Archivi categoria: Azione rivoluzionaria

Azione rivoluzionaria

Scheda storica

1977
Marzo
I compagni non dimenticano!

Luglio
Comunicato sull’attacco contro la costruzione delle nuove carceri di Firenze e Livorno

Settembre
Volantino relativo a una azione realizzata a Milano

Ai compagni del movimento

Rivendicazione dell’attacco alla sede delle Edizioni Paoline

Comunicato del nucleo Armato Rico e Attilio

1978
Gennaio
Primo documento teorico

Febbraio
Il bunker della libertà

Marzo
Volantino distribuito a Carrara durante il terzo congresso delle Federazioni Anarchiche

Giugno
Attacco alla sede della DC di Aosta

Comunicato dell’Araf (Azione Rivoluzionaria Autonomia Femminista)

Appunti per una discussione interna ed esterna

Primo documento teorico

«La borghesia può far esplodere e distruggere il suo mondo prima di abbandonare la scena della storia. Noi portiamo un nuovo mondo qui, nei nostri cuori. Quel mondo sta crescendo in questo istante.» (B. DURRUTI)

È vero quanto scrive Debord che la “vita quotidiana è misura di tutte le cose: della realizzazione o piuttosto della non realizzazione di rapporti umani, dell’uso che noi facciamo del nostro tempo”. E’ pacifico che il fine della rivoluzione oggi debba essere la liberazione della vita quotidiana. Una rivoluzione che mancasse di realizzare questo fine sarebbe una controrivoluzione. Siamo NOI che dobbiamo essere liberati, le nostre vite quotidiane, non universali, come “storia” o “società”. La liberazione rivoluzionaria ci si presenta come una autoliberazione che raggiunge dimensioni sociali, non una “liberazione di massa” o una “liberazione di classe” dietro cui si nasconde sempre un’élite, una gerarchia, uno Stato. Qualsiasi gruppo rivoluzionario che voglia sinceramente eliminare il potere dell’uomo sull’uomo deve spogliarsi delle forme del potere – gerarchie, proprietà, feticci – come dei tratti burocratici e borghesi che consciamente o inconsciamente rafforzano autorità e gerarchia e deve essere soprattutto consapevole che il problema dell’alienazione esiste per tutti, che, cioè è propria di tutti i gruppi organizzati “la tendenza a rendersi autonomi, cioè ad alienarsi dal loro fine originale e a divenire un fine in se stessi nelle mani di quelli che li amministrano”. Ciò è macroscopicamente vero per i partiti ufficiali ma è vero in generale. Il problema non può che essere risolto completamente che nel processo rivoluzionario stesso, parzialmente con un drastico rifacimento del rivoluzionario e del suo gruppo. Azione Rivoluzionaria è stato definito un “gruppo anarchico”, con gran dispiacere, pare, delle cariatidi ufficiali che pretendono il monopolio del termine. Ciò che ha spinto a riunirci è invero un’affinità nelle nostre rispettive esperienze culturali che si può definire anarco-comunista. Una delle prime azioni del gruppo, il ferimento di Mammoli, il medico assassino dell’anarchico Serantini, ha tutto il sapore di un risarcimento, del saldo di un vecchio conto che pesava sulla coscienza degli anarchici come pesò l’assassinio di Pinelli. Ha il sapore della testimonianza di una presenza anarchica allo scontro in atto. Ma non si tratta solo di questo, anche se contribuire in qualunque maniera allo scontro è oggi un imperativo categorico, per tutti. L’urgenza di una presenza anarco-comunista nasceva dalle riflessioni sulla storia recente del maggio francese del ’68, sia della ripresa del movimento rivoluzionario in Italia quest’anno. La nostra attenzione si appuntava soprattutto sui caratteri nuovi di questo movimento che accentuava una linea di tendenza antiautoritaria, del resto già presente, sino ai limiti di una rottura col passato. Il nuovo movimento non solo rifiuta quel mostro storico che è il marxismo sovietico e quell’ibrido insipido che è il marxismo italiano, pullulante di personaggi untuosi e melliflui, servi gesuiti di ogni potere, produttori di appelli inascoltabili (l’ultimo quello di Bobbio e soci, per la costituzione di una specie di SdS per la Resistenza contro il terrorismo, ha addirittura del grottesco), ma rifiuta anche il mito del proletariato industriale – classe rivoluzionaria, un mito che ha messo in un vicolo cieco il movimento dal ’68 ad oggi e ha costituito l’alibi principe di tutto l’opportunismo extraparlamentare, prova ne sia il fatto che i gruppi i quali hanno cercato di riflettere più fedelmente la “centralità” operaia sono stati risucchiati dal riformismo, prova ne sia lo spazio che il PCI dà oggi al gruppo trontiano dell’intero partito, una classica azione di recupero diretta verso l’esterno del partito. La liberazione di questo mito ha sprigionato e sprigionerà energie di cui il movimento del ’77 è soltanto l’annuncio.

