Da qualche mese quattro prigionieri politici hanno promosso un’iniziativa tesa (apparentemente) ad aprire un dibattito all’interno della sinistra per dare «uno sbocco politico e sociale al ciclo di lotte degli anni ’70».
I quattro sostengono che quel ciclo si è esaurito ma non concluso e che per portarlo a conclusione è necessario sciogliere il problema dei prigionieri politici che di quel ciclo sono stati l’espressione. Secondo loro «lo scontro sociale degli anni ’70 si è storicamente esaurito. Esaurito nei presupposti di classe che lo hanno determinato, nelle condizioni internazionali che lo hanno favorito, nella cultura politica che lo ha caratterizzato, negli specifici progetti di organizzazione rivoluzionaria di cui si è servito».
Questo è il presupposto da cui partono i quattro per promuovere la cosiddetta «battaglia di libertà». Ed è a partire da questo che salta agli occhi una contraddizione tra l’obiettivo reale (la «battaglia di libertà») e il mezzo per raggiungerlo (far leva sulla reale necessità della sinistra di classe di uscire dalla crisi).
Il bisogno di aprire un dibattito nella sinistra di classe per contribuire collettivamente alla sua uscita dalle secche della crisi in cui versa da alcuni anni oramai, è un dato di fatto inconfutabile. Ma allora questo deve essere l’obiettivo e non quello di far leva strumentalmente su una condizione reale esistente al fine di risolvere il problema dei prigionieri. Quest’ultimo, benché sia un problema moralmente e politicamente importante, sicuramente non è uno dei problemi principali a cui la sinistra di classe (e in primo luogo la sua parte più cosciente) deve dare soluzione per uscire dall’angolo in cui il «rullo compressore» della controrivoluzione l’ha cacciata.
L’operazione politica promossa dai quattro prigionieri (a cui successivamente hanno aderito altri gruppi di prigionieri, nonché esiliati e altri individui a vario titolo in libertà) trae forza da una situazione realmente esistente e gioca sul filo sottile delle parole per acquisire (in buona e in mala fede) all’interno della sinistra consensi da usare strumentalmente nella contrattazione corporativa con alcuni esponenti significativi dello stato che da quarant’anni garantisce lo sfruttamento e i peggiori crimini a spese del proletariato, a nome del quale i quattro pretendono di parlare e di cui pretendono di interpretare le aspirazioni di classe.
Essi infatti cercano di vincolare la soluzione dei problemi della sinistra di classe (e più in generale del proletariato) a quelli immediati e soggettivi dei prigionieri politici.
Diventa persino ridicolo pensare che, a fronte dell’offensiva della borghesia di questi ultimi anni, sia sufficiente la liberazione dei prigionieri politici per «concludere questo ciclo di lotte esaurito» ed avviarsi ad un suo superamento (e ad una ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria e proletaria… si suppone!).
Sostenere questo in buona fede significa, quantomeno, peccare della più sfrontata presunzione.
Quest’iniziativa, nei termini in cui è stata posta (e svelata dal suo obiettivo strumentale), non si propone di dare uno sbocco politico e sociale al ciclo di lotte degli anni ’70, ma contribuisce di fatto a creare le condizioni per raggiungere un compromesso con lo stato per risolvere un problema corporativo. Oggettivamente contribuisce a rafforzare la posizione di coloro che (anche nella sinistra) perseguono l’obiettivo della liquidazione dell’esperienza rivoluzionaria in Italia, rivalutando la legittimità dei movimenti di contestazione, ma attaccando, isolando e criminalizzando la componente più cosciente che si è espressa sul terreno della lotta armata. Contribuisce a creare notevole confusione nella sinistra (sugli obiettivi prioritari da perseguire) e a delegittimare coloro che, nelle difficili condizioni presenti, intendono dare continuità (sia pure con le inevitabili rotture) ad un processo rivoluzionario iniziato in quegli anni.
Questa operazione, ovviamente, non è determinante per il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria e di classe, ma questo non vuol dire che non sia influente.
Un altro aspetto che emerge da questa operazione è il tentativo di appiattire (a posteriori) la sinistra, senza distinzioni di sorta tra la parte istituzionalmente legittimata, quella parolaia inconcludente (ma con qualche radice nella classe), quella realmente di classe e la parte più cosciente e conseguente che si è misurata sul terreno della lotta armata contro lo stato come reale necessità per dare uno sbocco strategico alle aspirazioni di classe del proletariato, in alternativa alla bancarotta revisionista.
Sull’onda della sconfitta subìta, l’appiattimento delle responsabilità all’interno della sinistra tutta assume il tono di una manovra furbesca e strumentale, proprio perché non sono paragonabili (sia sul piano politico che su quello storico) le responsabilità che, di fatto, si è assunta la parte comunista e rivoluzionaria, operando una forzatura soggettiva per organizzare e dirigere un processo di contestazione del sistema sociale borghese nella prospettiva della guerra civile per il rovesciamento del regime sociale, con quelle della più vasta area dei movimenti che hanno contraddistinto gli anni ’70-’80.
Le BR non sono nate come necessità contingente e tattica.
