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La centralità della guerriglia nel processo rivoluzionario. Quarta Corte d’Assise d’Appello di Roma – Dichiarazione del militante rivoluzionario Carlo Garavaglia allegata agli atti del processo M.C.R. (Movimento Comunista Rivoluzionario)

Come militante rivoluzionario e prigioniero della Guerriglia (GU), la mia presenza in quest’aula è solo tesa a ribadire la centralità della GU e in particolar modo a fare riferimento all’attività delle BR-PCC nel procedere dello scontro rivoluzionario, una centralità che rende velleitario il tentativo svolto anche in questa sede di ridurre il processo rivoluzionario ad una sommatoria di atti giuridici.

Questo processo, pur con la sua specificità, s’inquadra più in generale in un contesto che vede il caratterizzarsi di una “nuova stagione processuale” contro le BR in particolare e contro tutte le avanguardie rivoluzionarie che a vario livello si sono espresse sul terreno della Lotta Armata, con la velleità di stabilire sul piano giuridico-formale una “chiusura dei conti” e l’indebolimento della stessa prospettiva rivoluzionaria. Quanto questa sia una velleità sono i fatti a dimostrarlo!

È indicativo come l’attività della GU, delle BR, abbia segnato in questi anni un approfondimento-avanzamento del processo rivoluzionario, e questo non come dato astratto (basato sulle chiacchiere…!), ma ben leggibile nei reali passaggi effettuati dall’intervento rivoluzionario nel vivo dello scontro. Un’attività che in più di vent’anni ha scandito la capacità di una forza rivoluzionaria quale le BR di essere da un lato parte costituente e direzione dello scontro influenzando i caratteri e le dinamiche dello stesso rapporto tra le classi, e dall’altro dando gambe e prospettiva all’obiettivo della conquista del potere per parte rivoluzionaria sulla base della strategia della L.A. Una strategia questa che, pur nei difficili anni ’80, ha saputo idoneamente sviluppare, al livello di scontro raggiunto, un processo di riadeguamento a partire dalla scelta della Ritirata Strategica necessaria per ripiegare da posizioni insostenibili e non avanzate e così ricostruire i termini più idonei per nuove offensive. Da qui si è delineata la capacità tutta politica di riaffermare sia la praticabilità della strategia della L.A. come proposta a tutta la classe e su questa base costruire il terreno politico pratico della risoluzione della questione del potere, sia la capacità di mantenere aperta l’opzione rivoluzionaria e quindi la stessa prospettiva del processo rivoluzionario, mediante un’attività via via più matura che, pur in presenza di una possente controffensiva della Borghesia Imperialista (B.I.), ha saputo attestare livelli di intervento e costruzione dei termini della guerra di classe confacenti alle necessità del mutato quadro di scontro: ciò attraverso la rimessa al centro dell’attacco al cuore dello Stato nelle sue politiche dominanti riferite all’asse centrale classe-Stato, e la costruzione della politica di alleanze antimperialiste sostanziatasi nella costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista (FCA) con l’obiettivo, imprescindibile per l’avanzamento di ogni processo rivoluzionario, di indebolire e ridimensionare l’imperialismo attaccandone le sue politiche centrali. Così come, sul piano dell’organizzazione di classe, la capacità di disporre su termini adeguati il processo di costruzione-avanzamento-organizzazione delle forze rivoluzionarie attorno alla strategia della L.A., e a partire da questo riqualificare lo stesso ruolo della GU, delle BR, nello scontro di direzione rivoluzionaria agente da Partito.

Dati politici questi qui sommariamente descritti, ben leggibili nello scontro, che unitamente all’assestamento del dato controrivoluzionario per parte dello Stato grazie al clima determinatosi con la sua controffensiva, hanno segnato un approfondimento del rapporto tra rivoluzione e controrivoluzione. Tutto questo ha fortemente condizionato il procedere dello scontro tra classi.

Un procedere niente affatto lineare in quanto su di esso hanno pesato sia gli strappi operati dalla B.I. sui rapporti di forza con tutto il loro portato restauratore sia, dall’altra parte, la presenza della GU, di una soggettività rivoluzionaria che, pur dentro le rinnovate manovre dello Stato tendenti a ridimensionarne il peso fino al suo esaurimento, ha invece compiuto significativi passaggi nel riadeguamento politico-organizzativo in stretta dialettica con l’autonomia di classe, intervenendo così sugli aspetti centrali e le scadenze che congiunturalmente maturavano nello scontro: Hunt e Conti per un verso, contro le politiche di crescente impegno e riarmo nell’Alleanza imperialista, sviluppando così la stessa attività antimperialista; Giugni e Tarantelli contro le politiche di attacco alle conquiste strappate dalla classe negli anni precedenti, e in particolare contro il “patto sociale neocorporativo” nell’ambito delle relazioni industriali, vero e proprio sanzionamento ed approfondimento dei rapporti di forza a favore della B.I.; fino ad arrivare all’attacco contro il progetto demitiano di rifunzionalizzazione degli istituti e dei poteri dello Stato quale avanzamento delle forme di dominio della B.I., portato avanti con l’azione Ruffilli.

L’attività della GU si è quindi sviluppata e maturata pur all’interno di un contesto di rapporti di forza radicalmente mutato a seguito della possente controffensiva prodotta dalla B.I. in questo decennio. Una controffensiva che prese il via negli anni ’80 per dare risposte all’incalzare delle scadenze poste dal governo dell’economia e all’evoluzione-crisi dell’imperialismo, anche in riferimento specifico ai poderosi processi di ristrutturazione, recuperando i margini di produttività-competitività confacenti, che hanno toccato tutto il complesso industriale italiano nei primi anni ’80. Una controffensiva che per altro verso ha assunto veri e propri caratteri di controrivoluzione dovendo operare in un contesto di scontro segnato dalle peculiarità del nostro paese, cioè dalla presenza della GU e dalla stretta dialettica che questa ha stabilito con l’autonomia di classe condizionandone dinamiche e maturità. La borghesia è andata così operando una serie di forzature nei rapporti politici tra le classi e sulla base degli strappi prodotti ha via via modificato i caratteri stessi della mediazione politica (dai patti neocorporativi ai processi di esecutivizzazione che hanno segnato i primi passaggi alla più complessiva Riforma dello Stato), per così meglio governare, complessivamente, le contraddizioni generate dal conflitto di classe, cercando di ricondurle su un piano di compatibilità e soprattutto di impedirne lo sviluppo rivoluzionario.

Il divenire di questo processo nel suo approfondirsi, se da un lato ha prodotto un arretramento del campo proletario, del suo peso e delle sue conquiste, rendendo così possibile portare avanti il tentativo di allineamento agli altri paesi imperialisti, viste le peculiari deficienze strutturali presenti sui vari piani in questo paese, è anche vero che d’altra parte ha visto uno spostarsi in avanti delle principali contraddizioni e quindi delle esigenze atte a farvi fronte, questo sia sul piano economico (nel quadro di crisi generale capitalista) con l’ulteriore avanzamento dei processi di concentrazione-centralizzazione capitalista con i relativi e nuovi livelli di concorrenza intermonopolistica, sia su un altro piano, nel rispondere alle necessità poste dai mutamenti intervenuti lungo la contraddizione dominante Est-Ovest e dal maturare dei concreti passaggi della tendenza alla guerra imperialista. Così come, sul piano delle contraddizioni di classe, la capacità rivelata dal campo proletario di esprimersi su un vasto ed articolato terreno di resistenza con lotte tese a rompere le gabbie del neocorporativismo, e la presenza della GU che a partire dalla sua attività rivoluzionaria ha saputo riproporre le condizioni, i terreni d’intervento, per un effettivo ribaltamento dei rapporti di forza.

In questo contesto si è andato così a determinare un approfondimento del quadro di necessità e contraddizioni borghesi, e di conseguenza uno spostarsi in avanti del loro punto di sutura, imponendo un nuovo livello della qualità della risposta da mettere in atto, e determinando allo stesso tempo un quadro politico precario e l’impellente necessità di ricercare nuovi equilibri politici tra le classi. È anche rispetto a questa condizione di fondo che gli stessi passaggi di “Riforma dello Stato” hanno assunto un andamento fortemente contraddittorio, dovendosi giocoforza misurare con il contesto delle contraddizioni e dei reali rapporti di forza da un lato, e dall’altro con la molteplicità dei piani su cui la borghesia deve necessariamente dar risposta, tutto ciò nel quadro di un restringimento dei margini della “mediazione possibile” rispetto agli interessi generali della B.I. In altri termini, è in questo complesso quadro di fattori che vanno a caratterizzarsi una serie di atti politici da parte della B.I., che debbono fare i conti con un contesto di classe tutt’altro che pacificato, ed una instabilità politica a cui ha significativamente contribuito la stessa iniziativa delle BR con l’azione Ruffilli.

I caratteri degli interventi della B.I. emergono chiari nei fatti con tutto il loro portato controrivoluzionario e restauratore teso a creare, con forzature su forzature nel quadro istituzionale e sui rapporti politici tra classi, condizioni e clima politico favorevoli al fine di rispondere alle necessità e contraddizioni economiche, politiche e sociali presenti, così come a far fronte ai sempre più marcati scenari di guerra che si agitano nell’area mediterraneo-mediorientale e ai nuovi livelli di integrazione-compattamento-attivismo imperialista che questi richiedono. Un piano, quest’ultimo, che anch’esso si riflette sui processi di Riforma dello Stato in generale, e di esecutivizzazione in particolare (dalla riforma della Farnesina in funzione di supervisione e condizionamento di tutta la politica estera italiana, fino al conferimento diretto alla Presidenza del Consiglio di nuovi ed accresciuti poteri in materia di intervento militare).

In questo contesto di necessità e forzature borghesi, si può anche inquadrare, sul piano particolare capitale-lavoro, sia l’intervento dell’esecutivo volto a regolamentare il diritto di sciopero, che le ulteriori forzature nell’ambito delle relazioni industriali, che oltre ad intaccare ulteriormente le condizioni normative e salariali della classe operaia, tendono sempre più a segnare i limiti della conflittualità operaia e dei suoi livelli di organizzazione, in un ulteriore approfondimento del modello neocorporativo, quale risvolto dialettico ai processi in atto di Riforma dello Stato.

È nel segno controrivoluzionario e restauratore che caratterizza le odierne politiche della borghesia, in riferimento alle contraddizioni che genera lo scontro di classe, che trovano anche collocazione quell’escalation di campagne politiche (non ultima quella sulla “Resistenza”) che strumentalmente investono il patrimonio di lotta proletaria e rivoluzionaria che, in più di 40 anni nelle diverse fasi di scontro, si è sedimentato all’interno del proletariato italiano e delle sue avanguardie rivoluzionarie. Campagne che rappresentano un dato sintomatico di un processo più generale teso ad intaccare-ridefinire gli assetti dei rapporti politici e di forza tra le classi scaturiti dal secondo dopoguerra, e di conseguenza a preparare la strada a nuovi assetti ed equilibri politico-istituzionali confacenti a questa fase dell’imperialismo e al governo stabile delle sue contraddizioni, procedendo così concretamente verso la Seconda Repubblica.

Ma questo è un processo tutt’altro che lineare e scontato. L’odierna iniziativa della B.I., delle sue politiche controrivoluzionarie e restauratrici con la velleità di normalizzare e pacificare il conflitto di classe, deve infatti fare i conti oltre che con un proletariato tutt’altro che “sterilizzato”, anche e soprattutto con un contesto di scontro in cui non solo non vengono meno le ragioni di fondo della strategia della L.A., ma anzi le stesse vengono esaltate in relazione ai fattori di ordine politico (quale il livello di attività praticata) che le BR hanno saputo sedimentare in questi anni di Ritirata Strategica, stagliando ancor meglio peso, ruolo e funzione di una forza rivoluzionaria guerrigliera nello scontro. Dire questo significa, soprattutto, prendere a riferimento la direttrice d’intervento dell’“attacco al cuore dello Stato” sulla contraddizione politica dominante che oppone le classi nelle diverse congiunture, un dato che costituisce il solo riferimento politico adeguato ad incidere sulle stesse dinamiche di scontro. La pratica delle BR attorno a quest’asse programmatico ha dimostrato come, nell’unità del politico e del militare, l’agire dell’avanguardia rivoluzionaria, a questo livello, può concretamente intervenire nei rapporti di forza tra le classi e costituire la base sui cui lavorare per ribaltarli a favore del campo proletario e rivoluzionario.

Questo perché l’iniziativa rivoluzionaria attaccando lo Stato nel suo “cuore congiunturale” non permette solo la relativa disarticolazione dei progetti borghesi ma anche l’apertura di spazi politici a favore del proletariato, riversandosi direttamente sulle dinamiche di sviluppo dell’autonomia di classe nei diversi piani dello scontro: da quello politico-generale a quello capitale-lavoro.

Se quindi la capacità delle BR è stata quella di far vivere la strategia rivoluzionaria attorno ad assi programmatici ben definiti, è all’interno di questa dimensione e del livello di approfondimento dello scontro che esse hanno anche meglio definito i termini di costruzione-organizzazione delle forze rivoluzionarie e proletarie, e più complessivamente i termini di conduzione e avanzamento della guerra di classe di lunga durata nella nostra realtà. Ciò ha significato superare le secche di una generica riproposizione della “necessità della L.A.”, ponendo invece le direttrici di un percorso cosciente organizzato e centralizzato che, in riferimento agli assi programmatici fondamentali, dia la giusta dimensione alle problematiche poste dal conflitto di classe, e a partire da queste basi attrezzi il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato, sia per sostenerlo al livello adeguato di organizzazione, che al fine di riprodurre gli stessi termini della politica rivoluzionaria.

L’attività rivoluzionaria della GU, quindi, ha sedimentato una base di qualità che permane e si riproduce nello scontro tra campo proletario e borghesia, e su cui vanno oggettivamente e soggettivamente a misurarsi tutte le avanguardie rivoluzionarie. È in questo contesto, nella consapevolezza politica delle necessità dello scontro e del livello e qualità di attività e direzione che tali necessità impongono, che le BR hanno anche riqualificato l’indicazione politica dell’“Unità dei comunisti”. Una unità non certo formale, ma di sostanza sul terreno della L.A. per il comunismo, centrata attorno al patrimonio teorico, politico e programmatico delle BR ed ai suoi terreni di intervento e pratica combattente, e che, rispetto ai compiti da assolvere in questa fase, ha giocoforza stabilito una nuova e più matura qualità di lavoro, organizzazione e confronto tra comunisti, andando a costituire il riferimento obbligato per chiunque si ponga sul terreno della politica rivoluzionaria, e allo stesso tempo la base di qualità su cui marcia il processo di costruzione del Partito Comunista Combattente.

Così come, su un altro piano, l’avanzamento del processo rivoluzionario, il riferimento politico alla GU, non può prescindere dal terreno di iniziativa antimperialista e dai criteri politici che lo guidano per come si è maturato nel vivo dello scontro imperialismo/antimperialismo portato avanti dalle organizzazioni guerrigliere in Europa Occidentale e concretizzatosi nella proposta del Fronte Combattente Antimperialista. In altri termini l’esperienza della GU, su questo terreno, nella sua attività pratica, ha saputo portare a sintesi intorno alla proposta del Fronte il solo ed adeguato livello di organizzazione e attacco delle forze rivoluzionarie per contrastare e ridimensionare l’imperialismo.

Cioè si è trattato di attualizzare il concetto marxista-leninista di internazionalismo proletario, fuori da una logica meramente solidaristica, ma che piuttosto facesse i conti con la nuova realtà che l’imperialismo ha determinato, i nuovi livelli di integrazione economica, politica e militare, e quindi col riflesso e l’influenza che questo ha sullo sviluppo del processo rivoluzionario in ogni singolo paese. Ovvero ci si è resi conto che “fare la rivoluzione nel proprio paese” doveva avere come condizione imprescindibile l’indebolimento dell’imperialismo, realizzabile solo attraverso il concorso-contributo di tutte quelle forze rivoluzionarie e progressiste che vanno a disporsi sul terreno della lotta antimperialista. In questo senso l’esperienza di Fronte AD-RAF prima, e BR-RAF poi, nel suo maturarsi, ha saputo gettare le basi per costruire i termini politici di unità soggettiva delle diverse forze presenti nell’area, dando “carne e sangue” a quella condizione di unità oggettivamente presente nella realtà, determinata dallo stesso sviluppo dell’imperialismo e, per altro verso, dalle sue politiche concrete che hanno costretto tutte le forze rivoluzionarie conseguenti a doversi misurare con questo dato di fatto. La pratica combattente del Fronte, nei suoi diversi passaggi e gradi di maturazione, è riuscita a definire sempre più compiutamente tanto i criteri di iniziativa e le direttrici di attacco, che i criteri di relazione tra le diverse forze rivoluzionarie presenti nel Fronte. I criteri di iniziativa e di attacco contro gli assi centrali delle politiche imperialiste sul piano economico, politico e militare, nonché su quello controrivoluzionario, e in particolar modo contro i processi di integrazione-coesione del blocco imperialista, al cui interno trovano sviluppo queste stesse politiche. Ed è attorno ai nodi dell’attività pratica del Fronte che si è andato quindi a realizzare il piano delle relazioni tra le diverse forze rivoluzionarie. Ovvero si è dimostrato che è possibile concretizzare i primi livelli di unità funzionali all’organizzazione dell’attacco al nemico comune ed al consolidamento-sviluppo del Fronte, senza che le diversità di impostazione politica o di finalità strategiche ne siano da freno. Questo ha significato, proprio in relazione alla necessità di costruire i termini di un’iniziativa comune contro le politiche imperialiste, l’esigenza di attuare una politica di alleanze con le diverse forze rivoluzionarie che su questo terreno di scontro vanno a collocarsi. Con questa consapevolezza si tratta quindi di sapersi rapportare alle altre forze rivoluzionarie sul terreno dell’attacco pratico, e costruire così i livelli di unità possibile senza che questo voglia dire per una forza comunista “mercificare” gli elementi di fondo che guidano la sua politica, ma al contrario saper sviluppare proprio a partire dalla sua specificità e attività combattente un’iniziativa che risulti essere di contributo e consolidamento al Fronte stesso.

La stessa iniziativa dei compagni della RAF contro il boia Neusel ha riproposto il nodo dell’attività di Fronte lungo una delle direttrici fondamentali dell’attacco alla linea di coesione dell’Europa Occidentale, nello specifico il piano delle politiche controrivoluzionarie. Neusel infatti rappresenta l’elemento di spicco e propulsore di quelle politiche controrivoluzionarie tese all’omogeneizzazione in Europa Occidentale delle iniziative contro la GU e il movimento rivoluzionario, al cui interno si collocano anche le manovre contro i prigionieri della GU.

