Questo blog nasce per raccogliere e stimolare commenti, riflessioni, dibattito sui temi trattati nel libro. Una frase, un pensiero, ma anche documenti o analisi più articolate. Individuali e collettive.
14 pensieri su “Blog”
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Cara Agnese,
innanzi tutto grazie per i tuoi “complimenti” e le tue valutazioni, che mi restituiscono i lavori che ho scritto sotto una luce diversa, e sono un potente stimolo di riflessione. Sarei molto contenta se ci fossero tanti interventi come il tuo.
È vero, il sentire comune talvolta non necessita di spiegazioni. Almeno fra noi è così. Dalla prima volta che ci siamo incontrate ho scoperto una compagna che, pur nella diversità, ho sentito avere moltissime affinità con me, obiettivi comuni. In ogni caso il tuo pensiero ha uno spessore in grado di arricchirmi, di farmi riflettere. Non sto qui a farti complimenti formali, non siamo le persone adatte per farli, come dici anche tu, ma mi fa piacere dirti che in un’epoca di social network e virtualità, ho subito sentito che il nostro “essere comuniste” (o sforzarsi di esserlo) era reale, e non solo “da tastiera”. Non sempre accade. Anzi.
I nostri percorsi di vita e di militanza si sono evoluti in modo diverso, è vero, ma sono partiti da una origine comune. Anche io provengo dalla FGCI. È lì che ho iniziato la mia attività politica, nel 73-74, e sono contenta di questa scelta. Sono entrata nel Partito proprio nel momento in cui Enrico Berlinguer stava lanciando quel compromesso storico che poi ho tanto criticato. Avevo 15 anni, solo in parte ne ero consapevole, e credevo molto alle affermazioni di quei militanti di base che dicevano fosse solo un modo per confondere il nemico di classe…
In ogni caso non sono affatto “pentita” di essere stata per due-tre anni in quella sezione (la stessa di Walter Veltroni…). Come giovanissima del PCI ho avuto una formazione seria, di partito, che poi mi è mancata moltissimo quando inizialmente, nel ’77, mi sono trovata, più travolta che partecipe, in un “movimento desiderante” di cui faticavo a comprendere i contenuti. Il rifiuto non mi bastava. Il non lavoro non mi convinceva. Della loro festa non riuscivo a sentirmi partecipe. Anzi mi infastidiva un po’. Anche il metodo di lavoro in buona parte l’ho imparato nella FGCI, quando quindicenne mi trovavo la domenica mattina, o prima di andare a scuola, a svegliarmi all’alba, per diffondere il giornale al semaforo di piazza Fiume o nelle case. Era faticoso, ma proprio per questo importante. Oppure a fare la staffetta nei seggi elettorali con turni sulle 24 ore (quante litigate in famiglia…). Imparare una disciplina, imparare le regole di un serio lavoro politico. Non ho mai dimenticato quegli insegnamenti fondamentali per la mia formazione.
Il liceo scientifico Righi era una scuola in cui i fascisti erano molto forti. C’era Giovanni Alemanno, sì, quello, l’ex sindaco di Roma, c’era Roberto Nistri, poi condannato all’ergastolo per la sua attività in Terza posizione e negli ultimi anni, a quanto ho sentito, divenuto fotografo naturalista e di sinistra, e non erano i soli. L’unica occupazione che abbiamo fatto, nel 1977, è stata “assaltata” proprio da loro, che hanno aperto la strada allo sgombero da parte della polizia. Non avevo come te una famiglia di sinistra, quindi per me la scelta non era così scontata. Ma l’ho fatta subito. Decisa, senza alcun tentennamento. Da subito ho capito con chiarezza di volermi schierare. E da allora ho capito da che parte dovevo stare. Da che parte volevo stare. E sono ancora lì.
In quegli anni il dubbio divenne un altro. Non mi riconoscevo più nel Pci, ma non riuscivo a trovare altro che mi convincesse. Ero arrivata a 17 anni… era il periodo in cui volevo acquistare il “diritto di parola”, ancora prevalentemente maschile nelle assemblee scolastiche. Anche per questo sono entrata nel collettivo femminista, che sicuramente ha contribuito a darmi forza per effettuare una partecipazione più attiva. Tremando… ho iniziato (io timidissima) a intervenire alle assemblee! Ma anche quegli “eccessi separatisti” non mi convincevano. Per me la lotta era di classe, non di genere.
Ma il movimento mi sembrava una sorte di “palude” confusa ed “estremista” soprattutto da un punto di vista verbale. Partecipavo, c’ero, perché non trovavo un’altra collocazione, ma non mi ci riconoscevo. Questo è stato il mio Settantasette. Abbastanza sofferto, in verità.
Non riuscivo più a credere in una possibilità di cambiamento graduale, di cambiamento senza una rivoluzione. E in una rivoluzione, come la storia ci insegna, l’uso della forza è necessario.
Sono entrata all’università, proprio nel Settantasette, mi sono iscritta a Scienze politiche, indirizzo storico. Gli studi hanno rafforzato le mie convinzioni. Nessuna classe cede il potere pacificamente, nessuna rivoluzione o cambiamento reale sono stati mai pacifici. Perché dovrebbe essere stato diverso proprio in quella situazione? Forse perché ci trovavamo in una democrazia? Ma cosa significava democrazia se, tanto per fare un esempio, anche i militanti del Partito comunista nella prima metà degli anni Settanta più volte hanno dormito fuori casa per paura di un golpe? E anche loro disarmati non lo erano affatto! A parte il famoso e leggendario carro armato sotto Botteghe Oscure di cui si favoleggiava, di armi ce n’erano. Vere!
Da parte mia pensavo che più sarebbe avanzato il cambiamento, più la repressione… o la controrivoluzione (anche preventiva) si sarebbe accentuata. Sì, perché ci trovavamo in una democrazia borghese, ci trovavamo nella fase in cui il capitalismo, giunto nella fase imperialista, non sarebbe mai potuto cadere senza una rivoluzione. E la rivoluzione non è un pranzo di gala… ci ricordava Mao!
Non mi sentivo affatto pacifista, quindi, anche se ovviamente non ero “a favore” della violenza. Ritenevo l’uso della forza storicamente necessario e inevitabile. Nello stesso tempo avevo una iniziale contraddizione fra la mia formazione partitica (continuavo a ritenere il partito comunista – un partito comunista – l’unica guida reale e necessaria delle lotte del proletariato) e il fatto che ritenevo giusto anche un uso della forza “di massa”, allora portato avanti dall’Autonomia Operaia, in cui non mi riconoscevo affatto. Mentre le Brigate rosse effettuavano esclusivamente una attività “dall’alto”, che non rifiutavo, ma che ritenevo dovesse essere accompagnata anche da un intervento dal basso e da una corretta linea di massa, che invece mi sembrava non essere all’altezza.
Da allora, per me, il PCI e il sindacato sono state strutture in cui i comunisti dovevano essere interni per indirizzare la base verso la linea giusta, quella rivoluzionaria.
Non ero entusiasta di ciò che “c’era” ma mai sono rimasta alla finestra. Nel 1984, in un periodo difficile, dopo tante lacerazioni, divisioni, nell’ambito delle Brigate rosse si sono espresse due posizioni. Quella che poi verrà chiamata comunemente Seconda posizione faceva ciò che avevo sempre ritenuto giusto. Certo, eravamo ormai negli anni più complessi, ma mi è sembrata una possibilità, un’ipotesi per trovare una linea giusta e riprendere la politica rivoluzionaria. Ma anche lì ci sono state varie spaccature, e differenti ipotesi organizzative. Nell’Ottantasette vengo arrestata, per costituzione di associazione sovversiva nell’ambito della Seconda posizione. Una breve carcerazione, poi gli arresti domiciliari, e dopo qualche mese sono già fuori, solo con l’obbligo della firma. In seguito la Cassazione annulla l’ordine di cattura, e tutto si chiude così, senza un processo. Ma quella per me rimaneva l’area di riferimento.
Rimaneva importante affermare che la lotta armata anche in una situazione non rivoluzionaria è un metodo di lotta necessario (ma non una strategia), e nello stesso tempo che si deve fare attività politica lì dove la fanno i proletari più coscienti, che si deve essere interni alle loro lotte. Un mix che mi ha convinto allora e che anche oggi mi convince. Certo, in ogni momento con le dovute differenze relative al contesto storico e politico.
Non si tratta di “terrorismo” o di singole azioni isolate, quelle che Lenin condannava, e che rientrano più in un modo di agire anarchico. Ma di utilizzare anche le armi per modificare i rapporti di forza e giungere alla conquista del potere. Perché, da brava veterocomunista, ancora in questo credo, pur se non si manifesterà con la conquista di un Palazzo d’Inverno. Ma tutto ci riconduce lì, al potere, e al fatto che non verrà mai ceduto pacificamente. Succedeva ieri, succede oggi e lo stesso sarà nel futuro. La storia e il presente a mio avviso lo dimostrano!
Forse non ti ho risposto Agnese, mi sono ritrovata a raccontare una parte di me di cui forse non ho mai parlato. Ma è un inizio. Continuiamo questa discussione, Agnese e Silvia, allarghiamola ad altre compagne. Cerchiamo di dare insieme una risposta alle domande che Agnese pone alla fine del suo scritto. Per me questa analisi è importante, è anche e soprattutto per questo che pubblico libri…
Grazie per le tue riflessioni e per il tuo impegno. Perché è fondamentale oggi darsi da fare, mantenere viva l’iskra che necessariamente si riaccenderà. Noi forse non faremo in tempo a vedere i cambiamenti, ma continuo a esserne certa. Non è mera retorica. Il futuro va verso un mondo più giusto (nonostante la situazione odierna sembra portarci nella direzione opposta). Il futuro sarà nostro! Il comunismo trionferà, non è uno slogan!
C’è chi nasce pompiere e muore incendiario
Care compagne Paola e Silvia, prima di tutto voglio dirvi che trovo semplicemente fantastico il compito che vi siete assunte di portare in giro per l’Italia la memoria delle donne che hanno lottato per le proprie convinzioni e passioni.
La bravura e l’originalità delle narrazioni di Paola, l’umanità, lo spessore e l’esperienza di Silvia toccano alcune mie zone profonde, di cui per anni mi ero dimenticata.