Almeno tre aspetti vanno poi sottolineati:

1) Il movimento intuisce che nonostante si parli da più di un secolo della scienza marxista, della critica scientifica della società del capitale, il pensiero critico ha fatto ben pochi passi avanti ed ha avuto anzi un ruolo regressivo e repressivo nella coscienza delle masse, facendola aderire totalmente alla società del capitale. Le contraddizioni del capitale e del suo sviluppo, su cui faceva persn la critica “scientifica” sono state assorbite e, insieme ad esse, anche la maggiore delle contraddizioni, quella fra lavoro e capitale. Dopo un secolo di impantanamento nelle contraddizioni oggettive del mondo delle merci, il movimento comincia a interrogarsi sulla necessità di instaurare una critica non delle classi ma degli individui, dei protagonisti in carne ed ossa e non dei fantasmi concettuali. Il movimento rivoluzionario sa di essere l’unica contraddizione del sistema capitalistico perché esprime ciò che di umano non è stato ancora represso nel processo di disumanizzazione, spersonalizzazione e massificazione.

2) Il movimento non rinvia lo scontro alle classi, ma lo assume in prima persona. L’azione è diretta. Qualunque siano i risultati oggettivi, i riscontri soggettivi sono fondamentali. L’azione diretta rende gli individui consci di se stessi in quanto individui che possono mutare il loro destino e riprendere il controllo della propria vita.

3) Il movimento oramai riconosce l’inadeguatezza del vecchio progetto socialista, nelle sue varie versioni. Tutte le istituzioni e i valori della società gerarchica hanno esaurito le loro “funzioni”. Non c’è alcuna ragione sociale per la proprietà e le classi, per la monogamia e lo stato. Queste istituzioni e valori, insieme con la città, la scuola, ecc, hanno raggiunto i loro limiti storici. È tutto l’universo sociale che è nel “tunnel” della crisi e non solo in Italia. Qui alcuni aspetti sono più acuti che altrove: qui la difesa della proprietà sta assumendo proporzioni catastrofiche e costituisce ormai l’unica risposta del potere alla disoccupazione. Ma proprio nella misura in cui la crisi ormai investe tutti i campi contaminati dal dominio, tanto più si evidenziano gli aspetti reazionari del progetto socialista sia maoista sia trotzkysta sia stalinista che conserva i concetti di gerarchia, di autorità e di stato come parte del futuro post-rivoluzionario e per conseguenza anche i concetti di proprietà “nazionalizzata” e di classe “dittatura proletaria”.

