La Campagna di primavera ha segnato una grande ed importante vittoria delle Brigate Rosse e perciò, di tutto il movimento rivoluzionario. Si è conclusa, invece, con una bruciante sconfitta della borghesia imperialista che ha visto disintegrata la sua strategia politico-militare per neutralizzare l’offensiva rivoluzionaria. Questa offensiva, iniziata il 16 marzo, si è sviluppata per 55 giorni appunto con il respiro di una Campagna, soprattutto nei quattro maggiori centri urbani del centro-nord, con un gran numero di attacchi armati contro uomini degli apparati militari o politici dello Stato Imperialista e con una iniziativa capillare e sistematica di propaganda ed agitazione combattive in tutte le maggiori fabbriche del paese e nei quartieri proletari delle aree metropolitane. Ridurre questa Campagna ad un “caso” o un “affaire”, come le solite ancelle di Palazzo hanno cercato di fare, con l’evidente obiettivo di occultarne l’articolazione, sminuirne la portata e indurre l’idea di una occasionale “sciagura”, una “tragedia”, è un modo come altri di rimuovere il problema e proteggere la perduta tranquillità dietro il paravento ormai lacero della simulazione. Né sciagura, né tragedia per il proletariato, ma tappa rilevante nel suo percorso rivoluzionario verso la conquista del potere. Due erano gli scopi che le BR si proponevano scatenando questa offensiva:
– disarticolare i progetti politici di ristrutturazione del regime nella crisi;
– aprire una nuova fase della guerra di classe lanciando un programma generale di congiuntura rivolto a realizzare la massima unità politica del movimento proletario di resistenza offensiva.
Entrambi sono stati raggiunti!
Le brutte intenzioni della borghesia imperialista alla vigilia del 16 marzo.
Il progetto politico di base che Moro “s’era tanto adoperato a costruire” aveva un’importanza decisiva per le centrali imperialiste. Il 16 marzo infatti, nelle intenzioni della borghesia, era destinato a segnare l’inizio di un nuovo regime politico nel nostro paese. In quel giorno si usciva da una crisi politica senza precedenti con il progetto di una “intesa di programma” fra i cinque maggiori partiti costituzionali, costruita intorno all’abbraccio interclassista della DC con il partito revisionista, il PCI.
Il programma era quello di amministrare, nel quadro delle strategie imperialistiche e per conto delle multinazionali, gli effetti sociali devastanti della più tremenda crisi economica degli ultimi decenni, e di gestire – nel senso di ovattarli e renderli funzionali agli interessi del capitale monopolistico – i comportamenti della classe operaia nella crisi. In altri termini, la borghesia imperialista, si proponeva di corresponsabilizzare direttamente il partito revisionista in una vasta operazione tesa ad impedire la crescita delle lotte proletarie e, di conseguenza, a bloccare lo sviluppo del processo rivoluzionario nel nostro paese. La consapevolezza delle inesorabili conseguenze sociali della crisi e dei pericoli insiti nella presenza di una forte opposizione di classe, convinse i padroni alla politica del “minore dei mali” e cioè alla scelta di catturare, mantenendolo comunque in una posizione subalterna, il PCI, in una “intesa di programma” dopo 30 anni di totale preclusione.
Ma questo disegno, plausibile e realistico a tavolino, data la disponibilità senza riserve dei revisionisti berlingueriani a “farsi Stato”, era comunque destinato al fallimento. E questo perché non c’è oggi, se mai c’è stata, identificazione reale tra PCI e classe, cosicché l’integrazione neo-corporativa dei revisionisti nel cielo della politica, nello Stato non significa al tempo stesso cattura dei comportamenti di classe degli operai, delle lotte, della iniziativa rivoluzionaria.
“Intesa di programma” ovvero “il cuore dello stato”.
Il progetto politico dell'”intesa di programma” si configurava senza alcun dubbio, come “cuore dello Stato Imperialista”.
Per questo, proprio lì ed in quel preciso momento, andava portato l’attacco disarticolante della guerriglia.
Sostenere, come alcuni fanno, che “il cuore dello stato non era Moro, perché lo Stato Imperialista è senza cuore”, non è corretto. Questa tesi confonde lo Stato con la somma delle sue istituzioni e i “gangli vitali” sono da essa intesi come luoghi piattamente determinabili attraverso l’indagine sociologica.
Il nostro è un punto di vista interno.
Lo Stato, ogni Stato, inteso come dittatura articolata di una classe (nel nostro caso la Borghesia Imperialista), oltre che nello spazio vive anche nel tempo, vale a dire, pressato- assediato dalle necessità imposte dalla lotta di classe, vive come progetto politico articolato di dominio e sfruttamento, come pratica contro-rivoluzionaria storicamente determinata eppure in continuo divenire.
Proprio questa sua essenza di “progetto politico” e “pratica controrivoluzionaria” storicamente determinati, ciò che noi intendiamo per “cuore dello Stato”, e non invece un uomo o il mitico simbolo del “Palazzo d’inverno “. È questo cuore politico, infatti, che pompa nelle articolazioni istituzionali dello Stato la linfa necessaria alla sua continuità, alla sua unità, alla sua coesione, e cioè alla riproduzione dell’esistenza della formazione sociale e del modo di produzione che esso garantisce.
La parola d’ordine PORTARE L’ATTACCO AL CUORE DELLO STATO, vuol dire questo: che le forze comuniste rivoluzionarie devono mettersi alla testa, organizzare e dirigere movimenti di massa proletari ed armati e guidarne l’attacco.
IN OGNI FASE contro la contraddizione politica principale, e IN OGNI CONGIUNTURA contro l’aspetto principale di questa contraddizione: contro il “Cuore dello Stato” appunto!
Due linee nella costruzione del potere proletario.
La Campagna di primavera ha effettivamente messo in moto processi di disarticolazione dello Stato Imperialista o, al contrario lo ha rafforzato e gli ha consentito di estendere e di approfondire il suo potere?
Nella metropoli imperialista-capitalista il potere politico si presenta con la totalità contraddittoria-antagonistica delle pratiche statali e di quelle proletarie.
Dunque è un rapporto tra le classi, un rapporto di forza tra le classi.
Come il proletariato non esiste al di fuori del suo rapporto storicamente determinato con la borghesia, così non esiste un potere proletario “separato” e cioè che non sia in relazione dialettica vivente con il “potere politico” della borghesia. Tuttavia la “separatezza”, la scissione, la disgiunzione, l’indipendenza dei due poli della contraddizione stanno alla base tanto delle concezioni borghesi del potere, quanto delle ideologie economiciste-immediatiste, che affondano le loro radici anche nel proletariato. Dal lato della borghesia imperialista, lo Stato, luogo di massima condensazione del suo potere politico, nella sua universalità si presenta come TOTALITÀ.