Non sono apprezzamenti di circostanza, tra compagne non stiamo a farci tanti complimenti, è un sentire comune che non necessita di spiegazioni; chi è comunista, per quanto possa aver fatto percorsi e scelte di vita diverse, sa di cosa si parla.
È quella tacita lingua conosciuta solo da chi ha condiviso gli stessi ideali e la stessa militanza, è quel comune sentimento che ti fa immediatamente intendere anche con lo sconosciuto compagno la prima volta che lo incontri, e magari non rivedrai più.
Quel che vi scrivo non è una recensione del libro, che ho letto d’un fiato; ai romanzi ben scritti ho sempre preferito le storie vere, la prosa asciutta, la realtà non adulterata finanche nelle passioni e nei sentimenti. I libri di Paola sono tutto questo.
Il mio percorso e la mia formazione sono stati diversi dalle vostre esperienze, e le mie scelte attuali di impegno sociale lo sono in parte tuttora.
Negli anni settanta, in pieno tumulto adolescenziale, frequentavo le popolari scuole di Centocelle, e qui scelsi di iscrivermi alla FGCI, tra quelli che allora erano i giovani comunisti moderati ed istituzionali, nell’ambiente tumultuoso in cui si agitavano una miriade di gruppi della sinistra extraparlamentare. In quel contesto non era scontato, iscriversi all’organizzazione giovanile del PCI era quasi in controtendenza, oggi si direbbe che non era trendy. Si sa, le mode poi passan facilmente…
Tutti parlavano di classe operaia, di lotta di classe, della rivoluzione che sarebbe scoppiata di lì a poco ed i piccoli leader di questi gruppi, con la loro dialettica aggressiva e sicura sembravano esercitare un’apparente controllo sulla numerosa popolazione scolastica del baby boom.
Certo anche la mia famiglia, con tre fratelli maggiori attivisti del Partito Comunista ebbe il suo peso, ma non fu l’unica ragione.
A quattordici anni ero una ragazzina attenta e curiosa, volevo capire ma ero confusa nel gran ribollire di scioperi, occupazioni, cortei, collettivi, scritte sui muri, slogan, dazebao, violenza verbale e fisica.
La maggior parte delle mie coetanee, appena entrate nelle scuole superiori approfittava della
deregulation per andare a spasso con i ragazzi, imparare a fumare ed a truccarsi.
Ovviamente lo facevo anch’io, però prevaleva in me la smania di capirci qualcosa; di conseguenza mi aggiravo da un’aula all’altra cercando di capire quei discorsi astrusi dei ragazzi più grandi, quei duelli furiosi a colpi di citazioni più o meno corrette brandite come mazze per mettere all’angolo l’avversario, non capendo perché litigavano visto che si dichiaravano tutti comunisti.
Il primo spartiacque lo alzarono proprio alcune frasi sentite in quei collettivi, ai quali mi ero avvicinata con il candore dell’età e senza preconcetti verso nessuno dei contendenti (tranne i fascisti di cui avevo sempre sentito parlar male dai miei genitori, ma nelle scuole di Centocelle a quel tempo non se ne vedevano).
Le frasi offensive verso i militanti del PCI, bastardi, venduti, picchiatori e altro ancora mi indignarono e mi resero diffidente verso quella galassia di gruppuscoli.
La sezione del PCI era una succursale della mia famiglia, e di tante altre famiglie di operai, casalinghe, pensionati e gente per bene che dedicava tempo e lavoro volontario per la causa dei lavoratori e per quello che consideravano il loro partito.
Forse erano ingenui, e certamente io non ero nell’età per giudicarlo, sicuramente non mi sembravano dei rinnegati nemici del proletariato. Erano loro il proletariato.
Uno dei pochi episodi che ricordo con chiarezza in un lontano 1974 fu un collettivo, uno dei tanti, in cui Giovanni Alimonti della 5A (successivamente BR-PCC), che veniva regolarmente a catechizzare i ragazzini della 1A di cui ero alunna, disse per la milionesima volta qualcosa di offensivo verso i militanti del PCI e sbottai, lo interruppi nonostante mi piacessero molto i suoi
discorsi: ma tu che ne sai di come sono i militanti del PCI, che ne sai di cosa fa mio padre o mio fratello, è gente che lavora o studia mica fa la spia della polizia o dei padroni….
Mi fissò con gli occhi sbarrati per la mia inaudita impudenza e incredibilmente non replicò, cosa quanto mai rara in quei tempi di assoluta violenza verbale, oltre che fisica, in cui non veniva risparmiato nessuno, maschio o femmina, ragazzino o anziano, professore o studente. La discussione finì così, senza vinti né vincitori.
Qualche anno dopo lo incontrai sul tram, poco prima di Natale, mentre andava al suo lavoro alla Camera dei Deputati, in giacca e cravatta. Era in fondo al tram, in piedi nonostante fosse semivuoto, le spalle appoggiate e guardava spesso fuori dal finestrino attraverso i vetri sporchi. Mi chiamò lui e mi chiese come stavo, mi ero diplomata durante l’estate, chiese se mi ero iscritta all’università ed in quale facoltà, con il tenero interesse di un fratello maggiore. Mi sembrò avere un velo di tristezza negli occhi, quella di chi ha già superato la sottile linea d’ombra di Conrad, a dispetto dei suoi venticinque anni. Ci salutammo scambiandoci gli auguri delle feste.
Giovanni mi era sempre stato simpatico e dentro di me pensai con una punta di ironia che ormai fosse imborghesito, ben vestito, con la cravatta e la valigetta. Ha smesso di fare l’autonomo, ora che lavora alla Camera dei Deputati… Quanto mi sbagliavo! pochi giorni dopo, era l’Epifania, partecipò all’attentato al vice capo della Digos, fu ferito ed entrò in clandestinità.
Tornando a quel giorno in 1A, feci la mia scelta istintivamente e senza troppe analisi ideologiche, scelsi l’appartenenza agli ideali della mia famiglia e scelsi le facce dei lavoratori, quelli che venivano in sezione, quelli che credevano nel Partito con un approccio certo anche fideistico ma genuino, quelli che pensavano avremmo realizzato il socialismo portando il PCI alla vittoria elettorale, usando la democrazia parlamentare.
Ingenuità? Certo, con il senno del poi. Però allora c’era il proporzionale, l’Italia aveva il più forte partito comunista d’Europa, la Chiesa e la Democrazia Cristiana al governo avevano appena perso il referendum sul divorzio. Pensavo ad una rivoluzione pacifica con e per quelle facce di lavoratori che avevo sempre visto nelle manifestazioni del PCI e della CGIL, alle quali mio padre mi portava da bambina.
Di quegli anni ricordo le letture dei classici del marxismo, dei giornali e delle riviste del partito, era quasi un dovere. Spesso non ci capivo quasi niente (gli articoli di Rinascita!) in buona compagnia con i miei coetanei, ma alcuni di quei classici sono stati illuminanti per tutta la mia vita.
Preferivo l’antropologia di Engels a Marx, e mi piaceva la lettura dei saggi di Lenin per la decisa chiarezza delle sue esposizioni ed il suo pragmatismo.
Da quelle scuole e da quei collettivi provenivano molti appartenenti alla colonna romana delle formazioni comuniste clandestine citate nel libro di Paola, tra cui Germano Maccari (che non ricordo perché uscì dal liceo Francesco d’Assisi prima del mio ingresso) ed Antonio Savasta, allora detto Toto. Quando fu arrestato ed iniziò a parlare, con alcuni compagni che lo conoscevano bene commentammo il fatto che avesse immediatamente aperto i rubinetti, non appena entrato in carcere. Chi di noi poteva immaginare che lo Stato democratico, che le istituzioni nate dalla Resistenza usassero la tortura! Credevo che simili metodi fossero prerogativa solo della spietata Germania, che suicidava la Bader Meinhof in carcere.
Oggi, dopo casi famosi di morti da pestaggio come Aldovrandi e Cucchi, dopo la Diaz lo hanno capito anche i bambini di che ferocia sono capaci i fedeli servitori dello Stato, ma sull’uso della tortura contro gli arrestati politici in quegli anni è caduto volutamente il silenzio.
Di quali illusioni ci nutrivamo noi giovani della FGCI, il potere borghese non ha necessariamente bisogno del totalitarismo per difendersi, anche nelle democratiche repubbliche si può usare la peggior violenza contro chi si oppone!
L’importante è che non trapeli nulla, la libertà di stampa è illusione anch’essa dove domina la sola legge del denaro e del profitto.
Non c’è bisogno di purghe, carcere o confino, anzi il potere tollera una certa quota di alternativi purché si resti nella nicchia e non si inneschino fenomeni critici di massa. Serve a dire che c’è democrazia, l’illusione appunto della democrazia borghese.
Ancor meglio se l’opposizione guarda il dito e non la luna come fanno nell’inutile Movimento 5 stelle, ben indirizzato su proteste qualunquiste che non mettono in discussione il capitalismo, anche loro attenti a ben isolarsi in una larga nicchia, ma pur sempre nicchia.
Per la verità molti compagni nella nicchia ci si trovano bene, hanno la libertà di criticare il sistema, fanno testimonianza dal loro posticino e si sentono appagati senza dover rischiare troppo di personale sulla via del socialismo. La CGIL ne ospita un discreto numero.
Per tutti gli anni settanta e i primi anni ottanta ho creduto che noi bravi comunisti saremmo riusciti a portare, seppur gradualmente, questo paese verso una società migliore, più equa, socialista, era inevitabile che accadesse! In migliaia giravamo nei quartieri, nelle campagne attaccando manifesti, distribuendo volantini, diffondendo il giornale. La gente avrebbe capito, giudicato e votato secondo coscienza e quindi comunista, o meglio per il PCI.
Una macchina organizzativa di quella potenza non poteva funzionare senza una certa dose di fideismo, come nella chiesa cattolica.
Di sicuro per molti compagni, quelli del popolo, quelli come mio padre, il PCI è anche stato una chiesa alternativa e la linea del partito non si criticava, se erano state fatte delle scelte da parte del quadro dirigente ci dovevano essere delle ragioni.
Questo approccio, che non mi sento di condannare nella base popolare che dava fiducia a priori al partito, ha portato al disastro della Bolognina, dove questa fiducia è stata via via mal riposta in dirigenti pusillanimi, supponenti e dannosi da Occhetto a Bertinotti, da Veltroni a D’Alema fino agli ultimi galletti della melmosa sinistra elettorale, quella a sinistra del PD.