Fino a poco tempo fa i tentativi di risolvere le contraddizioni create nell’urbanizzazione, dalla centralizzazione, allo sviluppo burocratico, erano visti come una vana controtendenza al progresso – una controtendenza che poteva essere respinta come chimerica e reazionaria. Quanti parlavano di una società decentralizzata e di una comunità umanistica in armonia con la natura e coi bisogni degli individui erano tacciati di romanticismo reazionario. Anche nella recente campagna di stampa televisiva contro Azione Rivoluzionaria i pennivendoli del regime hanno rispolverato tutto questo apparato critico, addentrandosi addirittura in interpretazioni esilaranti del luddismo, sicuramente lette in qualche manuale dell’attivista delle edizioni Rinascita. Diverso il giudizio del movimento, soprattutto dei giovani. Il loro amore della natura è una reazione contro le qualità altamente artificiali del nostro ambiente urbano e dei suoi frusti prodotti. La loro informalità nel vestire e nel comportarsi è una reazione contro la natura standardizzata e formalizzata della moderna vita istituzionalizzata. La loro predisposizione all’azione diretta è una reazione contro la burocratizzazione e la centralizzazione della società. La loro tendenza ad evitare la fatica, il loro diritto alla pigrizia, riflette una rabbia crescente verso l’insensata routine industriale alimentata nella moderna produzione di massa nella fabbrica, negli uffici, nelle scuole. Il loro intenso individualismo, infine, è una decentralizzazione di fatto della vita sociale – una ritirata personale dalla società di massa. Il movimento sa che i concetti “romantici” o se preferite anarchici di una comunità equilibrata, di una democrazia diretta, di una tecnologia umanistica e di una società decentralizzata non sono soltanto concetti desiderabili ma sono anche necessari, costituiscono le precondizioni oggi della sopravvivenza umana, sono concetti pratici. Si prenda il caso dei problemi energetici. La rivoluzione industriale ha accresciuto la quantità di energia usata dell’uomo. Anche se è certamente vero che le società preindustriali poggiavano principalmente sulla forza animale e umana, è innegabile in molte regioni europee lo sviluppo di sistemi di energia più complessi, comportanti un’integrazione di risorse come la forza dell’acqua e del vento e una larga varietà di combustibili. La rivoluzione industriale ha schiacciato e distrutto questi modelli regionali di energia, rimpiazzandoli prima col carbone e poi col petrolio. Come modelli integrati di energia le regioni sono scomparse e non è il caso di ricordare questa rottura del regionalismo nel produrre l’inquinamento dell’acqua e dell’aria, nella devastazione di intere regioni e infine nella prospettiva di un esaurimento. Si è posti di fronte ad una scelta: da una parte i collettori solari, le turbine a vento e le risorse idroelettriche, se prese singolarmente, non forniscono una soluzione ai nostri problemi energetici, messe insieme come mosaico, come un modello organico di energia sviluppato dalle potenzialità di una regione potrebbero soddisfare i bisogni di una società “decentralizzata” e ridurre al minimo l’uso dei combustibili dannosi; dall’altra parte un sistema di energia basato su materiali radioattivi che porterà a una diffusa contaminazione dell’ambiente, dapprima in forma sottile, poi su scala massiccia e tangibilmente distruttiva, con l’aggiunta di un’iniezione ulteriore di concentrazione e terrore nel tessuto sociale. Le forze della distruzione e della morte si sono subito schierate per quest’ultima soluzione, i berlingueriani le hanno seguite a ruota, anzi, in certi casi hanno fatto da portabandiera (a Genova, per la difesa dei livelli “occupazionali” i tecnici del PCI sognano un Ansaldo che nuclearizzi tutto il pianeta, una specie di follia omicida che ha costretto i compagni delle BR a rinchiuderne qualcuno all’ospedale, in osservazione). Tacciando di “romanticismo” il movimento possente che si