Questo Stato trova nel potere esecutivo “la sua espressione più pura” e nell’insieme degli apparati coercitivi-ideologici-economici-burocratici, le ramificazioni tentacolari e capillari per mezzo delle quali veicolare, disciplinare e imporre quelle pratiche che sono essenziali e indispensabili alla riproduzione della formazione economico-sociale capitalistica. Ma il modo di produzione capitalistica, che lo Stato si sforza di garantire con l’imposizione di queste molteplici pratiche, è proprio la causa fondamentale delle contraddizioni di classe e delle crisi che sconvolgono le metropoli imperialiste. Di qui la tendenza accelerata e irresistibile degli Stati Imperialisti a farsi apertamente TOTALITARI, a soffocare ogni lotta antagonistica ed ad annientare tutte le manifestazioni di POTERE POLITICO PROLETARIO realmente autonomo. In questo contesto, dal lato del proletariato, l’affermazione di un potere politico autonomo è dunque immediatamente anche lotta contro lo Stato Imperialista e smascheramento del suo carattere di “comunità illusoria”, espressione dell’interesse particolare di una classe, imposto con la manipolazione e con la forza, a tutta la società. Diciamo “autonomo”, non “separato”, come affermano invece gli economicisti-immediatisti. Dire che “i due poteri, quello che esprime l’interesse capitalistico e quello che esprime la totalità degli interessi antagonistici, costituiscono due realtà assolutamente discontinue, che investono oggetti completamente diversi”, o che “il proletariato esprime il proprio potere nell’affermazione immediata di un rapporto di separatezza nei confronti dell’universo politico borghese”, equivale a porre la questione in termini decisamente metafisici. Come vi può essere “assoluta discontinuità” tra borghesia e proletariato?
Nel rapporto di produzione capitalistico, che è la radice di tutte le contraddizioni che si manifestano a tutti i livelli nelle formazioni sociali non vi è forse “l’identità degli opposti”, come ha insegnato Lenin, e cioè “il riconoscimento (la scoperta) di tendenze contraddittorie, opposte e che si escludono reciprocamente”?
E non è forse proprio questa lotta degli opposti che si escludono reciprocamente la sorgente del movimento della società classista?
L’approdo degli economicisti-immediatisti non è dunque, come essi ritengono, quello dell'”autonomia” della classe nel suo movimento (che è movimento per modificare la sua posizione subalterna entro il rapporto di produzione capitalistico e cioè per affermare la sua stessa egemonia e la sua dittatura, come prima e necessaria fase nel contraddittorio percorso verso il comunismo), ma quello della “separatezza”, della negazione delle interconnessioni multilaterali che legano tutti i processi di una stessa formazione economico-sociale, dello splendido isolamento in cui da sempre si autoisolano i santoni del minoritarismo e della purezza metafisica. Non diciamo questo per gusto di polemica ma perché gli effetti pratici delle conclusioni teoriche a cui porta questo impianto sono disastrosi per il proletariato metropolitano stanno sotto gli occhi di tutti. Attraverso l’idea-forza della “separatezza” come condizione di manifestazione del potere proletario, si alimenta l’illusione di un potere che cresce su se stesso, indifferente alle condizioni oggettive entro cui tesse la sua trama, sordo alle congiunture, refrattario a ogni strategia e ad ogni considerazione tattica. Ma, già, per i santoni del nuovo spontaneismo, la strategia “è il movimento”, opera spontaneamente e il Partito niente altro che “un polveroso residuo della tradizione politico teorica comunista”! Nessuna dialettica è ammessa dall’intransigenza metafisica dei nostri economicisti e neppure quella, di conseguenza, tra classe e organizzazioni combattenti!
Ritenere che il potere proletario sia espresso dalle pratiche antagonistiche dei movimenti di lotta della classe, è certamente corretto; ma ridurre questa espressione alla sua forma “immediata”, è privo di senso. Perché, se queste pratiche sono la manifestazione di livelli di coscienza politica, anche elementari, allora, esse, in ogni caso, si traducono in forme di organizzazione e a nulla serve gridare che “il potere proletario non ha bisogno per manifestarsi e riprodursi, di oggettivarsi nell’istituzione nel Partito”!
A meno che alla metafisica non si voglia aggiungere anche l’idealismo e considerare la “coscienza politica della classe” come un puro spirito!
Rafforzamento offensivo o irrigidimento difensivo?
Contro ogni evidenza, c’è chi sostiene che in seguito alla Campagna di primavera, lo Stato si è rafforzato, e cioè non solo essa non avrebbe conseguito i suoi obiettivi di disarticolazione, ma avrebbe addirittura contribuito ad estendere il potere del nemico di classe. È una tesi che affonda le sue radici nel pacifismo piccolo borghese e che i liquidazionisti di tutte le epoche hanno portato avanti con la parola d’ordine: “la lotta è causa di repressione, l’attacco rivoluzionario, di controrivoluzione”.
È pur vero che l’apparenza é una determinazione dei fenomeni, ma non è quella essenziale. I liquidazionisti per dimostrare le loro affermazioni, manipolano le apparenze ma non riescono a cogliere le leggi più profonde che governano il movimento della formazione sociale. Essi percepiscono le trasformazioni fenomeniche dello Stato e si accontentano di enumerarle. Avendo fatto della fede superstiziosa delle Stato-moloch una nuova religione “democratica”, essi trascurano, dimenticano, censurano, una tesi essenziale del marxismo-leninismo e cioè che lo Stato persino nella repubblica più democratica è soltanto uno macchina di oppressione di una classe su un’altra classe.
Quali sarebbero le prove di questo rafforzamento?
Sul terreno dell’azione coercitiva: la sequela di provvedimenti repressivi “contro il terrorismo” che nella concitazione della battaglia sono stati votati all’unanimità da tutti i partiti dell’intesa. Si tratta del “decreto contro il terrorismo”, e della nuova legge Reale.
Sul terreno politico: la sterilizzazione volontaria di ogni “opposizione” partitica costituzionale che, eliminando le contraddizioni, compatterebbe ulteriormente le istituzioni intorno all’esecutivo.
Sul terreno dell’organizzazione del consenso: l’estensione delle capacità dell’esecutivo di irreggimentare la stampa, la radio, la TV, sino a superare il limite della “libertà” d’informazione.
La concezione metafisica dello Stato, non consente ai liquidazionisti di vedere queste “prove” per quel che sono: manifestazioni dell’IRRIGIDIMENTO DIFENSIVO del potere politico borghese sotto gli attacchi del movimento rivoluzionario.
È l’offensiva proletaria che obbliga la borghesia imperialista a MILITARIZZARE la sua risposta coercitiva con leggi, decreti, corpi-tribunali-carceri speciali; a PROMUOVERE L’UNANIMISMO a ideologia del Regime; a SEPPELLIRE CON VALANGHE DI RETORICA le difficoltà in cui si trova a seguito della azione guerrigliera.
Nelle nuove condizioni determinate dallo Campagna di primavera, la borghesia È COSTRETTA A TRASFERIRE APERTAMENTE SUL TERRENO MILITARE quello stesso controllo che fino a quel momento era riuscita ad esercitare attraverso gli apparati politici, sindacali, ideologici.
La sua crisi di egemonia diventa palese!