Gli ultimi compagni di base arroccati nel PD attuale, parlo di quelli onesti in buona fede che venivano dal PCI (ci sono anche quelli in malafede che venivano dal PCI!), ancora si trincerano dietro questo abito mentale, oggi senza scusanti. Mi piace definirli militonti più che militanti, e Renzi li sta rendendo sempre più milipochi. Sanno solo ripetere la domanda retorica: ma che alternativa c’è al PD? Tenetevi Renzi.
Pensando da anni solo alle elezioni, la sinistra è ormai irreparabilmente affetta da cretinismo parlamentare.
Ho scoperto in questi anni che per quei compagni (quelli che si definiscono ancora compagni) è stato meno traumatico divorziare dal proprio partner che decidersi a lasciare un partito trasfigurato nella peggiore destra che si sia vista in Italia dopo il fascismo. Un cordone ombelicale difficilissimo da tagliare, un padre mostro che causa sofferenza ma che non si riesce a rinnegare.
Noi bravi ragazzi del PCI, noi bravi comunisti che pensavamo di cambiare il mondo attraverso le istituzioni borghesi eravamo degli illusi.
Le istituzioni borghesi concedono un po’ di diritti e di libertà fin quando temono la reazione popolare. Crollata l’Unione Sovietica ed il suo monito, che piaccia o meno, dilagata l’egemonia liberista, siamo ripiombati nello sfruttamento più sfrenato della forza lavoro e nella situazione precedente l’avvento del fascismo.
Questo vuol dire che avevano ragione loro, ovvero i compagni che sbagliavano, quelli che avevano imbracciato le armi negli anni settanta del novecento?
Ci ho pensato a lungo, pensando proprio alle donne raccontate da Paola, alla commozione che suscitano le loro vite spezzate, alla fragilità di alcune finite in un ingranaggio più grande di loro e più spietato di quanto potessero immaginare nell’età in cui tutto si crede possibile.
Il terrorismo va condannato senza se e senza ma…
Ero titubante anche allora su questa affermazione. I partigiani gappisti erano banditen, terroristi per il governo nazifascista, e non patrioti resistenti.
Terrorista è chi spara tra la folla, chi fa esplodere bombe che uccidono innocenti a caso, ma chi colpisce obiettivi mirati come definirlo? Le bombe, le stragi sono azioni delle quali si è sempre macchiato l’estremismo di destra ed il fascismo di Stato.
Viceversa mi chiedo, senza dare suggerimenti, se oggi venisse rapito o colpito un Marchionne o un Ichino quali sarebbero le reazioni?
Quelle ufficiali certo sarebbero di condanna, immagino ad esempio quella del mondo sindacale di cui faccio parte, magari condite da una certa dose di retorica, con comunicati stampa, dichiarazioni
della Camusso e degli altri due segretari, forse anche una manifestazione con annessa precettazione alla presenza di tutti i quadri sindacali per non sfigurare.
Sono ragionevolmente certa, però, che nel cuore della massa dei delegati di base e pure di un buon numero di quadri sindacali albergherebbe un sentimento di soddisfazione per la restituzione al mittente di una parte delle sofferenze inflitte ai lavoratori.
Il miglior giudizio sul terrorismo resta quello di Lenin, che dava degli attentati isolati rivolti verso il potere zarista non una conformista condanna morale in assoluto, ma una bocciatura sul pragmatico piano dell’utilità ai fini rivoluzionari, in quanto non utili e sovente controproducenti.
Non si può certo accusare Lenin di opportunismo o di essersi trincerato dietro una battaglia solo istituzionale, quando arrivò il momento di dare il fatidico colpo di cannone fu dato con decisone e questa è storia.
Mi chiedo dunque, dov’è il confine tra terrorismo e lotta armata? Quando si passa dalla condizione di gruppi armati ad esercito rivoluzionario? E quando la lotta armata si può definire vera rivoluzione? Tutto questo può ridursi solo ad una questione di numeri?
Se guardiamo alla storia delle rivoluzioni ed anche alla nostra guerra di Liberazione Nazionale sappiamo che il numero di chi effettivamente ne fece parte è ristretto, i partigiani in armi non erano la maggioranza della popolazione, semmai potremmo definirli una larga avanguardia in una parte limitata del territorio nazionale.
Lo stesso Lenin affermava, pur riconoscendo il ruolo trainante delle avanguardie rivoluzionarie, che la lotta armata non ha utilità né possibilità di successo senza un consistente consenso popolare alle motivazioni che spingono i combattenti all’azione.
Non so se le prime Brigate Rosse avessero effettivamente l’approvazione tacita nelle fabbriche del nord e negli strati sindacali, ero troppo giovane allora e mi piacerebbe conoscere le dirette testimonianze di chi lavorava in quelle fabbriche allora.
Per quello che ricordo dalla seconda metà degli anni settanta, se pure c’era un generico largo consenso tra i giovani, gli studenti in particolare, nel resto della popolazione del popolare quartiere romano dove vivevo gli anni di piombo venivano percepiti con sgomento e confusione, sentimenti che albergavano anche tra le fila dei militanti del PCI.
Il sequestro Moro fu l’inizio della fine per tutti noi, sia per i bravi che per i cattivi ragazzi comunisti.
Gli anni novanta fecero il resto.
E oggi?
Oggi che tutto sembra perduto dobbiamo rimboccarci le maniche e ricominciare daccapo, come esortava Gramsci, ma invero non si riparte mai da zero.
In Russia ed in diversi paesi dell’est, pur con distinzioni geografiche e culturali, è tornato un sentimento nostalgico verso l’imperfetto modello economico sovietico, perché pare che il peggior socialismo sia migliore del miglior capitalismo.
Giocherà anche a favore la nostalgia verso la perduta giovinezza da parte della generazione degli ultracinquantenni, ma soprattutto si fa sentire la delusione verso il modello capitalista che ha disatteso le millantate promesse di benessere e consumismo generalizzato per tutti, peggiorando le condizioni di vita dei molti per l’arricchimento dei pochi, anzi dei pochissimi.
Ora che anche il Times dà ragione a Marx ma deride le masse popolari che non fanno la lotta di classe, tocca a noi mantenere viva la scintilla, l’Iskra che prima o poi riaccenderà la rivolta contro la minoranza di ricchi e potenti, con qualsiasi mezzo, e dubito che si faranno da parte con le buone.
La costruzione di un’economia e di una cultura veramente comunista, di condivisione e cooperazione, è l’unica strada per la sopravvivenza del pianeta, se non verrà prima distrutto dal capitalismo.
Socialismo o barbarie, la profezia della grande Rosa, è ciò che ci aspetta.
Dietro un suicidio, quello di una persona cara, poco importa se la conoscessi di persona oppure no, c’è sempre una sconfitta.
Non sono credente, e quindi ritengo la vita patrimonio assoluto di chi la possiede: non possiamo scegliere di nascere, ma possiamo, e dobbiamo poter scegliere di andarcene, quando e come vogliamo.
Ci sono individui però che, magari anche solo per poco tempo, perdono la caratteristica di “singolo” e rivestono appieno quella, infinitamente più bella e appagante, di, come dire, “bene della comunità”.
Non potei partecipare al funerale di Edo Massari.
Tutti coloro che ci andarono, e con cui parlai, mi raccontarono qualcosa di Maria Soledad, tutti mi descrissero una figura toccante, dignitosa, una donna incredibilmente forte e dolce.
Forte e dolce insieme, felice binomio delle donne, piccolo miracolo genetico che gli uomini possono soltanto invidiarci.
Ricordo di aver pensato che avrei dovuto, che avremmo dovuto, andare a trovarla, in carcere e poi nella comunità in cui era andata a vivere, che sicuramente valeva la pena conoscerla, parlarle, che non bisognava perdere l’opportunità di divide re anche un’ora soltanto con quella donna, che parlava con tanta dolcezza al suo compagno, quasi cullandone l’ultimo viaggio, seduta sul bordo della fossa scavata da poco, che aiutata dal suo idioma natale, così musicale, lo rimproverava per averla lasciata sola a combattere quella che era stata la loro battaglia. Girava un adesivo, a quel tempo, con scritte alcune frasi di Edo.
“Vivere al di fuori delle leggi che asserviscono, al di fuori delle regole strette, al di fuori anche delle teorie formulate per le generazioni a venire…”.
Ricordo che lo appiccicai sulla copertina dell’agenda, per non correre il rischio di dimenticare, una volta finito il clamore, perché almeno nel mio cuore, nella mia coscienza, Baleno non scivolasse dalla prima pagina a un trafiletto della cronaca.
“Vivere senza credere al miraggio del paradiso terrestre…”. Un’altra corda appesa al cielo, oggi, la sua. Dove stava? Ah sì, in un posto nelle Langhe. Avremmo dovuto continuare a occuparcene, a chiedere, almeno a sapere come stava.
“Vivere per l’ora presente al di là del miraggio delle società future, vivere e palpare l’esistenza del piacere fiero della guerra sociale…” .
Avremmo dovuto? Mica cadremo nella retorica, nei falsi moralismi?
No.
Lo dico per noi, non per lei. Per non ritrovarci adesso con il cuore svuotato, con l’anima
svaligiata.
Con il desiderio di fermare la gente per strada e dire “oggi non si ride, non si cammina, oggi ci si ferma tutti e si condivide questa pena troppo grande”.
“Vivere e palpare l’esistenza del piacere fiero della guerra sociale…” .
Dura per chi non crede in dio, né nella vita eterna.
Che se ne sia andata per riposare, o per amore, o chissà per cosa, Soledad ci ha lasciato un mare di ricordi e di pensieri, fatti e ancora da fare.
Una storia d’amore da raccontare, un sogno, il suo, e di Edo, quello di “una maniera di essere, e subito!”.
Non sono passati invano, Edo e Soledad, e non se ne andranno mai per sempre.
Questa, permettetecelo, è la nostra vita eterna.
Un murale che parla (in negativo) di noi
L’altezza della sfida che vogliamo affrontare come militanti politici ci impone di saper guardare con occhi critici non soltanto il mondo, ma anche mettere continuamente in crisi e al vaglio dell’efficacia della prassi le nostre identità, i nostri percorsi, le nostre analisi, i comportamenti che consciamente o inconsciamente adottiamo quotidianamente.
