, Grecia e Portogallo sono paesi imperialisti appartenenti alla CEE, e ciò si è reso possibile proprio grazie alla caduta di quei regimi autoritari che contrastavano con le necessità dello sviluppo imperialistico al loro interno.
Troviamo poi regimi totalitari che si sono stabiliti in aree geografiche della periferia. Queste zone sono esattamente quelle cui l’imperialismo è solito rivolgersi per sfruttare forza-lavoro, risorse ed esportare capitale. L’oppressione qui stabilitasi, generata dal grande immiserimento e dalle forti contraddizioni sociali (vedi America Latina), ha portato l’imperialismo, finito il colonialismo, a sostenere quelle dittature che permettevano all’Occidente industrializzato di assoggettare economicamente e politicamente quest’area, e quindi di poter intervenire senza essere “disturbato” da concorrenti interni o da lotte (non represse) proletarie e contadine.
Se volessimo essere esaustivi fino in fondo dovremmo considerare anche quelle zone del mondo ove lo sviluppo industriale si accompagna a varie forme di Stato facente uso della violenza (Sud Africa e Medio Oriente) (4); ma in questa occasione vorremmo solo delineare degli elementi sintetici.
Se è vero che ad un certo grado di sviluppo l’imperialismo entra in crisi acuta e a ciò si accompagnano regimi violenti, è anche vero che ove si afferma il capitalismo al suo stadio più maturo non può darsi dittatura fascista senza entrare in contraddizione con esso: il fascismo è utile alle borghesie dominanti di quei paesi ove lo sviluppo in senso imperialista viene sì perseguito, ma stenta ancora ad affermarsi.
La democrazia borghese anche in periodi di “pace” può trasformarsi in violenza aperta, ma la storia dei nostri tempi ci dimostra che ciò può verificarsi solo in quei paesi della periferia più o meno industrializzati che attraversano forti crisi economiche, con inflazione assai elevata, alti indici di povertà, ecc. (vedi ad esempio le giunte militari, quali forme particolari di fascismo, attuatesi nel Cile di Pinochet e nelle Filippine di Marcos).
La tendenza operante ai nostri giorni, che vede l’imperialismo occidentale spingere affinché si instaurino regimi “democratici” (ancora Cile e Filipine), è la conseguenza da una parte dello sviluppo interno di questi paesi e quindi dell’esistenza di una borghesia nazionale che può elevare la propria posizione nel mondo capitalista, e dall’altra di una situazione di instabilità sociale che anni di dittatura hanno generato.
I paesi imperialisti ovviamente non vanno contro i propri interessi e quindi non vedono di buon occhio l’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti, ma ciò non viene ostacolato nella misura in cui: a) si creano nelle aree di provenienza di questi nuovi concorrenti misure di concentrazione, monopoli, ecc. ove i capitali più forti hanno la supremazia; b) si favorisce la “pace sociale” interna e quindi, indirettamente, l’insediamento di capitale straniero.
Insomma la reazione fascista, direttamente espressione dello sviluppo in senso imperialista, che caratterizzò paesi come l’Italia e la Germania, deve essere distinta da quella affermatasi in altre aree europee e non, e più o meno industrializzate, colpite da crisi economiche devastanti. Ad esempio il fascismo italiano ha ben poco in comune con il “bonapartismo”, termine che i trotskisti nel nostro paese usarono scorrettamente durante la seconda guerra mondiale – distorcendo alcune affermazioni di Marx ed Engels – arrivando ad identificare il fascismo (espressione diretta dello sviluppo in senso imperialista) con il dispotismo personale.
Il fascismo nell’Europa centrale era guidato dalla grande borghesia quindi non poteva che prodigarsi per lo sviluppo industriale del paese in cui si era affermato. Invece la dittatura dei generali perpetrata nelle aree più arretrate, sia nei paesi capitalisti che in quelli della periferia, ha frenato lo sviluppo industriale nazionale aumentando la miseria.
Inoltre il fascismo centroeuropeo (e in questa occasione evitiamo di considerare quei paesi fascisti, come Polonia e Romania, che circondarono la Russia rivoluzionaria a cavallo delle due grandi guerre) non va assolutamente confuso con le forme di “democrazia violenta” esistenti in zone dell’Africa ecc., ricche di risorse naturali e quindi destinate ad una potenziale accelerazione dello sviluppo interno, ma dove ciò viene ritardato dalla situazione sociale.
Il fascismo è, come la democrazia, una forma di conservazione: una forma politica che assicura la conservazione dell’ordine e quindi il suo necessario sviluppo.
Un’ultima precisazione s’impone a questo punto per non creare inutili confusioni. La reazione che l’imperialismo esprime in mille modi è ben distinta dalla reazione connaturata alle classi intermedie esistenti nella società capitalista. Queste classi, che a causa dell’andamento del capitale continueranno ad oscillare tra proletariato e borghesia, sono conservatrici per natura, in quanto devono ostacolare costantemente il restringimento dei loro privilegi operato dalla borghesia. Per naturale reazione questi settori si oppongono allo sviluppo, cioè a quel meccanismo che genera crisi e quindi restrizioni sociali anche per loro; nel mentre (vista l’impossibilità per essi di frenare l’andamento oggettivo) provano ad ostacolare la propria caduta in uno stato di proletarizzazione cercando i riversare i loro costi sui ceti più deboli della società. Contrapponendosi in questo modo e alla borghesia e al proletariato.
La loro reazione “a doppio senso” è diversa dalla reazione imperialista della classe dominante, anche se è vero che l’imperialismo non disdegna mai di agire sulle contraddizioni, che peraltro esso stesso genera, in seno alle altri classi sociali per raggiungere i suoi fini. Anche l’uso che l’imperialismo fece del “movimento” fascista, espressione del malcontento piccolo borghese e sottoproletario in Italia, rientra a pieno titolo in questa attitudine. Del resto in quegli anni tali fasce sociali vedevano, in quella forma particolare di sviluppo imperialista del paese, la possibilità di elevarsi socialmente.
Oggi la situazione è completamente diversa: la crisi del capitale toglie alla piccola borghesia i privilegi passati, così come costringe il sottoproletariato a condizioni di vita sempre più precarie; è impensabile quindi che questi settori si rivolgano ad una qualsiasi componente della borghesia imperialista dominante per vedere risolti i propri “problemi”.
Per sintetizzare: con la degenerazione del capitalismo, da un parte il sistema dominante non può che fare uso in politica dell’autoritarismo, dall’altra la borghesia al potere non può annullare la sua “anima democratica” proprio perché altrimenti verrebbe meno la possibilità di affermarsi economicamente come modo di produzione ancora operante.
Il carattere democratico che esprime in politica è quindi legato alla spinta dello sviluppo economico; il carattere reazionario e autoritario all’aumento delle contraddizioni e alle difficoltà che la borghesia incontra nel riprodurre la sua società.

Conclusione
– Il fatto che politicamente l’imperialismo, in generale, esprima reazione vuol dire che la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione esistenti è arrivato al suo massimo culmine; oltre il quale il capitalismo non può che cercare di procedere “controcorrente”.
– Quanto sopra non significa che la forma particolare di espressione del dominio borghese coinciderà con la dittatura fascista, tutt’altro. Le attuali condizioni impongono la massima apertura e quindi democrazia formale, entro cui si possono formare o sviluppare monopoli, alleanze internazionali, esportazione di capitali, ecc.
– Leggi oggettive del capitale e lotte proletarie sono i due fattori che provocano cambiamenti all’interno della società borghese.
– Reazione e democrazia formale non rappresentano le prerogative rispettivamente dell’imperialismo la prima e del capitalismo nascente la seconda. La storia dimostra che esse si intersecano, anche se con forme ed intensità diverse.
– La reazione dell’imperialismo è cosa diversa (e ciò vale anche in relazione ai periodi in cui si espresse nella forma di dittatura fascista nei paesi capitalisti del Centro Europa) dalle dittature delle giunte militari, o dal tipo di reazione che per natura alcune classi intermedie sono solite esprimere nell’epoca dell’imperialismo.

Riassumendo:

– Il MPC si fonda sull’accumulazione e quindi sull’estrazione del plusvalore, che deve essere tanto più elevato quanto più deve valorizzare un capitale crescente.

– Lo sviluppo della società e delle forze produttive viene informato da un lato dalla necessità che ha il capitale di trovare sempre nuove fonti di profitto, di innovarsi, di competere con altri; dall’altro dalla sua necessità di ridurre il tempo di lavoro necessario alla riproduzione del salario operaio, aumentando così il plusvalore estorto e quindi il profitto.

– Lo sviluppo delle forze produttive e la spinta alla riduzione del tempo di lavoro necessario (quindi l’estrazione del plusvalore relativo) fanno aumentare in proporzione maggiore il capitale costante su quello variabile impiegati nella produzione, per cui risulta un aumento del plusvalore prodotto da ogni singolo operaio e la riduzione della massa di plusvalore sociale, quindi la caduta tendenziale del saggio medio di profitto e le crisi di sovrapproduzione di capitale (pur crescendo la massa dei profitti).

– Lo sviluppo delle forze produttive non può arrestarsi, anche se “piegato” ai fini del mantenimento dei rapporti di produzione capitalistici; cresce quindi continuamente la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione.

– I periodi di accumulazione e quelli di crisi si sono sempre alternati ciclicamente nella società borghese; così come la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione ha sempre fatto convivere il carattere progressista con quello conservatore propri del capitale, in tutte le fasi del suo sviluppo.

– La riduzione della massa di plusvalore sociale atta a valorizzare l’intero capitale rende le crisi sempre più insidiose; la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione aumenta; il capitale entra in una fase di “sofferenza” profonda. Si accentua così la sua reazione; esso vorrebbe accrescere il suo dominio, ma dovrebbe anche ostacolare il suo proprio sviluppo, il quale genera crisi.

– Progresso e conservazione, democrazia e reazione, pur essendo tutte caratteristiche del capitalismo, entrano sempre più in contraddizione, facendo emergere con maggior evidenza la vera natura dell’imperialismo.