Le politiche controrivoluzionarie rappresentano un punto qualificante dell’iniziativa della B.I., in quanto ne caratterizzano l’esperienza acquisita, soprattutto in relazione all’importanza politico-strategica assunta dalla GU, tanto nel centro imperialista, che nello specifico dell’area mediterraneo-mediorientale. Allo stesso tempo il piano della controrivoluzione è tutto interno ai processi di coesione politica della catena imperialista, che rispetto alle iniziative di controguerriglia ha visto nello specifico europeo una progressiva centralizzazione-coordinamento degli strumenti operativi e legislativi in funzione controrivoluzionaria, anche perché da parte dei diversi Stati su questo terreno si esprime al meglio la difesa degli interessi generali della catena imperialista. Inoltre, l’iniziativa controrivoluzionaria si avvale anche di interventi selettivi e articolati sugli stessi prigionieri della GU, cercando di utilizzare la loro condizione di ostaggi per ottenere dei risultati da poter ribaltare sulla GU in attività e sullo stesso processo rivoluzionario.

Quello che va colto, nel complesso del quadro di iniziative controrivoluzionarie, è il dato di come questa dinamica sia tutta interna a quella più generale dell’imperialismo, tendente ad una gestione offensiva delle contraddizioni politiche e sociali che si producono nei diversi paesi tanto del centro imperialista che in riferimento alle lotte di liberazione e autodeterminazione dei popoli della periferia. Una gestione offensiva quella imperialista, che sia quando si muove sul piano militare che quando si mantiene sul piano politico (aspetti tra loro interagenti) influenza in ultima istanza la connotazione del rapporto più generale tra rivoluzione e controrivoluzione, imperialismo e antimperialismo, disegnando l’ambito di fondo entro cui va a muoversi lo stesso processo rivoluzionario e in esso i termini di attività della GU.

Ma è rispetto al quadro di fondo dell’approfondirsi della crisi economica, e nel contesto più generale di sviluppo dei passaggi nella tendenza alla guerra, che vanno lette e trovano riferimento quel complesso di scelte politiche imperialiste attuate sui vari piani, economico, politico e militare e su cui si vanno a rideterminare quei fattori di integrazione-coesione e responsabilizzazione dei diversi paesi della catena imperialista, in particolare quelli europei. Una dinamica questa che, rispetto all’obiettivo più complessivo di rafforzamento della catena in riferimento alle modifiche intervenute lungo la contraddizione Est-Ovest, tende a muoversi per una ridefinizione degli equilibri post-bellici, funzionali ad acquisire nuove posizioni di forza verso i paesi dell’Est, URSS in particolare, per creare in ultima istanza le migliori condizioni atte a stabilire una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati confacente a questo stadio di sviluppo dell’imperialismo, un dato che comunque può trovare piena risoluzione solo all’interno di un conflitto bellico. Il processo in atto di ridefinizione delle zone d’influenza, che si dà a partire dal cuore dell’Europa e su cui vanno a modellarsi i nuovi assetti dei rapporti di forza e i nuovi termini di relazione tra imperialismo e URSS in particolare, investe anche le aree regionali periferiche, specialmente quella mediterraneo-mediorientale. Un’area questa che, per i molteplici fattori di contraddizione presenti, si caratterizza come area di massima crisi: sia perché zona strategica dai confini non definiti con gli accordi di Yalta, sia per il suo portato vitale rispetto alla presenza di materie prime fondamentali e luogo di transito delle principali rotte commerciali e sia, infine, per l’instabilità politica e le forti tensioni che l’attraversano, tensioni alimentate dalle lotte rivoluzionarie di liberazione e autodeterminazione tese a contrastare l’imperialismo e a liberarsi dal suo dominio. Un’area quindi che si presenta come possibile detonatore di un conflitto bellico in quanto luogo dove, oltre ad esprimersi il piano dello scontro e dei mutamenti lungo la contraddizione “Est-Ovest”, si accentrano anche le contraddizioni tra “sviluppo e sottosviluppo”, con tutta la loro connotazione rivoluzionaria e antimperialista.

Quanto quest’area sia al centro dell’iniziativa imperialista risulta particolarmente chiaro dal complesso di manovre che hanno accompagnato questi ultimi dieci anni: dagli interventi militari contro i paesi progressisti ed i popoli in lotta per la loro autodeterminazione, ai conseguenti e funzionali progetti di pacificazione-normalizzazione, fino ad arrivare all’attuale quadro rappresentato dall’intervento imperialista nel Golfo. Tutti interventi che vanno ben al di là dello specifico fattore di crisi, ma piuttosto investono tutto l’arco dei rapporti di forza e degli assetti nella regione, con i suoi riflessi lungo il piano degli equilibri “Est-Ovest” che per parte imperialista significa acquisire posizioni di forza più favorevoli.

Ciò è tanto più vero nell’attuale intervento imperialista, intervento che assume un carattere tutt’altro che circoscritto alla “crisi kuwaitiana”, ma piuttosto, sfruttando anche la debolezza politica dell’URSS, investe tutto l’ambito degli assetti dell’area, nel tentativo di ridisegnare gli equilibri strategici e politico-militari funzionali a quella stabilizzazione imperialista via via perseguita in quest’ultimo decennio, e all’interno di quest’ambito risolvere specifici fattori di crisi regionali (questione palestino-libanese, fattore islamico, paesi progressisti) che, per parte imperialista, a tutt’oggi possono trovare soluzione solo nel quadro più generale di riassetto dell’area. Tutto questo si evidenzia sia nei caratteri che nella dimensione assunta dall’intervento imperialista. Un intervento da vera e propria forza di occupazione della terra araba, che come conseguenza è andato ad accelerare tutti i fattori di crisi della regione, andando a forzare sugli equilibri preesistenti e polarizzando quindi gli schieramenti in campo, sia spingendo su un piano di maggiore attivismo politico-militare quei paesi “arabi moderati” già precedentemente schierati in senso filo-occidentale (prefigurando per altro la possibilità di una “struttura di sicurezza regionale” sostanzialmente integrata alla NATO), sia operando continue minacce e pressioni politiche ed economiche nei confronti di quei paesi restii a conformarsi alla logica imperialista, rendendo infine sempre più contraddittoria ed instabile la stessa politica di “unità araba” perseguita a vario livello dai paesi della regione.

Sulle concrete iniziative e forzature operate dall’imperialismo, si sono andate altresì a misurare ruolo, funzioni e responsabilità dei paesi della catena imperialista, ciò si è verificato sia nei termini di un attivismo direttamente militare, che nell’internità alle decisioni degli organismi sovranazionali lungo le linee guida dettate dall’imperialismo, USA in testa. In particolar modo la qualità dell’unità dei paesi imperialisti espressa attorno alle direttive fondamentali dell’intervento imperialista, ha evidenziato come si siano ulteriormente rinsaldati quei processi di coesione politica e militare che rispondono direttamente agli interessi generali della catena imperialista e attorno a cui ruotano gli interessi ed i ruoli dei singoli paesi.

Una qualità questa su cui da un lato si è riflesso il quadro di approfondimento delle contraddizioni apertesi con la “crisi del Golfo”, e dall’altro ha visto un ulteriore ricolmamento e maturazione dell’attivismo dei diversi paesi imperialisti, soprattutto europei, grazie anche alle esperienze d’intervento svolte, nell’ambito NATO, sui maggiori fattori di crisi: libanese prima e nel Golfo dopo, durante la guerra Iran-Iraq. In questo senso è soprattutto l’ambito NATO che ha costituito il punto di riferimento e coagulo delle decisioni politiche e operative dei paesi della catena, andando ad accelerare, soprattutto nell’attuale quadro di intervento, una serie di tendenze già in atto relative sia ad una ridefinizione della NATO adeguata a questa fase del rapporto Est-Ovest, sia rispetto al riadeguamento delle sue sfere d’influenza e d’intervento (“a tutto campo”) accrescendo in particolare il peso del “fianco Sud”, che infine come fattore propulsivo nell’allineamento-adeguamento dei diversi paesi imperialisti ai compiti che questa fase impone. L’attivizzazione di Germania e Giappone sul terreno dell’intervento imperialista, pur nei limiti delle loro specificità, risulta essere un esempio significativo della qualità delle tendenze in corso.

Infine, per quanto riguarda i paesi europei, le stesse decisioni prese in sede UEO sono pienamente integrate alle direttrici della politica imperialista, e sfruttando la specifica posizione e collocazione politica di questi paesi nell’area mediterraneo-mediorientale, conferiscono un carattere altamente dinamico ed articolato all’intervento europeo sui principali fattori di crisi nella regione.

L’aggressione imperialista nell’area mediorientale cagiona una escalation di azioni di guerra e di terrorismo imperialista, che è insieme il portato oggettivo della grande crisi che ha scosso il modo di produzione capitalista ed il concretizzarsi di una politica militarista e guerrafondaia pianificata con forte impegno soggettivo dagli USA e alla quale ha saputo presto allinearsi alacremente tutto l’insieme del blocco occidentale. Questo contesto approfondisce l’affermarsi già da tempo di un processo qualitativamente nuovo e non più reversibile, ponendo nuove condizioni al rapporto di scontro tra imperialismo e antimperialismo, in particolare nell’area mediterraneo-mediorientale (in questo senso, e soprattutto dopo l’attuale intervento imperialista, “nulla sarà più come prima”).

La crisi dell’imperialismo e la tendenza verso la guerra favoriscono come mai, tanto più nello specifico di quest’area così gravida di contraddizioni, la convergenza d’interessi e l’alleanza del proletariato internazionale con i popoli e le forze rivoluzionarie e progressiste che sempre più sono portate a lottare e combattere contro il nemico principale rappresentato dal blocco imperialista. Una convergenza che si muove oggettivamente ancor prima che soggettivamente sulla linea, rafforzata dall’attuale quadro di aggressione imperialista, di attaccare e contrastare l’imperialismo, e su questa base andare quindi a collocare gli stessi termini di sviluppo dei processi rivoluzionari, tanto del centro imperialista che della periferia.

È all’interno di questo quadro che va anche a collocarsi il nostro processo rivoluzionario che, pur nella sua specificità e a partire da questa, può dare sulle basi dell’internazionalismo proletario un contributo significativo nell’attaccare l’imperialismo, nella prospettiva di renderne ingovernabili le contraddizioni e favorire così l’avanzamento dei processi rivoluzionari nell’area.

Il militante rivoluzionario, Carlo Garavaglia

Roma, 5 novembre 1990

Disarticolare il progetto di rifunzionalizzazione dello Stato. Quinta Corte d’Assise di Roma, processo per “banda armata” – Dichiarazione letta in aula e allegata agli atti dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini.

Il processo che qui viene celebrato risponde alle più elementari leggi della guerra, cioè: raggiunto un risultato militare (la cattura di alcuni militanti) lo Stato lo utilizza in tutti i suoi risvolti, facendolo pesare nello scontro. Il dato generale che informa l’agire dello Stato è quello di giocare i prigionieri della Guerriglia contro la Guerriglia, o comunque di mostrarli come trofei di caccia quale simulacro di deterrenza. Naturalmente l’esperienza maturata dallo Stato in questi anni di controrivoluzione gli permette di calibrare al tipo di scontro classe/Stato e al particolare tipo di guerra che gli è imposto nel piano rivoluzionario dalla Guerriglia (Guerra di Classe di Lunga Durata) i singoli interventi (tra i quali anche i processi). Quindi questo processo è calato nella particolare congiuntura politica che risente fortemente degli effetti politici derivati anche dall’iniziativa delle BR per la costruzione del PCC con l’azione Ruffilli. L’attacco delle BR, teso a disarticolare il progetto di rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato, ha ridimensionato le velleità borghesi di compatibilizzare ed irreggimentare le contraddizioni di classe (per dare risposte alle esigenze della crisi) nella maniera più indolore e gestibile possibile. Da ciò la risultanza oggettiva che si è delineata è stato da un lato il venir meno delle condizioni di equilibrio-concorso delle varie forze politiche borghesi intorno a questo progetto, per come delineato inizialmente, e d’altro lato il rimanere di fondo tutte le necessità stringenti del governo delle medesime contraddizioni politiche ed economiche. In questa congiuntura, quindi, la Borghesia Imperialista è costretta a governare le sue contraddizioni con una nuova edizione dell’armamentario usato in questi casi (decreti a raffica, forzature varie) ovvero il “Golpismo Istituzionale”. I golpisti istituzionali che in questa congiuntura gestiscono le politiche dell’Esecutivo non trovano altro modo di risolvere i problemi postigli dalla crisi e dallo sviluppo di questa fase dell’imperialismo se non attraverso concrete intimidazioni, all’interno di un attacco ampio ed articolato che si avvale di metodi di controguerriglia contro aspetti qualificanti dello scontro, come “tattica” preventiva per smorzare il montare delle istanze di lotta. La difficile gestione di tali posizioni viene mistificata con il varo delle varie emergenze contro la criminalità, allo scopo di assestare il piano controrivoluzionario. Sì, esiste una campagna di criminalità, ma è quella che sta attuando l’Esecutivo contro l’ambito di classe! Raid militari nei conflitti di lavoro, contro le espressioni del Movimento Rivoluzionario, interventi d’autorità contro il diritto di sciopero, esecuzioni legalizzate e minacce di estendere i metodi antiguerriglia sul movimento di classe, per rideterminare in ultima analisi il peso politico della classe e gestire la non certo indolore transizione nel processo di modifica delle istituzioni dello Stato. Questa travagliata fase di scontro fa temere allo Stato la sola cosa che più di ogni altra può mettere in discussione il suo potere: ovvero l’attività rivoluzionaria delle BR per la costruzione del PCC, perché capace di legarsi dialetticamente alle istanze di lotta più mature, dirigerle ed organizzarle sul terreno dello scontro rivoluzionario. Questo spettro – la Guerriglia – non fa dormire sonni tranquilli alla Borghesia Imperialista e al suo Stato perché rappresenta l’alternativa strategica, concreta e praticabile alla crisi della Borghesia Imperialista. Ed ecco agitare questo spettro in termini preventivi, nel chiaro intento di strumentalizzare la Guerriglia per ritorcerla, da un lato contro il movimento di classe, dall’altro contro le stesse BR! Una pratica terroristica questa dagli evidenti limiti e che dimostra le insormontabili difficoltà della Borghesia Imperialista, mentre per lo scontro rivoluzionario le prospettive non possono venir meno, al di là di inevitabili battute d’arresto, dato lo spessore politico che in questo ventennio si è sedimentato nel tessuto di classe e nelle sue avanguardie a partire dal ruolo che le BR hanno saputo svolgere nel dirigere questo complesso processo rivoluzionario. In questo senso la nostra presenza qui è tesa ad esprimere l’attualità e la validità della linea politica e della proposta strategica della nostra Organizzazione, pertanto il nostro atteggiamento in quest’aula non può che riflettere il rapporto esistente tra la Guerriglia e lo Stato, e in conseguenza di ciò ribadiamo l’inconciliabilità delle nostre posizioni nei confronti dello Stato. Nessuna mistificazione processuale può nascondere il fatto che qui noi rappresentiamo la contraddizione che lo Stato cerca di negare, cioè il terreno rivoluzionario, diretto e organizzato dalle Br per la costruzione del PCC, quindi la nostra presenza in quest’aula non può che esprimersi nella rivendicazione del programma politico praticato dalla nostra Organizzazione; programma che vive all’interno della proposta strategica della Lotta Armata (LA) alla classe. Per le BR il principale termine programmatico, fino al suo abbattimento, è l’attacco al cuore dello Stato, inteso nelle sue politiche dominanti che di volta in volta lo oppongono alla classe; attualmente esse sono identificabili nei processi di riforma dello Stato, i quali modificando profondamente gli assetti istituzionali hanno maturato concretamente la svolta verso una “Seconda Repubblica”. Sul piano dell’antimperialismo le BR lavorano ad una politica di alleanze contro il nemico comune con tutte le Forze Rivoluzionarie (FR) che operano nell’area; ciò al fine di indebolire e ridimensionare l’imperialismo, costruendo offensive comuni contro le sue politiche centrali. Perciò le BR lavorano alla costruzione/rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista (FCA). Nel quadro di questa attività e dentro gli accordi politici raggiunti con la RAF, rivendichiamo l’iniziativa politico-militare fatta dalla RAF contro Alfred Herrhausen e ne evidenziamo la sua centralità in rapporto alle politiche di coesione in Europa Occidentale che sono tutte interne al rafforzamento della catena imperialista.

Al livello dell’organizzazione di classe sulla LA, ribadiamo i termini che scaturiscono dalla fase di Ricostruzione. Essi si esplicano sul duplice piano di lavoro, Costruzione/Formazione e sono tesi a ricostruire nel tessuto di classe i livelli di riorganizzazione delle forze proletarie e rivoluzionarie, in modo da disporle adeguatamente dentro lo scontro contro lo Stato. La fase di Ricostruzione è termine prioritario nel mutamento dei rapporti di forza tra Campo Proletario e Stato e si pone come un tassello fondamentale per la ricostruzione dei livelli politico-militari che costruiscono i termini di avanzamento della Guerra di Classe di Lunga Durata.

– Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di rifunzionalizzazione dello Stato

– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe

– Attaccare le linee centrali della coesione dell’Europa Occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese

– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del fronte combattente antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geo-politica

– Onore ai rivoluzionari antimperialisti caduti

 

I militanti delle BR-PCC: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini.