E’ la sfida che dovrebbero cogliere i sinceri rivoluzionari: partire dalle proprie inadeguatezze per cercare di superarle.
Partire da uno sguardo critico sulle nostre realtà, per saper rapportarci al mondo e alla composizione della nostra classe senza frustrazioni per gli insuccessi delle nostre iniziative e del nostro radicamento, o per risultati che non reputiamo soddisfacenti rispetto alle aspettative nutrite e coltivate nel tempo.
Non è la classe ad essere inadeguata, siamo noi che non sappiamo coglierne in maniera del tutto sufficiente i desideri, svilupparne le rigidità, attraversarne le contraddizioni per farle esplodere, ricomporla su un terreno di scontro contro l’attuale sistema di dominio.
Non crediamo che sia facile e non abbiamo ricette confezionate da servire come se fossimo scienziati della rivoluzione, quello che possiamo e dobbiamo fare è guardarci con onestà e capire dove ci stiamo muovendo bene e svilupparne le potenzialità, dove siamo carenti e assenti e cercare di capire come invertire rotta.
Ma per fare tutto ciò dobbiamo guardare noi stessi, le nostre assemblee, i nostri collettivi e modificare (e quale scuola migliore della prassi?) le nostre inadeguatezze, i nostri limiti soggettivi.
E così la presentazione di un libro e l’intervento di una compagna può gettare luce sui nostri limiti, sulla riproposizione e riproduzione anche all’interno di realtà di movimento di dispositivi che diciamo di combattere: in questo caso di dinamiche sessiste.
Silvia Baraldini, durante la presentazione del libro “Sebben che siamo donne” nel nostro spazio sociale, ha fatto notare come il murale raffigurante la testa di un corteo che si muove sotto uno striscione con scritto “Working class” fosse composto quasi esclusivamente da uomini; solo due donne attraversano la mobilitazione immortalata: una composizione di classe non solo anomala, ,ma del tutto erronea.
L’elemento femminile è completamente rimosso.
Sintomo di un pregiudizio inconscio, di un rimosso in buona fede, ma esplicativo di un atteggiamento mentale figlio della società in cui viviamo che relega le donne a posizioni ausiliarie; e quando queste assumono e impongono la centralità delle loro presenze e delle loro scelte ne viene osannata l’eccezionalità, trascurandone il ruolo centrale che sempre ebbero nella storia e nei suoi molteplici sviluppi.
Potremmo spingerci oltre: i manifestanti ritratti sono tutti bianchi. Curioso che proprio in questi ultimi anni una composizione operaia soprattutto migrante abbia animato e portato avanti le lotte più radicali nelle cooperative della logistica.
E’ questo il merito principale del libro di Paola Staccioli e della discussione condotta con lei e con Silvia in merito al libro “Sebben che siamo donne”: la presentazione e la proposta di un punto di vista assolutamente interno alla soggettività militante femminile che dagli anni ’70 fino agli anni 2000 ha portato avanti in autonomia la propria scelta di alterità rispetto ad un presente e ad una società malati e profondamente ingiusti; un punto di vista partigiano espresso con tale forza e autenticità da sollevare e incrinare, per chi ha l’onestà intellettuale di cogliere e riconoscere le proprie contraddizioni e i propri limiti, un atteggiamento inconscio che come uomini (e bianchi) riproduciamo nella nostra militanza e nel nostro agire collettivo.
Il libro di Paola Staccioli, “Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie” ha destato in noi fin da subito interesse, per l’esigenza di sentire una voce diversa rispetto a una storia sempre mistificata e distorta; mistificata e distorta sotto due punti di vista: da un lato, perché in Italia della storia della lotta armata non si può ancora parlare liberamente, ed, anzi, è di fatto sempre peggio, in un paese sempre più forcaiolo e iper-legalitarista, in cui ogni azione che esula anche minimamente dal tracciato della legalità viene tacciata di violenza e verso cui si invocano le più severe punizioni (come ci dimostra il nuovo ddl sicurezza di Alfano, in cui vengono chiesti 5 anni di carcere per chi alla manifestazioni si porta il casco o altri indumenti adatti al travisamento, anche senza che ci siano episodi di violenza o penalmente rilevanti); dall’altro, perché tutt’oggi l’immaginario militante, rivoluzionario, antagonista rimane, almeno al livello del main-stream, un immaginario maschile, nonostante l’evidenza della grande partecipazione delle donne.
Questo tipo di narrazione viene da lontano, la ritroviamo in qualsiasi movimento popolare in cui la presenza delle donne sia stata di qualche rilevanza. Per parlare esclusivamente della storia dell’ultimo secolo, lo possiamo leggere negli articoli di giornale durante il Biennio Rosso o nelle schedature di polizia di epoca fascista, in cui le sovversive venivano definite “Streghe”, “arpie” o trattate come folli, in ogni caso anormali, diverse dalle altre donne perbene, dedite esclusivamente al ruolo materno. Delle sovversive e delle antifasciste venivano indagate le condotte morali e sessuali, spesso definite come prostitute perché frequentanti la compagnia maschile dei compagni. In ogni caso, non veniva riconosciuta la loro capacità autonoma di autodeterminazione in ambito politico e si reputava che abbracciassero la fede politica del marito o del compagno.
Questa impostazione mentale sessista e misogina non risparmiava nemmeno i loro stessi compagni: basti pensare al fatto che, al momento della liberazione, capitò che alcuni gruppi partigiani invitarono la loro componente femminile a non sfilare, per paura che le considerazioni sulla promiscuità di vita durante la lotta in montagna compromettessero l’onorabilità e la serietà del PCI. Le testimonianze delle compagne partigiane raccontano come anche dai partigiani veniva dato per scontato che certi lavori quali cucinare, pulire, rammendare i panni dei combattenti fossero svolti dalle donne. Spesso ancora oggi si crede che il ruolo delle donne nella resistenza fu soprattutto non violento, che si limitò quasi esclusivamente al cosiddetto “maternage di massa” o al ruolo della staffetta: queste attività fondamentali per la vittoria della resistenza ed anche molto rischiose per troppi anni sono state svalutate e dimenticate ed è dunque importantissimo dar loro oggi il giusto riconoscimento, ma senza dimenticare l’impegno delle 35.000 partigiane combattenti e senza permettere che lo status quo patriarcale con la sua divisione dei ruoli possa trovare in queste attività di lotta una rassicurante conferma.
Facendo un salto temporale al periodo da cui il libro di Paola Staccioli incomincia, possiamo citare come esemplificativo del modo di considerare le donne del movimento da parte della stampa, ed in particolare di quella legata al Partito Comunista, un articolo de L’Unità datato 16 luglio 1971, riguardo una occupazione abitativa a Bologna da parte di Lotta Continua, Potere Operaio e altri gruppi della sinistra extraparlamentare. Così scrive l’articolista: “Una riprova della mancanza di ogni disponibilità a chiarire il proprio stato […] è stata fornita ieri dagli ex-occupanti del Pilastro, o meglio dalle loro mogli e madri, che accompagnate dalle solite bambine – di buona famiglia – che giocano a fare la rivoluzione (come le loro madri giocavano alle crocerossine) hanno sbraitato per alcune ore verso i rappresentanti della civica amministrazione senza fornire le loro richieste”; in un altro passaggio definisce un’assemblea in Università, “un’assemblea di studenti e ragazzine”.
Non dobbiamo però pensare che questo tipo di narrazioni siano relegate solo al passato: anche se in maniera più sfumata (e dunque più subdola) possiamo notare come ancora oggi, quanto ancora valga ciò che Paola Staccioli scrive nella sua introduzione: “Nel sentire comune una donna prende le armi per amore di un uomo, per cattive conoscenze. Mai per decisione autonoma. Al genere femminile spetta un ruolo rassicurante. Madre, moglie, figlia. Amante, al più”. D’esempio può essere la lettura di questa incredibile (sia nel senso di poco attendibile che di assurdo!) intervista uscita ne La Stampa di Torino il 30 giugno 2015: http://www.corriere.it/cronache/15_giugno_30/mara-black-bloc-le-pietre-tav-non-so-cosa-protesto-
79c46868-1efa-11e5-be56-a3991da50b56.shtml . Anche qui “Mara la Black Bloc No Tav” non sa
decidere autonomamente riguardo alla sua posizione politica, ma fa quello che le dicono gli amici conosciuti al centro sociale dove è capitata per caso, come in un posto rassicurante in qui stare dopo aver perso tutta la sua famiglia. Non c’è consapevolezza, scelta, razionalità in lei, ma solo bisogno di “casa”; che poi questa “casa” sia il centro sociale, la Val di Susa o la famigliola da Mulino Bianco fa poca differenza.
Intervento in occasione della presentazione del libro Sebben che siamo donne, sabato 11 aprile 2015.
Cari e care, continua il nostro percorso di riflessione e discussione sulla storia dei movimenti sociali e dei gruppi organizzati che negli ultimi quarant’anni hanno cercato di trasformare le crisi capitalistiche in occasione di liberazione per la classe lavoratrice e via via per i lavoratori precari, per i disoccupati fino ad arrivare all’oggi nel pieno di una crisi globalizzata dove ogni nuda vita viene messa a valore dal capitalismo finanziario.
Nella narrazione di dieci brevi biografie di donne, attiviste di organizzazioni rivoluzionarie cadute nel corso della militanza impugnando le armi o effettuando azioni illegali, pur con ottiche e pratiche diverse, si può leggere una storia di sovversione sociale mai compiutasi fino in fondo che comunque trasmette lasciti importanti che non possono e devono essere appiattiti nello stigma degli “anni di piombo” e del “lottarmatismo”.
Veneto, Thiene, aprile…
11 Aprile del ‘79, in contemporanea con l’assemblea nazionale dell’area dell’Autonomia Operaia che si svolge a Padova per gli arresti del 7 Aprile, a Thiene (VI), attorno alle 17 del pomeriggio, una terribile esplosione provoca tre giovanissime vittime: Antonietta Berna di anni 21, Angelo Dal Santo, 24 anni ed Alberto Graziani, 25 anni, militanti dei Collettivi Politici Vicentini e conosciuti nel territorio per il loro agire di giovani operai rivoluzionari, sempre attenti e presenti nelle dinamiche di lotta contro l’oppressione che la fabbrica diffusa genera nell’intera provincia. L’appartamento di via Vittorio Veneto dove avviene la tragedia è affittato da Lorenzo Bortoli che lo condivide con Antonietta, sua compagna. Al momento della tragedia Lorenzo si trova al lavoro presso la ditta Big Flash di Sarcedo dove è occupato da un paio di anni.