è sviluppato negli USA, in Germania e ultimamente anche in Italia contro le basi nucleari, i berlingueriani pensano di farla da realisti, in realtà si limitano a far cena dovunque caca il capitale. Se le idee critiche emergenti dal movimento non hanno ancora assunto la forma di progetto alternativo e costruttivo, le ragioni sono varie; innanzi tutto il movimento non si è ancora liberato dalle ideologie del passato ma è in via di liberazione, in secondo luogo dopo un secolo di “realismo socialista” l’avventurarsi nel regno del possibile è un’impresa psicologicamente ardua, in terzo luogo la perversione delle forze produttive è giunta a un tal punto che la “ricostruzione” appare un’opera immane: la distruzione dell’ambiente naturale e sociale operata dal capitalismo è così profonda da ingenerare quasi rassegnazione come di fronte a un processo irreversibile; ma c’è soprattutto una ragione politica: le forze del passato sono bene organizzate e specializzate nell’arte della morte – i lager tedeschi fumano ancora. D’altra parte vi sono ragioni altrettanto decisive per la nascita di questo progetto: se il movimento non saprà proporre a tutto il resto della società il suo progetto per uscire dalla crisi generale ne sarà travolto anch’esso o, il che è lo stesso, le sue idee finiranno coll’essere pervertite lungo canali putridi (basti pensare alla perversione della spinta sessantottesca nei “consigli” fasulli di quartiere, di fabbrica, di scuola ecc., il che, a dire il vero, dimostra che i berlingueriani fanno cena anche dove cachiamo noi). Certamente il nostro metodo di elaborazione non dovrà essere quello dei berlingueriani che hanno affidato il loro progetto a medio termine a quattro o cinque “intellettuali superorganici” e l’hanno fatto poi stendere da quel genio leonardesco che è Achille Occhetto, col risultato che ora se ne vergognano e lo fanno leggere solo al vescovo di Ivrea. La presenza critica, costruttiva, utopistica è una condizione necessaria ma non sufficiente, una tale presenza oggi non può diventare egemone se parallelamente ad essa non si sviluppa una presenza critica, negativa, distruttiva dei processi in corso. La critica distruttiva, la critica delle armi è l’unica forza oggi che può rendere credibile e attendibile qualsiasi progetto. Di fronte, il movimento non ha degli interlocutori ma le forze della distruzione e della morte, e quanto più è profonda la crisi economica, sociale, politica e morale tanto più le forze del passato si uniscono nella stretta finale. Lo Stato, per queste forze, è l’ultima spiaggia; il processo di concentrazione deve essere ormai esteso anche alle idee: la classe dei rinnegati, integrandosi, non può lasciare spazi all’opposizione. Checché ne dicano o ne strillino gli occhettiani nostrani (hanno fatto il vuoto attorno a Bologna, inorriditi dalla “primitività” delle analisi d’oltralpe) in Italia come in Germania è in atto la formazione di maxipartiti o partiti di regime dove “pluralismo” è il classico termine orwelliano per indicare la persistenza di bande che vogliono accaparrarsi o conservare TUTTA la gestione di QUESTO sistema. Le forze sociali e politiche sempre più autonomizzate dalle masse e sempre più dipendenti dallo Stato non hanno altra arma che il “consenso” forzato, imposto col terrore per arginare in qualche maniera l’antagonismo crescente. L’originalità della situazione italiana, rispetto a quella tedesca, ad esempio, è l’ampiezza di questo fronte interno, l’esistenza di un movimento che non isola la guerriglia ma ha anzi un effetto moltiplicatore della sua diffusione. Azione Rivoluzionaria è nata con un occhio rivolto all’esperienza della Raf e alle sue analisi dei processi in corso nella Germania Federale e con l’altro ai caratteri e alle forze del movimento in Italia che non trovano espressione armata nelle organizzazioni che attualmente conducono la guerriglia. È una coalizione di forze statuali che va battuta, non una singola forza: le pistolettate