 

Roma, 22 febbraio 1990

Costruire e organizzare i termini attuali della lotta di classe. Corte di Assise di Appello di Genova, processo di appello per associazione sovversiva – Documento agli Atti di Simonetta Giorgieri militante delle BR-Pcc

Nell’84 emergevano, sul piano del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, due dinamiche contrapposte e che si influenzavano reciprocamente. Da una parte le BR per il PCC, aperta la fase della Ritirata Strategica, stavano procedendo, pur tra contraddizioni che erano il portato dell’impatto con la controrivoluzione, nella ridefinizione di alcuni termini dell’impianto politico in particolare, e dimostravano nella prassi rivoluzionaria, e nello specifico con le iniziative combattenti contro Gino Giugni e Leamon Hunt, di essere l’unica forza rivoluzionaria in Italia in grado di ricostruire quanto la controrivoluzione aveva spezzato e disperso, riproponendosi come referente rivoluzionario autorevole per coagulare e ricomporre quelle componenti rivoluzionarie e proletarie non disposte a rinnegare quanto era stato sedimentato in 14 anni di scontro rivoluzionario, né ad arrendersi. D’altra parte lo Stato, dopo la fase più alta di dispiegamento dell’offensiva, stava operando su tutti i piani per assestare i rapporti di forza determinati dalla dinamica controrivoluzionaria. All’interno del dato generale della modificazione del carattere della mediazione politica tra le classi di cui si stavano assestando alcuni passaggi (nello specifico il “patto sociale neocorporativo”), si precisava ed affinava un’attività controguerrigliera tesa essenzialmente a prevenire il ricompattamento delle forze e la loro riorganizzazione attorno alla proposta politica e strategica delle BR, con interventi mirati e selettivi, atti di deterrenza, “ammonimenti” e pressioni di ogni tipo. Due dinamiche parallele, dal momento che il processo di ricompattamento era in corso e dava i suoi frutti, come le iniziative combattenti stanno a testimoniare e, d’altra parte, lo Stato ne era ben consapevole nel tentativo di arginarlo e contrastarlo. L’“inchiesta” su cui si basa questo processo è stata “partorita” in questo contesto, in cui si colloca per quello che è: atto politico a carattere e con finalità controrivoluzionarie. Il salto di qualità maturato successivamente dalle BR con il superamento dell’ottica difensivistica, ha dimostrato nei fatti quanto il tentativo dello Stato fosse velleitario; in particolare il rilancio dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria ha consentito alle BR di “gravare” sullo scontro di classe, determinando un maggiore approfondimento dello scontro rivoluzionario e fornendo la misura della vitalità della proposta politica e strategica delle BR e della loro capacità di ricostruzione e di riproduzione anche nelle condizioni più dure dello scontro. L’attività rivoluzionaria dispiegata dalle BR negli ultimi anni, la quale sostanzia il processo di riadeguamento complessivo fin qui operato e apre prospettive politiche concrete sia sul terreno classe/Stato che sul terreno dell’antimperialismo; la capacità dimostrata di dialettizzarsi (a partire dall’attacco) in termini di costruzione/organizzazione/direzione con le istanze più mature dell’autonomia di classe, e nel contempo di praticare (a partire dall’attività concreta svolta sul terreno dell’antimperialismo) una politica di alleanza con le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo nell’area geopolitica (Europa Occidentale, Mediterraneo, Medioriente), dando un apporto fattivo alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista: questi sono i termini attuali attorno ai quali si definisce oggi il rapporto rivoluzione/controrivoluzione, e si determina lo spostamento in avanti del piano di scontro rivoluzionario.

Come militante delle BR per la costruzione del PCC intendo innanzitutto riaffermare il valore politico e il carattere propulsivo del rilancio dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria operato dalle BR all’interno della fase della Ritirata Strategica che, stante le prospettive politiche che ha aperto sia sul terreno del rapporto classe/Stato sia sul terreno dell’antimperialismo, si è tradotto nell’approfondimento del piano di scontro rivoluzionario. Una dinamica consapevolmente prodotta e calibrata rispetto ai rapporti di forza generali tra le classi e al rapporto imperialismo/antimperialismo, il cui peso politico e incisività concreta si evidenziano nel dispiegamento dell’attività rivoluzionaria, sia per la capacità di attivare, a partire dall’attacco al punto più alto dello scontro di classe, la dialettica con le istanze più mature del proletariato, operando per catalizzare attorno alla strategia, linea politica e programma delle BR, le componenti rivoluzionarie e proletarie vive del paese, organizzandole e dirigendole nello scontro prolungato contro lo Stato, sia sul terreno dell’antimperialismo con il contributo alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, vero e proprio salto di qualità nella lotta proletaria e rivoluzionaria, che, nel praticare una politica di alleanza con le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo nell’area geopolitica Europa Occidentale/Mediterraneo/Medioriente, pone ad un livello più adeguato e maturo la necessità e la praticabilità dell’attacco all’imperialismo, per indebolirlo e ridimensionarlo nell’area. A questo proposito, in quanto militante delle BR per il PCC, forza rivoluzionaria attivamente operante nel quadro della politica di alleanza del Fronte Combattente Antimperialista, rivendico la recente iniziativa combattente della RAF contro Alfred Herrhausen. L’attacco al “padrone/capo” della Deutsche Bank mira a disarticolare uno dei nodi principali del potere economico e politico assunto dalla banca tedesca, mettendo in evidenza il ruolo che essa ha ricoperto nella gestione/indirizzo dei processi di concentrazione economica e finanziaria in Europa Occidentale; una posizione di potere che è attualmente trampolino di lancio per la penetrazione economica e politica nei paesi dell’Est europeo e nei paesi in via di sviluppo, costretti a sottostare al dettato e alla logica dello sfruttamento capitalistico.

La qualità del processo di riadeguamento complessivo intrapreso dalle BR è frutto sostanzialmente dell’incontro di due fattori (fermo restando il patrimonio di esperienze radicato nel tessuto proletario che caratterizza l’ambito di riferimento e riproduzione della guerriglia in Italia): da una parte l’aver saputo mantenere con fermezza, senza concessioni al revisionismo, le discriminanti di fondo, l’unità del politico e del militare come principio strategico caratterizzante la guerriglia, riaffermando la necessità e la praticabilità del terreno della guerra e l’attualità della questione del potere; dall’altra l’aver tratto, nell’impatto con la controrivoluzione degli anni ’80 e nella pratica dei primi anni di Ritirata Strategica, quegli insegnamenti relativi al carattere dello scontro rivoluzionario e alla natura delle sue contraddizioni che hanno permesso alle BR di approfondire alcuni termini della guerra di classe di lunga durata, riponendo al centro il suo carattere non lineare, e in seguito chiarificando contenuti, dinamiche e obiettivi della fase rivoluzionaria aperta (precisando, tra l’altro, l’impostazione tattica in termini di disposizione delle forze), e gli obiettivi programmatici nell’attuale fase politica interna e internazionale. La rinnovata capacità di misurarsi con il carattere ed il livello dello scontro rivoluzionario, che la qualità del riadeguamento esprime, si è tradotta nel rilancio dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria. La continuità e la coerenza dimostrate dalle BR nel perseguire le direttrici strategiche non ha niente a che vedere con il meccanico e “irriducibile” continuismo ideologico o dogmatico, ma trae le sue radici essenzialmente dalle ragioni di fondo che presiedono e definiscono la lotta armata come avanzamento e adeguamento della politica rivoluzionaria alle forme di dominio della borghesia imperialista. L’affermarsi della lotta armata come strategia per tutto il proletariato, piano sistematico di azione e di disposizione delle forze che informa e caratterizza dall’inizio alla fine il processo rivoluzionario, è dato dalle condizioni storiche e politiche, economiche e sociali determinatesi con la seconda guerra mondiale. Il livello di maturazione raggiunto dall’imperialismo in quella fase poneva come dominanti nel quadro economico del blocco occidentale, processi di internazionalizzazione e interdipendenza delle economie; un dato che, da una parte, si rifletteva sullo sviluppo di livelli sempre più elevati di integrazione politica e militare tra i paesi della catena imperialista (che al momento si traducevano, tra l’altro, nel dispiegamento della “controrivoluzione imperialista“, atta a “normalizzare” i paesi del blocco occidentale così da renderli idonei a ricoprire il proprio ruolo nella divisione internazionale del lavoro e dei mercati che si andava delineando e a farsi carico degli interessi complessivi della catena); dall’altra vedeva affermarsi una frazione dominante di borghesia imperialista, aggregata al capitale finanziario USA, come punta più avanzata e trainante dei movimenti economici del mondo occidentale e, allo stesso tempo, il proletariato metropolitano, espressione del processo di polarizzazione tra le classi e conseguente proletarizzazione di vasti strati della società. Come riflesso sovrastrutturale al formarsi di frazioni di borghesia imperialista e del proletariato metropolitano (e quindi, in generale, al livello di sviluppo raggiunto dal capitalismo) la democrazia parlamentare moderna assume il ruolo di rappresentare e portare avanti gli interessi e le necessità della borghesia imperialista e della sua frazione dominante in particolare. Dal punto di vista economico si affina (data la conoscenza acquisita) la capacità di gestione e governo dell’economia attraverso politiche economiche di supporto che nella fase della crisi generale (di valorizzazione) assumono carattere controtendenziale, intervenendo per attutire gli effetti negativi della crisi dal momento che non possono agire sulle sue cause (che sono strutturali). Dal punto di vista politico ancora di più si esalta il ruolo che lo Stato assume in riferimento all’antagonismo inconciliabile tra le classi. A partire dai rapporti di forza generali tra le classi che caratterizzavano il quadro di scontro nel dopoguerra (dopo le rotture operate dalla controrivoluzione imperialista), la “democrazia rappresentativa” si organizza in modo tale da farsi carico del controllo e del governo del conflitto di classe, superando il carattere essenzialmente repressivo che aveva informato, ad esempio, lo Stato fascista anteguerra, per servirsi delle istituzioni democratiche come ambito politico in cui convogliare e compatibilizzare le spinte e le tensioni antagoniste che si producono nel paese, le quali, incanalate dentro le “gabbie istituzionali” vengono svuotate di ogni contenuto destabilizzante. Partiti, sindacati, organismi politici vengono delegati a “rappresentare” la classe e diventano l’unica “controparte” legittima in quanto strutturale e lealista alle istituzioni democratiche e quindi sensibile e rispettosa degli interessi della borghesia imperialista. Il controllo e il governo del conflitto di classe passa quindi per la sua “istituzionalizzazione” al fine di prevenire l’incontro tra l’antagonismo proletario e la progettualità rivoluzionaria. Risulta allora evidente il senso concreto della controrivoluzione preventiva, anima della democrazia rappresentativa e ad essa strutturalmente connessa; politica continua e costante propria degli Stati a capitalismo maturo, insita negli strumenti e negli organismi “democratici”, indipendentemente dalla presenza o meno di un processo rivoluzionario. Il carattere della mediazione politica che si afferma incorpora i termini di controrivoluzione preventiva maturati e assestati nel rapporto di scontro tra le classi. Non si tratta di un dato statico ma dinamico che si ridetermina in relazione (oltre che al dato strutturale e cioè ai livelli di sviluppo dell’imperialismo e alle necessità che da essi conseguono) alle modificazioni dei termini dello scontro ed in particolare del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. Questo salto di qualità chiarisce la natura politica dello scontro di classe nei paesi a capitalismo maturo e il suo grado di approfondimento e pone il fattore dell’aumentato peso della soggettività come una questione da cui non si può prescindere se si vuole intervenire nelle dinamiche dello scontro. Per parte proletaria e rivoluzionaria, incidere sul quadro di scontro generale affermatosi nel dopoguerra comporta necessariamente un riadeguamento sostanziale della strategia per la presa del potere. Il dato della controrivoluzione preventiva, infatti, rende superata, impraticabile, inefficace, la “politica dei due tempi” che ha portato al potere il proletariato sovietico nell’ottobre del 1917 e che la Terza Internazionale aveva posto alla base della strategia rivoluzionaria. Non è più dato, cioè, un processo di accumulo di forze sul terreno politico da impiegare in termini militari contro lo Stato quando saranno mature tutte le condizioni, oggettive e soggettive, per l’insurrezione. Il processo rivoluzionario riprende concretezza e ridiventa praticabile, invece, nella misura in cui la conduzione dello scontro avviene globalmente, che significa intervenire da subito (anche in una situazione non rivoluzionaria) su tutti i termini dello scontro operando su entrambi i piani, politico e militare, contemporaneamente. La strategia della lotta armata rende dunque esplicito il rapporto di guerra che vige nello scontro di classe. Una guerra che manifesta caratteristiche particolari e le cui leggi generali fanno riferimento al suo carattere di classe che coinvolge le due classi antagoniste: la borghesia vi interviene per mantenere il potere ma non può distruggere il proletariato, chiave di volta del modo di produzione capitalistico in quanto fattore unico di creazione di plusvalore; il proletariato rivoluzionario, al contrario, vi interviene per prendere il potere e questo processo vive e si sviluppa nell’obiettivo di annientare la borghesia in quanto classe. In questo contesto le dinamiche del rapporto di guerra non possono prescindere dalle peculiarità politiche della guerra stessa, cioè dal livello definito della mediazione politica classe/Stato. Posto in questo quadro, seppure come aspetto “eccezionale” (nel senso che non è la regola) e limitato nel tempo, l’intervento controrivoluzionario dello Stato, come abbiamo potuto constatare nella prima metà degli anni ’80, risulta essere mirato e selettivo, non viene massificato né prolungato oltre una certa soglia. L’indirizzo che persegue è colpire a livello d’avanguardia per poi ribaltare e dispiegare gli effetti politici su tutta la classe, rompere la dinamica di crescita e radicamento messa in moto dalla guerriglia e isolarla dal suo terreno di riproduzione, allontanare la classe dal punto di riferimento politico-militare di direzione dello scontro rivoluzionario. Imporre in definitiva un clima politico in termini di rapporti di forza che consenta allo Stato di assestare in suo favore un differente quadro del rapporto classe/Stato, modificando il carattere stesso della mediazione politica tra le classi, così da ripristinare il controllo delle dinamiche antagoniste e conformare il governo del conflitto ai nuovi termini posti dal livello di sviluppo e approfondimento della crisi del modo di produzione capitalistico (governo dell’economia).

All’interno del rapporto esistente tra processo rivoluzionario diretto dalla guerriglia e controrivoluzione dello Stato, la controrivoluzione degli anni ’80 va letta come portato e approfondimento del processo rivoluzionario, nonché delle condizioni generali dei rapporti politici tra le classi. Per i tempi e le modalità con cui si è dispiegata, per le proporzioni raggiunte ed i termini impiegati, è stata la manifestazione della consapevolezza raggiunta dallo Stato del valore strategico e del peso politico della lotta armata, risposta conseguente all’avanzamento del piano di scontro rivoluzionario e, al tempo stesso, causa del suo ulteriore approfondimento. D’altra parte il quadro dei rapporti politici tra le classi viene rideterminato e il carattere della controrivoluzione preventiva che si afferma incorpora e cristallizza la sostanza della controrivoluzione dispiegata in quegli anni, attraverso passaggi successivi ognuno dei quali è ad un tempo tappa di assestamento “istituzionale” (in termini quindi costanti e integrati al modo di governare il conflitto di classe) dei rapporti di forza generali raggiunti e punto di partenza per successive forzature nei rapporti politici tra le classi. Il “patto sociale neocorporativo”, le modifiche istituzionali fin qui operate, tendenti ad un maggiore accentramento dei poteri nell’esecutivo e il più generale progetto di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato in cui si inseriscono, sono altrettanti momenti di questo processo, altrettante ratifiche dei rapporti di forza generali prodotti dalla controrivoluzione. Non si tratta, dunque, di un’involuzione del sistema democratico, di un indietreggiamento verso la restaurazione dello “Stato autoritario”, ma al contrario di passaggi verso un sensibile approfondimento della democrazia rappresentativa, della sua capacità di governo del conflitto di classe e gestione dell’economia. Una dinamica che muove verso il massimo della democrazia formale, fuori e contro il contesto di classe del paese, dove le scelte dell’esecutivo, nel rispondere alle esigenze della frazione dominante di borghesia imperialista (detentrice del potere reale, sostanziale), devono affermarsi in tempi reali, svincolate al massimo grado dalle spinte antagoniste che si producono nel tessuto proletario. Questo processo, tendente ad allineare la democrazia italiana alle più mature democrazie europee, ha però chiaramente un andamento discontinuo, dovendo sempre fare i conti con le resistenze espresse dalla classe e con la capacità della guerriglia di farsi carico del livello raggiunto dallo scontro (oltre che con l’incalzare delle scadenze poste dall’evoluzione/crisi dell’imperialismo, ragione strutturale del riassetto degli Stati). Per parte della guerriglia, la controrivoluzione degli anni ’80 ha rappresentato la verifica materiale del carattere non lineare della guerra di classe, soggetta per la sua stessa natura ad avanzate e ritirate, spezzando bruscamente le ali ad ogni concezione meccanicista e semplicistica del processo rivoluzionario, segnando la fine di tutte quelle forze e organizzazioni combattenti che non hanno saputo leggere il carattere e il senso concreto delle dinamiche in corso e le cui risposte quindi sono risultate inadeguate (quando non si è trattato di una vera e propria resa incondizionata). Sole le BR per il PCC sono state in grado di misurarsi con le leggi dello scontro controrivoluzionario e, aprendo la fase della Ritirata Strategica, di dare l’unica risposta possibile e positiva alla situazione che si stava determinando. L’impatto con la controrivoluzione ha aperto la strada (e fornito alcuni termini) alla comprensione del carattere dello scontro rivoluzionario, facendo giustizia dello schematismo con cui nella fase precedente veniva condotto lo scontro e definite le fasi rivoluzionarie. Si trattava di un’impostazione, portato della giovinezza ed esperienza guerrigliera, che riduceva il processo rivoluzionario ad una fase di accumulo lineare di capitale rivoluzionario, di forze genericamente disponibili alla lotta armata, che nella fase successiva sarebbero state dispiegate nella guerra civile. Da una parte veniva meno, di fatto, il carattere di lunga durata della guerra di classe, con tutto quello che comporta in termini di assestamento delle forze per il loro rilancio; dall’altra parte ne deriva una visione schematica dello Stato come una sommatoria di apparati separati tra loro e messi sullo stesso piano.

La Ritirata Strategica, atto dovuto e necessario, ha portato con sè un primo piano di riconoscimento di errori e contraddizioni, recuperando tra l’altro la centralità programmatica dell’attacco al cuore dello Stato, centralità che discende dal fatto che il piano classe/Stato è asse principale su cui si costruiscono i termini della guerra di classe (essendo lo Stato la sede politica dei rapporti tra borghesia e proletariato) e, d’altra parte, che lo Stato centralizza sul piano politico la funzionalità dei suoi apparati. Ma la valenza politica determinante della Ritirata Strategica risiede nel suo senso concreto di legge fondamentale della guerra rivoluzionaria, espressione del carattere non lineare della guerra stessa, e cioè di ripiegamento da posizioni che di fatto si dimostrano inadeguate e non realmente avanzate, come risposta necessaria a fronte dell’impossibilità di misurarsi “alla pari” con il nemico di classe. Legge dinamica, dunque, che apre una fase generale non risolvibile unicamente nella ricollocazione di un corpo di tesi, ma che investe, oltre all’adeguamento dell’impianto organizzativo, soprattutto il modo in cui si costruiscono i termini politico-militari della guerra stessa. La Ritirata Strategica, portato del carattere e del livello dello scontro rivoluzionario, ne determina nel contempo l’approfondimento, nella misura in cui colloca correttamente il rovescio subito in termini di sconfitta tattica ed apre una fase rivoluzionaria incentrata, nelle sue finalità e nella disposizione tattica delle forze conseguente, attorno al problema di costruire le condizioni politico-militari necessarie per invertire lo stato attuale dei rapporti di forza.