Antonietta, Alberto Angelo da quel maledetto 11 aprile del 79 sono diventati un’unica identità, impossibile da separare, alla quale purtroppo è andato ad aggiungersi Lorenzo.
Ma sono un’unica identità soprattutto alla luce del percorso condiviso nel territorio, della socialità quotidiana, dell’appartenersi nella costruzione del nuovo mondo possibile.
Così come lo è stato per la parte attiva di quella generazione… un processo indispensabile per costruire quello spazio politico necessario a contrapporre la questione dei bisogni sociali e la loro soddisfazione all’ideologia della produttività e della competitività e più in generale alle politiche di austerità ed ai modelli di governamentalità che trasformarono e trasformano le costituzioni democratiche in meri dispositivi di controllo, funzionali a garantire i flussi del capitale finanziario.
Perchè viene presentato questo libro.
Vorremmo scavare in quel tempo, negli anni 70, per capire quanto del vissuto di allora nell’affrontare quella crisi economica, quella dei “sacrifici”, può fornirci strumenti per affrontare quella di oggi di crisi, sempre quella dei “sacrifici” ma con le modalità del XXI secolo. Una riflessione che comprende l’uso della forza armata ma di come questa fosse interamente e solamente uno strumento nella costruzione dell’autonomia di classe e del contropotere.
L’11 Aprile del ’79
4 giorni prima, il 7 di Aprile il P.M. di Padova Calogero aveva emesso numerosi mandati di cattura dando il via a quella che poi sarebbe stata conosciuta come l’inchiesta “ 7 Aprile “.
La repressione si era fatta sentire anche nel vicentino nei mesi precedenti. Già a Dicembre con la presenza del generale Dalla Chiesa e nei primi mesi del 79 con arresti e denunce.
Come sempre succede è per generosità che i compagni decidono di spendersi contro la repressione, ed anche in questo caso fu la generosità a muovere Antonietta Alberto ed Angelo.
11 Aprile 2015
Sono passati 36 anni da quei tragici giorni e la vicenda storica si è dipanata nella sua interezza. Il teorema Calogeriano si è rivelato per quello che fin da subito era stato denunciato dal Movimento: la criminalizzazione dei comportamenti antagonisti e conflittuali che pubblicamente si manifestavano contro lo stato di cose presenti. Di tutto il resto, Negri capo delle B.R., l’insurrezione armata contro i poteri dello stato, il sequestro di Moro ecc. ecc. non rimase nessuna traccia. Ma tuttavia decine e decine di compagni furono sepolti per anni ed anni di carcere solo attraverso l’uso della pena preventiva per essere poi assolti, altri subirono condanne attraverso chiamate di correità che definire provocazioni è poca cosa. Ma così volevano i potenti che le cose andassero in quel momento.
Perché? Perché mai in tutto lo sviluppo capitalistico c’era stato un movimento di lotta così radicato e radicale come quello che aveva preso forma in Italia a partire dalla fine degli anni 60 e che aveva avuto la capacità di attraversare in forma critica ed organizzata gli anni 70. Un movimento che ha posto con forza la possibilità di uscire dalle crisi capitalistiche praticando una reale rottura rivoluzionaria e che aveva scosso in profondità le certezze padronali, arrivando a esercitare sui medesimi forme concrete di contropotere.
Rifiuto del lavoro, illegalità di massa, sabotaggio armato del comando, sviluppo del contropotere operaio furono per una generazione il pane quotidiano che permise di restituire la paura a chi la paura la costruisce quotidianamente per mantenere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Questo successe anche nel Veneto e nell’Alto Vicentino, questa è la storia alla quale appartiene Antonietta e con lei Lorenzo Alberto Angelo, ma anche moltissimi altri.
Non è una “storia combattente” come in altri casi di compagne che hanno trovato la morte in quegli anni, nessuno era clandestino né apparteneva a quel tipo di orizzonte politico.
È una storia del Movimento, legata alla cultura ed alle pratiche politiche che hanno consegnato alla storia il 77: la cacciata di Lama dall’Università della Sapienza, il ferimento di Paolo e Daddo, Francesco Lo Russo ed il Marzo bolognese, il Convegno contro la repressione del settembre e poi lungo tutto il potente 78 con la capacità di costruire nei singoli territori tutta questa potenza conflittuale. Aggredendo la giornata lavorativa sociale, lottando contro l’uso degli straordinari per lavorare tutti lavorando meno, per il reddito garantito a tutti indipendentemente dall’ideologia lavorista, per il comunismo.
Questa è stata la nostra eresia, tanto voluta e cercata quanto potente.
Questo è il lascito reale dei nostri compagni che da quell’Aprile non ci sono più perché è quel periodo storico e collettivo che li contiene. Individuare nella frazione di secondo che troncò le loro giovani vite significa operare una semplificazione inaccettabile.
Proviamo invece a ricostruire quale era la quotidianità, la potenza sociale e politica che questi compagni riuscivano a liberare, perché questa e una chiave di lettura che ci sembra spendibile ancora oggi. Perché ce li restituisce nella loro soggettività spesa dentro al conflitto di classe, nella capacità di ognuno di loro di verificare su se stesso la qualità del progetto politico, in tutti i suoi aspetti. Ce li restituisce nel loro quotidiano valorizzarsi dentro gli spazi liberati dall’agire rivoluzionario, della gioia collettiva che conquistava quel nuovo mondo attraverso nuovi soggetti, nuove donne e nuovi uomini che ogni giorno agivano per la loro trasformazione. Negando l’ideologia lavorista, deridendo quel socialismo reale targato PCI, negando lo sfruttamento e sabotando sia la macchina che lo produceva che chi lo sosteneva, padroni d’industria, forze politiche e repressive o pennivendoli. Attaccando. Costruendo attaccando. Sostenendo l’eresia che esisteva nella lotta di classe la possibilità rivoluzionaria di rovesciare la crisi capitalistica e liberarci dalla schiavitù del lavoro.
E tutto questo praticato e costruito in un angolo di provincia che per quanto importante come quella vicentina si innerva in un territorio circoscritto, compreso nel quadrato che va da Breganze a Piovene, da Malo a Schio, con una popolazione che all’epoca dei fatti non arrivava alle centomila persone residenti. Dentro questi confini Thiene, Zanè, Marano, S. Vito, nomi ricorrenti nel conflitto operaio lungo tutti gli anni 70.
Eccolo ancora quel quotidiano, capace di praticare e gestire un conflitto rivoluzionario affidandosi unicamente alla propria intelligenza, alla capacità di verificare nel concreto quanto l’agire andava costruendo nel territorio. Dentro al quale l’agibilità era pressoché totale dal momento che li dentro eravamo nati e cresciuti, e di cui maturavamo una conoscenza sempre più affinata. Da Aprile a Dicembre 78 la lotta autonoma dell’operaio sociale contro la giornata lavorativa nel territorio aveva assunto un peso rilevante nel conflitto operaio e di classe. Era questo profilo politico che impediva alla repressione di intervenire, non la raccolta di prove. Già alla fine del 78, dopo la campagna armata d’Organizzazione contro il lavoro direttamente produttivo, a reprimere quanto succedeva in questo territorio intervenivano in sinergia prima Guido Carli, presidente di Confindustria, e poi Carlo Alberto Dalla Chiesa, con il suo codazzo di fermi e perquisizioni.
Ma le lotte continuavano.
LA VENDETTA
La vendetta è stata quindi scaricata sull’undici aprile. Prima cercando senza riuscirci di modificare infangando la storia dei compagni morti, poi con gli arrestati imputati di relazione affettiva con i medesimi e che ha provocato la morte di Lorenzo Bortoli suicida in carcere a Verona nel Giugno del 79, infine nell’aver scaricato sul territorio per settimane una trama repressiva carica d’odio, unica, almeno per l’esperienza del movimento in Italia.
Fermi quotidiani, un centinaio di perquisizioni, venti arrestati, minacce continue, provocazioni, l’uso di più elicotteri contemporanei, il tentativo respinto di carica ai funerali di Angelo. Questo, lo ripeto, sino alla fine di maggio, ad oltre un mese dall’inizio del tutto. Nonostante questo, enorme è stata in quei momenti la capacità di rivendicare i compagni come propri, basta pensare alla presenza di centinaia e centinaia di persone ai funerali.
Trentasei anni sono passati dal tragico 11 Aprile del 79. Chi ha vissuto direttamente quel periodo storico all’epoca dei fatti aveva poco più di vent’anni, oggi ne ha sessanta. Poco, quasi nulla è stato fatto in tutti questi anni ad impedire una sorta di sofferta rimozione. Questo stride con la forza e l’intelligenza con cui fin da subito l’intera vicenda viene rivendicata da tutto il movimento, prescindendo dalla condivisione o meno dell’uso della forza.
Perché? Sicuramente la dimensione della tragedia “paralizza” nella sua enormità, ma, agisce sicuramente anche una sorta di paralisi dovuta alla modalità della tragedia. Tanta è la discrasia tra la quotidianità dei compagni con l’attimo che spegne le loro vite, come se quest’ultimo, nella sua enormità, impedisse di vedere, di capire, di condividere quella quotidianità. Quella quotidianità è esistita, abbiamo in poche righe voluto ricordarla come lo stesso libro qua’ presentato la racconta anche se compressa in poche pagine.
Ad Antonietta, Alberto, Angelo e Lorenzo
Venerdì 2 ottobre 2015, Schio (VI)
Presentazione del libro di Paola Staccioli
Sebben che siamo donne – storie di rivoluzionarie
con una testimonianza di Silvia Baraldini.
Le donne lavoratrici hanno avuto sempre, e ancora hanno adesso, un ruolo fondamentale non solo nella lotta per strappare alle classi dominanti una serie di importanti conquiste sociali ed economiche e per difenderle, ma anche nella lotta rivoluzionaria, per la conquista del potere politico e per la trasformazione della società.
Alla fine dell’800, in molti Paesi occidentali attraversati da una fase di crescita economica, l’effetto congiunto dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione aveva dato una notevole spinta al processo di emancipazione delle donne.