contro Ferrero non erano rivolte contro un agente attivo della controguerriglia psicologica, uno dei tanti, ma contro questa coalizione e contro questa campagna di menzogne, calunnie e delazioni con cui si tenta di isolare moralmente e politicamente il movimento, una campagna avviata proprio dal PCI a Bologna e Roma, a sostegno aperto e copertura dei servizi di sicurezza. Lasciare libertà di azione a una delle forze della coalizione significa far funzionare questa nel suo meccanismo essenziale, copertura a sinistra del terrorismo di Stato e azione di recupero delle forze sociali esterne, schiacciate dalla concertazione, una volta private della loro espressione politica. L’opera dei servizi di sicurezza e di Pecchioli per eliminare fisicamente la guerriglia fa tutt’uno con gli appelli di Trombadori e soci per togliere qualsiasi identità politica ai guerriglieri, insieme costoro preparano il terreno ai recuperatori, alle leghe gialle dei disoccupati, al nuovo movimento universitario di Occhetto, alle serenate ai non garantiti di Asor Rosa. Aguzzini e recuperatori svolgono compiti distinti di un progetto comune, di cui si vedono già le sembianze nei supercarceri in costruzione. Non a caso l’eco enorme suscitato dalle pistolettate a Ferrero ha spento l’eco degli attentati al carcere di Livorno e al supercarcere di Firenze. La nuova coalizione si guarda bene dall’ostentare, a ludibrio del terrorismo, i gravi danni subiti da un supercarcere: non è ancora giunto il momento di mostrare in pubblico (se verrà mai) le uniche creazioni del compromesso storico: i lager dove potrà assassinare in silenzio i suoi nemici, come in Germania; per il momento si limita ad ostentare le gambe ferite di un suo pennivendolo. Rifiutare quello che abbiamo definito il mito del proletariato industriale-classe rivoluzionaria non significa non condividere le azioni che le Brigate Rosse e Prima Linea compiono per alleggerire la pressione che il capitale esercita sui lavoratori per conservare il proprio dominio; le azioni volte a punire i disciplinatori o a indebolire l’accumulazione sono fondamentali per permettere alle minoranze rivoluzionarie presenti in fabbrica di prendersi la loro libertà di azione, l’essenziale è che ciò non costituisca un ennesimo tributo al mito e un pericoloso condizionamento al punto di vista “operaio”, col risultato di far funzionare il meccanismo essenziale della coalizione. A quanti arricciano il naso (e sono molti nel movimento anarchico) di fronte alla costituzione di un gruppo clandestino, noi rispondiamo che i pericoli di centralizzazione, burocratizzazione e alienazione storicamente si sono rivelati più consistenti nelle organizzazioni “legali” dove addirittura questi pericoli sono divenuti una solida realtà. A quanti coltivano ancora illusioni non violente, se le nostre argomentazioni non sono state sufficienti, chiarezza sempre maggiore verrà dallo Stato e dal suo apparato terroristico. Per quanto ancora in formazione, le nostre idee organizzative tendono verso un modello noto nel movimento rivoluzionario, sperimentato in Spagna negli anni ’30 e adombrato nei “collettivi” e nelle “comuni” dei radicali americani: pensiamo a gruppi di affinità dove i legami tradizionali sono rimpiazzati da rapporti profondamente simpatetici, contraddistinti da un massimo di intimità, conoscenza, fiducia reciproca fra i loro membri. Sia che nascano su basi locali, dall’incontro sperimentato e collaudato di varie storie personali, o su basi diverse, i gruppi devono essere mantenuti necessariamente piccoli, sia per permettere quelle caratteristiche sia per garantirsi contro le infiltrazioni. Il gruppo di affinità tende da una parte ad eliminare fra i compagni rapporti di pura efficienza, dall’altro ad attenuare la divisione schizofrenica fra privato e collettivo, una divisione che è alla base, oltre che delle continue incertezze e degli abbandoni, anche dell’opportunismo e della non trasparenza nei rapporti fra i compagni.