NELLA DIALETTICA TRA POLITICA E GUERRA, L’ULTIMO TERMINE ACQUISTA ORA UNA FUNZIONE DOMINANTE.
E siamo alla prova del nove della nostra tesi: il progetto di congiuntura rappresentato dal governo d’intesa, che con il 16 marzo doveva inaugurare una nuova epoca nel controllo delle tensioni di classe, è miseramente naufragato proprio nel momento solenne del varo e le misure antiterroristiche, con i relativi corollari dell’intimidazione di massa, della “terra bruciata”, secondo le tradizioni di Pelloux e Bixio, rinverdite dal carabiniere Dalla Chiesa, della “caccia ai fiancheggiatori”,… sono l’ammissione spettacolare ed ufficiale della disarticolazione strategica, della sconfitta! Ora, defunta con Moro l’ipotesi di un controllo “pacifico” delle contraddizioni di classe, il Palazzo, staccandosi sempre più dalla società civile, si predispone, nel più sordo e livido isolamento, ad affilare i coltelli per la prossima ed inevitabile resa dei conti. E infine, dopo il 16 marzo, anche l’esistenza di un potere politico rivoluzionario non può più essere taciuta o ignorata e la necessità di schierarsi nello scontro, sempre più si mette a fuoco nella coscienza di ciascuno. Nella società dello spettacolo dove proprio la simulazione dei processi e dei meccanismi fondamentali di controllo delle masse, è la legge generale, la pratica della guerriglia, squarcia i veli che occultano il dominio e restituisce alla categoria della violenza, il suo giusto posto nella storia della lotta di classe!
Lo slogan “né con lo Stato, né con le BR”, definisce perfettamente il punto di vista delle classi sociali intermedie dove prosperano i liquidazionisti, classi che, non sentendosi sufficientemente garantite dallo Stato Imperialista ed essendo sfiorate in qualche misura dal vento gelido della crisi, si attestano sulla “linea dell’orizzonte”, pronte a farsi terra o cielo a seconda delle sorti della guerra.
PERCHÉ DI GUERRA, GUERRA DI CLASSE APPUNTO, ORMAI SI TRATTA! Propaganda armata, agitazione combattiva, mass-media.
Dal lato della borghesia, la cattura di ALDO MORO, non si configurava solo come azione di guerriglia, ma anche come una “notizia”. anzi, il “fatto-notizia” per eccellenza. Inevitabile perciò che questa sua specifica determinazione seguisse un proprio particolare percorso durante tutta la Campagna. Altresì inevitabile che i manipolatori di notizie per conto dell’Esecutivo, dei monopoli, o di qualsiasi altro centro di potere imperialista, entrassero in una specie di corto circuito: la notizia infatti è una “rottura” rispetto ad un “ordine-normalità” (che però resta confermato da questo evento eccezionale), mentre in questo caso il fatto-notizia, proponeva la distruzione di questo ordine-normalità, dissacrava questa normalità e gli assestava un micidiale colpo devastante, dagli echi molteplici e con effetti sicuramente prolungati nel tempo. Per di più, in una formazione sociale come la nostra, profondamente lacerata dagli antagonismi di classe, il “messaggio” contenuto nel fatto, per quanto mascherato dai commenti, sarebbe stato sicuramente accolto con entusiasmo da consistenti strati di proletariato. In questa situazione come comportarsi per assicurare la forma della “libertà d’informazione” e “non rafforzare le BR”? È il caso di dire che il circuito delle informazioni di massa, è rimasto travolto dai brividi contraddittori che il suo rapporto con l’iniziativa di guerriglia generava e si è rifugiato in una soluzione difensiva: pubblicare ma orientando, commentando, giudicando. Ha tentato cioè la riduzione della Campagna di primavera ad un insieme di fatti di cronaca, censurando i contenuti o comunque sommergendoli in valanghe di retorica e in un rifiuto unanimistico di misurarsi coi problemi, reso ancor più sgradevole dalla “sinistra” uniformità dei linguaggi. Più che una censura delle informazioni, resa del resto problematica per il fatto che l’Esecutivo non ha la forza di esercitare un controllo capillare sui mass-media, è scattata contemporaneamente nella quasi totalità dei giornalisti, come del resto negli uomini di potere del Regime, una reazione difensiva. Ognuno ha visto in MORO se stesso e la proiezione ha reso così angosciosa questa relazione da portare a rimuoverla. Alle questioni concrete e materiali che le BR, e Moro per parte sua, ponevano allo Stato, attraverso gli interlocutori del governo, della DC, dei partiti dell’intesa, e della stampa di regime, non si sono date, né cercate risposte: si è invece divagato, parlato d’altro, si sono costruite favole repellenti da trasmettere come film pornografici o partite di calcio. Il tam-tam di questa fuga dalla realtà ha risuonato lugubremente per tutti i 55 giorni sulle pagine allucinate dei giornali e nei notiziari radio- televisivi. E il rifiuto collettivo di attribuire una sia pur minima credibilità o significato alle lettere di Moro, rappresenta l’apice di questo delirio omicida. La guerriglia non era prigioniera del suo riflesso alterato sui mass-media. Essa non contava sul circuito dei mass-media per condurre il suo lavoro di propaganda e agitazione combattiva.
Le azioni belliche, come la cattura, l’imprigionamento e l’esecuzione di Moro, e la grande quantità di attacchi che l’hanno affiancata durante la Campagna, avevano per scopo, non soltanto quello di nuocere, disarticolare il nemico, ma si proponevano anche, (ed è questo un aspetto essenziale della guerriglia urbana in questa fase) di procurare vantaggi politici al movimento rivoluzionario e al Partito, e di influire sull’elevamento della coscienza politica delle masse, rafforzarne lo spirito combattivo.
Per questo è fondamentale per la guerriglia la rete di diffusione militante della sua propaganda e l’agitazione combattiva in mezzo alle masse.
È infatti attraverso questa presenza diretta che il Partito coinvolge attivamente nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole…, gli elementi più avanzati del proletariato e attraverso questi l’intera classe, costruendo così le innervazioni di un’informazione autonoma e di classe che sono decisive per il consolidamento del potere proletario. Agitazione orale, a due o in piccoli gruppi; interventi nelle riunioni operaie informali; volantinaggi mano-a-mano; megafonaggi; opuscoli clandestini; scritte murali: questi sono i canali attraverso i quali i militanti comunisti portano l’informazione di classe sulle loro azioni belliche e politiche moltiplicando le occasioni di incontro diretto e di contatto reversibile e personale con le masse. E questa è anche la via da percorrere per consolidare il Partito e le sue radici; per risolvere i problemi dell’unione e della mobilitazione del proletariato nella lotta. Così mentre gli osservatori del Palazzo erano affascinati dalla straordinaria efficienza dei “postini BR” (che ovviamente faceva “notizia” dentro la normalità inefficiente del servizio postale di Stato!) migliaia, decine di migliaia di interventi di propaganda e agitazione combattiva, si svolgevano tra le maglie del proletariato, rendendo vana ogni ipotesi di black-out.