L’espansione dell’industria manifatturiera – dovuta in misura determinante all’introduzione delle nuove tecnologie nei processi produttivi – aveva innescato dei massicci flussi migratori di lavoratori non qualificati, di cui una parte rilevante era composta da donne, dalle campagne verso le città. L’ingresso in massa delle donne nel mondo del lavoro – e in alcuni settori industriali, in particolare quello tessile e dell’abbigliamento, le donne costituivano, insieme ai bambini, la maggioranza della popolazione lavoratrice – provocò profondi cambiamenti nella loro mentalità e nelle loro abitudini.
La fuoriuscita delle donne dallo stretto ambito familiare-domestico, in cui per secoli erano state relegate, permise loro di entrare in contatto e di stringere rapporti organizzativi con i propri simili, ossia donne e uomini con cui lavoravano fianco a fianco, con le stesse mansioni, in condizioni disumane.
Esse assunsero un ruolo fondamentale nelle dure lotte operaie per il miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro, scoppiate in quegli anni, ruolo che le portò a una più viva coscienza dei loro diritti e delle loro rivendicazioni nei confronti della società.
In quel periodo le donne erano escluse dal voto e dalle cariche politiche, inoltre per le donne lavoratrici vigeva il divieto d’accesso all’istruzione di grado superiore; percepivano un salario nettamente inferiore a quello degli uomini e quotidianamente dovevano sobbarcarsi, dopo una faticosissima giornata di lavoro in fabbrica, sia le faccende domestiche sia la cura delle proprie famiglie.
Verso la fine dell’Ottocento, nel Regno Unito, nacque il movimento femminista delle suffragette che si poneva l’obiettivo di raggiungere la parità dei diritti politici e civili tra i sessi, in particolare l’estensione del suffragio universale alle donne (da cui deriva il nome di suffragette assegnato alle sue militanti).
Questo movimento, che si diffuse poi in molti altri Paesi, mise in atto diverse forme di protesta, anche quelle più radicali, come le manifestazioni di piazza, i cortei verso il parlamento, il disturbo ai comizi dei politici e gli attentati incendiari a negozi e a edifici pubblici.
Ciononostante le suffragette conquistarono le loro prime vittorie soltanto al termine della Prima Guerra mondiale.
La lotta per l’emancipazione femminile subì un salto di qualità incommensurabile quando le donne lavoratrici cominciarono ad aderire attivamente al movimento rivoluzionario di allora, facendo propri concetti come rivoluzione, lotta di classe, interesse generale.
Abbracciando l’ideologia marxista, esse giunsero alla conclusione che nessuna reale liberazione della donna sarebbe mai potuta avvenire all’interno della società capitalistica. Essa si fonda infatti sulla divisione in classi in continua lotta tra loro, e sullo sfruttamento del lavoro di una classe da parte di un’altra.
L’unica strada che avrebbero dovuto percorrere per un’effettiva emancipazione era quella della lotta senza quartiere contro il sistema capitalistico, dalle cui macerie si sarebbe eretta una nuova società, di liberi e uguali.
La Seconda Internazionale (1889-1914) si impegnò a fondo nella lotta per l’ottenimento dei diritti politici, civili, economici, sociali e culturali delle donne.
Una delle figure più attive sul fronte dell’emancipazione femminile fu la dirigente marxista tedesca Clara Zetkin. Con il suo duro lavoro e l’impegno profuso, contribuì in modo decisivo a far sì che il movimento socialista internazionale portasse avanti con determinazione e tenacia la battaglia per l’uguaglianza dei diritti tra i sessi, la tutela della donna lavoratrice, la parità di opportunità lavorative e di salari, l’educazione (anche quella politica) e la protezione dell’infanzia, una battaglia inserita nel più vasto quadro della guerra rivoluzionaria.
È grazie soprattutto a Clara Zetkin che la Conferenza Internazionale delle donne socialiste, tenutasi a Copenaghen dal 26 al 27 agosto del 1910 istituì la Giornata Internazionale della donna per far sì che le donne di tutto il mondo scendessero in piazza per lottare per la propria liberazione.
Di seguito riportiamo alcune dichiarazioni rilasciate dalla Zetkin durante il Congresso socialista internazionale di Stoccarda del 1907:
Il diritto di voto aiuta le donne borghesi ad abbattere quelle barriere che ostacolano la loro possibilità di formazione e di attività sotto forma di privilegi del sesso maschile. Per le proletarie questo diritto rappresenta un’arma per la battaglia che esse devono combattere perché l’umanità abbia il sopravvento sullo sfruttamento e sul dominio di classe; consente loro una partecipazione maggiore alle lotte per la conquista del potere politico da parte del proletariato al fine di superare l’ordinamento capitalista e di edificare quello socialista, il solo che permetta una radicale soluzione della questione femminile (…).
Le proletarie non possono dunque contare sull’appoggio delle donne borghesi nella lotta per i loro diritti civili; le contraddizioni di classe escludono che le proletarie possano allearsi col movimento femminista borghese. Con ciò non si vuol dire che esse respingono le femministe borghesi se queste ultime, nella lotta per il suffragio femminile universale, dovessero mettersi al loro fianco e al loro seguito per battere su fronti diversi il comune nemico. Ma le proletarie devono essere perfettamente coscienti che il diritto di voto non si può conquistare attraverso una lotta del sesso femminile senza discriminazioni di classe contro il sesso maschile, ma solo con la lotta di classe di tutti gli sfruttati, senza discriminazioni di sesso, contro tutti gli sfruttatori, sempre senza alcuna discriminazione di sesso.
Solo con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 in Russia le rivendicazioni femministe vennero concretamente realizzate. Durante la Prima Grande Guerra Imperialista, le donne in Russia sostituirono gli uomini al fronte in molte occupazioni, tradizionalmente maschili.
Grazie all’accesso al lavoro in fabbrica ed al contatto diretto e costante con le forze rivoluzionarie di quel tempo, tra cui assunsero un ruolo determinante le forze bolsceviche, le donne presero sempre più coscienza della loro condizione sociale e lavorativa, della loro forza e della necessità per i lavoratori di organizzarsi per combattere un sistema fondato sul privilegio, sullo sfruttamento e sull’oppressione di una classe ad opera di un’altra.
Esse contribuirono notevolmente a sviluppare e a diffondere in Russia il movimento rivoluzionario e si resero protagoniste di episodi salienti della lotta per la presa del potere.
Con la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, le donne russe ottennero conquiste sociali, politiche ed economiche che le donne del resto del mondo avrebbero ottenuto solo molti anni dopo.
Per la prima volta al mondo una donna, Aleksandra Kollontaj, venne nominata ministro ed entrò nel nuovo esecutivo come commissario del popolo per l’Assistenza Sociale.
Con l’apporto decisivo della Kollontaj, il nuovo governo rivoluzionario varò una serie di leggi finalizzate a raggiungere una reale emancipazione del genere femminile: riconobbe e garantì alle donne gli stessi diritti degli uomini, istituì il matrimonio civile, sancì l’uguaglianza fra marito e moglie, eliminò la distinzione tra figli legittimi ed illegittimi, riconobbe il diritto di voto alle donne, istituì il divorzio e l’aborto, tutelò le lavoratrici madri attribuendo loro il diritto all’aspettativa retribuita di 16 settimane prima e dopo il parto, all’esenzione da lavori troppo pesanti, impose il divieto di trasferimento e licenziamento per le madri in attesa e la proibizione del lavoro notturno per donne in gravidanza e puerpere, stabilì l’istituzione di appropriate cliniche della maternità, ambulatori, consultori, asili per l’infanzia.
Nella democratica Italia, invece, le donne ottennero il diritto di voto solo nel 1946, dopo la Resistenza, durante la quale le donne rivestirono un ruolo importante.
Fu tra la seconda metà degli anni ’60 e la fine degli anni ’70 del secolo scorso, in coincidenza con la generale ondata di lotte (sindacali, politiche, sociali e culturali) che investì e scosse violentemente la società italiana, che la questione femminile tornò prepotentemente alla ribalta.
In questo periodo, caratterizzato da un aspro conflitto tra le classi in campo, le donne italiane furono protagoniste di importanti battaglie, grazie alle quali ottennero il diritto al divorzio nel 1970 e quello all’aborto nel 1978.
Storie di rivoluzionarie: frammenti di contesto storico-politico italiano e locale
Pur sostenendo che il movimento degli anni ’70 sia stato per certi aspetti centrale nello sviluppo della lotta di classe dopo l’esperienza della Resistenza partigiana, non si può comunque pensare che il ciclo di lotte che negli anni Settanta in Italia ha dato vita ad un’eccezionale e variegata spinta culturale e politica di carattere rivoluzionario, non sia stato anche il frutto di quanto accaduto nel decennio precedente.
Sono anni, questi, che segnano l’avvio di una rivoluzione culturale: con la scolarizzazione di massa, l’inurbazione, il boom economico, la società del nostro Paese cambia faccia.
Cambiano i costumi, i rapporti all’interno della famiglia. Le conseguenze, dal punto di vista politico, sono rilevantissime. Sia nella gestione del potere, sia negli equilibri tra le forze politiche. All’interno della sinistra, quella storica, si affacciano nuove esigenze e nuove istanze. È in parte una guerra dei figli contro i padri. È in parte, nella mitologia della sinistra italiana, la continuazione della guerra di Resistenza.
Il capitalismo, in forte crescita e sviluppo dopo la devastazione del secondo conflitto mondiale, si trova a fare i conti con una classe lavoratrice che, di lotta in lotta, conquista terreno, facendo diminuire il tasso di sfruttamento esercitato nei suoi confronti. Questo in estrema sintesi, semplicemente perché, essendo il capitalismo in forte espansione e avendo dei margini di guadagno elevatissimi, concedeva ai lavoratori qualcosa in più.
In cambio chiedeva un controllo sulla garanzia della produzione, pur essendo consapevole che i rapporti di forza avrebbero potuto modificarsi.
Contemporaneamente centinaia di proletari e proletarie scoprono la fabbrica. In maggioranza di origine contadina, questa massa di lavoratori entra all’interno di una fabbrica che proprio in quegli anni sviluppa al massimo un’organizzazione del lavoro basato sulla non-professionalità, sulla massificazione delle operazioni manuali, sull’aumento dei ritmi, sulla dequalificazione delle funzioni, su una produzione di massa, insomma, che non tiene certo in gran conto i bisogni, le esigenze, la dignità dei lavoratori.