– Nell’andamento del capitale si alternano periodi di ripresa a periodi di crisi; alla basa di ciò è il fatto che la caduta del saggio medio di profitto è tendenziale, e cioè ostacolata da controtendenze. Prime fra queste troviamo le “cause antagonistiche”, che agendo sui meccanismi della valorizzazione informano tutte le altre controtendenze messe in opera dai capitalisti sul piano economico e politico.

– La natura e il funzionamento delle “cause antagonistiche” dimostrano tra l’altro che le controtendenze, prima di agire come tali, agiscono a favore dello sviluppo capitalistico.

– Con l’imperialismo il capitale, a causa della sua “bramosia“ di accumulazione e della crisi, si organizza in monopoli, aumenta d’importanza le sue componenti che operano come capitale finanziario, si concentra e centralizza come non mai, viene esportato ovunque, invade nuovi mercati determinando la spartizione del mondo.

– Viene così a formarsi una borghesia dominante che si muove spinta dalle leggi dell’accumulazione del capitale (all’interno di essa il grande capitale ha la parte del leone, naturalmente) e che a causa di queste stesse leggi e delle crisi conseguenti, è sempre più divisa ed impegnata in lotte di frazione, tese ad affermare, nel collettivo, l’interesse di una parte contro le altre.

– La legge dell’accumulazione capitalistica è quella dominante e che informa l’andamento di tutta la società borghese, generando e riproducendo in continuazione la contraddizione principale nel mondo, tra proletariato e borghesia.

– Quando le contraddizioni dell’accumulazione capitalistica avranno portato la crisi al massimo grado di tollerabilità, la borghesia non potrà che ricorrere all’estrema controtendenza, la guerra imperialista: quel mezzo che le permetterà di distruggere masse elevate di capitali eccedenti, rivitalizzando così l’accumulazione in un nuovo ciclo.

– Una guerra imperialista non può essere stabilita a tavolino, né il suo andamento può essere controllato oltre un certo grado. Ogni potenza imperialista cercherà, domani come ieri, di combattere la guerra al di fuori dei propri confini, giacché le enormi distruzioni che ne conseguono possono portare la nazione ove ha luogo ad un “arretramento”, ridimensionando il potere economico e politico della borghesia ivi dominante e aumentando la dipendenza dalle altre potenze.

– È ipotizzabile che la guerra abbia luogo prevalentemente nell’ambito dei paesi più deboli della catena imperialista (pur essendo una guerra mondiale), ove maggiori sono le contraddizioni e i conflitti sociali. La guerra imperialista potrà quindi trasformarsi in guerra rivoluzionaria.

– La tendenza alla guerra interimperialista è oggi vigente. La distruzione che provocherà sarà senza precedenti. La borghesia dominante dovrà essere, nella misura del possibile, preparata all’evento e in grado di governare lo stato di cose che si genererà. La reazione che attualmente la borghesia esprime non è paragonabile a quella che si manifesterà a ridosso e durante un conflitto.

– La guerra imperialista è funzionale all’accumulazione, e non viceversa, quindi non può e non potrà che essere limitata nel tempo; anche se più acute sono le contraddizioni, più lunga e distruttrice sarà la guerra.

– La reazione propria dell’attuale imperialismo, che può esprimersi in modo anche molto violento, è cosa ben diversa sia dalle dittature fasciste, che dalle democrazie che ricorrono apertamente e direttamente alla violenza statale. In uno dei paesi imperialisti l’instaurazione di siffatti regimi, contrasterebbe con gli interessi della borghesia dominante.

– Dal lato economico il capitalismo non può che essere favorevole sia al suo progresso che alla conservazione dello stato di cose presenti. Dal lato politico il capitalismo non può che essere democratico (e quindi favorevole alla libertà di sfruttare, invadere, farsi sfruttare, ecc.) e autoritario nella misura in cui deve ostacolare l’eccessiva concorrenza al suo interno e tutte le spinte che possano portare alla trasformazione dei suoi rapporti sociali di produzione.

– I mutamenti interni alla società borghese si verificano sempre per l’azione di due elementi, entrambi importanti e che si informano a vicenda: le leggi proprie del capitale e la lotta di classe (che non a caso Marx qualificava come il motore della storia). I comunisti e i rivoluzionari debbono costantemente tenerne conto.

 

Una doverosa precisazione sulla nostra firma.

Conformemente al nostro obiettivo, che è di contribuire alla formazione dei quadri comunisti che fonderanno il Partito, adottiamo una sigla che richiama il pilastro fondamentale per la costruzione di ogni comunista. Si tratta della data in calce alla Prefazione di Marx alla prima edizione del primo libro de “Il Capitale”, scritta nel 1867.

“25 LUGLIO”

Novembre 1990 (a cura di un gruppo di compagni detenuti nel carcere di Cuneo)

 

Note

  1. Oggi vediamo pienamente confermata questa tesi e possiamo dire che alcuni aspetti dell’imperialismo come l’oppressione delle borghesie forti sulle nazioni deboli, sono solo la forma che ricopre il nocciolo: lo sfruttamento operaio, l’estrazione di plusvalore, che sempre più si confermano la vera identità dell’imperialismo, fase ultima del capitalismo. L’assolutizzazione delle contraddizioni Nord/Sud oppure Est/Ovest è fumo negli occhi; la priorità assegnata agli aspetti appariscenti ed esteriori, sottovalutando quelle che sono le vere cause, conduce ad un vano tentativo di riformare l’imperialismo.
    Nell’attuale grado di sviluppo solo i proletari, nella contrapposizione con la propria borghesia (ricca o stracciona) e unendosi ai proletari degli altri paesi e a chi si riconosca nel programma della rivoluzione proletaria, possono condurre la lotta all’imperialismo.
  1. Ciò ovviamente nulla toglie al fatto che la stessa funzione venga svolta anche dall’esportazione nei paesi di pari progresso, ove con altre modalità possono essere realizzati extraprofitti derivanti dal controllo monopolistico. (NdA)
  1. Sappiamo poi che la destinazione degli extraprofitti, oltre a quella di funzionare da controtendenza, consiste anche nel corrompere una elite del proletariato.
    Questo aspetto è tuttavia legato alla grandezza e incisività della crisi, e lo stesso Lenin ce lo insegna; le famigerate “briciole” sono soggette all’andamento ciclico, e attualmente più che l’elevazione economica di aristocrazie operaie vige il peggioramento degli strati collocati immediatamente sopra il proletariato. (NdA)
  1. Questi ed altri paesi sono detentori di prodotti fondamentali come petrolio, minerali radioattivi, minerali preziosi, ecc.; prodotti che, costituendo parte del capitale costante – in quanto materie prime – e operando come capitale produttivo (oppure per altri motivi), ricoprono una funzione strategica nel mondo delle merci.
    L’imperialismo occidentale che ha grossi interessi in queste aree (poiché il controllo delle fonti di quei prodotti può direttamente incidere sulla riduzione del prezzo degli elementi del capitale costante, operando così in modo controtendenziale alla legge di caduta) vorrebbe dirigere il monopolio di queste merci. Ma si vede costretto a fare i conti con la relativa autonomia in cui operano questi paesi da un punto di vista economico e politico, forti del monopolio che essi ne detengono e consapevoli della collocazione particolare che hanno nel mondo.

Attaccare il cuore dello Stato attaccare le politiche centrali dell’imperialismo. Tribunale di Cuneo – Comunicato presentato il 18 dicembre 1990 dai militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

La nostra presenza in questo processo, come militanti delle BR-pcc prigionieri, si snoda essenzialmente su due elementi: la collocazione politica del “provvedimento coattivo” disposto contro di noi dalla magistratura e attuato dai carabinieri e guardie carcerarie nel maggio-giugno ’89 e, in relazione, la responsabilità che ci siamo assunti nel comportamento di resistenza attiva da noi opposto; il sostegno alla linea politica e all’attività di combattimento della nostra organizzazione.

Il provvedimento si inseriva in particolare nell’ambito della gestione, centralizzata a livello politico, dell’istruttoria-processo per l’azione della nostra organizzazione contro il senatore DC Roberto Ruffilli.

Una gestione politica tesa principalmente al ridimensionamento e spoliticizzazione dell’attacco portato al cuore dello Stato, nel tentativo di presentarlo come attività priva di progettualità politica e legittimità storica, negando così anche la contraddizione rappresentata dal processo stesso per lo Stato e in particolare per la DC; secondariamente come pressione sui militanti ostaggi nei diversi carceri.

Come militanti comunisti il nostro rapporto con lo Stato è un rapporto di guerra; siamo nemici politici e combattenti nemici. Di conseguenza ci opponiamo a ogni tentativo di criminalizzazione dell’attività combattente della nostra organizzazione, a ogni collaborazione e dunque anche all’“acquisizione di prove”.

Perciò, quando l’acquisizione di prove è stata disposta di forza, con le aggressioni alla nostra integrità fisica, altrettanto conseguentemente abbiamo organizzato e attuato la resistenza possibile nelle diverse situazioni.

Qui, abbiamo valutato possibile e necessario resistere attivamente nei diversi momenti di conflitto che abbiamo attuato, e dei quali ci assumiamo tutta la responsabilità politica.

La nostra condotta in questa occasione, e per quanto ci è possibile sempre, non risponde a una logica “carceraria“ di prigionieri, ma si riconduce prima a una logica di militanti, consapevole dell’estrema parzialità della condizione di prigionia e che implica una dimensione politica e strategica d’organizzazione, di partito, una dimensione collettiva dell’attività rivoluzionaria che perciò non parte dal carcere né ruota attorno a esso.

I prigionieri come tali non possono realmente essere soggetto politico autonomo: coltivare illusioni su ciò sarebbe l’opposto di uno sviluppo di soggettività rivoluzionaria, sarebbe stare del tutto al di sotto delle necessità imposte dal livello raggiunto dallo scontro. Impadronirsi politicamente e teoricamente delle dinamiche oggettive e non-aggirabili di sviluppo del processo rivoluzionario, che danno centralità alla guerriglia nel suo insieme – della quale i prigionieri sono solo la parte caduta – e che pongono il baricentro sempre nella guerriglia in attività è la condizione per sviluppare una condotta il più possibile coerente nel quadro della guerriglia, stando in questa situazione.