Per concludere:
la Campagna di primavera mette in chiaro che il rapporto di forza che condiziona la politica dei mass-media, è definita in essenza, dallo scontro di potere in atto nel paese.
La forza della guerriglia, in continua espansione, suscita un’azione direttamente proporzionale di controguerriglia psicologica che si manifesta con una occupazione crescente di spazi sui giornali, e di tempo – trasmissione radio TV. Tuttavia l’ignobile commento, la mostrificazione dei personaggi, la manipolazione dei testi, diffusione di falsi, insomma l’azione più o meno professionale di “guerra psicologica”, non raccoglie grandi risultati, o almeno non quelli voluti. I proletari sono ormai vaccinati contro queste operazioni e sapendo, per lunga e diretta esperienza, che “la stampa è bugiarda”, decifrano secondo i loro bisogni i messaggi controrivoluzionari del media. Inoltre, le reti sempre più capillari della propaganda e della agitazione combattente che investono fasce sempre più ampie di proletariato metropolitano, mentre da un lato vanificano ogni tentazione al black-out, dall’altro diffondono un’informazione di classe che è anche articolazione organizzata del POTERE ROSSO.
Così la campagna di controguerriglia psicologica o comunque la contropropaganda borghese, finiscono per operare contro le intenzioni stesse delle “belve di redazione” e per sedimentare nella coscienza confusa dei lettori spettatori come residuo inevitabile dello spazio e del tempo dedicato al problema, almeno una precisa certezza: quella della forza e dell’importanza crescente della lotta armata per il comunismo nel nostro paese.
Del “non trattare” ovvero della politica del “non fare”.
Dal 16 Marzo al 9 Maggio, ciò che maggiormente colpisce nel comportamento politico del governo Andreotti e della DC di Zaccagnini, è la straordinaria coerenza. Ma fino a che punto questa “coerenza” sulla “linea del NO” è effettivamente espressione di un comportamento politico?
Fino a che punto l'”ostinato immobilismo” in cui si è tradotta nella pratica questa “coerenza”, non tradisce invece uno stato di coma profondo?
Per sviluppare la nostra convinzione diciamo subito che quelli che appaiono i capisaldi di questa “fermezza”, tanto nella strategia militare che in quella politica, sono in realtà due alibi posticci che non reggono al primo soffio di vento. Del primo, il CAPOSALDO militare, occorre dire che sbigottisce per la sua inconsistenza e per i rischi oggettivi a cui esponeva Moro. Sembra perciò poco credibile che governo e DC abbiano giocato veramente la vita del “grande statista” su una scommessa assai simile alla roulette russa. Comunque sia, la “strategia della svalutazione dell’ostaggio” si proponeva di liberare il presidente della DC e cogliere nello stesso tempo una vittoria politica sulla guerriglia urbana: intendeva liberarlo senza però rafforzare le BR. La linea era quella di costruire, attraverso gli strumenti di organizzazione del consenso di massa – partiti, sindacati, mass-media – un profondo ed esteso isolamento politico delle BR, proprio mentre militarmente si operava secondo la tattica suggerita dagli strateghi dell’antiguerriglia americani, tedeschi ed inglesi, di “svalutare l’ostaggio e dilazionare le scadenze” al fine di massimizzare le possibilità di individuare la prigione e comunque costringere le BR a rilasciare il prigioniero senza contropartite. L’illusione tenacemente perseguita era questa: più il comportamento degli apparati di Stato è calmo, flemmatico, quasi disinteressato, e maggiori possibilità esistono di salvare l’ostaggio. Questa linea di risposta della borghesia è fallita per un insieme di motivi:
– la bancarotta delle pratiche militari;
– una sopravvalutazione delle capacità di organizzare il consenso in tutte le classi sociali;
– una sottovalutazione della forza politica accumulata nel proletariato metropolitano – cioè nelle grandi fabbriche e nei poli – delle Brigate Rosse;
– un’incomprensione degli obiettivi strategici dell’attacco sferrato. Quest’ultimo punto è particolarmente importante.
Le Brigate Rosse infatti, perseguivano un obiettivo politico assai più generale della liberazione dei prigionieri.
L’OBIETTIVO PRINCIPALE DELLA CAMPAGNA DI PRIMAVERA ERA QUELLO DI DARE UN DURO COLPO ALL’INTESA DI PROGRAMMA E CIOE’ APPROFONDIRE LA CRISI POLITICA DEL REGIME E DELLO STATO.
Dunque le BR potevano rinunciare ad ottenere la liberazione dei combattenti comunisti senza per questo dover rilasciare Moro. Anzi, proprio l’esecuzione di Moro avrebbe realizzato il colpo più duro, più disarticolato, più prolungato nel tempo, che esse potessero portare sulla base degli specifici rapporti di forza che caratterizzavano quel tempo. Che l’obiettivo delle BR sia stato raggiunto, è dimostrato da tutto ciò che è successo dopo il 9 Maggio.
E certamente molti degli effetti dell’operazione sono ancora in gestazione.
La strategia della “svalutazione dell’ostaggio”, se fino ad un certo punto della battaglia poteva apparire plausibile, se non proprio efficace, dopo il “comunicato n. 8″, e valutati i ripetuti e clamorosi insuccessi delle forze di polizia, era senz’altro una follia poiché sostituiva al rischio calcolato il “rischio assoluto”, e cioè consegnava nelle mani del fato un problema che, come si è dimostrato, era invece tutto nella sfera degli uomini, vale a dire dei reali rapporti di forza politici e militari. E neppure in una logica di guerra si giustifica l’equivoco tra il “trattare” e il “cedere”, come peraltro ha dimostrato il comportamento del governo tedesco durante l’operazione Schleyer che era tutto incentrato sulla linea del “trattare per non cedere” o comunque del “cedere il meno possibile”. L’alternativa secca “trattare” o “non trattare” non ha mai espresso una posizione politica, né in pace, né in guerra: è semplicemente un assoluto metafisico, il dito dietro al quale pretendono di nascondersi, DC, revisionisti e tutti i ciarlatani dell'”intelligence”.
Vediamo ora il caposaldo politico.