Azione Rivoluzionaria

Gennaio 1978

Volantino distribuito a Carrara durante il terzo congresso delle Federazioni Anarchiche

Che fare?

Lanciamo un appello a tutti quei compagni anarchici, convenuti a questo ennesimo congresso, non ancora scientizzati e invecchiati anzitempo dal continuo e faticoso compito di calcare le scene, chi in veste di attore, chi di spettatore delle rappresentazioni assembleari e congressuali e a quei compagni che non abbiano già devoluto tutto il loro spirito e le loro energie rivoluzionarie ad una pratica che fa dell’attesa e della difesa le sue principali prerogative. È appunto qui a Carrara, così come a Venezia (al convegno sulla tecnocrazia), che si vogliono rinverdire i vecchi rami della confusione, dell’incapacità e della staticità del movimento. Si vorrà vedere con chiarezza, si vorrà comprendere con vero ardore. Ma purtroppo conoscendo la ormai triste storia di questi convegni (utili solo come prova a suonatori di trombone), siamo sicuri che appena balenerà nella mente di tutti i compagni la sicurezza di aver chiarito o confermato il proprio “che fare”, la realtà sarà già nuovamente mutata così tante volte per cui la ostinata sicurezza e convinzione si troverà di fronte come barriera in muro insormontabile. E allora i compagni ricadranno nella confusione, nella svogliatezza e nella delusione, o ancor peggio altri si ostineranno nei loro quadrati mentali e sentiremo, o meglio dire sentiamo, parlare di sindacato, di anarcosindacalismo: quadrato mentale ben vecchio per la società e la realtà di oggi e forse, pensandoci un po’, neanche tanto rivoluzionario per quella di ieri (ma come… e la Spagna? Oh, sì! La Spagna… ma senza la F.A.I.?!?). Oppure ancora, di lotta di classe, di organizzazione di massa; quadrato mentale ancora più putrido e decrepito del precedente, …lo chiameremo in patologia medica: “fagocitosi marxista in incosciente stato di degenere involuzione”. Compagni, cerchiamo una buona volta di rinnovarci, di essere al passo con i tempi, o meglio di prevenire i tempi. Come si può sperare di essere incisivi se i metodi di intervento, per lo più di spicciola propaganda teorica sono ormai tanto vecchi e consumati che riducono gli anarchici ad un sterile ed improduttivo movimento d’opinione, capace di mobilitarsi o su un terreno difensivo allorquando il potere lancia le sue frecciate repressive, (inutile ricordare nei suoi particolari il caso Valpreda o, peggio, il caso Marini con i suoi: “Difendersi dai fascisti non è reato, compagno Marini sarai liberato!”), oppure come “codazzo”, nemmeno alternativo, di quella burrascosa ed oscena politica dei vari ex-extra-parlamentari. Compagni, lasciamo la politica degli slogan, degli schemi, dei dati di fatto di cento anni fa: cerchiamo di essere propositivi. È un invito che rivolgiamo anche a quei compagni che accusano la nostra strategia di essere suicida. Come si può vedere il suicidio della lotta armata, quando un sempre maggior numero di compagni, lavoratori, disoccupati e sottoproletari, si ribella con le armi alla crudeltà del potere? È forse suicidio l’aver abbandonato una pratica senza strategia e tattica dei gruppi anarchici tradizionali, che non sanno come muoversi, disorientati dall’evolversi degli avvenimenti, per riabbracciare la cosiddetta “propaganda dei fatti” come esempio per generalizzare l’azione diretta? È forse suicida l’aver individuato nella lotta antinucleare, non solo una forma di battaglia in un settore specifico, magari con tinteggiature ecologiche, ma una precisa lotta contro il potere? Ed è ancora suicidio destabilizzare lo Stato in tutte le sue forme centrali o periferiche, ridicolizzandolo, mettendolo in crisi e spingendolo a mostrare il suo vero volto, fatto di coercizione e di violenza? ma prima che qualche tromba solista ormai consueta fanfari: “Ma chi sono costoro: F.A.I., G.I.A. o G.A.F.”, ci presentiamo: noi siamo anarchici, l’abbiamo già detto, la nostra è una organizzazione rivoluzionaria in cui i veri gruppi si sono riuniti a livello locale, o dall’incontro di varie vicende personali, sulla base di un’affinità tra le varie esperienze e concezioni dei compagni. Gruppi di affinità che mantengono la loro autonomia e libertà d’azione e in cui i rapporti tra compagni non sono di pura efficienza bensì caratterizzati da un massimo di conoscenza, intimità e fiducia reciproca. Quello che vogliamo è portare una critica distruttiva dello Stato, attraverso l’uso della violenza rivoluzionaria, la lotta armata, la propaganda del fatto. Vogliamo accelerare i tempi e allargare il fronte interno dello scontro per arrivare a una destabilizzazione dello Stato. Crediamo che la presenza critica costruttiva, utopistica non sia una condizione sufficiente, anche se necessaria, se parallelamente ad essa non si sviluppa una presenza critica negativa, distruttiva dei processi in corso. La critica delle armi è oggi l’unica forza che può rendere credibile qualsiasi progetto.

 

Creare organizzare 10 100 1000 nuclei armati!

Azione Rivoluzionaria

Marzo 1978.

Comunicato del nucleo armato “Rico e Attilio”