Il Pci e i sindacati si dimostrarono incapaci di capire quello che maturava sotto i loro occhi e di conseguenza la loro presenza nei luoghi di lavoro quasi sempre sarà un ostacolo in più che gli operai dovranno superare per poter gettare, sul terreno dello scontro con il padrone, i loro bisogni.
In fabbrica si riscopre la democrazia di base. L’assemblea diventa l’organo sovrano di discussione e decisione. È nell’assemblea, scavalcando la burocrazia sindacale, che si pongono gli obiettivi che caratterizzeranno il biennio ’68-’69 e gli anni successivi. Dalle lotte per le pensioni agganciate al salario, alla lotta contro le gabbie salariali, per un salario minimo garantito per tutti, per la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore, contro la nocività, per l’assistenza e le ferie uguali per tutti.
Ma la situazione agli inizi degli anni Settanta gradualmente si modifica, con le prime avvisaglie di un’altra crisi capitalista. L’atteggiamento capitalista cambia, la ristrutturazione è la mossa obbligata. L’attacco alle condizioni dei lavoratori è necessario per continuare ad incamerare profitti, altrimenti non realizzabili e per continuare quindi a concorrere nel mercato e nelle vendite.
Iniziano gli attacchi capitalisti per erodere le conquiste ottenute dalla classe lavoratrice nella fase precedente. Il tutto con l’avvallo del PCI, non più padrone della protesta operaia e partito esegeta del marxismo, bensì partito pesante, poco presente sul luogo del conflitto e in cerca di potere più che di rappresentanza.
In piena strategia della tensione (leggasi Stragi di Stato) e dopo il colpo di stato fascista in Cile, il Pci teorizza il compromesso storico che porterà alla solidarietà nazionale interclassista, con conseguente smobilitazione e freno alle lotte. Nel movimento prenderà sempre più piede la convinzione che ai «colpi di stato» possibili e striscianti in Italia non c’è che un modo per rispondere: sviluppare ulteriormente la mobilitazione, costruire la forza organizzata, reagire alle provocazioni, non farsi chiudere gli spazi organizzati in anni di lotta; il movimento voleva metter bene in chiaro che si sentiva erede legittimo delle lotte della Resistenza, dei tanti morti di «parte», dell’odio profondo per il nazi-fascismo, comunque si fosse presentato, in doppio petto o con il manganello.
Si manifestano i primi effetti della contro-offensiva padronale. L’operaio doveva produrre di più per unità di prodotto, contro anni e anni di rifiuto del lavoro capitalista, di assenteismo, di sabotaggio, di attacco all’organizzazione del lavoro. Dalla fabbrica la crisi si riversa sul territorio, dove non solo il reddito familiare viene abbassato con la perdita di quote di salario monetario, ma anche il potere d’acquisto, in quanto tale, dei proletari, viene colpito con un poderoso aumento dei prezzi, una robusta svalutazione della lira, un’inflazione galoppante.
La qualità della vita peggiorava e tutte le conquiste di «libertà» – dal più tempo libero conquistato, alle donne che lavoravano «fuori dalla famiglia», a quel poco di benessere acquisito – venivano rimesse in discussione.
I risultati furono un assenteismo quasi scomparso, ritmi aumentati, ripresa degli straordinari, trasferimenti di manodopera, spostamenti da un settore all’altro…
Operai espulsi, colpite donne e giovani, in crisi numerosi settori, dal tessile al metalmeccanico. Aumentava il lavoro nero, a domicilio, precario e la produzione era decentralizzata. Un salario di 250 mila lire veniva ridotto di 75 mila lire con una svalutazione del 30% – mentre il sindacato chiedeva 25 mila lire di aumento nel contratto…
Il sindacato di fronte alla domanda di lotta da parte operaia, del recupero del patrimonio politico della classe lavoratrice degli anni precedenti, rispose con l’accettazione dei sacrifici, con l’importanza della solidarietà nazionale, con il problema del lavoro, che non c’era. Sintomatico il discorso di Lama, segretario della CGIL all’EUR. Ma sintomatica anche la sua cacciata dalla Sapienza di Roma.
Tutto questo a livello nazionale, ma anche nel vicentino le cose andavano in questa direzione come è ovvio che sia stato.
La memoria di quel periodo scova situazioni particolari, sicuramente comuni ad altri territori italiani, ma vissuti localmente in maniera diversa. Lo “spazio” che i giovani volevano costruire aveva bisogno di luoghi fisici e culturali.
Spazi di libertà dove sperimentare e socializzare quella voglia di cambiamento, di organizzazione della propria vita personale e collettiva fuori dagli schemi tradizionali e soprattutto contro la giornata “programmata” dello sviluppo capitalista.
Questi bisogni con il materializzarsi dei sintomi della crisi e quindi con le scelte capitaliste, unite ad una riscoperta non più elitaria del marxismo, diedero origine ad un ampio fronte anticapitalista che tendeva sempre più all’unità.
Richiederebbe troppo tempo descrivere in maniera esaustiva quegli intensi anni. Di sicuro il lavoro dei compagni all’interno del movimento e dentro le fabbriche dava i suoi buoni frutti, e anche in fretta. Interi Consigli di fabbrica che avevano come interlocutori i compagni dei Comitati Operai, organismi territoriali fuori e contro le strategie sindacali. I Gruppi Sociali, che nei vari territori facevano sentire e vedere la loro presenza a fianco dei proletari dei quartieri di Vicenza, Schio, Thiene, Montecchio e persino in paesi più piccoli. L’esperienza delle operaie della Sasso che, licenziate su due piedi, o trasferite a centinaia di chilometri, prese in giro dal sindacato e assieme ai compagni del Comitato Operaio di Thiene-Schio occupano fabbrica e uffici e dopo una decina di giorni di vera occupazione strappano il ritiro dei licenziamenti e spostamenti.
La radio, radio Sherwood 3, punto di ritrovo e poi di riferimento per ampi strati giovanili, ma anche come elemento centrale di amplificazione delle lotte. Come la campagna del blocco dello straordinario nella zona industriale di Thiene e Zanè, in cui si sono visti non solo i compagni dei Comitati Operai, ma anche singoli lavoratori, interi Consigli di fabbrica, altri gruppi operai organizzati partecipare alle “Ronde contro lo straordinario”. Temutissime da padroni e sindacati e sempre criminalizzate con ampi articoli sui quotidiani locali, Il Giornale di Vicenza in testa.
Anni in cui tutto andava di fretta. Perché la voglia di “arrivare” andava di fretta. Lo sgretolamento delle conquiste operaie andava di fretta, i padroni andavano di fretta, perché in fretta avevano bisogno di eliminare, in qualsiasi modo, l’antagonismo operaio.
Di conseguenza andò di fretta la repressione chiesta a gran voce dai capitalisti e organizzata e sostenuta da quello che doveva essere il partito della classe operaia, il quale sperimentò invece quella che era la sua linea, il compromesso storico, espressa da Berlinguer, considerato uno statista.
Probabilmente anche a ragione, ma non sicuramente da parte operaia e proletaria né tanto meno rivoluzionaria. In fretta arrivò il 7 aprile, con gli arresti e l’inchiesta che prese il nome e venne resa famosa dagli arresti di quel giorno. E venne in fretta anche l’11 aprile. Mercoledì 11 aprile 1979 dove tre compagni morirono a Thiene nell’esplosione di una bomba che stavano costruendo.
Tre di noi che diventarono quattro quando il 19 giugno, con la complicità di giudici e medici che dovevano sorvegliare sulla salute di coloro che avevano sequestrato, Lorenzo Bortoli, dopo altri due tentativi, si suicida nella sezione transiti del carcere di Verona.
Angelo, Alberto, Antonietta, Lorenzo sono nomi la cui sequenza non dimenticheremo mai. Sono morti, si scriveva in quel periodo nei volantini “esprimendo la rabbia, l’odio, l’antagonismo di classe contro questo stato, contro questa società fondata ed organizzata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.”
A guardare la realtà che oggi ci circonda, a guardare i giovani, gli operai, non tanto e non solo gli effetti della crisi, ma la risposta che da questi dovrebbe arrivare: articolo 18, Statuto dei Lavoratori, diritti, salute, scuola, non serve descrivere la situazione attuale, spesso ce la raccontiamo e spesso la aggiorniamo in modo peggiorativo.
La devastazione, con milioni di morti, delle guerre imperialiste, nel totale menefreghismo, con conseguente esodo di milioni di persone, di disperati non voluti e messi contro altri “disperati” già bastonati dalla crisi, tutte e due posti in concorrenza per abbassare il costo del lavoro, per ricattare meglio gli uni e gli altri inventando e fomentando da una parte l’odio e dall’altra i problemi umanitari.
Affrontare in maniera personalista, o settaria questi problemi, una fila interminabile di problemi, non è esattamente quello che dovremmo aver imparato dal passato più vicino a noi, ma anche da quello un po’ più lontano.
Ed è questo il primo e il più grosso problema che dobbiamo porci.
Le compagne e i compagni di Areaglobale
Ottobre 2015
AREAGLOBALE
ne pas se raconter des histoires
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Come si evince nel titolo, “Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie”, Paola Staccioli nella sua opera ci regala una narrazione corale al cui centro ci sono le vite di 10 figure femminili che hanno in modo del tutto consapevole e autodeterminato operato una scelta di vita, oltre che politica, quella di imbracciare le armi, d’intraprendere la strada rivoluzionaria per porre fine ad un sistema vissuto come ingiusto, opprimente e disumano. Il libro rappresenta l’ultima tappa di un progetto più vasto, quello di narrare attraverso la forma letteraria ,le lotte politiche e sociali che hanno caratterizzato l’Italia della seconda metà del ‘900 e continuamente fatte oggetto di rimozione da parte del discorso dominante.