Partire dalla guerriglia come organismo, soggettività organizzata e strutturata a livello collettivo secondo un programma, un progetto strategico, un piano di conduzione dello scontro generale è dunque il solo modo non dispersivo ma produttivo in termini rivoluzionari di collocare la propria militanza reale; i prigionieri non sono niente se non conservano quel superamento che ogni proletario opera nell’aderire alla guerriglia, dove egli non è più l’operaio, il proletario, né tanto meno… il prigioniero, ma si ricompone come uomo nel collettivo che combatte: diventa, da ribelle, rivoluzionario – un militante, un comunista. In questa logica essere prigionieri indica solo il luogo fisico e politico in cui i militanti si possono trovare, e che impone il ruolo disciplinato che è loro proprio nel quadro della condizione generale dello scontro.

I militanti nelle mani del nemico non possono che essere sempre, nel conflitto generale, il fianco materialmente più debole del movimento rivoluzionario: lo sviluppo del processo rivoluzionario non può che decidersi sempre fuori, nel centro dello scontro reale, al livello imposto dallo sviluppo storico.

Questa concezione che ha informato e informa la nostra condotta in questi anni è stata per noi una conquista politica dell’esperienza nel confronto generale con la controrivoluzione, secondariamente con l’attività antiguerriglia rispetto al carcere.

Questo è valido a tutti i gradi del conflitto poiché sin dall’inizio l’organizzazione combattente agisce in un rapporto di guerra, e solo secondo queste leggi si può dare attività rivoluzionaria reale, produttiva, efficace del partito combattente. Lo sviluppo della guerriglia si dà nell’attacco pratico, nella capacità politica e pratica di costruirlo, nei colpi – anche – che inevitabilmente si subiscono, nella ricostruzione di nuova capacità d’attacco; così ancora si sbaglia, ma questa prassi, come è stato in tutto il nostro percorso storico, via via si precisa, cresce e in questa prassi si costruiscono i termini della guerra di classe.

Queste leggi valgono anche e particolarmente in carcere: qui, solo dentro questa disciplina – che è un’arma: lo strumento che lega alla lotta generale – è praticabile una condotta che sia organica allo sviluppo rivoluzionario complessivo, ed è anche questo il significato, l’utilità pratica, la continuità e il senso della militanza, anche nelle mani del nemico.

Solo così anche la oggettivamente limitatissima “prassi” dei militanti prigionieri smette di essere un dimenarsi, un attivismo di settore, di “categoria”, e anche le parole smettono di essere lamenti, “parole urlate” per diventare, nei loro limiti, cristallizzazioni più o meno grezze di esperienza effettiva, la quale non è “dei prigionieri”, ma dell’insieme del partito, della guerriglia. Soltanto così si può dare capacità di crescere, di imparare dallo sviluppo pratico di cui si è parte.

Ecco perché per noi, identità, militanza, prassi rivoluzionaria non è una “nostra prassi di prigionieri”, ma la prassi autentica: l’attività rivoluzionaria pratico-critica dell’organismo rivoluzionario che è il partito in costruzione, organismo nel quale noi, ogni militante, siamo soltanto un elemento, una parte – nostro ruolo è essere funzionali al processo della guerra di classe.

Questa logica, di partito, sta alla base della nostra condotta anche in questa particolare occasione.

Le Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente si sono conquistate una legittimità storica, politica, teorica a prendere la parola sul carattere attuale dello scontro di classe formandosi concretamente come parte attiva di questo scontro e sua direzione rivoluzionaria.

Il contesto storico dello sviluppo della lotta armata per il comunismo nei paesi del centro imperialista è caratterizzato dai mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo ha determinato con il secondo conflitto mondiale sul piano economico-sociale e storico-politico.

La divisione del mondo in “sfere di influenza”, Est/Ovest, vede il capitale, alla cui testa sono gli USA, nella necessità di assestare gli equilibri a suo favore. La controrivoluzione imperialista nel secondo dopoguerra è la risposta alla stabilizzazione della rottura rivoluzionaria dell’Unione sovietica, ai processi rivoluzionari decisi in Est-Europa dal nuovo equilibrio internazionale e alla necessità di stabilizzare la pacificazione dell’Europa attraversata dai risvolti rivoluzionari formatisi durante il conflitto – ciò anche a fronte dello sviluppo dei processi rivoluzionari nel mondo.

La crisi del 1929, con le politiche delle infrastrutture, del riarmo e lo sforzo bellico avevano innestato sia nei paesi vinti che in quelli vincitori, in special modo negli USA, un processo di sviluppo monopolistico. Per parte USA, l’enorme capacità produttiva sviluppata nello sforzo bellico richiedeva partner solvibili, pena la crisi economica immediata. Perciò, controrivoluzione imperialista e “piano Marshall” furono due facce della stessa medaglia con le quali fu normalizzata l’Europa, a partire dal punto critico costituito dalla Repubblica Federale Tedesca.

Il piano di internazionalizzazione e interdipendenza delle economie che ne seguì ha dato luogo ad un processo di polarizzazione tra le classi con la proletarizzazione di vasti strati della società, al formarsi di una frazione di borghesia imperialista aggregata al capitale finanziario USA – quest’ultimo si è innervato nella composizione dei gruppi monopolistici dominanti all’interno della catena imperialista -, e nel contempo al formarsi del proletariato metropolitano.

Come riflesso sovrastrutturale a questa fase dell’imperialismo, la democrazia parlamentare moderna assume il ruolo di rappresentare e portare avanti gli interessi della frazione dominante di borghesia imperialista.

Dal punto di vista economico si affina, data la conoscenza acquisita, la capacità di gestione e di governo dell’economia attraverso politiche economiche di supporto che, nella fase della crisi generale di valorizzazione assumono carattere controtendenziale, intervenendo per attutire gli effetti negativi della crisi dal momento che non possono agire sulle cause, che sono strutturali.

Dal punto di vista politico ancora di più si esalta il ruolo che lo Stato assume in riferimento all’antagonismo inconciliabile tra le classi. A partire dai rapporti di forza generali tra le classi che caratterizzano il quadro di scontro nel dopoguerra, la democrazia rappresentativa si organizza in modo tale da farsi carico del controllo e del governo del conflitto di classe superando il carattere essenzialmente repressivo che aveva informato la Stato fascista anteguerra, per servirsi delle istituzioni democratiche come ambito politico in cui convogliare e compatibilizzare le spinte e le tensioni antagonistiche che si riproducono nel paese, le quali, incanalate dentro le gabbie istituzionali, vengono svuotate di ogni contenuto destabilizzante per non farle collimare con il piano rivoluzionario. Partiti, sindacati, organismi politici istituzionali vengono delegati a “rappresentare” la classe e diventano l’unica “controparte” legittima in quanto strutturalmente lealista alle istituzioni democratiche e agli interessi della borghesia imperialista. La democrazia parlamentare ingloba così la nuova qualità della controrivoluzione imperialista, cristallizzandosi in quella che definiamo appunto “controrivoluzione preventiva”.

Nel quadro di queste modificazioni la strategia insurrezionalista (politica dei due tempi, doppio livello, ecc.) che aveva caratterizzato l’impostazione dell’Internazionale comunista rivela la sua inadeguatezza.

Con l’insieme dei dati storici oggettivi si è misurata la soggettività rivoluzionaria: a partire dalle esperienze delle rivoluzioni cinese, vietnamita, algerina, cubana… si viene formando un quadro di elaborazione teorica delle avanguardie rivoluzionarie sia del centro che della periferia che si coagulano attorno ai nuovi termini che assume la politica rivoluzionaria e afferma la lotta armata, la guerriglia, come l’unica strategia adeguata a questa fase dell’imperialismo e alla corrispondenti forme di dominio della borghesia imperialista per il raggiungimento dell’obiettivo di tappa (liberazione nazionale, rivoluzione socialista).

Le espressioni più mature di questa elaborazione sintetizzarono le prime linee teoriche e politiche di quello che va considerato sul piano dell’esperienza rivoluzionaria uno sviluppo vivo del marxismo: il concretizzarsi storico-pratico della teoria del proletariato rivoluzionario. Un’elaborazione che si sintetizza nell’attività rivoluzionaria nella periferia di forze rivoluzionarie come i feddayn palestinesi, i Tupamaros in Uruguay, Erp e Montoneros in Argentina…, nel centro imperialista con le organizzazioni rivoluzionarie nere-americane, con i Weathermen, la Gauche Proletarienne, la Raf, le BR…

La soggettività rivoluzionaria dunque afferma la lotta armata come il solo modo di operare in queste condizioni storiche, e specificamente per il centro imperialista la necessità di operare nell’unità del politico e del militare, e secondo i criteri offensivi di clandestinità e compartimentazione, presupposti che si confermano come indispensabili per la guerriglia nelle metropoli, unitamente al carattere di lunga durata della guerra di classe.

Questo quadro complessivo è dunque il contesto generale sul quale si afferma la lotta armata, la guerriglia nei centri imperialisti: il particolare contesto dello scontro di classe nei singoli paesi in cui si inserisce ne determina poi le caratteristiche specifiche di sviluppo.

Quello che possiamo affermare sulla base della nostra esperienza è che i caratteri generali fondamentali della guerriglia validi in ogni Stato del centro imperialista determinano un processo di maturazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che obbligatoriamente si generalizza in ogni contesto, in ogni Stato. Così, lo sviluppo di nuove forze rivoluzionarie che si formano in paesi che non hanno avuto precedenti deve misurarsi necessariamente con il livello dato nel contesto generale del rapporto rivoluzione/controrivoluzione a livello internazionale, e prendere atto di cosa è già determinato sul piano generale dall’attività di altre forze rivoluzionarie. Relazionarsi a ciò non significa travalicare il necessario calibramento politico che ogni forza è tenuta a misurare nel radicare la sua proposta politica e strategica, né tantomeno non tener conto del tipo di mediazione politica tra le classi entro cui si racchiudono le specifiche forzature, ma significa relazionarsi anche al livello che si è stabilito sul piano generale tra rivoluzione e controrivoluzione.