Ovvero la pretesa difesa ad oltranza della cosiddetta “ragion di Stato”. E vediamo che significato dobbiamo attribuire a questo reiterato richiamo alla “ragion di Stato” che modula ossessivamente la politica del governo, della DC e dei partiti complici per tutti i 55 giorni. Nelle formazioni sociali capitalistiche, lo Stato, la sua ideologia giuridica, il suo diritto, non sono altro che strumenti attraverso i quali la borghesia esercita la sua dittatura sul proletariato. Leggi e Diritto non sono al di sopra del mondo degli uomini reali, non discendono dal cielo, ma molto più terrenamente sono armi, in mano ad una classe per affermare i suoi interessi materiali e per combattere chi, questi interessi, con le sue lotte, pregiudica. Dietro la cosiddetta “ragion di Stato”, dunque, si maschera sempre, in ultima analisi, la “ragione della classe dominante”. Per questo l’ossequio che la DC sembra dimostrare alle leggi durante i 55 giorni si smaschera per ciò che è: pura forma, convenienza. Essendo fatte dalle classi dominanti, le leggi infatti, possono sempre venir modificate dalle stesse. La sclerosi del formalismo legalitario ha poco a che vedere coi movimenti reali della storia. E ciò è tanto più vero nei momenti di tempesta. Sono gli interessi mutabili della borghesia e i rapporti di forza tra le classi che agiscono sul corpo delle leggi e dei decreti determinandone quegli adeguamenti volta a volta necessari. E poi la necessità di “fare uno strappo alla regola della legalità formale” non è stata riconosciuta e praticata molte volte? Moro stesso ne ha fatto l’elenco! Insomma, né la DC, né Moro, hanno mai dimostrato, in oltre 30 anni, un “senso dello Stato” che non fosse coincidente con gli “interessi di partito” e con quelli della borghesia imperialista e monopolista. E, per restare all’oggi, dobbiamo osservare che tanto le lettere di Moro, quanto il comportamento dei suoi amici democristiani, non sono in contraddizione tra di loro su questo punto, più di quanto non lo sia la rispettiva posizione nella particolare circostanza.
E allora? E allora, questo “ardore fanatico in difesa dello Stato”, così rigido e sorprendente, di cui la DC ha dato pubblico spettacolo, dove attingeva il suo sacro fuoco?
La tentazione delle risposte schematiche è sempre molto forte ma siamo convinti che componenti diverse si siano aggrovigliate nelle coscienze degli uomini di potere democristiani.
Tra le altre:
– un condizionamento internazionale, conseguenza delle pressioni che le massime potenze imperialiste hanno esercitato al fine di allineare anche il nostro paese nella “lotta contro il flagello del terrorismo”;
– un condizionamento politico interno da parte del PCI e implicito negli accordi che avevano portato proprio a quel governo di emergenza che, pur stravolto nel suo significato ha preso il via il 16 Marzo;
– un cinico calcolo elettorale di quanti voti si sarebbero potuti guadagnare nelle imminenti elezioni, lasciando Moro al suo destino;
– un surriscaldamento dei cervelli, non più in grado di valutare lucidamente i termini reali di una minimizzazione delle perdite;
– una volontà a metà tra il conscio e l’inconscio, di liquidare Moro, da parte degli amici, residuo tribale del rito di uccidere il capo, mangiarsi il dio come fanno i cattolici, e diventano così più forti e più potenti (oppure… anche soltanto prendere il suo posto!);
– un condizionamento ideologico della tradizione cattolica che affida alla provvidenza il compito di risolvere ogni cosa.
Componenti diverse, ma non determinanti.
L’elemento decisivo è stato infatti un altro e tutto interno alla DC: la percezione animalesca, istantanea, traumatica, soffocante, per la prima volta dopo tanti anni e proprio nel momento in cui venivano legate le mani al PCI, di essere in serio pericolo in quanto rappresentanti politici della borghesia, in quanto classe.
L’irruzione delle Brigate Rosse e cioè di un potere rivoluzionario apertamente antagonista, lucido politicamente, solido ideologicamente, organizzato oltre ogni sospetto, efficiente militarmente; l’audacia dei suoi progetti offensivi; l’incapacità di identificare compiutamente questo nemico: questi sono gli elementi che hanno condizionato in modo decisivo le scelte politiche del governo e della DC.
L’attacco – non va dimenticato – si è rivelato tanto più micidiale nei suoi effetti dirompenti quanto più esso era effettivamente imprevisto.
ATTACCO ALLO STATO, AL REGIME E PERCIÒ ALLA DC CHE CON ESSI STRETTAMENTE SI IDENTIFICANO.
È a questo scontro di classe e di potere che ha investito il “cuore dello Stato”, e cioè la sostanza dei suoi progetti di congiuntura, che va ricondotta la risposta democristiana. Una risposta, possiamo finalmente dirlo, difensiva, irrazionale, ma soprattutto non politica. C’è infatti una costante meta-politica in tutto il comportamento della DC dopo il 16 Marzo ed è espressa da quella che abbiamo chiamato la “linea del NO” o la “politica del non fare”. No assoluto, indeterminato, metafisico.
No preventivo.
No alla trattativa prima ancora che di trattativa qualcuno parlasse.
No allo scambio e alla liberazione dei 13 compagni comunisti.
No a salvare in qualche modo la vita di un loro pur illustre complice.
No al riconoscimento dell’identità politica di Moro attraverso la negazione grottesca di ogni autenticità alle sue lettere.
No persino all’esistenza delle BR attraverso sragionamenti pietosi del tipo “efficienza tedesca”, “tecnica da corpi speciali di altri paesi”,…
Questa sfilza coerente ed ottusa di NO che con involontaria ironia qualcuno ha ribattezzato “fermezza”, è un preciso atto di accusa contro la DC che, negando la realtà oggettiva, rimuovendo i problemi, sfuggendo alla storia, si è assunta la piena responsabilità della sorte del suo presidente. Se Moro ha saputo essere coerente fino all’ultimo, (fino a restare vittima) con la perfezionatissima “politica dei non dire”, il suo partito ha voluto essere coerente fino all’ultimo, fino a rimanerne vittima a sua volta, di questa altra perfezionata “politica del non fare”.
Due politiche morte e in questo caso particolare, anche della morte!
Almeno Moro se ne rese conto e sono sue le parole “non creda la DC di aver chiuso il suo problema liquidando Moro”! Per parte nostra ricordiamo la conclusione del “comunicato n.9″: “A PAROLE NON ABBIAMO PIÙ NIENTE DA DIRE ALLA DC, AL SUO GOVERNO E AI COMPLICI CHE LO SOSTENGONO. L’UNICO LINGUAGGIO CHE I SERVI DELL’IMPERIALISMO HANNO DIMOSTRATO DI SAPER INTENDERE E’ QUELLO DELLE ARMI, ED E’ CON QUESTO CHE IL PROLETARIATO STA IMPARANDO A PARLARE”.
La “fermezza” degli sciacalli, ovvero la politica del Pci.
Se per la DC il rigore sulla “ragion di Stato” era sicuramente un alibi, per il PCI si trattava invece di un modo di presentare alla borghesia imperialista le proprie credenziali democratiche e dimostrare, in un momento di rottura, la “sicura” vocazione all’”ordine” che distingueva le sue scelte politiche. Ma il PCI giocava su due tavoli.
L’altro interlocutore era la classe operaia.
E SE LE MOSSE ERANO DIVERSE, NON LO ERA PERO’ LA STRATEGIA. I berlingueriani non potevano sottovalutare il pericolo costituito dal manifestarsi prepotente di una forza comunista armata alla loro sinistra, e del coagularsi di un’area di comportamenti proletari antagonisti e di solidarietà, non più riconducibili ad una funzione satellite nei loro confronti.
Impedire il consolidamento di questa forza e di questa area divenne così allo stesso tempo una necessità interna di partito e un impegno politico con la borghesia.