Un processo dinamico ad andamento discontinuo e contraddittorio, che nella fase iniziale ha potuto fare i conti con i segni lasciati dall’offensiva dello Stato: l’incomprensione del reale livello di scontro prodottosi, alimentava un piano di contraddizione che riduceva di fatto la Ritirata Strategica ad atto difensivo e portava di conseguenza a subire l’iniziativa dello Stato e al logoramento delle forze, la cui disposizione non adeguata ne limitava la funzionalità rispetto alle necessità dettate dalla fase rivoluzionaria stessa. La logica difensivistica, cioè, si dimostrava incapace, di fronte alle necessità poste dal livello di scontro, impantanandosi nel possibile, inteso limitatamente alle condizioni materiali del momento. In questa dinamica hanno trovato spazio posizioni che, quando si sono chiaramente delineate nel dibattito interno, sono state espulse dall’Organizzazione per quelle che erano: posizioni liquidazioniste che, “interiorizzando” la sconfitta e portando all’estremo la logica difensivistica, “buttavano il bambino con l’acqua sporca”, revisionavano cioè la lotta armata fino a ridurla a strumento di lotta, sottraendosi perciò al livello dello scontro. Il superamento dell’ottica difensivistica, maturato dalle BR nella prassi rivoluzionaria, ha segnato una tappa importante per lo sviluppo della fase di Ritirata Strategica, poiché ha significato cogliere e superare una contraddizione che portava ad eludere alcune leggi della guerra rivoluzionaria e a non disporsi nello scontro adeguatamente al suo livello. Questo passaggio si è tradotto in un salto in avanti nella misura in cui si è riflesso in una prassi rivoluzionaria che dava risposta alle aspettative poste dall’attuale rapporto politico tra le classi, sia sul piano classe/Stato che sul terreno dell’antimperialismo, consentendo di fare così fronte alle scadenze politiche. Il recupero del senso politico profondo della Ritirata Strategica come legge dinamica della guerriglia e la misura acquisita delle necessità che si evidenziano al suo interno, ha permesso alle BR di mettere a fuoco i termini e gli obiettivi dell’attuale fase rivoluzionaria, individuata come «fase di ricostruzione delle forze proletarie e rivoluzionarie e di costruzione degli strumenti politici e organizzativi atti ad attrezzare il campo proletario nello scontro prolungato contro lo Stato». Obiettivi che vengono perseguiti in dialettica con (e a partire da) l’iniziativa combattente sugli altri punti di programma. Si tratta di una fase interna a quella più generale di Ritirata Strategica, dal cui carattere è condizionata, ma che per modi, sostanza e tempi politici, non può essere considerata come un momento congiunturale, ma come una vera e propria fase rivoluzionaria finalizzata a modificare e spostare in avanti il piano rivoluzionario e, di conseguenza, le posizioni di forza del campo proletario. Per un altro verso, con il riconoscimento della condizione generale in cui vive la guerriglia nei paesi a capitalismo maturo come condizione di accerchiamento strategico, in cui non possono esistere “zone liberate” dove ripiegare e da dove partire per lanciare le offensive, con la consapevolezza, ad un livello più maturo, del fatto che la guerriglia vive ed opera in territorio nemico, fianco a fianco col nemico di classe, e ferma restando la natura essenzialmente politica dello scontro di classe, si sono meglio precisate le implicazioni che sorgono dall’operare nell’unità del politico e del militare, in relazione a tutti i termini dello scontro di classe. Affermare che la conduzione dello scontro avviene globalmente e che l’unità dei due piani si riproduce in ogni aspetto dell’attività rivoluzionaria delle BR, significa concretamente che lo Stato viene colpito nei suoi aspetti politici centrali attraverso l’azione militare; il quadro di scontro che viene così aperto presenta un vantaggio momentaneo favorevole al campo proletario, vantaggio che per non essere riassorbito e disperso dalle misure che lo Stato mette in campo per recuperare il terreno perso, si deve tradurre in organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, calibrata nelle forme e nei modi alla fase rivoluzionaria e al livello dello scontro. Questo è il senso concreto di “lavoro di massa” all’interno della strategia della lotta armata come proposta politica per tutta la classe; in questo modo è possibile attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato. Ciò significa, ancora più concretamente, organizzare gli spezzoni più maturi dell’autonomia di classe, attivizzati dall’intervento rivoluzionario che incide sull’equilibrio tra le classi, in organismi armati e clandestini della classe. In queste strutture politico-militari i compagni rivoluzionari vengono organizzati secondo gli stessi criteri fondamentali e il metodo di lavoro che informano e regolano l’Organizzazione nel suo complesso, tenendo conto evidentemente delle diverse funzioni e ruoli che hanno nello scontro e del quadro di coscienza espresso. All’interno delle istanze rivoluzionarie e delle stesse reti proletarie si riproduce organizzazione e, a partire da questo elemento di fondo e nella pratica concreta del lavoro politico rivoluzionario necessario, le forze vengono formate ed attrezzate a sostenere lo scontro. Al tempo stesso queste strutture politico-militari così organizzate sono disposte e dirette dall’Organizzazione nello scontro in funzione dell’attività rivoluzionaria complessiva delle BR, che ad un tempo le attivizza indicando i confini ed i termini del loro lavoro politico rivoluzionario e ne centralizza ogni aspetto della loro attività. L’asse strategico cui aderiscono e di cui riproducono i termini è incompatibile con una concezione della formazione delle forze tipo “scuola quadri” o simili; non può che trattarsi invece di organismi politico-militari che si rendono da subito funzionali al piano di lavoro generale nella misura in cui la loro attività è da una parte centralizzata dall’Organizzazione, dall’altra informata all’attività complessiva dell’Organizzazione. In sintesi la formazione/organizzazione delle forze avviene all’interno e a partire da un ambito organizzato, clandestino e compartimentato, calibrato nelle forme che assume e nelle modalità in cui interagisce con lo scontro alla fase rivoluzionaria e ai rapporti di forza generali; avviene nel lavoro rivoluzionario concreto e calibrato al livello di coscienza espresso e al ruolo della struttura nell’insieme del piano generale di disposizione delle forze messe in campo dall’organizzazione; lavoro necessario e funzionale all’attività complessiva, centralizzato a partire dalle indicazioni e sotto la direzione dell’Organizzazione. Questa attività di formazione/organizzazione delle forze muove parallelamente al processo di ricostruzione, nell’ambito operaio e proletario, delle condizioni politiche e materiali danneggiate e disperse dalla controrivoluzione, per un equilibrio politico e di forze favorevole al campo proletario; un processo che matura in riferimento all’iniziativa della guerriglia tesa a rompere gli equilibri politici generali che si formano tra classe e Stato, al cui interno si evidenzia e si afferma la contraddizione dominante in antagonismo tra la classe e lo Stato. L’intervento su questo piano, con l’attacco al punto più alto dello scontro, pesa sugli equilibri dello scontro stesso e si ripercuote, di conseguenza, su tutto l’arco dei rapporti tra le classi, fino al piano capitale/lavoro, mettendo in moto dinamiche nel tessuto proletario e nelle componenti più mature dell’autonomia di classe in particolare, da cui è possibile “liberare” energia proletaria che deve essere adeguatamente formata, organizzata e disposta per essere in grado di sostenere il livello di scontro e rendersi funzionale all’approfondimento della guerra di classe. Ricostruzione e formazione/organizzazione è il binario su cui si concretizza la necessaria dialettica guerriglia/autonomia di classe. Perseguire questa dialettica comporta misurarsi con le condizioni politiche generali del rapporto classe/Stato, e cioè riferirsi nel definire l’attacco e tutta l’attività rivoluzionaria al carattere della mediazione politica che si afferma e che si assesta; al progetto politico che emerge come dominante in una data congiuntura interna (riferimento alle esigenze della borghesia imperialista nostrana) e internazionale (riferimento al ruolo dell’Italia nel contesto della catena imperialista e in particolare in Europa Occidentale); al livello di approfondimento del piano di scontro attestato a fronte delle dinamiche rivoluzione/controrivoluzione. Riguardo a quest’ultimo aspetto si evidenzia, in sintesi, l’intervento costante e complessivo di un apparato antiguerriglia le cui finalità, essenzialmente politiche, puntano a contrastare gli effetti e la valenza della proposta politica delle BR, tenendo sotto pressione e intervenendo in termini di deterrenza sulle componenti proletarie e rivoluzionarie che esprimono antagonismo contro lo Stato. Questo aspetto si compenetra con il carattere della mediazione politica tra le classi, dando vita ad un reticolo di atti politici e materiali che contrastano l’ambito stesso di formazione delle avanguardie nel tentativo di impedire all’autonomia di classe di esprimersi. La dialettica guerriglia/autonomia di classe che a partire da questo quadro di scontro è possibile e necessario sviluppare, presuppone la formazione e organizzazione delle forze militanti in un modulo politico organizzativo organico che sia non solo coerente con il principio dell’unità del politico e del militare, ma all’interno del quale i quadri militanti si formino e si dispongano tatticamente così da essere in grado di esprimere l’adeguata direzione e organizzazione delle forze, a partire dal duplice binario di ricostruzione/formazione, all’interno della progettualità attuale e in sintonia con gli obiettivi della fase rivoluzionaria.

Il modulo politico-organizzativo che storicamente si è dimostrato come il più adeguato, è quello a cui fa riferimento lo statuto delle BR (D.S. n° 2) e la sua mancanza non può che provocare un impoverimento e indebolimento del corpo militante, privato del mezzo e del modo per intervenire nello scontro all’altezza delle necessità. Riproporlo nei suoi principi generali ha costituito un punto di forza del processo di riadeguamento, ad un tempo momento di attestazione del processo in corso e strumento politico-militare per dargli nuovo slancio, perché consente di elevare le forze rivoluzionarie al livello politico necessario, facendo vivere e sfruttando al massimo la capacità dei singoli nel collettivo. Tale modulo ha, nei suoi criteri generali, carattere strategico e non muta col mutare delle fasi rivoluzionarie. Esso si basa sul criterio del centralismo democratico, per cui le forze vengono strutturate in istanze superiori e istanze inferiori; tutto il lavoro rivoluzionario viene centralizzato e si colloca dentro il piano di lavoro generale elaborato dall’istanza dirigente. Va da sé che esso opera dentro i principi strategici di clandestinità e compartimentazione, principi-base che rispecchiano l’unità del politico e del militare e informano ogni aspetto dell’attività rivoluzionaria; rispondono alle leggi della guerra rivoluzionaria, in quanto consentono di esplicare il carattere offensivo della guerriglia limitando al tempo stesso le perdite (comunque sempre alte nella guerriglia); principi che attraversano orizzontalmente e verticalmente tutta l’Organizzazione e le forze da essa organizzate e disposte. In particolare la clandestinità si manifesta come una scelta offensiva a carattere strategico che consente ai rivoluzionari di disporsi nello scontro nelle condizioni migliori (uniche adeguate) per portare l’attacco e approfondire la guerra di classe. La strutturazione per cellule, unità di base del modulo politico-organizzativo delle BR, consente in termini generali la riproduzione dell’organizzazione nella misura in cui al suo interno si riproducono sia i criteri generali del modulo che il patrimonio politico dell’Organizzazione. A partire dal piano di disposizione generale delle forze interne all’Organizzazione, si precisa tatticamente in funzione degli obiettivi della fase rivoluzionaria la disposizione delle strutture politico-militari stesse (delle cellule, quindi) che, in questa fase, deve essere funzionale alla costruzione/organizzazione/direzione delle forze, facendo vivere la dialettica guerriglia/autonomia di classe e centralizzate nella loro attività al perseguimento delle linee di attacco (obiettivi di programma). Ferma restando la matrice strategica, cioè, l’atteggiamento tattico muta a seconda delle fasi rivoluzionarie per rispondere alle sue finalità (della fase) e influisce sulla disposizione tattica delle forze in campo (che ha comunque sempre carattere dinamico in riferimento alle peculiarità politiche dello scontro). Tutte le forze così organizzate e dirette diventano funzionali all’attacco in modo da incidere al massimo grado e assestarsi adeguatamente nello scontro. In questo processo di costruzione/organizzazione/direzione le BR si costruiscono come partito precisando e praticando il ruolo di direzione dello scontro: le BR, forza rivoluzionaria che agisce come un “esercito rivoluzionario”, si pongono quindi nella prassi come nucleo fondante il partito, e a partire da questo fatto lavorano per concretizzare la parola d’ordine dell’unità dei comunisti. In conclusione le tappe del riadeguamento percorse fino ad oggi ed il rilancio ad esse connesso, costituiscono il dato politico centrale nell’attuale dialettica rivoluzione/controrivoluzione. Le misure che lo Stato ha ridefinito nel rapportarsi a questo dato e che informano l’attività della controguerriglia direttamente orientata dall’Esecutivo, puntano soprattutto a “raffreddare” le aspettative create dall’intervento rivoluzionario nel corpo di classe; ad esempio gli attacchi alla guerriglia (aspetto ovviamente intrinseco ad un contesto di guerra rivoluzionaria) vengono fatti pesare sul tessuto proletario dove sono spacciati per l’esaurimento delle condizioni del processo rivoluzionario. Ma se è ovvio che l’approfondimento delle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario influenza l’andamento dell’attuale fase di ricostruzione, ciò che influisce in maniera centrale sulle prospettive della fase rivoluzionaria è la sua collocazione in una fase politica generale gravida di contraddizioni e, al tempo stesso (ma non come conseguenza meccanica), di potenzialità favorevoli all’approfondimento della guerra di classe. Dal lato del campo proletario, infatti, non è data di fatto la “sterilizzazione” del tessuto di lotte operaio e proletario, l’annullamento delle dinamiche riproducenti autonomia di classe, ma al contrario si manifesta, come elemento costante, una vasta resistenza operaia e proletaria ai costi della crisi e agli effetti della riforma dei poteri dello Stato, da cui emergono in particolare lotte che tendono a rompere le gabbie e i filtri delle relazioni industriali, riflesso sul piano capitale/lavoro delle modificazioni degli equilibri politici generali, sancite a livello istituzionale nelle nuove “regole del gioco” della democrazia rappresentativa, per esprimere istanze di lotta autonome. In forme e modi che risentono del mutato quadro dei rapporti politici tra le classi, esse rappresentano tuttavia la continuità con la tradizione di autonomia di classe storicamente determinatasi in Italia. D’altra parte, e parallelamente, il piano di intervento complessivo nello scontro che la guerriglia ha maturato e le prospettive politiche aperte sul terreno classe/Stato e sul terreno dell’antimperialismo (e fermo restando il patrimonio che vent’anni di prassi rivoluzionaria hanno sedimentato nel tessuto proletario, e che sostanzia quel filo organico che tutt’oggi lega le BR a questo tessuto), consente alle BR di agire nello scontro in sintonia con le scadenze politiche dettate dalle condizioni politiche generali del rapporto classe/Stato. Nella misura in cui l’iniziativa guerrigliera incide sugli steccati e filtri della mediazione politica, emerge, a partire dai livelli di aggregazione operaia e proletaria suddetti, energia rivoluzionaria che può e deve essere organizzata, formata e diretta sul terreno della guerra rivoluzionaria per il suo avanzamento. Quindi, pur tenendo nel dovuto conto l’approfondimento del piano di scontro rivoluzionario attuale, è alle dinamiche che si sviluppano a partire dalla dialettica tra questi due fattori, guerriglia e autonomia di classe, che le BR fanno riferimento nel procedere alla ricostruzione delle forze/costruzione degli strumenti politici e organizzativi per attrezzare il campo proletario a sostenere lo scontro e nel perseguire le linee di attacco inerenti ai punti di programma.

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di riforma dei poteri dello Stato.

– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

– Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa Occidentale nello specifico i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.

– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica (Europa Occidentale/Mediterraneo/Medio Oriente).

– Onore al compagno Umberto Catabiani “Andrea” ucciso nel maggio 1982; onore a tutti i compagni rivoluzionari antimperialisti caduti.

 

Simonetta Giorgieri militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente

 

Genova, 15 febbraio 1990

 

Contro il pestaggio dei prigionieri del blocco B di Novara. Alcune compagne del carcere speciale di Latina

Il 4-2-1990 abbiamo fatto un fermata all’aria di mezz’ora contro il pestaggio organizzato nei confronti dei compagni del blocco B di Novara.

Ciò che è successo il 30-1-1990 nel campo di Novara ci è estremamente chiaro nella sua sostanza. Davvero niente di casuale per nessuno che continuino o riprendano i pestaggi dei comunisti e dei proletari nelle carceri, che venga rinnovata una politica del genere in contemporanea alle dichiarazioni “senza timori” del Ministro di Giustizia in merito alla guerriglia in Italia, la cui morte e sepoltura ci viene svelata a ogni piè sospinto da media di ogni sorta.

E, forse, anche questi piatti ci vengono serviti per “riportarci alla realtà”.

Noi diciamo che per i proletari e i comunisti l’unica realtà che conta è quella dello scontro tra le classi. La stessa per cui ricorrentemente si odono gli strilli sgangherati di borghesi di ogni risma di fronte ad ogni nuova espressione dell’antagonismo!.. che tradiscono solo la loro consapevolezza di non aver normalizzato alcunché e che la loro chance è solo quella di colpire violentemente prima che si dia uno sviluppo. Ma la guerriglia metropolitana in Europa Occidentale, in 20 anni di teoria/prassi e di acquisizioni rivoluzionarie, è diventata una realtà imprescindibile dello scontro di classe, è il portato e lo sviluppo di questi 20 anni di esperienza rivoluzionaria.

È con questa consapevolezza che, oggi come sempre, ognuno si incaricherà di difendere i propri interessi di campo: i nostri e quelli proletari sono inconciliabili con i loro, che asserviscono tutto alla logica del profitto e dell’accumulazione, con la mercificazione di tutte le risorse umane e naturali, con l’assoggettamento di intere aree del mondo attraverso l’indebitamento, la colonizzazione economica e la realtà della guerra imperialista.

Ovunque alla realtà dell’imperialismo si contrappone un’altra realtà, quella della lotta di classe, quella della coscienza proletaria e rivoluzionaria che dentro di essa cresce e si rafforza nel percorso concreto per una prospettiva rivoluzionaria necessaria e possibile. Ed è contro questo sviluppo che la borghesia imperialista, mentre dichiara con enfasi e baldanza il fallimento del comunismo nella storia, rovescia la sua barbarie: quella dell’invasione di popoli interi, delle stragi dei palestinesi, dei Kurdi, dei popoli del Centro e Sud America che stanno lottando per la loro liberazione, quella delle torture “democratiche” occidentali, della pena di morte trasferita nelle strade, delle ossa fratturate, da Gaza… al carcere speciale di Novara.

Ribadiamo il sostegno alla guerriglia delle BR per la costruzione del PCC e al Fronte nell’unità di attacco BR/RAF.