Condizione generale immanente che sovrasta lo sviluppo del processo rivoluzionario è l’accerchiamento strategico, determinato dal fatto che il potere è nelle mani del nemico completamente fino al suo rovesciamento: i rapporti di forza, intesi in termini generali, sono dunque sempre favorevoli al nemico di classe. La rottura dei rapporti di forza a favore del campo proletario che l’avanguardia rivoluzionaria opera è quindi sempre relativa. Contemporaneamente vige il principio che la guerra di classe è strategicamente vincente. Infatti, la borghesia vi interviene per mantenere il potere ma non può ’distruggere’ il proletariato, chiave di volta del modo di produzione capitalistico in quanto creatore di plusvalore; il proletariato rivoluzionario, al contrario, combatte per il potere e in questo processo vive e si sviluppa come classe rivoluzionaria nell’obiettivo di annientare la borghesia in quanto classe del capitale, liberando così lo sviluppo delle forze produttive dai rapporti di produzione capitalistici.

L’accerchiamento strategico, nel contesto dello scontro che si sviluppa negli Stati del centro imperialista, si carica di significati riconducibili al fattore dell’aumentato peso della soggettività nello scontro di classe generale, una questione da cui non si può prescindere se si vuole intervenire nelle dinamiche dello scontro. Più specificamente vi influiscono i termini del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che si è prodotto storicamente.

Sul piano del funzionamento della guerriglia, l’esperienza delle Brigate Rosse permette di precisare le importantissime implicazioni che vivono operando nell’unità del politico e del militare, implicazioni che condizionano tutto il modo in cui si sviluppa la guerra di classe.

In questo senso possiamo dire che l’unità del politico e del militare agisce come una matrice nell’intero processo rivoluzionario, dai meccanismi che consentono a una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi, al processo nel suo complesso.

La guerriglia nelle metropoli non è sempre semplice e sola guerra surrogata, essa agisce e può sviluppare una sua efficacia muovendosi ben dentro i nodi centrali dello scontro politico tra le classi. L’attacco al nemico perciò, per essere disarticolante, per incidere e avere spazio deve riferirsi strettamente a questo patrimonio generale. La guerriglia, dunque, nel costruire i termini della guerra di classe, esplicita la natura di guerra che vive nello scontro di classe, natura fortemente dominata dalla politica e che influenza tutte le dinamiche dello scontro, dal piano generale della lotta di classe al piano rivoluzionario.

Il processo rivoluzionario è processo di attacco politico-militare al nemico – cuore dello Stato, politiche centrali dell’imperialismo – e nel contempo, a partire da questo attacco è costruzione e organizzazione delle forze sulla lotta armata al grado imposto dallo scontro e dai diversi livelli delle forze che vi concorrono.

Il nodo della direzione rivoluzionaria nella guerra di classe è dunque un vero e proprio processo di costruzione-fabbricazione del partito combattente che si configura come tale nel percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe. La direzione rivoluzionaria dello scontro di classe si realizza in ciò che abbiamo definito «agire da partito per costruire il partito» e che è stata la condotta delle Brigate Rosse in tutta la loro storia.

Questa concezione fondamentale, così come il modulo politico-organizzativo secondo cui sono strutturate le BR, i criteri di clandestinità e compartimentazione, costituiscono elementi validi sempre, strategici, affinché la guerriglia possa agire con il suo portato rivoluzionario in queste condizioni storiche dello scontro tra le classi e che permettono il carattere offensivo della guerriglia.

Sul piano internazionale, il movimento economico che si è affermato in quest’ultimo decennio nel mondo capitalistico, a seguito delle ristrutturazioni e delle introduzioni di nuova tecnologia nella produzione, ha fatto da acceleratore nei processi di accentramento e centralizzazione monopolistica mettendo in movimento enormi quote di capitale finanziario.

Questa dinamica ha determinato un salto qualitativo in avanti nel livello di internazionalizzazione ed integrazione economica tra gli Stati della catena imperialista.

Sul piano politico questo ha portato alla esigenza di una maggiore coesione e di concertazione delle politiche economiche.

Gli Stati della catena imperialista, muovendosi all’interno di necessità comuni che in ultima istanza ne condizionano l’azione verso un comune obiettivo, devono però fare i conti con gli interessi dei propri singoli capitali (che sono in concorrenza tra loro e con i capitali degli altri paesi) e con la lotta di classe e rivoluzionaria interna che ha connotazioni specifiche dovute alla storia economica, politica, sociale di ogni singolo Stato. Quindi, il processo di integrazione e coesione economica, politica, militare invece di dissolvere i singoli Stati della catena imperialista in un unico “super-imperialismo” esalta le funzioni degli Stati di questo processo. Sono gli Usa, quale paese capitalista più sviluppato della catena imperialista, che hanno espresso le tendenze e le contraddizioni economiche affermatesi nel mondo capitalistico, e proprio per questa ragione hanno consumato per primi le tappe che conducono alla crisi. Le controtendenze messe in atto negli anni Ottanta (Reaganomics) hanno esaurito il loro effetto controtendenziale finendo con il produrre gravi scompensi nell’economia mondiale, aprendo le porte alla recessione produttiva.

Sono quindi le contraddizioni prodotte dalla crisi economica che caratterizzano il capitalismo nella fase imperialista dei monopoli che premono, nel loro interconnettersi, sul piano delle relazioni politiche e militari.

Quello che va maturando è un complesso processo che muove verso la tendenza alla guerra, manifestandosi con caratteristiche specifiche in questa fase imperialista.

Il riflesso di questi passaggi muove, sui piani economico-politico-diplomatico-militare, nella tendenziale ridefinizione dei rapporti di forza relativi al quadro storico post-conflitto della divisione del mondo in sfere d’influenza. Le differenze che si sono prodotte in questo processo decennale nella catena imperialista hanno spostato relativamente il peso economico verso l’Europa Occidentale, senza che questo significhi perdita della leadership USA, che nonostante la recessione economica, rimane il paese capitalisticamente più sviluppato, sia perché i monopoli Usa sono capillarmente presenti nell’intera Europa Occidentale, che per il ruolo politico-diplomatico-militare che a tutt’oggi vede gli Usa in grado di forzare e pilotare verso le sue scelte i partner della catena imperialista (pur tra relative contraddizioni). L’Europa Occidentale, in questo contesto generale, per i processi di coesione politico-militare che ha promosso, acquista un peso più rilevante, e questo proprio a partire dalle modificazioni delle aree periferiche.

All’interno di questa dinamica la Repubblica Federale Tedesca, “grande Germania”, ha assunto un peso e un ruolo centrali; infatti essa ha fatto pesare a suo favore le modificazioni degli equilibri dell’Est europeo.

L’arretramento ad Est e la risultante modificazione dei rapporti di forza in favore dell’imperialismo ha rideterminato il rapporto Est/Ovest, influenzando e riflettendosi sulla direttrice Nord/Sud e proletariato/borghesia sul piano internazionale.

Una dinamica che mette in evidenza come la pressione economica, politica, diplomatica e militare dell’imperialismo in questa fase muove tendenzialmente nella ridefinizione di tutte le aree geopolitiche per come si erano definite con Yalta. Un processo che apre lo spazio all’imperialismo per normalizzare-ridefinire le aree strategiche ratificando i rapporti di forza a suo favore a livello mondiale.

Una tendenza attraverso cui l’imperialismo ha teso a dare soluzione utilizzando tutto il suo armamentario controrivoluzionario, a partire dalla “bassa intensità”, unitamente allo strangolamento economico, e pressioni diplomatiche, fino all’attuale interventismo diretto nelle aree di crisi (Centroamerica, Medioriente…).

Una realtà che rende quanto mai demagogica la cosiddetta “soluzione pacifica” dei conflitti nelle aree geopolitiche di crisi, in primo luogo perché per l’imperialismo la soluzione della crisi da sovrapproduzione assoluta di capitali e mezzi di produzione non si dà nella sola “apertura” dei mercati.

Va detto che la crisi economica che investe a diversi livelli la catena imperialista è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali, che non possono essere utilizzati al saggio di profitto atteso dal capitalista. In questo senso non si tratta di merci che non trovano un mercato solvibile; questo semmai è un effetto. Perciò, l’“apertura” di nuovi mercati all’Est non può risolvere (nel lungo periodo) la contraddizione insorta a livello strutturale.

La tendenza alla guerra quindi, intesa come necessità per la borghesia imperialista di distruzione di capitali sovraprodotti per far ripartire il ciclo economico su una nuova base, rimane tutta intera, approfondendosi ulteriormente come tendenza di risoluzione critica delle contraddizioni economiche.

Sul piano politico-militare ciò significa per l’imperialismo la ridefinizione delle aree di influenza e di una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati capitalistici.

È dunque nel contesto della tendenza alla guerra, fatta di visibili e concreti processi politici, diplomatici, militari di compattamento all’interno della catena imperialista, pur nella diversità di ruoli e ai diversi gradi con cui si manifesta la crisi, che gli Usa spingono l’iniziativa diplomatico-militare adottando una strategia globale tesa a intervenire in ogni area di crisi.

Questa tendenza si sta esprimendo attualmente nella regione mediterraneo-mediorientale che per la sua importanza strategica (materie prime e rotte strategiche) vede un intervento complessivo dell’imperialismo che vi ha installato già dal 1948 l’entità sionista come suo avamposto.

Una regione dove oggi l’imperialismo Usa spinge per modificare l’equilibrio geopolitico in suo favore e in cui sono coinvolti in prima persona gli Stati dell’Europa Occidentale, perché loro “naturale” zona d’influenza.

Per questi motivi questa regione è l’area di massima crisi rispetto alle altre aree periferiche.

I recenti avvenimenti nel Golfo persico, che si intrecciano con la grande mobilitazione delle masse arabe attorno al cuore politico della nazione araba: la rivoluzione palestinese, l’intifada e l’eroica lotta delle forze rivoluzionarie palestinesi e libanesi nella Palestina occupata e nel Sud Libano dimostrano che l’imperialismo deve ancora fare i conti con la lotta di classe, sua prospettiva rivoluzionaria.

