Baraldini e quelle donne in lotta per i diritti

L'esponente politica finita in carcere negli Stati Uniti ha raccontato la sua storia. Al Cartella di Reggio in occasione del 25 aprile

Alessia Candito

26 aprile 2015

REGGIO CALABRIA Non ha più i capelli grigi che ne hanno reso famosa l’immagine durante gli anni di detenzione negli Stati Uniti e di lotte per la sua liberazione. Forse anche per prendere le distanze da quell’immagine diventata un’icona di lotta, ma nello specchio simbolo anni di sofferenza, pressioni, torture, cure negate, ha deciso di tingerli di un rosso tiziano. Ma la voce di Silvia Baraldini è la stessa e ancora trema di indignazione, rabbia, voglia di lottare quando – nella cornice del centro sociale “Cartella” in festa per i 13 anni di occupazione – parla delle lotte che ha consapevolmente vissuto, del suo percorso politico, delle scelte – ponderate – che l’hanno portata per anni nelle peggiori carceri degli Stati Uniti. “Si è parlato molto delle condizioni carcerarie in cui ho vissuto ma oggi mi interessa spiegare il percorso politico che mi ci ha condotto a lottare”. Per questo, ha accettato l’invito di Paola Staccioli a contribuire alla stesura di “Sebben che siamo donne”, una raccolta di storie di donne che hanno imbracciato le armi e hanno perso la vita per costruire un mondo più giusto, “a prescindere da un giudizio di merito sulla lotta armata, sono donne che hanno dato la propria vita per amore della rivoluzione” dice l’autrice . Morte tragicamente in scontri a fuoco, agguati o dietro le sbarre, sono state progressivamente anche uccise dalla storia ufficiale, che le ha etichettate come “terroriste” cancellate o scomunicate, ma mai raccontate. Silvia Baraldini è l’unica sopravvissuta. Dopo anni di feroce riservatezza, passati a tentare di farsi dimenticare, ha deciso di prestare la propria voce e la propria storia alla tessitura di un progetto collettivo di consapevolezza e memoria, che rimetta al centro del dibattito il percorso di donne che hanno scelto la lotta armata all’interno di un percorso politico coerente. “Quando si parla di chi è finito in carcere – afferma – spesso ci si limita a relegarlo al rango di vittima. Questo è successo anche a me, ma oggi credo sia importante spiegare quella che è una scelta politica consapevole”. E la voce di Baraldini si scalda quando ritorna agli anni della sua militanza. “Il mio ruolo negli Stati Uniti è definito ‘spalla'”. Trasferitasi da adolescente negli Stati Uniti, nel 1971 è una delle attiviste del movimento Student for democracy all’università del Wisconsin negli anni in cui il governo degli Stati Uniti inaugura la cosiddetta “guerra segreta” – l’operazione Cointelpro – contro gli attivisti del Black Panther e quei movimenti come l’American Indian movement, gli Young Lords che ponevano al centro dell’agenda anche le rivendicazioni dei popoli afroamericani, latini e nativi da sempre relegati al rango di cittadini di serie B e in quell’epoca determinati a ribaltare “il sistema di supremazia bianca – dice Baraldini – che da sempre gestisce il potere. Questa è una questione fondamentale che ha avuto ripercussioni immediate sul movimento organizzato, che lì si è diviso sul metodo di lotta da utilizzare contro la guerra sporca del governo mirata all’eliminazione fisica dei militanti. E per me non c’è stato dubbio alcuno”. E così che Baraldini non esita a mettersi in gioco, entrando a far parte di un’organizzazione politica a trazione femminile di appoggio al Black Liberation Party. “Molto impegno – si spiega nel libro – fu diretto verso l’acquisizione e lo sviluppo di tutto ciò che permette a un apparato clandestino di funzionare: appartamenti, veicoli, documenti, soldi, armi, ma ciò che ci ha politicamente caratterizzato in quel periodo è stata la liberazione di alcuni detenuti politici, in particolare Assata Shakur”. Una scelta drastica, come lo sono state quelle di Mara Cagol, leader del nucleo storico delle Br, Elena Angeloni, militante comunista internazionalista morta nella lotta contro la dittatura dei colonnelli greci, Annamaria Mantini, militante dei Nap, Barbara Azzaroni, attivista di Prima Linea, Maria Antonietta Berna, espressione dell’autonomia di Thiene, Annamaria Ludmann, vittima del massacro di via Fracchie a Genova, in cui quattro brigatisti vennero trucidati dalla polizia dopo essersi arresi, Laura Bartolini, formatasi nel movimento dei familiari dei detenuti politici, Wilma Monaco, fondatrice dell’Unione comunisti combattenti, ma anche Maria Soledad Rosas, squatter argentina attiva nei primi embrioni del movimento No Tav, morta suicida dopo un’assurda persecuzione giudiziaria che aveva stritolato pochi mesi prima il suo compagno, e Diana Blefari Melazzi, logista delle nuove Br. Donne che hanno compiuto scelte estreme, in tempi diversi, in contesti diversi e per ragioni diverse. Senza alcun appiattimento o sdoganamento tout court della scelta della lotta armata, ribadisce Staccioli, “anche queste donne che hanno scelto la strada difficile, dolorosa di dare e ricevere sofferenze per costruire un mondo diverso, migliore, fanno parte di quel movimento mondiale che è battuto contro lo sfruttamento”. Ma soprattutto – spiega Baraldini – hanno tutte una linea comune “erano convinte che il riformismo non avrebbe mai cambiato questo Paese. È una cosa che fa pensare molto, anche perché viviamo in un Paese strano, in cui il riformismo viene presentato come soluzione per il futuro, quando in realtà è lo strumento di perpetuazione dello stato di cose presente. Esattamente quello che queste donne volevano rompere”.

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