Per il comunismo

Alcune compagne del carcere speciale di Latina

Febbraio 1990

Questa loquace area del silenzio. Cuneo, intervento di Giuliano De Roma

Cari compagni, vi mando il documento che ho fatto da mettere agli Atti del «processetto» tenutosi più volte (perché più volte rinviato) presso il Tribunale di Sorveglianza di Torino, al quale ho fatto ricorso contro il provvedimento di sorveglianza particolare (art. 14 bis) adottato dalla direzione generale degli Istituti di Prevenzione e Pena del ministero di Grazia e Giustizia (…).

Chiudo queste righe mandandovi un forte abbraccio comunista.

L’applicazione nei nostri confronti dell’art. 14 bis da parte del ministero di Grazia e Giustizia non va vista solamente come atto di ritorsione contro quei comunisti, quei rivoluzionari e quei proletari che non solo rivendicano pienamente la loro esperienza di lotta, ma continuano a contribuire – pur nella specificità della loro condizione attuale – allo sviluppo del movimento rivoluzionario nell’attuale scontro di classe. È certamente qualcosa di più di questo; è bene leggere sinteticamente lo scenario in cui questi provvedimenti vanno a collocarsi per cercare di comprenderne più a fondo la portata politica.

Non è necessario ripercorrere la storia di questi ultimi anni, degli eventi caratterizzanti vissuti dai rivoluzionari nel nostro paese e che hanno segnato le tappe della nostra esperienza politica. È piuttosto del presente e del futuro che bisogna parlare, dell’apertura di una fase che prefigura i nuovi elementi che definiranno le caratteristiche della prigionia politica.

La fuga nelle braccia del nemico di una grossa fetta di ex rivoluzionari, nei variegati modi del rinnegamento della propria storia, dall’infame tradimento alla dissociazione, è già stata codificata da una legge ormai prossima a scadere dopo essere stata offerta per mesi sul mercato della merce istituzionale. Ma la dissociazione non basta, come non basta mostrare di aver «pacificato» il carcere, oggi il tentativo dello stato imperialista si delinea come ancor più ambizioso.

Non si tratta più di regolamentare all’insegna della «riconciliazione» il salto del fosso da parte di squallidi individui totalmente screditati da anni di collaborazionismo con la borghesia. Ora si tenta la carta forse ritenuta più decisiva: pensare che sia possibile orientare i prigionieri politici – nel loro insieme! – contro la ripresa dell’iniziativa guerrigliera, far pesare l’interno contro l’esterno, il «passato» della lotta armata per il comunismo contro il suo futuro!

La lotta armata, data frettolosamente per morta e sepolta, continua a mostrare la sua vitalità strategica in un quadro generale di contraddizioni capaci di dare nuovo alimento al movimento rivoluzionario. Gli stessi eventi di questo inizio d’anno hanno eloquentemente smascherato le pie illusioni di chi riteneva il capitolo ormai chiuso: devono essere allora accelerate le mosse politico-giudiziarie tendenti a dipingere i «terroristi dell’ultima generazione» come fanatici disperati sradicati dalla loro stessa storia, la lotta armata di oggi e di domani come del tutto estranea a quella degli anni ’70, ridotta ormai a fenomeno digerito e storicizzato, imbalsamato grottescamente nelle rievocazioni di reduci disillusi dai capelli grigi, di studiosi di dietrologia, di apologeti delle modernizzazioni craxiane. La galera è oggi il luogo ideale per lo sviluppo di questa manovra. Solo dalla galera la divisione fra vecchi «terroristi buoni» e nuovi «terroristi cattivi» potrebbe essere fatta giocare non solo come dato meramente propagandistico, da controguerriglia psicologica, ma come arma politica rivolta attivamente a creare difficoltà nel movimento rivoluzionario e a seminare confusione e disgregazione. È un’altra pia illusione, ma c’è chi si presta oggettivamente ad alimentarla. Per questo è indispensabile tracciare, come comunisti prigionieri, una chiara linea di demarcazione che non lasci spazio ad attendismi ed ambiguità. E queste righe, con molta franchezza e fuori dai denti, vogliono contribuire a rafforzare tale linea di demarcazione, che divida nettamente rivoluzione e controrivoluzione e denunci come quest’ultima pretenda di inserirsi nel corpo dei prigionieri politici.

Da qualche tempo un gruppo di prigionieri tace con una loquacità inesauribile, dimostrando una ritrosia a scrivere e a rilasciare dichiarazioni che rasenta ormai… la grafomania. Un’area del silenzio particolarmente rumorosa di ex militanti, che in passato hanno ricoperto ruoli politici e responsabilità dirigenziali nel movimento rivoluzionario, si è finalmente associata al coro di chi vorrebbe sistematizzare una volta per tutte la storia della lotta armata in Italia, in modo da sancirne la particolarità (da anni ’70) e l’irripetibilità nel contesto attuale. Questa disponibilità a riciclarsi (da rivoluzionari a storici, da comunisti a memorialisti) è condizionata dal fatto di poterlo fare da… liberi. Particolare evidentemente non di secondaria importanza: come insegna Spadolini, se è proprio scritto che uno debba fare lo storico, è più comodo farlo seduto su una poltrona ministeriale che su uno sgabello da galera.

In una letterina d’intenti definiscono affetti da sclerosi metafisica quanti non condividono la loro conversione a studiosi, alludendo ai comunisti che continuano a lavorare per costruire l’iniziativa rivoluzionaria.

Ma con chi e in che modo ripercorrere la strada intrapresa dalla lotta armata per il comunismo nel nostro paese?

Dentro il movimento rivoluzionario non è mai mancato lo spazio per la critica e l’autocritica, il dibattito seguito alle sconfitte inflitte alla guerriglia all’inizio degli anni ’80 è stato profondo e condotto in termini tali da non poter essere liquidato come una prassi formale e non sostanziale nella ridefinizione di una strategia rivoluzionaria. Un confronto serrato, ma sempre interno al campo della rivoluzione. I nostri «storici», invece, pensano chiaramente ad altro referente, l’unico capace di valorizzare adeguatamente la loro smania di ricostruzione delle vicende della lotta armata. E non è certo voler forzare o stravolgere il loro pensiero affermare che questo referente è quella Commissione Parlamentare istituita per «studiare il terrorismo» insediata da poco e dal ruolo e dalla durata certo promettenti. In quanto «storici» i nostri non hanno fretta, i contratti di questo tipo (consulenza in cambio di libertà) richiedono un certo tempo per essere perfezionati davanti al notaio, specialmente quando nell’area del «silenzio» ci sono contraddizioni sul contraente capace di offrire le condizioni più vantaggiose e di essere solvibile quando si tratterà di riscuotere. Il PSI? Un variegato arco di forze erede del fronte della trattativa? Settori della DC e del PCI comunque interessati a porre un’opzione politica sul futuro dell’operazione «finalmente i capi storici prendono la parola contro i nuovi brigatisti»? Miserie.

Intanto l’area del «silenzio» vive con comprensibile preoccupazione la necessità di non essere confusa con quella dell’abiura e della dissociazione. È per evitare simili confusioni che a qualcuno di loro pare sia stato proposto il 14 bis (?!)… per una ulteriore legittimazione del loro parlare nel movimento rivoluzionario? Le loro preoccupazioni… vendere magliette a Montanelli è una cosa, vendere consulenza storica ad una Commissione Parlamentare è un’altra. Non solo: perché l’intera operazione risulti appetibile alla borghesia, è indispensabile non rinchiudersi in una cosca o in un piccolo circolo. Se la posta in gioco è tentare di far pesare la galera contro l’esterno, il passato contro il futuro della guerriglia, gli «storici» devono ostentare di parlare a nome di tutti i prigionieri politici non coinvolti nella dissociazione. Solo in questo modo possono dimostrare di continuare a mantenere quel ruolo che loro stessi hanno perso ponendosi al di fuori del dibattito fra rivoluzionari. La loro presunzione e la smania di protagonismo sono davvero cattive consigliere: costoro non rappresentano nessuno se non le loro ambizioni. La loro furbizia di politicanti potrà coinvolgere altri, non certo quei comunisti prigionieri che si riconoscono nella validità strategica della lotta armata per il comunismo, quei comunisti prigionieri che giorno dopo giorno assistono alla costruzione di un mosaico esaltato dalla borghesia come il massimo della democrazia e di cui l’applicazione dell’art.14 bis, ter, quater ecc. è solo un tassello. Basta osservare con un po’ più di attenzione la legge Gozzini non solo per comprendere il presente della situazione carceraria, ma per sapere quale futuro ci si prepara.

E questo, per davvero, non è che l’inizio! L’inizio di un trattamento sempre più differenziato in ogni aspetto della prigionia sino alla definizione della galera «più adatta» per ognuno. Ma non sarà per questo che i comunisti smetteranno di esserlo e di comportarsi come tali. Siamo ben contenti di deludere quei corvi che attendono impazienti la nostra fine politica e che per il momento si accontenterebbero anche di registrare il nostro silenzio: continueremo a contribuire a quel dibattito che rende vitale il movimento rivoluzionario e che oggi ci impone maggiori sforzi nell’ambito delle tematiche riproposte dall’iniziativa combattente, dall’agire guerrigliero. Maggiori sforzi, perché il riadeguamento teorico e sostanziale dei prigionieri politici alla nuova fase dello scontro deve fare i conti con lo strascico di impostazioni politiche scorrette e di anni di confusione e disgregazione. Maggiori sforzi, perché il movimento rivoluzionario è ormai nelle condizioni di affrontare e sciogliere quei nodi strategici della lotta all’imperialismo nella nostra area geopolitica che in passato non si erano ancora acquisiti in tutta la loro portata.

Oggi la costruzione del Fronte antimperialista combattente è una proposta credibile, concreta e strategicamente valida su cui tutti i rivoluzionari devono misurarsi in un rapporto di reale unità nell’attacco all’imperialismo. L’attacco al cuore dello stato (come storicamente l’abbiamo sempre inteso) non diviene che l’articolazione – necessaria e indispensabile – nel nostro paese dell’attacco agli interessi generali dell’imperialismo a dominanza USA in rapporto alle linee di sviluppo degli interessi della borghesia imperialista italiana.

Un altro aspetto che va emergendo all’interno dell’area europea e mediterranea è la ripresa delle istanze di liberazione e autodeterminazione dei popoli la cui identità è soffocata dall’ordine imperialista: dall’Irlanda ai Paesi Baschi, dalla Corsica alla Sardegna. Ed è da quest’ultima realtà che come comunista sono stato espresso… ed è in riferimento ad essa che soprattutto muovo il mio contributo dentro lo sviluppo del dibattito/confronto già in atto fra i militanti comunisti e i rivoluzionari sardi, per porre le basi di un processo di unità contro l’imperialismo che non vede misurarsi solo i comunisti, i marxisti-leninisti, ma tutti quei rivoluzionari sardi che impegnano le loro energie verso un percorso di autodeterminazione del popolo sardo. Questo nel concreto, in ultimo, significa lavorare dentro lo sviluppo, più vasto nelle componenti, dello stesso Fronte antimperialista combattente.

 

Rafforzare il Fronte antimperialista combattente!
Guerra alla guerra! Guerra alla Nato!
Onore ai combattenti comunisti caduti!
Onore ai combattenti caduti per la liberazione del proprio popolo dal giogo imperialista!

Giuliano Deroma

Cuneo, marzo 1987

 

Solidarietà con i prigionieri politici spagnoli in sciopero della fame per il raggruppamento! Carcere di Marino del Tronto, documento di Pietro Coccone e Giovanni Senzani

Dal 30 novembre 1989 i prigionieri dei GRAPO e del PCE(r) sono in sciopero della fame per ottenere il raggruppamento. Da un mese circa anche i prigionieri dell’ETA sono scesi in sciopero per lo stesso obiettivo.

Cinque prigionieri dei GRAPO e del PCE(r) si trovano da qualche tempo in stato di coma.

In Spagna viene praticato un black out totale su questa lotta prolungata per consentire al governo Gonzales di portare avanti la sua politica di distruzione dei collettivi rivoluzionari che in carcere continuano a lottare, ad affermare la loro identità comunista e a sostenere la lotta armata.

E lo stesso avviene in tutta l’Europa Occidentale dove ai prigionieri rivoluzionari vengono riservate condizioni di prigionia “speciali” per fiaccarne la resistenza. Il modello controrivoluzionario europeo è uguale in tutti i paesi: risocializzazione/abiura o annientamento!

Questi sono i binari su cui si sviluppa sempre più la politica carceraria in Germania come in Francia e Belgio, in Italia come in Spagna e Portogallo, in Irlanda come in Turchia…

Come dicono i compagni dei GRAPO e del PCE(r) la strategia europea occidentale è semplicemente un tentativo di «abolire i prigionieri politici in vista del 1992». Come nello sciopero dei prigionieri GRAPO e PCE(r) del 1981 venne ucciso il compagno Juan Crespo Galende, così oggi il governo socialista spagnolo si mostra pronto ad altre «soluzioni finali».

La lotta dei prigionieri spagnoli per il raggruppamento è parte dello scontro rivoluzionario nell’area europea, ed è quindi parte della nostra lotta in carcere e fuori dal carcere. Da anni ormai la contraddizione dei prigionieri della guerriglia è una realtà che l’imperialismo vuole seppellire in tutta l’Europa. Ma è anche un terreno stabile di lotta e di mobilitazione del movimento rivoluzionario. Sempre più la solidarietà militante è una pratica attiva per rafforzare la resistenza dei prigionieri rivoluzionari e, contemporaneamente, per sviluppare la lotta contro l’imperialismo.

In Germania, di fronte alla mobilitazione di massa a sostegno della lotta dei prigionieri della RAF e della Resistenza per il raggruppamento, lo Stato tedesco ha cercato di innalzare lo scontro per portare all’estremo il braccio di ferro contando sul ricatto di alcuni compagni morti.

In Francia continua l’isolamento dei compagni di Action Directe e dei prigionieri rivoluzionari che da anni si battono contro una politica governativa che li vuole distruggere.

In Italia, ad una politica di risocializzazione sempre più spinta sulla base delle disposizioni premiali della legge di riforma si abbina un attacco diretto a quei compagni e a quelle situazioni collettive che continuano a sostenere la lotta armata. In questo paese il baratto e la svendita della propria identità sono la normalità che il Ministero cerca di imporre. Anche con la forza delle sue guardie. Come è successo il 30 gennaio scorso nel carcere di Novara con l’attacco premeditato di uno squadrone di guardie contro il “blocco B” e il relativo pestaggio di tutti i compagni «rei di non farsi risocializzare».

E non è diverso lo scontro in atto oggi nelle carceri sparse nel territorio europeo.

Contro questa politica del baratto/svendita e dell’annientamento noi riaffermiamo la nostra identità di comunisti in lotta contro questo Stato, contro questo sistema di sfruttamento e repressione imperialista. E ribadiamo con forza la nostra solidarietà militante internazionalista verso i compagni dei GRAPO e PCE(r) e dell’ETA, come verso tutti i prigionieri rinchiusi nelle carceri imperialiste dell’Europa Occidentale.

Per questo il 18 febbraio abbiamo fatto una fermata all’aria assieme ad altri prigionieri.

La solidarietà è un’arma!

Pietro Coccone, Giovanni Senzani

Carcere di Marino del Tronto, 18 febbraio 1990

Grazie di cuore alla democrazia italiana! Comunicato di Hamidan Karmawi, militante rivoluzionario arabo-palestinese

Nell’ultimo decennio la questione araba ed in particolare quella palestinese ha varcato i confini del Medio Oriente per riproporsi con forza a livello internazionale ed in modo particolare in Europa la quale si è assunta in prima persona il ruolo di mediatore del “conflitto”, intenzionata a non delegare più la difesa dei propri interessi nell’area agli Stati Uniti. Intervento che assume un peso sempre maggiore anche in conseguenza del fatto negativo del disimpegno diplomatico sovietico in tutta l’area.

Quest’impegno diretto non poteva non riprodurre le contraddizioni derivate dall’intervento sul campo fin dentro il cuore degli Stati che l’hanno prodotto e così gli anni ’80 hanno segnato di fatto il massimo livello di internazionalizzazione della rivolta arabo-palestinese contro le politiche imperialistiche in Medio Oriente.

Il governo italiano assume un ruolo di interlocutore privilegiato in questo progetto europeo di pacificazione forzata in quanto storicamente è il meno compromesso fra gli Stati europei proprio perché la sua politica coloniale non ha interessato direttamente questa zona. Questo gli permette di avere atteggiamenti amichevoli, dall’alto di una relativa, quanto formale, neutralità politica che è fatta sì di aiuti al Popolo Palestinese, ma è anche fatta di forniture di armi al “regime sionista”, le stesse armi con le quali si consuma il genocidio del Popolo Palestinese. In realtà l’intervento diretto del governo italiano nella complessa situazione arabo-palestinese fa sì che il governo italiano si faccia interprete dei vari progetti di pacificazione che, per essere consoni agli interessi imperialisti nell’area, devono tradursi in una imposizione di risoluzioni da fare accettare alla resistenza palestinese ad ogni costo. Così, se fino ai primi anni ’80 la neutralità italiana si traduceva in una relativa non ingerenza verso le forme di auto-organizzazione nella resistenza palestinese, verso la fine della prima metà degli anni ’80 questo atteggiamento muta radicalmente e nel volgere di poco tempo l’Italia diventa il paese europeo con il maggior numero di militanti della resistenza palestinese imprigionati.

All’aumento dei prigionieri arabo-palestinesi nelle carceri italiane, corrisponde anche un salto di qualità nel loro trattamento. Se prima i pochi prigionieri avevano di fatto un riconoscimento politico, sia per quanto riguarda la reale effettuazione della pena che per lo stesso trattamento carcerario, in seguito questo informale status di prigionia politica cede il passo ai vari accordi internazionali che, equiparando le lotte di liberazione in ogni parte del mondo alla categoria del terrorismo, utile a nascondere le ragioni sociali e politiche di tali lotte, fa sì che i prigionieri comincino ad essere usati come veri e propri ostaggi e come forma di pressione contro la resistenza palestinese. Per la prima volta i prigionieri arabo-palestinesi vengono immessi nel circuito delle carceri speciali e sottoposti ai peggiori trattamenti di distruzione psico-fisica che di fatto integrano e prolungano le tecniche di annientamento messe in atto nei campi di concentramento sionisti. Il trattamento dei prigionieri tende a diventare il mezzo per condizionare le scelte politiche delle diverse organizzazioni della resistenza palestinese nella sua lotta di liberazione. Inoltre l’individualizzazione del trattamento messo in atto negli speciali, trasforma questi luoghi in laboratori in cui sperimentare le tecniche di frantumazione della resistenza palestinese. In pratica le sperimentazioni vengono effettuate immettendo negli speciali i militanti rivoluzionari per verificare, dividere e catalogare le reazioni dei prigionieri in relazione alla provenienza organizzativa ed accumulare conoscenza controrivoluzionaria utile non solo a differenziare più scientificamente i prigionieri ma anche ad usare questa conoscenza al fine di poter operare chirurgicamente nel corpo palestinese in rivolta.