Nel corso della crisi, la ristrutturazione imperialista della divisione internazionale del lavoro, del mercato e dello Stato, se da un lato deve necessariamente imperniarsi sulla DC (perché la DC è il partito organico dei capitale multinazionale in Italia; perché in 30 anni di potere la DC si è inscindibilmente fusa con gli apparati dello Stato assumendo il carattere peculiare di partito-Stato), dall’altro non può fare a meno – nella situazione specifica del nostro paese – di catturare ai suoi disegni il partito revisionista ed assegnargli una funzione attiva, subalterna, ma non secondaria: corrompere la classe operaia con l’ideologia riformista – legalitaria – pacifista; collaborare in tutti i modi alla repressione delle tensioni rivoluzionarie sempre più forti nel divenire della crisi; mobilitare la classe operaia, proletari e “ceti medi” intorno alla politica dell’Esecutivo. Questa necessità, appunto, a grandi linee, stava alla base del progetto politico di Moro e del governo d’intesa, e ad essa si adegua, apparentemente, la pratica di Berlinguer e dei suoi soci, durante la Campagna di primavera ed anche dopo. Apparentemente, diciamo, perché i berlingueriani non rinunciavano con ciò ai propri interessi di partito, anzi li coltivavano con pretesa sapienza!
Non alludiamo qui al “compromesso storico” che, del resto, non esiste come progetto politico definito e sempre più si configura come copertura ideologica al processo di incorporazione del PCI nello Stato Imperialista; alludiamo invece al fatto che questa incorporazione include la contraddizione con la DC e cioè una lotta durissima per l’allargamento dell’area elettorale e dunque delle posizioni di potere. Su questa strada, l’assunzione di funzioni di vera e propria “polizia antiproletaria”, cosa impossibile per la DC che ha un peso irrilevante nella classe operaia, è una tappa qualificante ma necessaria seppur densa di contraddizioni. Gli appelli della direzione del PCI e di Lama alla delazione di massa, alla costruzione nelle fabbriche di “milizie operaie” con funzioni di “vigilantes”, alla collaborazione aperta con il ministro di polizia, che si affiancano agli sforzi per compilare liste di ex iscritti al partito da consegnare alle questure, trovano una durissima resistenza ovunque e perfino nelle sezioni del partito!
Gridava Lama in quei giorni: “Dobbiamo essere capaci di guardarci attorno ogni giorno… nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle famiglie… e, se ci sono delle cose, dei fatti sospetti, delle persone che chiaramente giustificano l’azione degli avversari della democrazia, non possiamo fare finta di non vedere”. Ed effettivamente scrissero i giornali che un elenco di alcune centinaia di possibili brigatisti “sarebbe stato consegnato al ministero degli interni da un alto esponente del PCI”.
L’ombra di Strauss, dopo il 16 marzo, si proietta sui volti dei vertici del sindacalismo italiano di matrice “comunista” e grava come un incubo sul movimento operaio mentre al Viminale – dove elaboratori elettronici e super poliziotti sono evidentemente in tilt – tirano un fiato di sollievo.
Ma è un sollievo miope e mal riposto per due precisi motivi:
PRIMO MOTIVO
All’interno del movimento operaio il tentativo di montare un apparato di massa con funzioni di spionaggio ai danni degli operai e dei militanti più combattivi e rivoluzionari, non solo fallisce, ma apre e divarica violentissime contraddizioni che rimbalzano sino ai vertici del movimento sindacale.
Anche la borghesia industriale si spaventa per questi tentativi ambigui e avventurosi di “surrogare” lo Stato che non si sa bene dove potrebbero andare a parare e che potrebbero, perfino, finire egemonizzati dagli stessi brigatisti.
Non a caso la CISL scende apertamente in lotta contro la proposta di “creare fra i lavoratori dei nuclei o dei veri e propri commissariati di polizia”.
SECONDO MOTIVO
Nei confronti dell’esecutivo e della DC il frenetico attivismo dei PCI, “in difesa dello Stato Imperialista”, costituiva una fortissima pressione condizionante e smascherava l’incapacità della DC di mobilitare la piazza.
In un certo senso, dunque, con le sue mobilitazioni ed i suoi appelli, il PCI “teneva in ostaggio” la DC, sottoponendola, minuto per minuto, ad un micidiale ricatto politico.
“Noi diciamo che lo stato si salva non cedendo alla trattativa con le BR – affermavano i berlingueriani – se la DC tratta per salvare il “suo” presidente, dimostra una volta di più la sua mancanza di senso dello Stato”.
Evidentemente è un’argomentazione falsa, artificiale, facilmente smontabile, ma nel surriscaldamento della battaglia ottiene l’effetto voluto: paralizza ancor più i movimenti degli uomini di potere e cioè di Andreotti e Zaccagnini.
Dietro la fermezza del PCI c’è un gelido calcolo di partito.
Meglio essere chiari sino in fondo: il PCI voleva la fucilazione di Moro.
Da essa i berlingueriani si proponevano di conseguire due obiettivi: l’indebolimento strategico della DC e, nello stesso tempo, un indebolimento politico delle Brigate Rosse.
INDEBOLIMENTO STRATEGICO DELLA DC, nel senso che essa perdeva uno dei suoi massimi dirigenti e con lui un abile e pericoloso “illusionista”, il cui piano era sì quello di fare entrare il PCI nella maggioranza, ma per bloccare ogni altro passo in avanti verso il governo centrale del paese. Inoltre, non essendo riuscita la DC a liberare il suo presidente ed avendo subito per 55 giorni l’iniziativa delle BR, essa sarebbe stata irrimediabilmente esposta ad un’ondata di critiche che avrebbero rimarcato l’inefficienza desolante di tutti gli apparati dello stato, istituzionalmente preposti alla sicurezza e quindi, la sua macroscopica inadeguatezza a gestire da sola “le sorti del paese”.
Moro era sgomento e consapevole di questa lucida condanna quando scriveva a Zaccagnini: “possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce quasi a soluzione di tutti i problemi del paese?” Era possibile!!
INDEBOLIMENTO POLITICO DELLE BR, nel senso di portare alle estreme conseguenze la campagna, iniziata il 16 Marzo, di sfruttamento crudele delle emozioni dell’opinione pubblica. Campagna isterica, poliziesca e forcaiola contro la “ferocia dei terroristi”.
Campagna contro i fiancheggiatori. Campagna di mobilitazione qualunquista delle masse, che tuttavia, nonostante il balletto delle cifre, l’eccitazione retorica, le bandiere bianche e gli sforzi eccezionali degli apparati di partito, ha ottenuto risultati deludenti.
Per quanto gelido e feroce, anche questo fu un calcolo sbagliato. Volendo isolare la lotta armata senza tenere conto delle contraddizioni di classe profonde e reali che la rendevano storicamente necessaria, essi hanno finito per propagandarla e per destare anche nelle loro file, ripensamenti, inquietudini e moti di interesse.
Intorno ad alcune questioni e ad alcune parole.