La vitalità dei processi rivoluzionari in tutte le aree di crisi, dove i rivoluzionari si stanno misurando con la nuova situazione, stanno a dimostrarlo. I fondamenti dei processi rivoluzionari stanno nelle cose, nei rapporti sociali dell’epoca imperialista: lì trovano alimento le forze rivoluzionarie, lì si riproducono, crescono, si sviluppano.

La ridefinizione in atto degli assetti mondiali lungo le storiche linee di demarcazione del mondo contemporaneo dovrà fare i conti, e già li sta facendo, con queste “potenze” reali.

Per questa ragione l’antimperialismo è la questione politica prioritaria che attraversa tanto i popoli in lotta nella periferia, quanto lo scontro di classe e rivoluzionario nel centro imperialista.

L’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo vive in unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato, costituendo entrambi i binari su cui le Brigate Rosse sviluppano e verificano la loro capacità di attacco e assolvono alle funzioni di direzione politica dello scontro.

Per la guerriglia nel centro imperialista si tratta di attualizzare l’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni di scontro della metropoli, sapendone collocare il piano e la portata rispetto all’antimperialismo praticato dalle forze rivoluzionarie nella periferia.

L’antimperialismo per le Brigate Rosse non è una mera questione di solidarietà internazionalista o di politica estera ma si tratta del contributo alla costruzione-consolidamento del Fronte combattente antimperialista quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo.

Il Fronte è innanzitutto un fronte oggettivo, costituito dai percorsi rivoluzionari che hanno luogo sia nel centro che nella periferia del sistema imperialista. L’assunzione soggettiva di questa realtà permette di connotare l’internazionalismo proletario all’interno della prassi adeguata alla profondità dello scontro tra imperialismo e antimperialismo.

Lavorare alla costruzione e al consolidamento del Fronte costituiscono dunque un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria.

La necessità del salto politico al Fronte combattente antimperialista si è posta e si pone in termini soggettivi a partire dal grado di sviluppo dell’imperialismo sia dal punto di vista economico che dal punto di vista delle politiche di coesione regionali che impongono la necessità da parte delle forze rivoluzionarie di costruire quei livelli di unità e cooperazione che permettono di incidere sulle politiche dominanti dell’imperialismo, pur senza esaurire con questa attività il complesso del lavoro che ogni organizzazione combattente porta avanti relativamente ai suoi obiettivi e alle caratteristiche storiche e sociali del paese in cui opera.

Deve essere infatti chiaro che i processi di coesione tra gli Stati del centro imperialista non significano la semplificazione del quadro di scontro sul solo piano internazionale: l’internazionalizzazione della formazione monopolistica, lo sviluppo integrato tra gli Stati e l’interdipendenza economica connessa muovono verso un processo tendenziale di formazione omogenea sia dei caratteri della frazione dominante di borghesia imperialista che del proletariato metropolitano. Un processo appunto tendenziale, che non dissolve la funzione degli Stati, ma anzi li esalta all’interno degli organismi internazionali. Ogni specifico percorso rivoluzionario dunque si sviluppa necessariamente all’interno del singolo Stato ed è caratterizzato dalle peculiarità storiche e politiche del contesto interno della lotta di classe. Si tratta dunque di due livelli differenti, che, sebbene reciprocamente influenzati, devono essere collocati sul loro piano distinto.

Dato l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico-militari, per lo sviluppo del processo rivoluzionario è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo in questa area geopolitica che abbiamo definito come “Europa Occidentale – Mediterraneo – Medio oriente”.

La necessità del Fronte si dà in quanto prassi offensiva che mira alla disarticolazione delle politiche dominanti dell’imperialismo per determinare quelle condizioni di instabilità politica nell’area, funzionali al procedere del processo rivoluzionario al livello dei singoli Stati.

Obiettivo del Fronte combattente antimperialista è dunque spostare a favore delle forze rivoluzionarie i rapporti di forza nei confronti dell’imperialismo su scala internazionale determinando una condizione di ingovernabilità nell’area; cosa questa, differente dall’impedire il processo di integrazione e coesione in atto a livello internazionale. Anche perché la stessa attività rivoluzionaria oggettivamente e soggettivamente antimperialista è uno degli elementi che contribuiscono allo sviluppo di questo processo di integrazione, poiché l’attacco all’imperialismo produce come conseguenza non una separazione tra i vari Stati, ma, al contrario, come dinamica rivoluzione/controrivoluzione, una risposta sempre più unitaria e centralizzata. Infatti l’acquisizione della prassi della guerriglia sul terreno dell’antimperialismo ha costretto la borghesia imperialista a rideterminare il terreno antiguerriglia. Già all’interno dei processi di coesione economica, politica, diplomatica, militare della catena imperialista, con particolare riguardo all’Europa Occidentale, uno dei punti qualificanti è quello che passa attraverso un più stretto coordinamento degli apparati di polizia e servizi segreti dei singoli Stati, con la tendenza alla omogeneizzazione degli strumenti repressivo-legislativi, con la definizione di iniziative comuni come la “soluzione politica” e come lo “spazio giuridico europeo” contro la guerriglia (Germania, Francia, Italia, Spagna…).

Ciò chiarisce come i termini dello scontro rivoluzione/controrivoluzione, imperialismo/antimperialismo si rideterminano soggettivamente rispetto al peso politico e strategico acquisito dalla guerriglia nell’intera area geopolitica.

L’approdo all’accordo politico con il testo comune Rote Armee Fraktion-Brigate Rosse del settembre ’88 ha portata storica, per il progetto politico che pone e per ciò che significa l’esperienza rivoluzionaria della RAF e delle BR, che fa ormai parte della materialità dello scontro di classe nel centro imperialista, e sancisce un salto in avanti nella politica del Fronte, misurandosi con la definizione più precisa della sua proposta politica, così espressa nel testo comune:

«(…) Il salto ad una politica di Fronte è necessario e possibile per le forze combattenti allo scopo di incidere adeguatamente nello scontro.

Per questo bisogna battere e superare tutte le impostazioni ideologiche e dogmatiche che esistono oggi dentro le forze combattenti e il movimento rivoluzionario in Europa Occidentale, poiché le posizioni dogmatiche e ideologiche dividono i combattenti.

Queste posizioni non sono in grado di portare la lotta e l’attacco al livello necessario di iniziativa politica.

Le differenze storiche, di percorso e di impianto politico di ogni organizzazione, differenze (secondarie) di analisi eccetera non possono e non devono essere di impedimento alla necessità di lavorare a unificare le molteplici lotte e l’attività antimperialista in un attacco cosciente e mirato al potere dell’imperialismo.

Non si tratta di fondere ciascuna organizzazione in un’unica organizzazione. Il Fronte in Europa Occidentale si sviluppa intorno all’attacco pratico in un processo cosciente e organizzato in cui si maturano successivi momenti di unità tra le forze combattenti. Perché organizzare il Fronte combattente rivoluzionario significa organizzare l’attacco; non si tratta di una categoria ideologica, né tanto meno di un modello di rivoluzione. Si tratta invece di sviluppare la forza politica e pratica per combattere adeguatamente la potenza imperialista, per approfondire la rottura nelle metropoli imperialiste e per il salto qualitativo della lotta proletaria (…)».

Gli elementi politici di fondo che rendono possibile e necessario il Fronte sono così espressi, in riferimento all’Europa Occidentale:

«(…)L’Europa Occidentale è il punto cardine nello scontro tra proletariato internazionale e borghesia imperialista.

L’Europa Occidentale per le sue caratteristiche storiche, politiche, geografiche è la parte dove si incontrano le linee di demarcazione classe/Stato, Nord/Sud, Est/Ovest.

L’inasprimento delle crisi del sistema imperialista, l’abbassamento del potenziale economico degli USA sono il motivo principale che, insieme ad altri fattori, determina una perdita relativa di peso degli USA. Questi fattori comportano un avanzamento (sviluppo) del processo di integrazione economico, politico, militare del sistema imperialista. In questo contesto e per le ragioni sopra dette la funzione dell’Europa Occidentale nel governo della crisi cresce di importanza.
– Sul piano economico: l’Europa Occidentale sviluppa un piano concertato di politiche economiche di sostegno e ammortizzamento delle contraddizioni economiche all’interno del governo della crisi dell’imperialismo.
– Sul piano militare: forzature verso una maggiore integrazione politico-militare nell’ambito dell’alleanza atlantica – Nato, sia con piani politici economici di riarmo all’interno della nuova strategia militare imperialista nei confronti dell’Est, sia con un intervento politico e militare integrato contro i conflitti che si inaspriscono nel Terzo Mondo, principalmente verso l’area di crisi mediorientale.
– Sul piano controrivoluzionario: la riorganizzazione ed integrazione degli apparati di polizia e dei servizi segreti contro lo sviluppo del Fronte rivoluzionario, contro le attività rivoluzionarie e contro l’estensione e l’inasprimento dell’antagonismo di massa. Riorganizzazione e integrazione che si avvale di precisi interventi politici contro la guerriglia, come ad esempio i progetti di “soluzione politica” che stanno avvenendo nei vari paesi europei.
– Sul piano politico-diplomatico: i progetti di “soluzione negoziata” dei conflitti al fine di consolidare le posizioni di forza imperialiste. Questa attività politico-diplomatica ha anche la funzione di rafforzare i processi di coesione politica dell’Europa Occidentale, un movimento dal quale nessun paese dell’Europa Occidentale è escluso. Un dato questo da cui nessuna forza rivoluzionaria combattente può prescindere nella propria attività rivoluzionaria. (…)
(…) – L’attacco unificato contro le linee strategiche della coesione dell’Europa Occidentale destabilizza la potenza dell’imperialismo.

– Organizzare la lotta armata nell’Europa Occidentale
– Costruire l’unità delle forze combattenti sull’attacco: organizzare il Fronte, combattere insieme».

La chiarezza degli obiettivi, il realismo politico nell’impostazione del Fronte ne determinano la valenza che va oltre l’unità immediata raggiunta, perché apre la prospettiva dello sviluppo del Fronte non solo tra le forze rivoluzionarie europee, ma con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area, avviando concretamente l’unità che già esiste oggettivamente tra le lotte del centro imperialista e i movimenti di liberazione della periferia.