In questo quadro si inseriscono tutte le forme di compressione al fine di sperimentare anche contro di noi i sistemi, già affinati precedentemente, atti a creare artificiosamente la figura del dissociato.

Il carcere speciale di Livorno ha indubbiamente questo tipo di funzione. La relativa concentrazione di militanti rivoluzionari arabo-palestinesi (siamo in cinque di cui tre nella sezione speciale) lungi dall’essere una concessione per far riunire in un carcere i prigionieri politici arabi, come abbiamo anche chiesto più volte, corrisponde al tentativo di creare contraddizioni tra di noi ed indebolire così la nostra identità. La gestione rigidamente militare di questo carcere non è nient’altro che la versione occidentale dei campi di concentramento di Ansar, Ashkelon, ed altri… La dissacrazione dei simboli della nostra lotta, della nostra cultura, le aggressioni, il rifiuto opposto alle più elementari richieste, l’asfissiante e disumano controllo quotidiano e persino la registrazione scritta di ogni attimo dell’ attività giornaliera di ogni singolo prigioniero, sono solo alcuni aspetti del trattamento riservatoci. Questo trattamento però, contrariamente ai suoi intenti, sta creando in noi solo una maggiore coscienza di tutto ciò che si nasconde dietro la maschera amica del governo italiano, e per questo noi non possiamo far altro che ringraziare il Ministero di Grazia e Giustizia, perché di questa nuova coscienza saprà fare tesoro il Popolo Palestinese nella scelta dei suoi amici.

Nasconderci in questi sepolcri o disperderci nelle prigioni o isolarci totalmente come nelle celle di Marassi (il carcere di Genova) non servirà a nascondere, disperdere e isolare la lotta del Popolo arabo-palestinese di cui siamo parte integrante.

Intifadah fino alla vittoria!
Solidarietà con il popolo palestinese!
Solidarietà con il popolo libanese!
Unità del fronte antisionista-antimperialista
Unità del movimento di liberazione araba!
Onore ai martiri di Yarun (Sud Libano)
Onore agli eroi di Ismailia (Egitto)

Hamidan Karmawi, Militante rivoluzionario arabo-palestinese

Carcere speciale di Livorno

15 febbraio 1990

Napoli: Lottare insieme. Alcune compagne del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta del carcere di Latina. Susanna Berardi, Anna Cotone, Natalia Ligas, Rosa Mura, Caterina Spano, Maria Pia Vianale

Nella prima metà di febbraio si è manifestata un’iniziativa di forte solidarietà a fianco dei compagni del “Blocco B” di Novara da parte dei prigionieri rivoluzionari nelle carceri speciali italiane.

La risposta del corpo prigioniero al pestaggio del 30 gennaio è stata un’azione piena del senso di collettività, del senso di lotta per l’identità rivoluzionaria e contro ogni progetto di annientamento. Un’iniziativa, inoltre, consapevole del significato politico di quello che è stato messo in atto contro i nostri compagni e allo stesso tempo diretto contro tutti noi.

Insieme a noi si sono mossi compagni e collettivi del movimento rivoluzionario. È stato un fatto importante, ciò dimostra che il significato complessivo della truppa di Novara è chiaro a molti oltre che a noi.

In quest’ultimo anno, qui in Italia, abbiamo visto gli “sgoccioli politici” dell’ipotesi soluzionista e affini, che ha svelato il suo definitivo carattere di “commercio” seppur rivestito di una supposta dignità. Si è concluso il processo di Insurrezione a cui lo stato voleva dare un carattere di “fine di un ciclo” per calare una definitiva cortina di silenzio sulla storia rivoluzionaria degli ultimi venti anni. È stato anche fatto giocare il dato degli arresti dei compagni BR-PCC per accreditare questa presunta “chiusura di un ciclo”; a tal fine si adoperano – per la verità in modo abbastanza fallimentare – tutte le ipotesi di lettura depoliticizzate della storia, del presente e del futuro della guerriglia metropolitana.

È chiaro dunque, che i fatti di Novara si inscrivono in questo contesto e nel contesto più ampio di cambiamento che si sta verificando nella gestione della crisi economica, politica e sociale della borghesia imperialista in questa fase, del rinnovarsi qualitativo delle tensioni in ogni ambito proletario e delle spinte verso la politicizzazione che l’antagonismo di classe genera.

La qualità dell’attacco dispiegato che a vari livelli si sta attuando contro ogni espressione dell’antagonismo di classe in realtà non paga abbastanza per la loro necessità di “governo” delle contraddizioni. Essa è solo annientamento per la classe, ma non riesce a rafforzare la loro normalizzazione.

Essa tradisce solo la loro paura, e la loro possibilità è unicamente quella di intervenire frontalmente prima che le contraddizioni sociali, l’antagonismo di classe e la politicizzazione delle lotte si uniscano ed evolvano verso un nuovo e diverso sviluppo.

Tradiscono inoltre la paura di fronte all’esistenza della guerriglia in Europa Occidentale, che da venti anni è la realtà che ha aperto una falla irreversibile nel cuore del sistema imperialista e che rappresenta in maniera sempre più unitaria la prospettiva di emancipazione sociale del proletariato metropolitano.

Allo stesso modo i prigionieri rivoluzionari in Europa Occidentale – e la loro presenza politica e militante, la loro lotta – incarnano, per gli stati imperialisti, una contraddizione politica da annientare che rimanda sempre alla natura inconciliabile dello scontro tra le classi e al divenire del processo rivoluzionario nella metropoli imperialista. Per questo nelle carceri, in questi anni, si sono visti all’opera diversi progetti miranti ad attaccare l’identità dei prigionieri rivoluzionari, a “risolvere” in qualche modo la contraddizione che rappresentano. Ovunque, in Europa, nelle sezioni speciali vive l’attacco della Borghesia Imperialista e ovunque c’è la lotta contro l’annientamento.

Dal 30 novembre nelle carceri spagnole i compagni del PCE(r), dei GRAPO e dell’ETA sono in lotta con uno sciopero della fame. Il loro obiettivo concreto è riottenere il raggruppamento e porre fine alla politica di dispersione dello stato spagnolo nei loro confronti. Ma ciò che è in gioco è la liquidazione politica dei prigionieri rivoluzionari nel contesto politico di riunificazione europea che ha nel 1992 una tappa determinante. Poiché la condizione determinante per il “salto” alla globalizzazione della borghesia imperialista europea è il drastico ridimensionamento della lotta rivoluzionaria; e dunque anche della soggettività dei prigionieri rivoluzionari.

A 90 giorni di sciopero della fame di circa una cinquantina di compagni, il governo Gonzales ne sta prolungando l’agonia con l’uso continuato dell’alimentazione forzata e nessuna disponibilità a rispondere alle loro richieste, puntando in questo modo a imporre un rapporto di forza schiacciante su questo piano. È l’insieme delle politiche controrivoluzionarie al livello di integrazione raggiunto oggi che sta pesando sulla lotta e sula pelle dei compagni.

I compagni spagnoli sono parte del patrimonio di resistenza contro l’annientamento e della lotta per l’identità in Europa Occidentale. È necessario rompere il black-out attorno a loro e rompere la situazione di stallo che si è creata.

Nel carcere di Marino alcuni compagni hanno fatto una fermata all’aria in solidarietà militante internazionalista con la lotta dei compagni spagnoli.

Dalle carceri tedesche e francesi ancora una volta i militanti rivoluzionari sono mobilitati al loro fianco, per fare pesare di fronte alla controrivoluzione integrata la coesione dei rivoluzionari.

Oggi la lotta dei prigionieri rivoluzionari in Europa Occidentale è anche lotta per costruire solidarietà internazionalista come elemento politico determinante per il dibattito unitario e una comune prospettiva politica rivoluzionaria.

Uniti si vince

Lottare insieme

Solidarietà e forza per i compagni prigionieri del PCE(r), dei GRAPO e dell’ETA.

20 marzo 1990

 

Per una conoscenza critica dei lineamenti essenziali della “perestroika”. Carcere speciale di Novara, Blocco B – Il militante delle BR-PCC Sandro Padula

Premessa

Secondo i consiglieri di Gorbaciov la “perestroika” rappresenterebbe una serie di processi interdipendenti che si manifestano a livello economico, sociale, politico, culturale e scientifico.

Indubbiamente, però, le basi fondamentali della “perestroika” risiedono nella ristrutturazione economico-produttiva con cui dall’esaurito “modello estensivo” si dovrebbe passare ad un “modello intensivo” di utilizzo delle risorse naturali e della forza-lavoro. Per questo motivo il presente articolo sarà incentrato sull’analisi dei lineamenti essenziali della teoria e della prassi della “perestroika” rispetto ai problemi economici.

“Perestroika”, metodi gestionali dell’economia e sistema produttivo

Tanto per cominciare, la “perestroika” prevede una ristrutturazione economico-produttiva caratterizzata dal passaggio da metodi gestionali prevalentemente “amministrativi”, che solo in parte vennero limitati con le “riforme economiche” degli anni ’60, ad altri particolarmente basati sulla valorizzazione e sullo sviluppo dei criteri e dei rapporti “monetario-mercantili”.

La pianificazione tende a divenire più flessibile ed a combinarsi con una più profonda mercificazione dei valori d’uso. Con una determinata combinazione fra “piano” e “mercato”, mentre il sistema delle commesse statali viene notevolmente ridotto, la distribuzione dei mezzi di produzione cessa di essere centralizzata e vede accrescere il proprio grado di monetizzazione, ad esempio attraverso rapporti diretti fra le imprese produttrici di mezzi di produzione e le imprese acquirenti, oppure persino con lo sviluppo di rapporti mediati da agenzie di commercio all’ingrosso.

La “perestroika” marcia quindi sulle gambe di una più ampia autonomia economica dei principali organismi produttivi: l’impresa, il complesso di aziende, il kolchoz, la cooperativa, ecc. Questi organismi, che dovrebbero compiere un salto tecnologico complessivo per creare le basi di un “modello di sviluppo“ caratterizzato da un’alta produttività del lavoro e da un certo risparmio nell’utilizzo delle materie prime, puntano a sottoporre se stessi al pieno dominio dei soli criteri quantitativi del calcolo economico, cioè dei soli criteri di “razionalità” economica i cui parametri fondamentali sono rappresentati dagli aspetti monetari e mercantili.

Gli organismi produttivi dovrebbero inoltre adottare un “sistema di autofinanziamento e di autogestione”, ma in questo sistema l’autogestione sarebbe quasi simile a quella del “modello jugoslavo” e quindi, di per sé, non potrebbe portare allo sviluppo di una effettiva autogestione sociale e politica. A ciò bisogna aggiungere che, mentre una delle prime riforme connesse alla “perestroika” garantiva ai lavoratori il diritto di eleggere i dirigenti delle imprese, attualmente i manager vengono nominati e non più eletti.

Ad ogni modo, l’esperienza storica dimostra che l’autogestione intesa in senso strettamente economico-aziendale non garantisce di per sé un effettivo controllo dei lavoratori e della società rispetto alle condizioni concrete della produzione e della vita quotidiana e collettiva.

Precisato questo, una delle novità più importanti che emerge con l’adozione del suddetto “sistema di autofinanziamento e di autogestione” è quella secondo cui lo Stato non ha più il dovere di aiutare le imprese statali in difficoltà. In pratica un’impresa statale incapace di rispettare i propri impegni ed incapace di superare eventuali crisi non avrebbe la garanzia di ricevere aiuti statali. Al tempo stesso, anche per contrastare la tendenza alla crescita della disoccupazione, i “collettivi di lavoro” possono prendere in affitto dallo Stato l’impresa, diventando proprietari del prodotto finito, e possono pure diventare proprietari dell’impresa stessa avuta in leasing (legge sull’affitto del 23-11-1989, in vigore dal 1° gennaio ’90).

La proprietà statale, invece, tende ad essere ridotta complessivamente dall’odierno 80-85% a circa il 30%. La legge sulle forme di proprietà, approvata il 6 marzo ’90, prevede il diritto alla proprietà di Stato, collettiva, cooperativa, azionaria e quella dei “cittadini”, nonché tre diversi livelli: federale (dell’URSS), repubblicana e comunale. Questa legge stabilisce che le risorse naturali sono “patrimonio inalienabile dei popoli abitanti su un dato territorio”; inoltre prevede “la proprietà individuale” di una serie di beni (case, piccoli appezzamenti di terreno, azioni, ecc.), il connesso diritto di eredità e compravendita, nonché il diritto alla proprietà individuale di piccole-medie imprese e al relativo potere del proprietario di “concordare con un altro cittadino l’impiego del suo lavoro (manodopera)… purché ne sia garantito il pagamento, le condizioni di lavoro e i diritti economici e sociali previsti dalla legge”. Implicitamente viene esclusa la “proprietà individuale” delle grandi imprese. Queste ultime, infatti, dovrebbero rimanere statali, così come le industrie della difesa, quelle dell’energia e i servizi di particolare utilità sociale come quello ferroviario.

Rispetto all’agricoltura il 28 febbraio 1990 è stata approvata una legge che sancisce il diritto dei contadini di scegliere liberamente se lavorare in una fattoria collettiva oppure coltivare il proprio appezzamento individuale. In questo secondo caso i contadini possono dare in eredità la terra, ma non possono venderla, regalarla, ipotecarla o darla in subaffitto (vedasi Sole 24 ore, 1 marzo 1990). La legge stabilisce che le fattorie collettive debbono cedere a singoli contadini appezzamenti individuali di terra da coltivare e che i Soviet locali (di città, regione e repubblica), e non più i ministeri, debbono assegnare e controllare la gestione agraria.

In linea generale, il ridimensionamento della proprietà di Stato sembra essere sempre più complementare al processo di “snellimento” dell’apparato burocratico-statale.

La “perestroika”, infatti, tende ad eliminare gran parte della burocrazia amministrativa centrale e quella delle diverse repubbliche che compongono l’URSS. Contemporaneamente provoca la mobilità dei “lavoratori in eccesso”, proprio perché provoca la riduzione dei comparti considerati inefficienti e superflui dell’apparato burocratico e di quello produttivo. Accelera inoltre il processo di ridistribuzione della forza-lavoro fra i diversi settori e spinge verso una profonda riforma del sistema dell’istruzione.

Con la “perestroika” la quota delle donne inserite in occupazioni (remunerate) con giornata lavorativa normale potrebbe subire una leggera riduzione (oggi tale quota è di circa il 90%), mentre con diverse forme di part-time dovrebbe essere “valorizzata” l’attività socio-economica di tutti i gruppi della cosiddetta “popolazione non attiva” (pensionati, casalinghe, invalidi e studenti) allo scopo di affrontare la specifica situazione socio-demografica creatasi (come effetto storico delle perdite del periodo bellico) e per dare una risposta al problema della carenza della forza-lavoro in alcune zone del paese, nella sfera dei servizi e anche nel settore agricolo.

Dagli anni ’50 ad oggi gli occupati nel settore agricolo sono passati dal 35-40% a circa il 20% della “popolazione attiva”. Questa diminuzione è stata affiancata da fenomeni che hanno portato ad acuire il problema alimentare e all’insorgere di una carenza di lavoratori agricoli. Tale carenza, inesistente invece in una repubblica come l’Uzbekistan che si caratterizza per la crescita costante di un popolazione agricola attualmente di circa il 60%, è causata soprattutto da un livello relativamente basso di remunerazione per la forza-lavoro occupata nel settore e da cattive condizioni di lavoro. Ancora più acuto è il problema della carenza di forza-lavoro nella sfera dei servizi. Di conseguenza l’accrescimento dell’attività socio-economica della “popolazione non attiva” dovrebbe essere indirizzato soprattutto nella sfera dei servizi e dovrebbe essere effettuato anche tramite lo sviluppo di una “rete di cooperative di tipo nuovo”, una maggiore utilizzazione degli appalti e la crescita delle attività lavorative individuali.

Il Goskomtrud (Comitato statale per i problemi del lavoro) ritiene che debba essere aumentata l’occupazione connessa alle cooperative e al lavoro individuale; auspica l’ampliamento delle diversità nelle forme di organizzazione del lavoro e la suddivisione “ottimale” degli occupati fra settore industriale e settore terziario. Secondo stime di economisti sovietici, in URSS entro il 2000 potrebbe verificarsi una riduzione dell’occupazione pari a 15 milioni di unità nel settore manifatturiero delle imprese statali ed una gran parte dei lavoratori disoccupati sarebbe costretta a cercare lavoro nel settore terziario. Per questo motivo gli uffici di collocamento tendono già a trasformarsi in una rete di “centri per l’occupazione”, in una rete che avrebbe la funzione di “osservatorio delle professioni” e di offrire garanzie contro la disoccupazione.

Ufficialmente non viene rifiutato il principio di garantire la piena occupazione; si ritiene che essa dovrebbe essere realizzata in termini di “occupazione efficiente”, ma dietro il velo dell’“efficienza” si comincia ad accettare come qualcosa di normale il fenomeno della “disoccupazione temporanea”, anche visto e considerato che nella delibera comune del PCUS, del governo e dei sindacati del 29 gennaio 1988 per la prima volta in URSS si è iniziato ad usare il concetto di “sussidio di disoccupazione temporaneo”.

Le prime vittime della “perestroika”, in termini di disoccupazione più o meno “temporanea”, sono una buona fetta degli occupati nell’apparato burocratico-amministrativo, proprio perché questo apparato dovrebbe essere ridotto quasi della metà in tempi abbastanza brevi, ma già nei primi anni ’90 potrebbe cominciare a svilupparsi anche la disoccupazione in conseguenza della ristrutturazione tecnologica e produttiva.

Secondo l’economista Ilja Levin, di fronte alla suddetta dinamica, potrebbe essere necessario fare ricorso a misure già ampiamente conosciute nei paesi a capitalismo avanzato: cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, liste di collocamento straordinario, corsi di riqualificazione per i lavoratori licenziati e così via.

“Perestroika” nel sistema finanziario e creditizio

Se la “perestroika” implica una grande trasformazione nella struttura produttiva ed occupazionale, è evidente che essa solleciti anche una corrispondente e parallela trasformazione del sistema finanziario e creditizio.

Da quanto sostiene l’economista Nikolai Petrakov le entrate del bilancio statale dovrebbero essere rigidamente collegate agli indici con cui viene quantificata l’efficienza nell’uso delle risorse economiche da parte delle imprese e delle associazioni industriali; inoltre lo Stato non dovrebbe tassare i profitti realmente realizzati, ma solo le risorse economiche allocate nelle imprese (mezzi di produzione, risorse minerarie, terreni, ecc.). Ciò, comunque, non escluderebbe la tassazione, tramite imposte progressive, rispetto agli extra-profitti, anche perché questo mezzo finanziario servirebbe per tamponare gli effetti controproducenti dello sviluppo ineguale nell’ambito del sistema economico.