L’autrice ha scritto questo racconto in modo che si avvicinasse quanto più possibile alla realtà, attraverso la raccolta di materiali, testimonianze, scritti personali e documenti pubblici e adottando la sospensione del giudizio in merito alle scelte, condivisibili o meno, di queste donne-militanti, ma riconoscendo e rivendicando comunque la dignità e la libertà di chi ha voluto scegliere della propria vita. Il binomio donna-lotta infatti, come si legge nella prefazione, è sempre stato raccontato e rappresentato dalla cultura dominante con uno sguardo limitato e alquanto deformato. Nella società borghese in cui siamo immersi, permeata ancora da una forte cultura patriarcale, “la donna”, il suo ruolo e la sua posizione nella società è stata sempre considerata come passiva, sottomessa e subordinata ad una qualche forma di autorità (maschile). Secondo i dispositivi etero-normativi imposti, la donna è per natura o meglio deve essere (funzionalmente agli interessi del sistema) un soggetto rassicurante, sottomesso, debole, vittima….idealmente quanto di più lontano e distante dalle donne narrate nel libro. Le vite e le scelte di queste donne provocano così nell’immaginario comune una scossa, un terremoto nei rapporti e negli assetti su cui si basano i principi della società che vuole “la categoria donna”, come depositaria di pace, mediatrice di conflitti, custode della coesione sociale. E anche quando le donne scelgono in maniera libera e cosciente la via della lotta e della violenza da opporre a quella dello stato, delle istituzioni e dei padroni, il pensiero dominante sminuisce, mistifica e annulla le motivazioni e le rivendicazioni reali che di quella scelta sono la causa. Proprio per questi motivi è necessario riappropriarci della “nostra” Storia e questo libro rappresenta uno degli esempi e degli strumenti per iniziare a farlo….
Un ricordo di Annamaria Mantini
L’ultimo mio ricordo della compagna Annamaria Mantini risale al 29 Ottobre 1974, “fatidico” giorno del tragico esproprio proletario di Piazza Leon Battista Alberti.
Eravamo in Piazza Santa Croce, la radio, che aveva dato la notizia, stava via via aggiornando i fatti… Parlavano di due morti, uno dei quali l’autista dell’auto. Avevamo capito che si trattava di Luca, ma che non avevano ancora identificato. L’altro, era stato scambiato erroneamente per mio fratello Pasquale, mentre invece risultò successivamente essere il compagno Sergio Romeo. A queste notizie così drammatiche, ma lo sarebbero state ugualmente pur se si fosse trattato di qualunque altro compagno, io e Annamaria ci siamo abbracciati all’istante, senza alcun bisogno di pronunciar parola. I tragici fatti parlavano da soli! Sentivo il suo cuoricino battere all’impazzata per la rabbia e il dolore di tale perdita. Per lei, Luca, era ben altro che il semplice fratello. Come del resto lo era Pasquale per me. Ho cercato di farle forza, dicendole che non era affatto sola e che, per quel che mi riguardava, eravamo in due. E insieme a noi c’erano tanti altri compagni e compagne. Siamo stati un pò così, l’uno abbracciato all’altra, poi, l’affluire di tanti compagni e compagne e il dilagare delle notizie, ci han fatto perdere di vista. Ma solo fisicamente, perché per quel che mi riguardava e mi riguarda, è stata ed è sempre presente nella mia mente e nel mio cuore, come lo sono tutte le altre compagne e compagni cadute/i nella lotta di liberazione dal sistema borghese.
Prima che mi lasciassi con Annamaria, non potei fare a meno di avvertire in lei, così buona, “mite”, gentile ed educata, che stava avvenendo qualcosa dentro di lei. Di rifiuto e negazione dello stato presente di cose, di ribellione, rabbia e determinazione, quelle stesse armi che poi l’hanno condotta a divenire una compagna comunista combattente eccezionale. Una vera e propria comandante politico-militare nell’organizzazione dei Nap e, più in generale, nel processo rivoluzionario. Fino all’ultimo respiro. Fino al suo ultimo alito di vita, spento in un vile agguato sull’uscio di casa sua, dalla mano assassina dello Stato borghese.
Il giorno appresso all’esproprio di Piazza Leon Battista Alberti, probabilmente in seguito alla presenza di mio fratello Pasquale (che nel frattempo, come per incanto, dopo averlo dato per morto, lo hanno fatto pure resuscitare), alcuni giornali locali avevano iniziato ad avanzare l’ipotesi che tra i componenti del nucleo dei compagni che avevano materialmente partecipato all’esproprio, avrei dovuto esserci anch’io. Prima indicandomi come uno dei due compagni caduti, ovvero, scambiandomi addirittura per Luca. Poi, successivamente, identificato Luca, indicandomi come il “fatidico 5° uomo”. La storia è andata avanti così per qualche giorno, fino all’atto del mio arresto, avvenuto in Piazza Santa Croce a Firenze, il 2 novembre 1974. Malgrado mi presentassi giornalmente al Commissariato di zona per far mettere il visto al regime di vigilanza, a cui ero sottoposto da tempo. Da qui fui portato immediatamente al carcere di San Gimignano, poiché alle Murate ci stava Pasquale e a Santa Teresa immagino ci stesse Pietro Sofia. Da qui, circa sei mesi dopo vengo trasferito a La Spezia.
Ed è con un groppo in gola che, mentre mi trovavo incarcerato qui a La Spezia, che l’8 luglio 1975, ho appreso alla radio la tremenda notizia dell’assassinio di Annamaria Mantini. Peraltro a poco più di due mesi dall’assassinio di Mara Cagol. La sua vita, così come quella di Mara, seppur molto breve è, e dev’essere, di esempio per ognuno di noi, compagni e compagne.
Nicola Abatangelo
Ho letto il libro perché conosco e stimo Paola da oltre quarant’anni. Conoscenza “scolastica” che attraversa il tempo e la distanza delle scelte di vita e si consolida in amicizia.
Ho letto il libro perché anch’io ho vissuto, da una diversa prospettiva, intensamente quegli anni che sono gli anni della mia giovinezza.
Il libro è raro e prezioso. Certamente di parte com’è giusto che sia per chi una storia l’ha vissuta. Racconta i fatti che Paola ritiene importanti. Racconta fatti, non fa discorsi sui fatti, com’è giusto che sia per chi una storia l’ha vissuta: i discorsi si addicono a chi non ha vissuto.
I fatti che narra delineano vite sacrificate. In qualche modo quindi rese sacre. Degne di essere ricordate e rese vive nel ricordo, anzi nella memoria. Ecco, fare memoria come questo libro riesce a fare è raro e prezioso.
Questo libro è un importante documento di valore storico e sociale per la chiarezza con cui vengono sviscerati temi che sono sempre stati oggetto di scomuniche e revisionismi.
L’etichetta di Terrorismo è l’arma principale con cui lo stato cerca da sempre di marginalizzare socialmente le donne e gli uomini che, abbracciando la lotta, si pongono invece come attori reattivi nei confronti dei soprusi (sociali ed economici) di classe.
Le donne raccontate non scelsero la morte come mezzo di lotta né volevano essere martiri ma cercarono di riportare dignità all’esistenza attraverso l’amore, cercavano la vita. Non volevano affatto morire (anche se consapevoli che abbracciare la vita significhi prendere coscienza che si morirà), esse volevano vivere in una società più giusta e per questo sono state assassinate brutalmente prima dallo stato, con le armi ed il carcere, e dopo dai media corrotti, che ne hanno fatto soggetti incapaci di scegliere da sé e di autodeterminarsi senza che ci fosse il presunto zampino di un qualche uomo deviato.
Il libro è anche un importante documento che traccia l’evoluzione contemporaneamente della lotta armata e dei metodi repressivi dagli anni ’70 fino ai 2000 e lo fa attraverso queste storie, che sono come scatole cinesi, ovvero l’una chiarifica e amplia il discorso precedentemente intrapreso dell’altra.
Si può notare così, come questi due poli temporali siano indissolubilmente legati (la prima storia, quella di Elena Angeloni nel 1970, con Carlo Giuliani e i fatti di Genova 2001) e quindi una storia iniziata quasi 50 anni fa è ancora (come l’autrice scrive nella prefazione) materia viva da utilizzare per il presente di chi adesso lotta.
Sapienza Clandestina
Milano, domenica 17 maggio, alle 18.00, quindi puntuali, è iniziata questa presentazione a cui han partecipato decine di persone (60/70), giovani e meno giovani, io tra queste.
Perchè ho voluto contribuire alla iniziativa? perchè l’autrice ha voluto, diciamolo, con grande coraggio, mettere la testa nella memoria, anzi nella Memoria.
Ha tratto l’umanità delle 10 donne che hanno fatto una scelta ben precisa di antagonismo radicale verso lo stato di cose presenti. Le dieci donne han fatto scelte diverse, questo è anche la bellezza del libro, non è giudicante, ne pro, ne contro: racconta.
E guardate che non è cosa da nulla….
Quando la parola è scritta rimane visibile, è affare con cui occorre fare i conti.
Quelle parole dicono che è necessario ribellarsi, che occorre ribellarsi, che ribellarsi si può.
Ieri c’era la necessità di farlo, oggi non c’è questa necessità? io dico che oggi ce n’è molte di più, se è possibile.
Ci sono due aspetti da chiarire.
Il primo è quello dei morti. Le morti ci sono anche oggi, morti di sfruttamento, morti “inutili”, suicidi per miseria e disperazione, morti per lavoro. Vi pare che queste morti non abbiano responsabili? ragionateci.
E poi la questione se, noi che abbiamo fatto la scelta della Lotta armata, abbiamo vinto o perso.
Guardate, non abbiamo vinto ne perso, noi abbiamo voluto esserci, sentivamo di non poter stare a guardare. Non abbiamo vinto, non abbiamo perso: siamo esistiti.
Mi piacerebbe organizzare altro incontro per approfondire queste questioni, coinvolgere altre realtà, quelle che han voglia di usare la testa, che non abbian paura di mettere la testa nella Memoria, il passato, che è il futuro.
Grazie a Silvia Baraldini, grazie a Paola Staccioli, grazie a quanti erano presenti, grazie alla Calusca.
Domenica 17 maggio ho partecipato a un incontro milanese con Paola e Silvia al Conchetta. Ci sono libri che vanno letti (pochi) e libri che vanno “rappresentati” (meno ancora). Le immagini di quelle 10 donne che scrorrevano sullo schermo accompagnate dalla voce della autrice che ne leggeva una rapida biografia con il sottofondo di musiche sempre appropriate è stata una esperienza a dir poco toccante. Ancor più bello è stato sentire in diretta, e ad intervalli di proiezione, il racconto di Silvia, della sua diversa storia e della sua diversa vita. “Sebben che siamo donne” non è un libro solo da leggere, esattamente come quelle dieci vite di quelle dieci donne.
Un libro che informa e fa chiarezza.
Bella iniziativa