L’alone di significati borghesi che avvolge le parole “banale”, “processo”, “carcere”… ha reso ambigui molti discorsi che sono stati fatti e a poco è servito aggiungere “del popolo”. L’ambiguità si è generata dal fatto che nelle stesse parole si riflettono eventi, pratiche, sostanzialmente diverse, che non ammettono simmetria. Pratiche di lotta contro lo sfruttamento, la miseria e l’oppressione nel nostro caso.
Pratiche di controrivoluzione nel caso della borghesia imperialista.
E non si tratta solo di una inversione di segno. Cattura, imprigionamento, processo, esecuzione dei nemici di classe, sono alcune di queste pratiche che hanno scandito lo svolgersi della Campagna di primavera. È importante perciò chiarire il significato politico e la funzione pratica che noi diamo ad essa.
La cattura di Moro e l’annientamento della scorta
Il 16 Marzo si è instaurato un nuovo rapporto di forza tra l’organizzazione comunista combattente e le forze militari del nemico. La cattura perfettamente riuscita di uno dei personaggi più o meglio protetti dello Stato (checché ne dicano gli esperti della controguerriglia) ha segnato una tappa importante nella crescita della guerriglia ed in particolare ha dimostrato una cosa:
NESSUN OBIETTIVO, PER QUANTO MILITARMENTE PROTETTO, È INATTACCABILE DA UNA FORZA GUERRIGLIERA.
La forza impiegata dalla nostra organizzazione, sia per il numero dei compagni e la loro capacità tecnica, che per le armi usate, è stata certamente rilevante ed adeguata alla complessità dell’obiettivo, ma l’attacco nella sua meccanica non aveva niente, assolutamente niente, che non rientri nelle normali e “naturali” possibilità e capacità dei proletariato del nostro paese.
Vogliamo essere espliciti: in via Fani, il 16 marzo ad affrontare la battaglia, non c’erano misteriosi 007 venuti da chissà dove, ma compagni, avanguardie politiche, tempratesi nelle lotte della classe operaia e del proletariato del nostro paese. C’erano comunisti combattenti che si sono addestrati “nel cortile di casa”, proprio come il rintronato signor Craxi non riesce ad immaginare; le armi usate non erano sofisticati e ultramoderni meccanismi (purtroppo non li abbiamo mentre il nemico ne possiede in abbondanza; riteniamo questo un limite e non un vanto, e sarà nostro preciso compito migliorare con ogni mezzo l’armamento a nostra disposizione) ma molto più modestamente erano in gran parte vecchi residuati della guerra partigiana del ’45 (questo farà venire un attacco di bile ai berlingueriani, ma è certo che il patrimonio, anche militare, dei comunisti che hanno combattuto nella Resistenza non gli appartiene più in esclusiva da molto tempo). Diamo questi particolari, non per banalizzare gli enormi problemi tecnici e militari che la guerriglia deve risolvere, ma per riportare la questione propriamente militare della guerra di classe nella giusta dimensione, nella dimensione del reale togliendola da quella dei film gialli.
Questione militare che si può sintetizzare in una parola: ORGANIZZAZIONE. Vale a dire: TUTTI I PROBLEMI MILITARI E TECNICI TROVANO SEMPRE UNA EFFICACE SOLUZIONE SOLO ALL’ INTERNO DI UNA CONCEZIONE POLITICA CORRETTA DELLA COSTRUZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA.
ORGANIZZAZIONE INTESA COME DIREZIONE POLITICO-MILITARE DEL PROCESSO RIVOLUZIONARIO, COSTRUZIONE COSCIENTE, CAPACE DI TRASFORMARE LE IMMENSE POTENZIALITÀ DEL PROLETARIATO IN FORZA ESPRIMIBILE IN LOTTA, CHE STRUTTURA QUESTA POTENZIALITÀ RENDENDOLA STRATEGICAMENTE INVINCIBILE.
È questa concezione che consente di trasformare le carenze dei singoli compagni e le debolezze delle singole individualità in capacità collettiva di affrontare vittoriosamente qualunque battaglia, di attaccare qualsiasi obiettivo. L’alto grado di efficienza, precisione, di esecuzione di complessi piani militari, raggiunto dalla nostra organizzazione, non sono il prodotto dell’impiego di super-uomini-mostri (questa è un’altra mistificazione della propaganda del nemico, che diffonde un’immagine dell’organizzazione guerrigliera con i connotati del mito-mostro irreale, fuori comunque dalle possibilità della gente comune), ma il risultato che verifica e convalida la giustezza del modulo organizzativo che abbiamo adottato.
Di superiore ci sono soltanto le motivazioni e gli scopi per i quali le BR combattono, la “superiorità” organizzativa risiede nella validità della strategia politico-organizzativa che si sono date e i fatti sono lì a dimostrarlo. Il governo, la DC e il PCI, nell’intento di distillare il massimo di propaganda controrivoluzionaria possibile dall’azione bellica del 16 marzo, hanno cercato di affogare in un mare di retorica il messaggio esplicitamente contenuto in essa e rivolto a tutti i cani da guardia della borghesia. Un messaggio importante che, nel loro interesse, carabinieri poliziotti e agenti di custodia, farebbero meglio a valutare bene. Si tratta di questo: i servi armati del potere non sono “figli del popolo”. Tali si è infatti per le pratiche che si compiono e non per un diritto di nascita.
La collocazione ed il ruolo svolto dai servi armati dello Stato Imperialista sono oggettivamente controrivoluzionari e molto spesso, ma non necessariamente anche soggettivamente.
Non trascuriamo il fatto che dentro le divise ci sono in molti casi la fame atavica del sottosviluppo; l’ignoranza secolare in cui la borghesia ha incarcerato contadini e pastori; la disperazione della disoccupazione cronica, l’assenza di coscienza sociale e politica, più che una vera e propria determinazione controrivoluzionaria cosciente. Ma questa considerazione, che teniamo presente allo stadio attuale della lotta, non assolve nessuno.
E la teniamo presente perché questa oggettiva contraddizione costituisce un punto debole dello schieramento militare nemico e perciò, pur senza sopravvalutarla, è possibile sfruttarla per indebolire il suo fronte.
SPACCARE, NEUTRALIZZARE, DESTABILIZZARE PSICOLOGICAMENTE E POLITICAMENTE IL PERSONALE MILITARE CHE LA BORGHESIA IMPERIALISTA ASSOLDA PER DIFENDERE I SUOI ESCLUSIVI INTERESSI, I SUOI UOMINI E I SUOI CENTRI, è un obiettivo a cui non intendiamo rinunciare.