Il complesso di fattori che caratterizzano sui piani politico, economico, diplomatico, controrivoluzionario i processi di coesione si riflettono infatti, oltre che in Europa, anche nella concretizzazione di iniziative tese alla normalizzazione e stabilizzazione dell’intera area geo-politica Europa Occidentale – Mediterraneo – Medioriente come obiettivo funzionale all’acquisizione di migliori rapporti di forza da parte dell’imperialismo.

Un progetto di normalizzazione e stabilizzazione dell’ordine imperialista che è poi il progetto politico dominante nell’area e che trova il suo maggiore ostacolo nella lotta antimperialista e antisionista condotta dal popolo palestinese e libanese, e nella lotta più generale delle masse arabe.

Lo specifico contesto di classe in Italia determina per la guerriglia, per le Brigate Rosse, il tipo di strategia e le particolarità di sviluppo della lotta armata nella costruzione del processo rivoluzionario della guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico generale.

Storicamente in Italia il plasmarsi della sovrastruttura statale sulle condizioni dettate dal ripristino dell’ordine imperialista e in un contesto di classe ricco di fermenti rivoluzionari ha condizionato la stessa “impalcatura” istituzionale e, ciò che è più importante, il personale e le forze politiche atte al suo funzionamento.

La stessa formazione della Democrazia Cristiana avviene in questo contesto assumendo nel dopoguerra la rappresentazione più fedele della borghesia imperialista, assicurandone gli interessi generali, attraverso le altre forze politiche in grado di articolare la necessaria dialettica interborghese. Nello stesso tempo, ottemperando alla funzione di normalizzazione e stabilizzazione del quadro politico interno, all’interno del quale l’insieme dei partiti costituiranno il “garante democratico” delle politiche antiproletarie e controrivoluzionarie degasperiane.

Una normalizzazione e stabilizzazione che si è avvalsa, nelle diverse fasi dello scontro, di forzature vere e proprie nelle relazioni tra classe e Stato, operate anche attraverso l’uso del terrorismo di Stato (da Portella delle Ginestre alle stragi degli anni ’70 e ’80).

È in relazione a queste caratteristiche che possiamo rilevare nel percorso storico e politico dello Stato, della borghesia imperialista nostrana, dentro il processo di assestamento delle forme di dominio della borghesia, un unico tratto antiproletario e controrivoluzionario inerente alla natura e allo sviluppo dello scontro di classe. Un filo organico, dentro al procedere non-lineare di questo scontro, che va dalla nascita della “democrazia rappresentativa” alla attuale “fase costituente” che evolve verso una “Seconda Repubblica”. Un processo storico, politico e sociale così sintetizzato dalla nostra organizzazione nel volantino di rivendicazione dell’azione contro Ruffilli:

«(…) Non a caso l’attuale fase politica in cui si è inserito il progetto imperialista evidenzia la continuità, pur nella rottura con le diverse fasi politiche e storiche vissute nel nostro paese. In altri termini c’è un filo continuo che lega la Costituente del ’48, espressione dei rapporti di forza usciti dalla Resistenza al nazifascismo, a questa nuova “fase costituente”. Un filo continuo che passa dalla restaurazione degli anni ’50 per controllare il movimento insurrezionale ereditato dalla Resistenza, al “centro-sinistra” degli anni ’60, al tentativo neo-golpista di stampo fanfaniano dei primi anni ’70 teso a contrastare in termini reazionari le forti spinte dell’antagonismo di classe e della guerriglia, l’“unità nazionale” morotea in un clima di forte scontro per il potere diretto e organizzato dalla strategia della lotta armata, alla “controrivoluzione degli anni’ 80”, vera e propria base su cui ha trovato forza questa fase politica».

La centralità dell’attacco allo Stato costituisce oggi più che mai per le BR uno dei principali assi programmatici attorno a cui costruiscono organizzazione di classe sulla lotta armata, costituendo insieme all’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo con il Fronte combattente antimperialista i due assi programmatici su cui si costruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata. L’attacco al cuore dello Stato è l’attacco politico-militare della guerriglia alle politiche dominanti dello Stato, atte a determinare nel paese equilibri politici tra classe e Stato funzionali all’attuazione dei programmi della frazione dominante della borghesia imperialista e mira, nelle diverse congiunture, a disarticolare l’iniziativa del nemico favorendo l’ingovernabilità delle tensioni di classe per rovesciarle e organizzarle sul terreno della guerra di classe di lunga durata contro lo Stato, dando così prospettiva rivoluzionaria allo scontro di classe.

Lo scontro politico tra le classi, e soprattutto il piano rivoluzionario avanzano nella misura in cui si rompono gli steccati e i filtri stabiliti dalle relazioni classe/Stato, la loro mediazione politica. Un dato che si riferisce sempre alla contraddizione dominante che oppone la classe allo Stato e che può esistere e affermarsi dentro gli equilibri politici che si formano nel paese tra le classi; gli equilibri inter-borghesi si formano secondariamente, di riflesso e accanto agli equilibri di forza e politici tra classe e Stato.

L’iniziativa della guerriglia è tesa a rompere, lacerare il piano degli equilibri tra classe e Stato e a costruire le condizioni per un equilibrio politico e di forza favorevole al campo proletario: ciò può avvenire soltanto intervenendo con l’attacco politico-militare al punto più alto dello scontro. Questo attacco si ripercuote poi come effetto su tutto l’arco dei rapporti fra le classi, fino al piano capitale/lavoro. Una dinamica di intervento che libera, anche se momentaneamente, energie proletarie; energie, vantaggi momentanei derivati dall’attacco operato che vanno tradotti in organizzazione e disposizione delle forze sul terreno della lotta armata.

La nostra esperienza sul terreno dell’attacco allo Stato ci ha consentito di superare pratiche dispersive che nel passato hanno caratterizzato un attacco teso a disarticolare, quasi si collocassero sullo stesso piano, i diversi centri della macchina statale, a livello periferico e centrale; ciò era in quella fase il riflesso di una visione ancora schematica dello Stato, i cui apparati erano visti nella loro separatezza di apparati politici, burocratici, militari… e derivava da una visione schematica, linearistica e ancora manualistica delle fasi rivoluzionarie della guerra di classe, che riconducevamo a due sole fasi principali: quella della costruzione-accumulo di capitale rivoluzionario e quella del suo dispiegamento nella guerra civile.

L’esperienza fatta dalle BR sul terreno del processo rivoluzionario ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nel quadro di un andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello Stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati; un dato questo ulteriormente approfondito dagli attuali processi di rifunzionalizzazione istituzionale.

Per queste ragioni l’attacco allo Stato, al suo cuore politico nelle diverse congiunture, va inteso nel giusto criterio, affermatosi nella pratica, che definiamo di “centralità, selezione, calibramento”.

Centralità: dato l’approfondimento dello scontro, la capacità dell’attacco di disarticolare, inteso sempre in termini relativi e non assoluti, risiede in primo luogo nella capacità politica di individuare, all’interno della contraddizione principale che oppone le classi, il progetto politico centrale della borghesia imperialista.

Selezione: sta nella capacità di individuare il personale che, nel progetto politico centrale, assume una funzione di equilibrio delle forze che sostengono il progetto stesso.

Calibramento: consiste nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado, irreversibile, di approfondimento raggiunto dallo scontro – anche negli inevitabili arretramenti, che sono costitutivamente interni alla dinamica del processo rivoluzionario, il livello di intervento non può prescindere dal punto di scontro più alto attestato -, allo stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie sul terreno della lotta armata, allo stato dei rapporti di forza tra le classi sia interni al paese che negli equilibri internazionali tra imperialismo e antimperialismo. Questi criteri guidano l’attacco, e permettono alla guerriglia di incidere nello scontro al livello imposto e necessario, traendone il massimo vantaggio politico e materiale. Sulla base della nostra esperienza possiamo affermare che questa logica, questi criteri saranno determinanti per diverse fasi ancora dello scontro, poiché solo in una fase di “guerra civile dispiegata” si dà la necessità-possibilità di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.

Di questa logica l’attacco al cuore dello Stato con l’azione centrale contro il senatore DC Ruffilli è un chiaro esempio. Una vittoria politica, non solo delle Brigate Rosse che l’hanno concepita e praticata, ma che segna per parte rivoluzionaria e proletaria un’intera fase dello scontro di classe in Italia, un suo passaggio centrale e decisivo.

Con il progetto demitiano di “riforma istituzionale” la DC si prefiggeva la ratifica e il consolidamento degli equilibri generali tra le classi conquistati dalla borghesia imperialista nei confronti del proletariato con la controrivoluzione degli anni ’80. Un progetto molto articolato, sia nelle tappe politiche da mettere in pratica sia nei fini perseguiti, i quali sono così espressi dalla nostra organizzazione nel documento di rivendicazione dell’attacco:

«(…) In termini generali questo progetto si inserisce nella tendenza attuale di ridefinizione-riadeguamento complessivo di tutte le funzioni e istituzioni dello Stato ai nuovi termini di sviluppo dell’imperialismo e ai corrispettivi termini del governo del conflitto di classe. Ossia, una tendenza generale di riadeguamento delle democrazie parlamentari quali forme di dominio più maturo degli Stati a capitalismo avanzato. Quindi un avanzamento delle forme di dominio della dittatura della borghesia imperialista.

Una tendenza generale che, nelle sue direttrici, seppur con tempi e modi diversi, interessa molti paesi europei (…) e che in Italia assume caratteristiche peculiari in relazione al ruolo economico e politico che il nostro paese, con la presenza della prassi rivoluzionaria portata avanti dalle BR in dialettica con i settori più avanzati dell’autonomia di classe, svolge e ai caratteri, infine, della classe dominante nostrana necessariamente prodotta dai primi due fattori.

(…) L’ossatura del progetto imperialista è imperniata sulla formazione di coalizioni che si possono alternare alla guida del governo dandogli così un carattere di forte stabilità, una maggioranza forte e un esecutivo stabile in grado di garantire da un lato le risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico internazionale. Questo è il massimo della democrazia formale, dove l’“alternanza” fa la funzione dell’opposizione e dovrebbe riuscire a contenere le spinte antagonistiche che si riproducono nel paese.