La spesa pubblica, invece, dovrebbe continuare a svolgere un ruolo di primo piano in relazione all’insieme degli investimenti nell’economia, ma il ruolo decisivo nelle spese di bilancio in questo campo dovrebbe essere quello dei progetti finalizzati di carattere intersettoriale, quindi rispetto alle infrastrutture produttive, ai sistemi di comunicazione, ai trasporti ed alla crescita economica nel complesso dell’URSS. Maggiori risorse finanziarie dello Stato dovrebbero essere indirizzate verso i programmi sociali, artistici, culturali e scientifici, ma contemporaneamente tendono ad essere ridotti i sussidi statali alle imprese in difficoltà. Come si è detto in precedenza, lo Stato non è più obbligato ad aiutare le imprese in difficoltà ma, oltre all’introduzione del leasing e della possibilità di acquisto delle imprese statali da parte dei “collettivi di lavoro”, è arrivato al punto di promuovere lo sviluppo della forma azionaria nei flussi di investimento. In concreto, con le società per azioni in parte potrebbero essere attutiti i problemi economici delle imprese statali in difficoltà, ma di sicuro diventa possibile lo sviluppo di una dinamica di concentrazione degli investimenti nelle aree più importanti. Petrakov sembra considerare positivo questo possibile sviluppo, ma tale opinione è solo un dito dietro il quale si nasconde il concreto pericolo di più acuti squilibri economico-sociali fra le diverse aree e le diverse repubbliche dell’URSS. Se poi, da quanto risulta, le imprese statali possono acquisire azioni di altre imprese statali, e viene così spezzato il “monopolio degli investimenti delle istituzioni centrali di gestione”, vuol dire che vengono create le condizioni idonee per lo sviluppo di veri e propri oligopoli economici. In altre parole, vuol dire che l’assetto economico dell’URSS tende sempre più ad essere caratterizzato dal dominio degli oligopoli produttivi e finanziari di Stato.

Tale tendenza risulta confermata anche dalla trasformazione del sistema bancario. A questo proposito sembra necessario un breve accenno per far capire quanto sia realistica la tendenza all’oligopolizzazione anche nel sistema bancario.

Con la “perestroika” viene superato il vecchio sistema bancario, che per tre decenni era costituito dalla Gosbank (Banca di Stato) e dalla Strojbank (Banca pansovietica per il finanziamento degli investimenti di capitale), e viene sviluppato un sistema contraddistinto da un piccolo gruppo di banche autonome e specializzate, che comunque rimangono statali.

Nel nuovo sistema bancario la Gosbank continuerà ad essere il pilastro centrale del sistema bancario, dirigendo e coordinando le banche specializzate senza però essere loro proprietaria o azionista principale.

In ultima analisi, sia a livello produttivo che bancario tendono a svilupparsi oligopoli economici di Stato e si manifesta una chiara tendenza verso il rafforzamento del potere della tecnocrazia di questi oligopoli, proprio mente si afferma la burocrazia “efficiente” nel quadro di una compressione differenziata e selettiva del potere della burocrazia delle istituzioni centrali e locali dell’URSS.

“Perestroika”, tendenza nazionalista e conflitti etnici

La crisi del “modello di sviluppo estensivo”, oltre a dischiudere ampi spazi di agibilità alla tendenza verso il potere egemonico da parte degli strati sociali tecnocratico-manageriali e dei ceti dell’alta burocrazia “efficiente”, ha pure fatto riaccendere i mai sopiti conflitti nazionali ed etnici in URSS.

Lo sviluppo dei Fronti Popolari di carattere nazionalista nelle repubbliche baltiche, i movimenti di difesa delle culture nazionali in Ucraina e Bielorussia, la rapida diffusione del movimento sciovinista russo Pamjat che coincide con la crescita dei movimenti per il diritto all’emigrazione tra i tedeschi sovietici, gli ebrei e gli armeni, le lotte violente tra azeri ed armeni ed i conflitti etnici in Kazakistan e in Jacuzia (repubblica autonoma, situata nella Siberia settentrionale, in cui la popolazione turca degli jacuti oggi rappresenta circa il 28% degli abitanti) sono tutti fenomeni che sostanzialmente vengono accentuati dalla crisi del “modello di sviluppo estensivo”.

Questo modello, fra l’altro, presupponeva una specifica politica delle nazionalità per garantire rapporti pacifici fra le numerose etnie dello Stato plurinazionale sovietico. Tale politica, a sua volta, si basava soprattutto sull’estensione dell’apparato burocratico-amministrativo in tutte le repubbliche dell’URSS e sul consenso di alcuni settori chiave di ogni gruppo nazionale.

Più precisamente, il federalismo sovietico era caratterizzato dal fatto che le nazionalità locali, nell’ambito del loro territorio, godevano di ampi privilegi, ad esempio nell’accesso all’istruzione superiore e nell’attribuzione delle professioni post-universitarie e degli incarichi amministrativi e direttivi. La politica del federalismo sovietico è poi cominciata ad entrare in crisi quando lo Stato non è riuscito a sopportare il peso dei relativi costi, e ciò è successo a partire dall’esaurimento della fase di sviluppo estensivo dell’economia. Secondo un famoso etnologo sovietico, infatti, “gli orientamenti allo sviluppo estensivo fino ad un certo momento hanno frenato l’insorgere di conflitti nel campo dei rapporti fra nazionalità, ma questi stessi orientamenti, esaurite le proprie possibilità, hanno iniziato ad agire in senso inverso, accrescendo la probabilità dell’insorgere di conflitti etnici” (A. A. Susokolov, “Etnosy pered wyborom”, in Sotsiologiceskie Osslidovinja, 6, 1988, pp. 35-36).

Inoltre, poiché la “perestroika” punta a rendere più forti i metodi meritocratici di selezione dei quadri dirigenti a tutti i livelli, quindi anche a livello di ogni singola repubblica, è evidente che in questo modo sono state ulteriormente accresciute le possibilità di esplosione delle controversie nazionali ed interetniche presenti nell’URSS.

La “perestroika” prospetta, per tutte le repubbliche dell’URSS, il passaggio dai vecchi trattamenti preferenziali dei gruppi etnici ai metodi meritocratici e tecnocratici di selezione dei quadri dirigenti, ma tale trasformazione non è per niente indolore. Sicuramente la crisi economica rende difficile l’unione in un unico Stato di numerosi popoli, ma la cultura politica della “perestroika” non garantisce lo sviluppo di un’adeguata coscienza internazionalista ed un’adeguata solidarietà e le differenze di peso economico-sociale fra le popolazioni dei diversi gruppi etnici si è conservata ed in certi casi anche rafforzata.

Oggi, ad esempio, le istanze provenienti dalle repubbliche del Baltico e dell’Asia centrale permettono di capire che i loro interessi economici sono diventati in gran parte opposti. Le repubbliche dell’Asia centrale hanno bisogno dell’aiuto economico delle altre repubbliche sovietiche per fronteggiare il boom demografico, la diffusa povertà ed i pericoli di disoccupazione di massa. Le repubbliche baltiche, invece, pur essendo ricche e pur avendo i tassi di povertà più bassi di tutta l’URSS, non intendono aiutare la popolazione dell’Asia centrale e cercano piuttosto di ampliare i propri rapporti con l’Occidente. Infatti è per questo motivo che le repubbliche baltiche, Lituania in testa, cercano di diventare indipendenti dall’URSS.

Tutto ciò significa che le controversie nazionali e inter-etniche presenti nelle repubbliche sovietiche economicamente avanzate sono quelle più minacciose per la stabilità politica complessiva dell’URSS. Con la “perestroika” lo sviluppo ineguale fra le aree e repubbliche dell’URSS potrebbe essere accentuato. Infatti, i discorsi di Gorbaciov favorevoli all’introduzione di meccanismi di “autofinanziamento repubblicano” sono il palese riflesso di una precisa decisione di abbandonare la politica di redistribuzione del reddito dalle repubbliche più ricche a quelle più povere. I problemi nazionali ed interetnici possono anzi diventare più gravi in dialettica ai possibili effetti di una “perestroika” che prospetta un rapporto di maggiore interazione fra l’URSS e l’economia mondiale.

A maggior ragione sembra necessario anche un breve accenno rispetto ai “canali di interazione” fra l’URSS ed il mercato mondiale.

“Perestroika” nei rapporti fra l’URSS e l’economia mondiale

I “canali di interazione” che secondo gli economisti sovietici dovrebbero essere sviluppati per approfondire i rapporti fra l’URSS e il mercato mondiale sono quello creditizio, quello valutario e quello istituzionale.

A livello creditizio una sola banca speciale, la Vnesekonombank (Banca per l’attività economica con l’estero), svolge una funzione a dir poco decisiva nell’organizzazione dei regolamenti economici internazionali dell’URSS, e la Gosbank dovrà invece coordinare il passaggio delle altre banche specializzate alla realizzazione di analoghe attività internazionali.

In campo creditizio, però, non si può dimenticare che l’URSS è debitrice verso i paesi a capitalismo avanzato. Pur tenendo conto del modo in cui sono ripartite le riserve valutarie, specialmente a livello di depositi interbancari, l’URSS si caratterizza soprattutto come paese debitore della bancocrazia occidentale.

Il grado di indebitamento estero dell’URSS è inferiore a quello di tutti i paesi dell’Est e del Terzo Mondo, ma è superiore a quello della maggior parte dei paesi OCSE e ciò è in palese contraddizione con il fatto che quella sovietica è una delle principali potenze mondiali. Di fronte a questa situazione l’aumento del debito estero, che alcuni economisti richiedono per aumentare le importazioni di generi di largo consumo, potrebbe avere effetti molto negativi se non venissero stabilite adeguate contromisure per frenarne lo sviluppo.

Una linea di questo tipo, infatti, priva cioè di adeguate misure controtendenziali, potrebbe trasformare il debito estero, oggi ancora ad un livello relativamente basso (è stimato in 40-50 miliardi di dollari), in un problema incontrollabile le cui conseguenze, come dimostrano numerose esperienze dei Paesi dell’Europa dell’Est e del Terzo Mondo, sarebbero politicamente destabilizzanti.

Oltre ai suddetti flussi strettamente creditizi, il canale creditizio comprende anche una relazione diretta con il mercato internazionale dei capitali, attraverso i tassi di interesse. Con lo sviluppo della possibilità di prendere in prestito valuta estera ai tassi di interesse praticati sul mercato internazionale, le imprese sovietiche andranno a scaricare questo “servizio del debito estero” nel calcolo dei propri costi e prezzi. Inoltre, per fare in modo che le imprese sovietiche siano attratte dai prestiti in valuta estera e l’URSS abbia le riserve valutarie estere necessarie a garantire una più attiva presenza del paese a livello di mercato mondiale, i tassi di interesse sovietici dovrebbero cessare di essere bassi e cominciare ad omologarsi a quelli principali che vengono stabiliti sul mercato internazionale.

Il “canale creditizio” comprende anche i flussi di capitale azionario. In genere questi flussi si presentano nella forma di investimenti azionari stranieri che contribuiscono alla creazione ed allo sviluppo delle “imprese miste”.

Con decreto del 13 gennaio 1987 n. 49, in URSS è possibile effettuare collaborazioni internazionali attraverso le “società miste”, cioè attraverso le “joint ventures”. In queste imprese attualmente il capitale straniero non supera il 49% del pacchetto azionario, la direzione rimane sovietica e l’imposizione sul profitto costituisce il 30%, più il 20% dei profitti trasferiti all’estero. Molte imprese dei paesi a capitalismo avanzato rimangono interdette di fronte a queste regole ritenute troppo rigide, ma se venisse dato ascolto al parere degli economisti sovietici tali condizioni potrebbero essere modificate prendendo a modello di riferimento l’esperienza cinese, dove esiste un sistema di zone economiche speciali per gli investimenti delle “imprese miste” e delle imprese straniere, dove le “imprese miste” sono alcune migliaia e la loro direzione può essere straniera per una decina di anni.

A quanto pare, solo a Nakhodka, porto sovietico in Estremo Oriente, dovrebbe essere stata avviata una zona economica speciale e si tratta di una zona che garantisce l’esenzione delle imposte per tre anni alle imprese straniere ed a quelle “miste”.

Oltre a ciò, occorre precisare anche che il “canale creditizio” fra l’URSS ed il mercato mondiale dovrebbe essere completamente rinnovato.

La “strategia creditizia” dell’URSS, infatti, prevede l’aumento del numero dei mutuatari autorizzati del paese nei confronti dell’estero, lo sviluppo del numero e della diversificazione dei creditori esteri, nonché l’arricchimento della gamma degli strumenti finanziari utilizzati (prestiti, assicurazione dei rischi, “ottimizzazione” della struttura del debito). Con questa “strategia creditizia”, inoltre, si ritiene necessario individuare nuovi mercati per quanto riguarda le valute e viene auspicato lo sviluppo di “operazioni attive” (investimenti; partecipazione all’organizzazione di prestiti obbligazionari; di crediti sindacati, cioè di crediti assicurati da un gruppo di banche) a livello internazionale.

Invece, per quanto concerne il “canale valutario” tra l’URSS ed il mercato mondiale, esso dovrebbe essere sviluppato a partire dalla determinazione di un corso del rublo accettabile dal sistema monetario internazionale egemonizzato dalle valute dei principali paesi capitalistici avanzati (USA, RFT, Giappone) e poi dovrebbe essere promossa la nascita del rublo convertibile.

In una prospettiva di medio periodo il ruolo principale del cambio, che verrà stabilito quotidianamente dalla Gosbank, diventerebbe quello di accrescere le esportazioni sovietiche (soprattutto quelle industriali) nei paesi OCSE.

Il corso del cambio dovrebbe rendere redditizia la maggior parte delle esportazioni industriali dell’URSS, ma questa scelta richiederebbe per forza di cose l’immediata svalutazione del rublo e quest’ultima, a sua volta, sarebbe accompagnata dal maggior costo delle importazioni e dalla crescita dei prezzi interni.

Insomma, si determinerebbe una situazione non certo gradita ai lavoratori, alle masse sovietiche ed in modo particolare alle popolazioni povere dell’Asia centrale.

Il corso del cambio dovrebbe esprimere in maniera adeguata il potere d’acquisto del rublo rispetto al mercato mondiale, e i prezzi interni verrebbero correlati a quelli internazionali attraverso un’operazione complessa che, oltre a considerare le principali aree valutarie del mondo ed un variegato paniere di merci, avrebbe il non certo facile compito di tener presente le differenze, fra la situazione interna e quella internazionale, per quanto riguarda i costi della forza-lavoro e la produttività del lavoro.

Per giungere alla convertibilità del rublo come minimo ci vorranno diversi anni perché essa necessita, dal punto di vista delle condizioni idonee, una profonda trasformazione del sistema monetario, l’attivazione di un mercato valutario interno e lo sviluppo della convertibilità nell’ambito del Comecon, e solo dopo tutti questi passaggi potrebbe essere realizzata la piena convertibilità del rublo con le monete dei paesi a capitalismo avanzato.

Nel periodo di transizione non è escluso che venga valorizzata in termini di scelte concrete l’esperienza di circolazione “parallela” di due valute effettuate in URSS negli anni 1922-1924: il sovznac, che era carta-moneta tendente alla svalutazione, ed il cervonec, che invece aveva una determinata copertura aurea. Con quella “doppia circolazione” di valute il cervonec riuscì a sostituire il sovznac ed in seguito, per un po’ di tempo, l’URSS ebbe una valuta convertibile. Attualmente la situazione è molto diversa, basti pensare alla demonetizzazione dell’oro, ma una circolazione “parallela” di due valute potrebbe accelerare, sia pure in modo non certo indolore, il passaggio ad un’unica valuta convertibile.

Anche in riferimento al “canale istituzionale” fra l’URSS ed il mercato mondiale, che poi è un aspetto suscettibile di svelare abbastanza bene i riflessi politici del “nuovo corso sovietico” nell’ambito dello scenario globale, vengono preannunciati passi significativi verso la partecipazione di questo paese a diverse istituzioni economiche e finanziarie internazionali attualmente egemonizzate dai paesi a capitalismo avanzato.

L’URSS è già pronta ad aderire al GATT, è stata fra i principali paesi che hanno promosso la stipulazione di trattati fra il Comecon e la CEE, ha stabilito accordi economici pluriennali con la CEE, sta smussando le obiezioni interne ad una propria partecipazione alla Banca dei regolamenti internazionali ( a cui partecipano già quasi tutti i paesi dell’Est europeo) oppure – ad esempio – alla Banca Asiatica di sviluppo. Inoltre ci sono forti polemiche, all’interno del PCUS, e preventive opposizioni da parte di diversi paesi a capitalismo avanzato (specialmente da parte degli Stati Uniti) a proposito dell’opportunità di una partecipazione dell’URSS al FMI ed alla Banca Mondiale.

In linea generale, lo sviluppo dei “canali di interazione” fra l’URSS ed il mercato mondiale tende ad approfondire più che a smussare le principali contraddizioni esistenti a livello interno ed internazionale.

“Perestroika“ e sistema politico-istituzionale

La ristrutturazione dell’economia sovietica e la tendenza ad una più attiva interazione fra l’URSS ed il mercato mondiale producono una “sinergia” per utilizzare e valorizzare la quale, di fronte all’acuirsi delle contraddizioni sociali ed inter-etniche, è necessario il supporto di un sistema politico-istituzionale di tipo nuovo.

In questo quadro si colloca il varo della repubblica presidenziale e la modifica degli articoli costituzionali che prevedevano il ruolo guida del PCUS. Questa scelta, effettuata il 13 marzo 1990 dal “Congresso dei deputati del popolo”, sancisce la nascita dello “Stato di diritto” in URSS e dimostra che la transizione verso criteri di gestione economica basati sul rafforzamento dei rapporti monetario-mercantili è affiancata dalla transizione verso criteri di governo politico-istituzionali incentrati su regole del gioco in cui denaro e diritto fungono da referenti astratti della connessione dei rapporti sociali.

Mentre il sistema sociale in URSS diventa, in modo chiaro e legale, un sistema ad economia mista con oligopoli di Stato ed i rapporti sociali di produzione tendono ad essere caratterizzati dall’egemonia dei ceti tecnocratici, il sistema politico-istituzionale tende ad affermare il formalismo delle regole e del diritto.

In questa maniera, al di là delle riforme politiche che in apparenza rilanciano i Soviet, viene prospettata una soluzione tecnocratica alla crisi di un sistema sociale e politico che, burocratizzandosi e sclerotizzandosi, non è riuscito a garantire lo sviluppo di adeguate forme di democrazia diretta e sostanziale, e quindi non è neanche riuscito a promuovere una politicizzazione rivoluzionaria di massa, una reale fratellanza fra i popoli dell’URSS ed una crescita adeguata della coscienza internazionalista a favore delle lotte rivoluzionarie che si determinano nel mondo.