Le BR sono sì nate sulla spinta di un movimento espansivo (sorto dall’esplosione e concentrazione di contraddizioni internazionali ed interne), ma fin dai primi anni di attività si sono poste come Organizzazione Comunista Combattente (che aspirava a trasformarsi in Partito di tutta la classe) che interpretava gli interessi generali del blocco sociale che rappresentava (o che si proponeva di rappresentare) e intendeva dirigere questo blocco con una strategia finalizzata al rovesciamento del regime sociale esistente, la conquista del potere politico per l’instaurazione di nuovi rapporti sociali.
Esse non si sono poste (come si tenta di far credere) come supporto armato direttamente vincolato alle dinamiche spontanee di flusso e riflusso dei movimenti, dinamiche queste determinate da cause contingenti. Così come è un falso storico sostenere (come fa un gruppetto di nuovi aggregati alla «battaglia di libertà») che «le BR sono l’espressione di una determinata situazione storica e di un assetto socio-economico ormai superati». Infatti, sebbene sia vero che le BR sono storicamente determinate, il falso sta nel sostenere che l’assetto socio-economico è ormai superato (falso in quanto si trasforma un’opinione strumentale in un dato oggettivo) e nel far ciò si tenta di appiattire interessatamente sui movimenti spontanei e le loro dinamiche l’esistenza dell’avanguardia rivoluzionaria (dotata di un programma strategico autonomo, se pur dialetticamente legata ad essi).
Il ruolo dei comunisti (di cui le BR sono un’organizzazione) è quello di organizzare e dirigere la classe nelle condizioni concrete in cui si manifesta la contraddizione principale che la oppone alla borghesia ed al suo stato, ponendosi al punto più alto della contraddizione con una pratica che contribuisca ad acutizzarla attraverso l’intervento soggettivo diretto, smascherando ed indebolendo politicamente (nel contempo) la bancarotta revisionista e ponendosi come sua reale alternativa.
Con il riflusso dei movimenti degli anni ’70-’80 non si è verificata una corrispettiva attenuazione delle contraddizioni di classe (che poteva derivare solo dalla ripresa della funzione progressista del modo di produzione capitalistico). Al contrario, con l’attuazione dispiegata dei progetti di ristrutturazione economica, politica e militare (favorita dalla sconfitta subìta dall’avanguardia comunista rivoluzionaria e dalla classe) le contraddizioni si sono ulteriormente acutizzate, moltiplicate, estese ed investono ben più ampi settori sociali, travalicando il campo specificamente economico. Proprio in presenza di questa realtà non si esaurisce la necessità di una politica rivoluzionaria strategicamente finalizzata, stante il carattere inarrestabile della crisi generale-storica del modo di produzione capitalistico (crisi economica e dei valori ad esso corrispondenti).
Sostenere oggi che le condizioni sono mutate, che il capitalismo è in ripresa, che la crescita economica avanza è fare l’apologia di questo sistema sociale e fare il verso al governo Craxi, il cui interesse in questo senso è politicamente mirato.
Basta osservare alcuni dati di carattere generale per rendersi conto che lo stato complessivo dell’economia nonché la ripartizione del valore creato non danno adito ad ottimismo alcuno: il disavanzo pubblico aumenta paurosamente, la bilancia commerciale è in pesante passivo, le esportazioni diminuiscono, le importazioni sono in aumento (escludendo i prodotti energetici), l’inflazione è in aumento (sta esaurendosi l’effetto del basso costo del petrolio), la disoccupazione è in continua crescita.
Questo in estrema sintesi e senza valutare le condizioni degli altri paesi che, per quel che concerne l’Europa e gli USA, non sono molto diverse.
È senz’altro vero che queste non sono condizioni sufficienti per determinare un rivolgimento sociale rivoluzionario, però sono il punto di partenza per l’innesto dell’intervento soggettivo dell’avanguardia comunista che contribuisce a divaricare le contraddizioni esistenti intervenendo sui nodi politici centrali che oppongono il proletariato alla borghesia.
I problemi da risolvere oggi per un rilancio dell’attività rivoluzionaria e di classe si giocano su altri e ben più importanti terreni che non quello della liberazione dei prigionieri. Quest’ultimo, pur essendo reale ed importante, è vincolato alla soluzione dei principali nodi che la sinistra di classe (e principalmente l’avanguardia comunista) ha di fronte.
Questo deve essere necessariamente il filo conduttore del dibattito all’interno della sinistra di classe. Porre al centro del dibattito la liberazione dei prigionieri è un terreno fuorviante e, alla fine, inconcludente e porta ad un risultato opposto al rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria e proletaria.
La liberazione dei prigionieri politici non può che essere il risultato o di una pacificazione sociale generale determinata dalla soluzione delle contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico, o di un rovesciamento dei rapporti di forza tra le classi, o di un inevitabile compromesso con la propria identità e di una manipolazione e svendita dell’esperienza storica del processo rivoluzionario italiano.
Al di fuori di ciò rimane un tentativo di raggiro che lo stato, ben lungi dall’essere composto da sprovveduti, non subirà di certo.
Novara, giugno 1987