(…) Che questo progetto politico affondi le sue radici nella natura e nelle funzioni dello Stato ne sono ben coscienti gli elaboratori stessi, i quali si richiamano ai termini economici e di sviluppo di questa fase dell’imperialismo; di qui il puntare alla scadenza del 1992 il riferimento alla liberalizzazione dei capitali in modo da favorire la formazione di nuovi monopoli.

Per quanto riguarda il conflitto sociale, una delle riflessioni fondamentali parte proprio dalla constatazione del fatto che in Italia si è prodotto uno scontro di classe che ha trovato nella guerriglia il suo punto più alto. La controffensiva dello Stato negli anni ’80 parte dal presupposto che, senza assestare un duro colpo alla guerriglia, non si sarebbe potuto procedere alla ristrutturazione economica che la crisi rendeva impellente. Una dinamica controrivoluzionaria che, a partire dall’attacco all’organizzazione e ai settori più avanzati dell’autonomia di classe, ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe costruendo i termini dei nuovi rapporti di forza a favore dello Stato.

È in questo rapporto di forza che può essere varato il patto neo-corporativo; esso ratifica un avanzamento della controrivoluzione; un modello di relazioni che, a partire dal rapporto classe/Stato, ha costretto tutti i soggetti sociali dell’opposizione istituzionale a modificare il proprio ruolo.

Un riadeguamento che, dovendo ruotare intorno al processo di rifunzionalizzazione dello Stato – in cui tale progetto è inserito -, ha nella sostanza modificato, sulla base dei nuovi rapporti di forza, il carattere della mediazione politica tra classe e Stato, la funzione degli strumenti e dei soggetti istituzionali con cui lo Stato si rapporta al proletariato, il modo stesso di governare il conflitto di classe. Per questo possiamo dire che nella mediazione politica tra classe e Stato vi è incorporato il salto di qualità operato dalla controrivoluzione degli anni ’80.

(…) L’obiettivo è quello della “democrazia governante”, dove al massimo dell’accentramento del potere reale corrisponde il massimo della democrazia formale. È questo il progetto politico demitiano, formalmente teso alla costruzione di una “democrazia finalmente matura”; nei fatti teso a concentrare tutti i poteri nelle mani della maggioranza di governo nel nome di un interesse generale del paese che nella realtà è solo l’interesse generale della frazione dominante di borghesia imperialista, nella normale dialettica tra maggioranza e opposizione, in cui la maggioranza ha gli strumenti di governo e l’opposizione ha facoltà di critica, senza però poter intervenire nei processi decisionali, in un gioco in cui apparentemente i partiti rappresentano l’intera società, nella realtà rappresentano solo gli interessi della frazione dominante della borghesia imperialista. Un progetto politico che nel complesso tende a svincolare il governo della società dalle spinte antagoniste, garantendo la stabilità politica del sistema; è per questo che il progetto demitiano è in questo momento “il cuore dello Stato”, in quanto da un lato sancisce l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi della borghesia imperialista, dall’altro assesta e ratifica i rapporti di forza tra classe e Stato in favore di quest’ultimo: da ciò il suo carattere controrivoluzionario e antiproletario.(…)».

È all’interno di questo contesto che il progetto demitiano, centralmente dominante nei rapporti tra classe e Stato, viene attaccato e disarticolato dalla nostra organizzazione.

Questo intervento porta in sé tutte le potenzialità politiche e strategiche insite nel riadeguamento dell’avanguardia combattente, e in quanto tale capace di portare la sua iniziativa politico-militare ancora una volta al punto più alto dello scontro tra le classi, dove si determina la ridefinizione dei rapporti politici tra classe e Stato, dei rapporti di forza, delle modalità di governo relative alla mediazione politica tra le classi.

Questo intervento rivoluzionario, espressione dell’attività complessiva operata dalle BR, ha spostato e approfondito il livello dello scontro; una dinamica consapevolmente prodotta e calibrata dalle BR ai rapporti di forza generali e alle condizioni dello scontro, un contesto che si è riflesso sulla rideterminazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. L’attacco all’ideatore del progetto, elemento di spicco nel ricomporre e ricondurre le forze politiche intorno agli equilibri necessari per effettuare i passaggi del progetto, ha di fatto aperto un varco, avendo attaccato l’elemento centrale di coesione di quegli equilibri su cui dovevano stringersi le intese politiche; in questo senso ha contribuito sostanzialmente al suo ripiego e allo scompaginamento relativo del quadro politico istituzionale, poiché ha interessato l’incrinamento degli equilibri legati all’aspetto dominante della contraddizione classe/Stato, che per la sua importanza rimette parzialmente e relativamente in gioco gli equilibri tra le classi.

In questo senso la disarticolazione del progetto dominante della borghesia imperialista nella congiuntura permette di acquisire lo spazio politico, il termine relativo di rapporto di forza per l’avanzamento della dinamica complessiva dell’attività rivoluzionaria a partire dalla dialettica attacco-costruzione-organizzazione-attacco.

L’iniziativa politico-militare infatti non si riferisce ad obiettivi simbolici che servano a “svelare” la natura delle contraddizioni di classe – questo può essere semmai uno degli effetti -, ma essa è invece il concreto modo di procedere di questo particolare tipo di conflitto che è la guerra rivoluzionaria nelle metropoli imperialiste.

L’attacco quindi si pone l’obiettivo di danneggiare effettivamente il nemico di classe, di disarticolarlo sulla base di criteri di “centralità, selezione, calibramento” dell’attacco stesso, che permettono di ottenere il massimo di risultato con il minimo sforzo, data la disparità di forze esistente tra guerriglia e Stato.

Da questa prassi l’avanguardia combattente sintetizza il vantaggio materiale in forza politico-militare, attraverso la costruzione-consolidamento dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, adeguato ai livelli di scontro e agli obiettivi della fase.

Questa iniziativa politico militare delle Brigate Rosse esprime una qualità politica che lo sviluppo successivo della vicenda istituzionale in questi anni dimostra e conferma. In questo paese infatti la borghesia imperialista deve fare i conti, e lo si vede nel grottesco ma reale travaglio della riforma istituzionale, con contraddizioni e conflitti che hanno le proprie radici nella concretezza della lotta di classe e nella qualità impressa allo scontro da venti anni di attività e presenza della lotta armata, della guerriglia, delle BR.

Le BR hanno lavorato in questi anni e lavorano oggi a porre le basi alla fase di ricostruzione, la quale prende forma e consistenza all’interno della ritirata strategica.

Le condizioni politiche generali in cui fu aperta la ritirata strategica rimarcavano una sostanziale inadeguatezza dell’impianto e della linea politica dell’organizzazione rispetto ai termini dello scontro. Nella sconfitta tattica dell’82 si dimostrava l’incapacità di comprendere e anticipare lo sviluppo del processo controrivoluzionario: l’incapacità di cogliere i mutamenti che a livello dell’imperialismo stavano modificando il quadro degli equilibri generali a fronte della profonda crisi economica; per quanto riguardava l’analisi dello Stato e della situazione interna si riteneva che la “Campagna di primavera” del ’78 avesse lasciato la borghesia e lo Stato incapaci di ricompattare le proprie fila e di riformulare nuove intese politiche.

Questo era anche il prodotto di una visione schematica che da un lato assolutizzava il piano soggettivo, dall’altro schematizzava le funzioni dello Stato ad “articolazione locale del sistema imperialista multinazionale”. Soprattutto non si coglieva il movimento avviato all’interno della borghesia e dello Stato, teso a sferrare una controffensiva politico-militare alla classe a partire dalle sue avanguardie, col fine di operare una rottura a favore della borghesia nei rapporti di forza tra le classi, ridimensionando il peso politico acquisito dalla classe operaia e dal proletariato.

Una controffensiva senza precedenti, la quale non poteva che partire infliggendo un duro colpo alla guerriglia in modo che si riversasse sull’intero corpo di classe, dai settori più maturi dell’autonomia di classe in dialettica con la guerriglia, al movimento rivoluzionario, fino a pesare sulle condizioni politiche e materiali di tutto il proletariato a livello generale. Una controffensiva che, per proporzioni e metodi di dispiegamento ha assunto carattere di vera e propria controrivoluzione.

Le impostazioni e posizioni inadeguate allo scontro, prodotte principalmente dalla giovinezza politica della nostra esperienza, sono state battute e superate nelle battaglie politiche contro il soggettivismo idealista e l’operaismo fabbrichista.

Il ricentramento operato dalle BR con la “Campagna sulle fabbriche” e l’operazione contro la Nato nel 1981, sulla questione del piano classe/Stato e sulla questione dell’antimperialismo non impedì l’accumularsi critico delle contraddizioni e dei ritardi.

Il ripristino del corretto metodo dell’analisi materialista permise l’apertura della ritirata strategica, nonostante i limiti di comprensione che le BR stesse ancora avevano della stessa, ma che permise alle BR di ritirarsi e proseguire nel riadeguamento, pur nel quadro della pressione esercitata dalla controffensiva dello Stato.

La giustezza della scelta della ritirata strategica ha dimostrato nel tempo tutta la sua validità, poiché ha permesso alle BR, interpretando correttamente le leggi della guerra rivoluzionaria, di ripiegare da posizioni politiche non-avanzate, collocando correttamente la sconfitta tattica dell’82 nel quadro dell’andamento discontinuo dello scontro nel percorso di lunga durata. Quella scelta ha permesso di aprire una fase rivoluzionaria in cui le BR, ritirandosi da posizioni politiche niente affatto avanzate, hanno sottratto, per quanto possibile, forze al dissanguamento causato dalla controffensiva dello Stato, evitando così di cadere in una condotta avventurista: in tal modo hanno iniziato un lungo e difficile processo di riadeguamento complessivo di fronte alle modifiche avvenute nel contesto dello scontro e alla conseguente durezza delle condizioni politiche e materiali determinatesi nel tessuto proletario.