Conclusioni

La “perestroika” è una particolare risposta alla crisi economica e politica dell’URSS, e questa crisi in parte è stata determinata ed accelerata dalle dinamiche di crisi-ristrutturazione dell’assetto capitalistico internazionale iniziate alla fine degli anni ’60 e tuttora in corso.

Gli sbocchi della “perestroika“ sono incerti. In URSS, infatti, le contraddizioni sociali tendono ad accentuarsi piuttosto che a vedere ridotto il proprio grado di intensità; l’ormai evidente formazione legalizzata di un’economia mista con oligopoli di Stato è affiancata dalla crescita del potere della tecnocrazia e dalla polarizzazione fra “aree avanzate” ed “aree arretrate”. Tendono inoltre ad accentuarsi i conflitti nazionali ed inter-etnici; cresce la povertà, che già colpisce circa 40 milioni di persone (pari ad un settimo della popolazione complessiva dell’URSS); aumenta la mobilità della forza-lavoro ed il “costo della vita”.

A livello globale, invece, l’effetto più sicuro della “perestroika” dell’URSS è quello di rafforzare moltissimo la capacità di attrazione del mercato mondiale (anche sugli altri paesi del Comecon), ma proprio su questa base tende a svilupparsi un processo di grande accumulazione di tutte le contraddizioni esistenti su scala planetaria. Detto in altre parole, la massima forza di attrazione del mercato mondiale è, infatti, la precondizione della massima condensazione delle sue principali contraddizioni storicamente determinate.

In questo senso la “perestroika” è un fenomeno che, oltre a rendere più dinamica la lotta fra le classi in URSS, contribuisce ad approfondire le contraddizioni nel mondo piuttosto che a creare un clima di effettiva distensione internazionale.

Ormai è chiaro che l’URSS intende rinnovare l’economia del paese per colmare il “gap tecnologico” rispetto ai paesi a capitalismo avanzato e per mantenere la parità militare con gli USA e, nei limiti del possibile, fra i due blocchi (Nato e Patto di Varsavia).

I sovietici sanno benissimo che senza rinnovamento della propria economia i rapporti di forza globali verrebbero drasticamente alterati a vantaggio degli USA e degli altri paesi a capitalismo avanzato. Al tempo stesso in URSS il settore produttivo dei “mezzi di produzione” non riesce di per sé a garantire un complessivo rinnovamento economico del paese. Da ciò deriva, in modo particolare, la spinta sovietica ad incrementare i rapporti col mercato mondiale.

Contemporaneamente la borghesia imperialista, cioè la grande borghesia mondiale che ha il “retroterra” del proprio potere nei paesi a capitalismo avanzato,spera che in URSS la ristrutturazione economica giunga a scardinare la proprietà statale e “collettiva” delle grandi imprese. Spera inoltre che l’URSS, come già sta succedendo in diversi paesi dell’Est europeo, diventi territorio completamente libero alla penetrazione delle imprese capitalistiche e delle banche private transnazionali.

In questo senso la contraddizione fra i paesi a capitalismo avanzato ed i paesi, come l’URSS, ad economia mista egemonizzata da oligopoli di Stato è una contraddizione destinata ad accentuarsi a causa delle dinamiche che spingono verso l’espansione del dominio delle imprese capitalistiche e delle banche private transnazionali.

In particolare è destinata ad accentuarsi la contraddizione fra Stati Uniti ed URSS, anche perché i primi – al di là delle belle parole – cercano di ostacolare una più attiva presenza dell’URSS rispetto al mercato mondiale.

D’altra parte, “le continue barriere politiche che gli Stati Uniti frappongono ad una crescita degli scambi con l’URSS, e che riescono ad imporre con più facilità al Giappone che all’Europa Occidentale, lasciano come unica alternativa all’URSS quella di accrescere i rapporti con l’Europa Occidentale che comunque già assorbe oltre l’80% degli scambi sovietici con il mondo capitalista. Peraltro la struttura produttiva dell’URSS e quella dell’Europa Occidentale hanno un buon grado di complementarietà e solo in alcuni settori c’è una sovrapposizione come nella siderurgia e nel settore aerospaziale; più precisamente nel settore aerospaziale esiste un chiaro predominio sovietico” (Riccardo Parboni, “Il materialismo storico e la crisi mondiale”, pag. 53, in Dinamiche della crisi mondiale, A. A. V. V., Editori Riuniti, 1988).

Tutto ciò significa che il contenzioso fra USA ed URSS, in quanto contraddizione fra le due principali potenze politico-militari mondiali, vive in un quadro caratterizzato da una grande trasformazione tecnologico-produttiva che attraversa tutte le aree industrializzate e che condiziona tutte le principali dinamiche economiche, politiche e militari a livello mondiale. Questo quadro è lo stesso in cui, mentre nei paesi capitalistici avanzati vengono effettuati numerosi investimenti nei nuovi settori (microelettronica, biotecnologie, spaziale, fusione nucleare, ecc.), c’è la possibilità che in futuro la tendenza alla sovrapproduzione di capitale coinvolga proprio i nuovi settori.

A quel punto la tendenza alla sovrapproduzione di capitale uscirà di nuovo dallo stato di latenza e provocherà nuove e gravi recessioni, creando così condizioni suscettibili di alimentare nuove e forti tensioni nelle relazioni internazionali. Se poi le tensioni dovessero superare i limiti di “tollerabilità”, molto probabilmente gli USA tenderanno a fare dell’URSS il capro espiatorio a cui attribuire la responsabilità principale della situazione di logoramento delle relazioni internazionali. Non a caso, già oggi, gli USA sono all’avanguardia nella ricerca scientifica per cercare di rendere realizzabili scontri nucleari al di sotto dell’olocausto totale e per cercare di rendere calcolabile una guerra contro l’URSS mediante l’utilizzo di armi di nuova qualità (armi neutroniche, nucleari tattiche e chimiche).

I governanti dell’URSS sono consapevoli dei rischi bellici connessi alla presente e grande trasformazione tecnologico-produttiva dei paesi a capitalismo avanzato e per questo motivo l’ideologia che funge da supporto alla “perestroika” considera la “pace” sulla terra e la “sopravvivvenza dell’umanità” come principali obiettivi da realizzare nel mondo. D’altra parte questa ideologia è talmente incosciente da prospettare la realizzazione di tali obiettivi proprio all’interno di un contesto in cui i vincoli del mercato mondiale opprimono la vita di miliardi di donne, uomini e bambini.

Al di là dei suoi richiami formali al marxismo-leninismo, è un’ideologia che annichilisce i principi dell’internazionalismo proletario, della lotta di classe e della solidarietà rivoluzionaria internazionalista.

Per questo motivo concreto, e non tanto per purezza ideologica, le forze rivoluzionarie presenti nel Terzo Mondo e nei paesi a capitalismo avanzato non possono assolutamente far propria l’ideologia del “nuovo corso” dell’URSS. In caso contrario ne trarrebbero vantaggio la grande borghesia dei paesi a capitalismo avanzato e le forze controrivoluzionarie del Tricontinente.

Il principio di un equilibrio di interessi che l’URSS ha proposto per risolvere i conflitti regionali e rivoluzionari nel mondo è una scelta finalizzata alla ricerca di “soluzioni politiche” ad ogni costo. In genere, però, come dimostrano i sionisti in Palestina, le forze controrivoluzionarie conoscono una sola “soluzione politica” ed è quella rigidamente subordinata alla strategia dell’annientamento nei riguardi delle forze rivoluzionarie. Pertanto le forze rivoluzionarie in attività nel Terzo Mondo e nei paesi a capitalismo avanzato sono costrette a sviluppare una lotta rivoluzionaria di lunga durata per modificare i rapporti di forza a svantaggio del nemico e per fare ciò debbono rinnovare la propria strategia ed approfondire l’unità nella lotta su scala internazionale e particolarmente nelle diverse aree in cui operano.

In pratica, la progettualità di queste forze rivoluzionarie può rinnovarsi in modo adeguato soltanto se riesce ad essere un’arma nella lotta contro la grande borghesia e le forze controrivoluzionarie, quindi contro un sistema capitalistico internazionale che opprime e sfrutta la maggior parte dell’umanità.

Nei paesi a capitalismo avanzato e nei paesi del Tricontinente una conoscenza critica della “perestroika” è una delle condizioni indispensabili per fare in modo che le forze rivoluzionarie, oltre a non cadere nelle sabbie mobili delle “soluzioni politiche”, rinnovino la propria progettualità per essere all’altezza del livello raggiunto dallo scontro di classe nel mondo.

Nella direzione di un rinnovamento della progettualità rivoluzionaria deve essere chiaro però che il presente articolo è solo un contributo al dibattito e non ha certo la pretesa di essere qualche altra cosa! A buon intenditor… poche parole!!

 

Il militante delle BR-PCC, Sandro Padula
Carcere speciale di Novara, Blocco B

25 aprile 1990

Prima Corte d’Assise di Roma, Processo “Tarantelli”, Dichiarazione di Antonino Fosso allegata agli Atti.

Come militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente mi riconosco nell’interezza dell’attività rivoluzionaria della mia Organizzazione e ribadisco la validità politica di ogni atto concreto in cui tale attività si è espletata.

Attività che ha rappresentato e rappresenta i reali percorsi politici compiuti dall’avanguardia rivoluzionaria in questo paese, all’interno del più generale scontro di classe.

Essa si esplicita e si dispiega con l’unica strategia adeguata, al livello raggiunto dallo sviluppo capitalistico, per mettere in discussione il potere della borghesia: la lotta armata per il comunismo, attraverso la quale inoltre si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe in grado di sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato.

Le Brigate Rosse hanno coscientemente perseguito tale obiettivo in tutte le fasi in cui, attraverso l’intervento controrivoluzionario dello Stato, la borghesia aveva ottenuto dei grossi successi, riuscendo a recuperare le conquiste politiche e materiali ottenute dalla classe e dalle sue avanguardie in anni di dure battaglie.

Proprio nei momenti più duri per il processo rivoluzionario, le Brigate Rosse non solo hanno mantenuto aperta l’opzione rivoluzionaria ma sono riuscite, per quanto parzialmente, ad effettuare dei passaggi politici significativi per lo sviluppo del processo stesso, dimostrando nei fatti e contro il perpetuo ripresentarsi di varie forme di opportunismo liquidazionista, non sempre mascherato, la necessità – possibilità concreta di incidere nei rapporti di forza generali tra le classi.

La controffensiva sviluppata dallo Stato nel corso degli anni ’80 si è basata principalmente sul presupposto che senza assestare un duro colpo alla guerriglia non si sarebbe potuto procedere alle ristrutturazioni economiche che la crisi rendeva impellenti, sviluppando una dinamica che, a partire dall’attacco alle Brigate Rosse, ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe (calibrata s’intende ai vari livelli), costruendo i termini di nuovi rapporti di forza a favore dello Stato.

Da ciò genera un clima politico idoneo all’approfondimento delle forme stesse di dominio della borghesia imperialista.

In concreto è stato possibile per la borghesia intraprendere la selvaggia ristrutturazione industriale (che vide la Fiat capofila nell’attacco alla classe operaia per spezzarne la rigidità, per rompere con “l’anomalia italiana”), per poter meglio integrarsi al resto dei paesi imperialisti che esprimevano migliori condizioni politico-economico-sociali per la riproduzione del capitale.

L’obiettivo a breve termine per la borghesia fu quello, che già le Brigate Rosse definirono, della regolamentazione istituzionale del rapporto antagonista tra le classi, che si riferisce alle condizioni ed ai meccanismi di compravendita della forza-lavoro; ratifica giuridico-legislativa dei rapporti di forza generali fra classe operaia e padronato dal punto di vista degli interessi borghesi.

Nel contesto mutato, in una fase tutt’ora aperta della Ritirata Strategica, il merito maggiore delle BR è quello di riaffermare nella pratica la validità della lotta armata come strategia.

Strategia che rende esplicito il rapporto di guerra che vige nello scontro tra proletariato e borghesia.

Riaffermando l’asse d’intervento strategico che caratterizza la continuità delle Brigate Rosse nella loro storia: l’attacco al cuore dello Stato, attacco alle politiche dominanti che nella congiuntura oppongono il proletariato alla borghesia; attacco che mira a rompere gli equilibri politici che fanno marciare i programmi della borghesia imperialista, sviluppandone da una parte le contraddizioni e dall’altra aprendo spazi politici allo sviluppo dell’autonomia di classe.

Conseguentemente dunque al quadro generale determinatosi, ha assunto un aspetto significativo l’iniziativa Giugni prima e Tarantelli poi.

Quest’ultima in particolare, dato che è andata a colpire uno dei massimi ideatori delle tappe più importanti tradotte in pratica dai governi succedutisi: dalla riforma del mercato del lavoro (chiamata nominativa, mobilità, part-time) a quella del salario (blocco e predeterminazione dei punti di contingenza, diversificazione salariale sottomessa alla produttività) a quella più generale della trattativa centralizzata Governo-Confindustria-Sindacati che sancisce il modello neo-corporativo.

“Patto sociale neo-corporativo” che tende ad essere sancito con varie forzature, grazie al quadro dei rapporti di forza tra le classi mutato: dal terrorismo del padronato in fabbrica a quello di Stato nei confronti dell’intero proletariato, attuato con licenziamenti, ricatti per chi resta nei posti di lavoro, alla criminalizzazione di massa per ogni forma di antagonismo espresso. Nonostante ciò la borghesia non riesce ad eliminare la conflittualità dai caratteri fortemente resistenziali, ma non meramente difensivistici, che nei settori più maturi rappresenta la continuità con l’autonomia di classe che si è sviluppata storicamente in Italia con l’apporto fondamentale della guerriglia.

Il carattere della mediazione politica che si afferma con lo sviluppo ulteriore dell’imperialismo affina costantemente la controrivoluzione preventiva come politica intrinseca degli Stati a capitalismo maturo, insita cioè negli strumenti ed organismi della democrazia rappresentativa, dando una precisa caratterizzazione al rapporto conflittuale tra le classi allo scopo di istituzionalizzarlo e mantenerlo entro gli steccati della compatibilità borghese per non farlo collimare con il piano rivoluzionario, dove tale processo è avviato.

La classe ha dovuto confrontarsi inoltre con i nuovi termini delle relazioni industriali propri del neo-corporativismo, atto ad imbrigliare e depotenziare ogni possibilità di espressione dell’autonomia di classe.

I tentativi da essa attuati per organizzarsi al di fuori di tali gabbie hanno prodotto di riflesso le cosiddette crisi di rappresentanza del sindacato e il continuo ridimensionamento del peso e del ruolo del PCI.

La peculiarità italiana ha prodotto da parte borghese dei progetti politici con cui si è misurata l’avanguardia rivoluzionaria dall’Unità nazionale di Moro, al patto sociale neo-corporativo, sino al più complesso tentativo demitiano di rifunzionalizzazione dei poteri e degli apparati dello Stato attraverso le modifiche istituzionali indispensabili a determinare un quadro politico stabile.

Progetto politico, quest’ultimo, lucidamente perseguito dal suo massimo ideatore: l’ex senatore Ruffilli, uomo di punta che in questi anni ha guidato la DC su questo terreno, sapendo ricucire, attraverso forzature e mediazioni, tutto l’arco delle forze politiche intorno a questo progetto, comprese le opposizioni istituzionali. Cosa che non sembra riuscire con altrettanta abilità ai suoi successori dato anche l’intervento della guerriglia che ha ulteriormente divaricato le contraddizioni dentro questo delicato passaggio della borghesia imperialista nostrana.

Progetto quindi fondamentale, in quanto teso ad affinare la democrazia formale, come sviluppo delle forme di dominio della borghesia imperialista e sancire l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi borghesi. In sostanza ratificare ed assestare i rapporti di forza tra classe e Stato al nuovo livello degli equilibri determinatisi.

Passi già compiuti con alcune riforme tese a rafforzare il potere dell’Esecutivo, imposizione di nuove regole del gioco che tradotte in pratica portano tra l’altro ad ulteriori forzature sul piano della contrattazione della compravendita della forza-lavoro, o meglio la modificazione stessa dei termini della contrattazione.

Modificazione che sottende un ulteriore aggravamento delle condizioni politiche e materiali della classe, incontrando per questo una vasta resistenza ed opposizione nel campo proletario.

Nelle varie fasi attraversate c’è una sorta di legame di ogni progetto politico della borghesia imperialista in questo paese, sostanzialmente volti a sconfiggere ogni possibilità di rottura rivoluzionaria, dare risposte allo sviluppo della crisi ed adeguarsi ai mutamenti avvenuti anche a livello internazionale.

Nello stesso tempo è evidente la continuità politica che ha legato l’attività delle Brigate Rosse nel contrastare e disarticolare i disegni criminosi della borghesia, attaccandone i progetti politici dominanti, dando prospettive di potere alla lotta di classe, contribuendo a determinare in sostanza lo spessore politico raggiunto dal movimento di classe, dato dal legame dialettico con l’attività rivoluzionaria diretta dalle BR, per la propositività che la proposta strategica della lotta armata alla classe ha determinato sul terreno rivoluzionario.

In sintesi è la dialettica: attività della guerriglia-autonomia di classe, che ha sedimentato una base di qualità che permane e si riproduce nel rapporto di scontro tra campo proletario e Stato. Non meccanicamente ma costretta dal livello di scontro raggiunto ed in cui le parti in causa hanno contribuito.

Una base di qualità che ha infatti prodotto, nei diversi momenti dello scontro, avanguardie rivoluzionarie e processi di aggregazione e organizzazione conseguenti.

Un ruolo rilevante ha giocato in ciò la capacità dell’avanguardia armata, che, nel vivo dello scontro, ha dovuto e saputo compiere quei salti politici che rientrano nel generale riadeguamento intrapreso dalle Brigate Rosse e che segnano un punto di non ritorno per il prosieguo stesso del processo rivoluzionario. I rovesci subiti non inficiano tali passaggi qualitativi, quanto invece evidenziano la complessità della fase di Ritirata Strategica al cui interno si colloca la ricostruzione e l’assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie e degli strumenti politico-militari per attrezzare il campo proletario nello scontro prolungato contro lo Stato. Salti politici evidenziati nella pratica di questi anni e sedimentati qualitativamente con l’attacco alle “Riforme istituzionali” e con la scelta politica del Fronte Combattente Antimperialista in cui l’alleanza RAF-BR ha sancito l’unità di forze rivoluzionarie nell’attacco alle politiche dominanti dell’imperialismo, come già affermato nel testo comune del settembre ’88.

Antonino Fosso militante delle Brigate Rosse per la costruzione del PCC

Roma, 12 luglio 1990