Tra il 17 e il 18 settembre 1977, il nucleo armato di AR “Rico e Attilio” ha proceduto a colpire la sede della «Stampa» di Torino e il cronista de «l’Unità» Nino Ferrero. Presso la sede del giornale di Agnelli è stato deposto un ordigno che si proponeva di provocare gravi danni alle strutture, senza tuttavia mettere a repentaglio l’incolumità delle persone; il giornalista de “l’Unità” è stato azzoppato. Con questi due interventi armati Azione Rivoluzionaria ha inteso sanzionare precise responsabilità collettive e personali in ordine alla gestione delle notizie relative alla morte dei nostri compagni Aldo Marin Pinones “Rico” e Attilio Di Napoli, caduti mentre a propria volta si accingevano a colpire la sede del giornale della Fiat, nel quadro di un’azione complessiva purtroppo tragicamente interrottasi. All’unisono, polizia e consigli di fabbrica strillano contro questo “attentato alla libera stampa” coprendo ancora una volta con un velo di menzogna la realtà delle cose, non la libertà di stampa e di comunicazione abbiamo inteso di colpire, ma la spudorata campagna di bugie e di calunnie portata avanti dai pennivendoli del regime verso il crescente movimento di opposizione proletario, coscienti che alle “armi della critica” è venuto il momento di sostituire la “critica delle armi”. La funzione delle comunicazioni di massa per il mantenimento dell’equilibrio sociale esistente e per l’estorsione del consenso è fondamentale per il regime; l’intreccio tra centri di potere economico, politico e poliziesco e diffusione di notizie sempre più fitto; ogni spazio di informazione alternativa viene precluso per la semplice ragione che le comunicazioni assumono forma rackettistica e oligopolistica: in questo assetto la stampa sedicente comunista svolge un compito fondamentale di “garanzia a sinistra”. la libertà che noi abbiamo colpito non è la libertà dei padroni e dei burocrati, la cui legittimazione ideologica viene dall’uso quotidiano di tecniche di manipolazione finalizzate al consenso, attraverso grandi mezzi di un “arco (costituzionale)” che comprende tanto «La Stampa» quanto «l’Unità», il giornale di Agnelli e quello del Pci. Con questi interventi armati abbiamo inteso e intendiamo ribadire con forza la verità sui nostri compagni “Rico” e Attilio, spazzare via le rozze calunnie sparse, troppo facilmente, sul loro conto. Rico fu combattente per la libertà e il comunismo nel suo paese di origine: il Cile. Si batte con tutte le forze contro il regime dei colonnelli di Pinochet, pagando di persona e duramente. Fuori del suo paese non si lasciò gabbare da vane parole di sostegno impotente e impugnò ancora una volta le armi, consapevole che la lotta proletaria non conosce confini nazionali. Rico lottò in altri paesi del Sud America e rifiutò l’impostura del “potere socialista” alla cubana. Combatté in Italia contro il regime democristiano e del compromesso storico, portando a compimento numerose azioni rivoluzionarie, tra le quali per citarne solo alcune che in questo momento ci conviene indicare – la distruzione delle nuove carceri di Firenze e di Livorno e l’esplosione contro l’Ipca di Cirié, azioni di grande rilievo, eppure taciute o minimizzate o calunniate o ridicolizzate dalla libera «La Stampa» di Torino. Attilio fu un compagno generosissimo, seppure giovanissimo, capace di scegliere e di volere nel magma di un mondo corroso e mendace, fatto di continui compromessi tra declamazioni dottrinarie e impegno reale, cosciente di dover superare la dicotomia tra pensiero e azione, pronto a tutto con il sicuro istinto dei giovani proletari convinto di non aver nulla da perdere ma tutto da guadagnare. Attilio partecipò a diverse azioni distinguendosi per coraggio e consapevolezza rivoluzionaria. “Rico” e Attilio sono caduti per un errore tecnico, forse imputabile alla loro brama di agire ed al fatto di avere dovuto contare all’improvviso solo sulle proprie forze. Per Azione Rivoluzionaria e per il movimento di lotta armata la loro morte è senz’altro motivo di riflessione critica, oltre che di dolore, ma non di abbandono: chi sceglie l’unica via oggi praticabile nella lotta per una società di liberi e uguali, la via armata sa in anticipo di correre rischi, sa di poter pagare con la propria vita la lotta per la vita. Ma i rivoluzionari non permetteranno mai a sciacalli della risma di Ferrero e altri pennivendoli del regime di insozzare la loro memoria, di divulgare, sotto protezione dei loro “grandi e liberi” giornali con le argomentazioni sociologiche più trite, le calunnie più infami. “Rico”e Attilio vivono nella memoria di tutti i rivoluzionari. Altre mani si protendono a raccogliere le armi loro cadute in battaglia. I loro calunniatori appaiono solo per quel che sono; vili canaglie al soldo dei servizi di sicurezza.

Costruire il movimento di lotta armata per il comunismo e la libertà

Azione Rivoluzionaria contro il governo Berlingottiano

Distruggere i lager di annientamento dei proletari

Viva Chile combattente

Viva l’internazionalismo proletario

Onore ai compagni caduti nella lotta

Raccogliamo l’esempio di Mara, di Luca, di Sergio, di Annamaria, di Antonio, di Rico, di Attilio

1977

Azione rivoluzionaria, Nucleo Armato Rico e Attilio