Questo processo di riadeguamento, dovendosi misurare con la materialità degli effetti prodotti dalla controrivoluzione nel campo proletario, è avvenuto e avviene, proprio per il suo svolgersi nel vivo dello scontro e dovendo confrontarsi “sul campo” con la controrivoluzione, in maniera non-lineare nelle contraddizioni che la dinamica controrivoluzionaria ha immesso in maniera differente sia nel movimento di classe che nelle stesse forze rivoluzionarie. Un processo dinamico ad andamento discontinuo e contraddittorio che, nella fase iniziale, ha dovuto fare i conti con i segni lasciati dall’offensiva dello Stato: l’incomprensione del reale livello di scontro prodottosi alimentava un piano di contraddizioni che riduceva di fatto la ritirata strategica ad atto difensivo e portava di conseguenza a subire l’iniziativa dello Stato, e al logoramento delle forze, la cui disposizione non adeguata ne limitava la funzionalità rispetto alle necessità dettate dalla fase rivoluzionaria stessa. La logica difensivistica cioè si dimostrava incapace, di fronte alle necessità imposte dal livello di scontro, impantanandosi nel possibile, inteso limitatamente alle condizioni materiali del momento. In questa dinamica contraddittoria hanno trovato spazio posizioni che, quando si sono chiaramente delineate nel dibattito interno all’organizzazione, sono state espulse per quelle che erano: posizioni liquidazioniste che, “interiorizzando” la sconfitta dell’82, e portando all’estremo la logica difensivistica, revisionavano la lotta armata fino a ridurla a “strumento di lotta”, sottraendosi perciò al livello dello scontro.

Il superamento della logica difensivistica ha segnato una tappa importante per lo sviluppo della fase di ritirata strategica, ed è maturata dalle BR nella prassi rivoluzionaria, come le iniziative combattenti contro Giugni, Hunt, Tarantelli, Conti, l’esproprio del febbraio ’87, Ruffilli e l’accordo politico raggiunto con la RAF stanno a dimostrare.

La ritirata strategica, per adempiere alla sua funzione, deve aderire concretamente alle caratteristiche dello sviluppo della guerra di classe, così come si sono formate nello scontro rivoluzionario in questo paese. Essa non si risolve con la sola chiarezza teorica e politica dell’impianto, ma il suo procedere è legato strettamente alla ricostruzione delle condizioni politiche e militari della guerra di classe, alla capacità delle BR di articolare un processo di attivizzazione e organizzazione delle forze proletarie a partire dalle condizioni create dall’arretramento; tenendo conto che per la guerriglia anche il riadeguamento si realizza nell’unità del politico e del militare, implica quindi che l’avanguardia combattente stabilisca una condotta della guerra rivoluzionaria i cui termini restano interni ai presupposti della ritirata strategica sino a che l’evolvere successivo dei livelli di ricostruzione non abbia maturato l’assestamento necessario per superare le posizioni di relativa debolezza nel complesso dei rapporti di forza.

Per questo la ritirata strategica è una fase rivoluzionaria di lungo termine il cui superamento implica un salto e una rottura delle attuali condizioni dello scontro.

La ritirata strategica caratterizza un lungo periodo del processo rivoluzionario e procede attraverso la ricostruzione di diversi passaggi sostanziali; all’interno di ciò le BR già lavorano alla ricostruzione delle condizioni per attrezzare la classe allo scontro con lo Stato.

Per sostanza, modi e tempi politici a cui deve essere finalizzata l’attività complessiva di ricostruzione, parliamo di fase rivoluzionaria e non di semplice momento congiunturale, tenendo conto che prende forma e consistenza all’interno della ritirata strategica, ma costituisce al tempo stesso il primo passaggio, la prima base su cui si modificano i rapporti di forza attuali tra campo proletario e Stato.

Le BR hanno lavorato in questi anni e lavorano oggi per porre le basi alla fase di ricostruzione. Queste basi poggiano sui passaggi effettivamente compiuti dall’avanguardia rivoluzionaria in termini di ricentramento teorico, politico e organizzativo attraverso la prassi messa in campo per portare l’iniziativa rivoluzionaria al punto più alto dello scontro tra le classi.

La fase di ricostruzione è un passaggio problematico e complesso per i molti fattori di contraddizione a cui l’avanguardia combattente deve dare soluzione.

A fronte della qualità richiesta dall’intervento rivoluzionario, quindi delle condizioni complessive per praticarlo, vi è la costante necessità di operare la ricostruzione dei mezzi e delle forze che devono essere disposte nello scontro. La necessità di mantenere l’equilibrio tra il confrontarsi con l’attività antiguerriglia e controrivoluzionaria dello Stato da una parte, e il processo di formazione delle forze rivoluzionarie dall’altra, comporta un andamento di avanzate-ritirate fortemente discontinuo.

Il grado di approfondimento dello scontro, le sue caratteristiche sono il perno principale su cui si misura la portata dell’intervento rivoluzionario relativamente ai rapporti di forza esistenti.

Ciò mette in luce una questione ineludibile per le forze rivoluzionarie, e cioè: per quanto un arretramento ponga problemi di assestamento dello stato stesso delle forze rivoluzionarie, questo assestamento può influire soltanto in termini relativi sulla portata dell’intervento rivoluzionario; al contrario, è lo stato delle forze rivoluzionarie che deve ricostruirsi e attrezzarsi per essere adeguato al grado raggiunto dallo scontro, al livello delle contraddizioni politiche dominanti che maturano tra classe e Stato e tra imperialismo e antimperialismo.

Occorre cioè sempre conquistare, costruire la capacità di operare la funzione di avanguardia dello scontro a partire dalle modifiche che l’attività guerrigliera stessa ha apportato nella dinamica dello scontro rivoluzione/controrivoluzione.

Le avanguardie di classe che si dispongono a contribuire al processo rivoluzionario in corso devono, sono obbligate a misurarsi con le caratteristiche reali raggiunte dallo scontro.

Le stasi apparenti e le condizioni provocate da ogni arretramento non significano mai ritorno-indietro del livello di scontro; non si possono ridare condizioni politiche generali proprie di periodi precedenti, l’andamento dello scontro procede sempre verso il suo approfondimento. Da ciò deriva l’impraticabilità reale di forme di intervento che possono aver avuto un qualche ruolo in fasi precedenti; l’inefficacia e l’improduttività di interventi che mettano in campo livelli deboli di organizzazione rivoluzionaria o supportati a situazioni di lotta.

L’adeguamento nella capacità di esprimere direzione al livello delle nuove condizioni dello scontro nella fase della ricostruzione è dato dal salto alla centralizzazione, che tende a muovere le forze dentro un piano organico di lavoro, come un corpo unico. Dunque non per apporto spontaneo, ma disposte e organizzate in modo da contribuire produttivamente: una dinamica cioè di “centralizzazione politica-decentralizzazione delle responsabilità”.

Non è infatti più sufficiente disporsi spontaneamente sul terreno della lotta armata ritagliandosi in piccolo i problemi posti dallo scontro. Si tratta invece di formare le forze all’interno di una disposizione che permetta di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro richiede, la dimensione del senso organizzato del lavoro rivoluzionario per rispondere alle necessità imposte da questo livello di sviluppo della guerra di classe.

Ciò all’interno dell’esigenza di operare, nell’unità del politico e del militare, alla ricostruzione degli strumenti politico-organizzativi per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato.

Tenendo nel dovuto conto l’approfondimento del piano di scontro rivoluzionario attuale – classe/Stato, imperialismo/antimperialismo -, è alle dinamiche che si sviluppano a partire dalla dialettica tra questi due fattori nel rapporto guerriglia-autonomia di classe sul terreno rivoluzionario che le BR fanno riferimento nel procedere alla ricostruzione delle forze e costruzione degli strumenti politico-organizzativi per attrezzare il campo proletario a sostenere lo scontro e nel perseguire le linee programmatiche di attacco allo Stato e all’imperialismo.

Su questi termini le BR-PCC sviluppano e verificano la loro capacità di attacco e assolvono alla funzione di direzione politico-militare della guerra di classe di lunga durata, all’interno della proposta strategica alla classe della lotta armata, e su questi termini di programma la nostra organizzazione lavora e dà sostanza all’unità dei comunisti.

Come militanti prigionieri rivendichiamo l’intero patrimonio teorico-politico della nostra organizzazione, che qui abbiamo riassunto in tratti generali, e che trova i compiuti punti di concretizzazione nell’attacco al cuore dello Stato con l’azione dell’aprile ’88 contro il senatore DC Roberto Ruffilli, nel raggiungimento della posizione unitaria nel Fronte nel testo comune con la RAF del settembre ’88 e nell’insieme dell’elaborazione teorico-politica che ne è complementare e che li ha costruiti.

In questo insieme teorico-pratico, frutto del confronto con la controrivoluzione, e con l’insieme dei problemi dello scontro, si ha il più alto grado di insegnamento della nostra esperienza storica come organizzazione, che si concretizza oggi nell’attività che le BR continuano a svolgere fuori di qui, nello scontro più concreto.

In quanto militanti della BR-PCC, forza attivamente operante nel quadro della politica del Fronte Combattente Antimperialista, ci riconosciamo nell’azione della RAF del luglio’90 contro Hans Neusel, segretario di Stato del Ministero dell’Interno di Bonn.

Rivendichiamo tutta l’attività politico-militare della nostra organizzazione.

Per noi e meglio di noi parla comunque la guerriglia, la nostra organizzazione, le Brigate Rosse.

Per quanto riguarda infine la nostra posizione in questo processo diciamo questo: ogni nostra iniziativa si svolge nell’ambito degli interessi della guerriglia, è una condotta dentro un conflitto in corso e non ha bisogno di alcuna giustificazione.

Perciò non c’è nulla da “giudicare”, e di certo noi non abbiamo niente riguardo cui “difenderci”.

Argomentare la nostra condotta sul terreno giuridico non ci interessa: il nostro terreno è il terreno della rivoluzione.

Onore alla combattente antimperialista Fadwa Hassan Ghanem caduta nell’azione del 25 novembre ’90 ad Arnon nel Sud Libano.

Onore a tutti i comunisti e combattenti antimperialisti caduti.

 

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di “riforma” dei poteri dello Stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare le linee generali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica “Europa Occidentale-Mediterraneo-Medio Oriente”.
– Combattere insieme.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

 

Cuneo, 18 dicembre 1990