Il nostro attacco militare deve sempre proporsi, anche di:
– demoralizzare il nemico evitando di contribuire a consolidare il suo “spirito di corpo”;
– dividere la truppa dai graduati e dagli ufficiali attraverso un’azione il più possibile selettiva almeno in questa congiuntura;
– esortare i servi armati dello stato a cambiare mestiere, abbandonare la divisa, congedarsi, prima che diventi troppo tardi. Su questo punto va fatta la massima chiarezza. Poliziotti adibiti a compiti antiguerriglia, i vari gorilla di scorta agli esponenti del potere, i carabinieri di sorveglianza ai campi di concentramento, quelli che vengono impiegati nella “caccia” ai comunisti combattenti, gli sbirri che si infiltrano nelle fabbriche e nei quartieri con compiti di schedature, di spionaggio, di controllo, SI ASSUMONO CONSAPEVOLMENTE UNA FUNZIONE SPECIALE, si pongono direttamente e scopertamente contro il proletariato rivoluzionario. Non ci possono essere dubbi, neanche per gli sbirri stessi, il loro è il più lurido dei mestieri che ripugna alla coscienza e al sentimento popolare come ripugnanti sono tutti gli aguzzini prezzolati al soldo della borghesia imperialista. Fino a poco tempo fa il rapporto tra i mercenari dei corpi speciali e le forze rivoluzionarie era a senso unico: i primi a dare la “caccia”, a uccidere, a imprigionare, a sorvegliare e i comunisti combattenti a subire.
Ora questo rapporto si sta ribaltando; si deve ribaltare. Ad attaccare i corpi speciali per disarticolarne il funzionamento devono essere i rivoluzionari: a stanare gli agenti della contro- guerriglia armata devono essere i combattenti proletari; le unità militari che cingono d’assedio il proletariato urbano devono a loro volta essere assediate, inesorabilmente colpite ed annientate.
L’annientamento delle scorte di Coco e di Moro, l’attacco contro le pattuglie di guardia alle carceri Nuove e alla tana di Galloni, il disarmo di unità militari, la distruzione di strutture e di automezzi, sono esempi del nostro PROGRAMMA CONTRO LE FORZE MILITARI DEL NEMICO che ci propone:
- a) una disarticolazione scientifica degli apparati militari centrali dello Stato Imperialista e in particolare dei “corpi speciali” che ne costituiscono la punta di diamante;
- b) disarticolazione sistematica del processo di crescente e capillare militarizzazione del territorio metropolitano.
L’ATTACCO ALLE FORZE MILITARI NEMICHE NON È UN MOMENTO NÉ TANTO MENO UNA FORMA DI LOTTA. È LA CARATTERISTICA COSTANTE DELLA GUERRA DI CLASSE DI LUNGA DURATA. E SU QUESTO PROGRAMMA OFFENSIVO, E SU QUESTI CONTENUTI, CHIAMIAMO QUINDI AL COMBATTIMENTO TUTTE LE AVANGUARDIE DEL MOVIMENTO DI RESISTENZA PROLETARIO OFFENSIVO.
Processo e prigionia di Aldo Moro
C’è chi ha fatto notare l’abissale differenza tra il processo delle BR ad Aldo Moro e quelli che vengono celebrati dalla borghesia contro le avanguardie rivoluzionarie.
Questo francamente ci fa onore. Il tribunale del popolo non ha nulla a che fare con la macabra liturgia dei tribunali borghesi, sono due cose che non hanno nulla in comune. Il processo alla borghesia imperialista è un processo in nessun modo codificato da norme precostituite, astrattamente inventate, ma al contrario è tutto dentro allo scontro mortale tra due classi: le forme che assume ed i criteri che adotta sono quindi diretta conseguenza della coscienza e dei rapporti di forza che il proletariato riesce ad esprimere. È nel corso della guerra che i rapporti di forza sempre più favorevoli al proletariato consentono di “fare giustizia”, giustizia proletaria dei crimini perpetrati dalla borghesia e di assumere l’interesse proletario come unico metro per valutare ciò che è giusto e ciò che non lo è.
Vale a dire: la giustizia proletaria è il prodotto storico della guerra al sistema di dominio imperialista, alternativa antagonistica alla falsa giustizia borghese, così come sono alternativi e antagonistici gli interessi delle due classi che si combattono.
Ma la giustizia proletaria non è un esercizio astratto e accademico o un rituale simbolico buono per le pantomime teatrali, ma che non intacca minimamente la forza del nemico di classe, al contrario, la giustizia proletaria è la pratica puntuale, precisa e selettiva con cui gli autori dei crimini antiproletari, i realizzatori della controrivoluzione, vengono messi di fronte alle loro responsabilità e costretti a subirne le conseguenze. La giustizia proletaria processa gli sfruttatori, gli ideatori e gli esecutori dei piani dell’oppressione imperialista: sa applicare nei loro confronti quelle sanzioni che hanno la concreta possibilità di impedire loro di continuare a nuocere alla causa del proletariato, anche applicando, quando ogni altro modo sarebbe inadeguato ed inutile, la pena di morte nei confronti di chi l’abbia meritata.
IL POTERE PROLETARIO SI AFFERMA ANCHE ATTRAVERSO LA CONCRETIZZAZIONE NELLA PROPRIA GIUSTIZIA, ATTRAVERSO LA CAPACITÀ DI “PROCESSARE”, “GIUDICARE”, “CONDANNARE” I PROPRI NEMICI.
Parole come “processo”, “tribunale”, etc. richiamano alla memoria soprusi, angherie, ingiustizie, sofferenze, per il proletariato (e come potrebbe essere altrimenti, visto che a manovrare questi strumenti è da sempre la borghesia), e male si addicono alla pratica rivoluzionaria per una società comunista, ma non è delle parole che bisogna avere paura. Quando sul banco degli imputati siedono gli autori dei peggiori crimini che l’umanità abbia mai conosciuto, chi ha passato la sua squallida esistenza a ideare, progettare, realizzare le condizioni dello sfruttamento di milioni di uomini, la miseria di intere popolazioni, l’assassinio sistematico di chi si ribella, il genocidio programmato di chi aspira ad una società di uguali, di uomini liberi dalle catene del lavoro salariato; quando sul banco degli accusati ci sono i tristi figuri dell’imperialismo, quale compito più umano, più giusto, più rivoluzionario, può esistere, di quello che spetta al Tribunale del Popolo che deve giudicarli?
Quale aspirazione alla fine di ogni sopruso, ci può essere sotto il dominio dei padroni, che non sia quella che si tramuta in inesorabile condanna di chi ha fatto della schiavitù e del sopruso la sua ragione di vita?
Per questo riaffermiamo il diritto delle forze rivoluzionarie comuniste, a fare Processi Popolari; rivendichiamo ai Tribunale del Popolo, il diritto all’esercizio della giustizia proletaria.
È A QUESTA GIUSTIZIA CHE ALDO MORO HA DOVUTO SOTTOSTARE.
Moro, per trent’anni era stato ai vertici della DC; massimo gerarca del suo partito, era stato corresponsabile a pieno titolo del famigerato regime DC che da tre decenni imperversa nel nostro paese. Progettatore; ideatore; stratega; sempre in sintonia con le centrali imperialiste del capitale multinazionale, aveva condotto, padrino indiscusso, la cosca DC, a quei governi, equilibri politici, alleanze e complicità, che fedelmente avrebbero eseguito le direttive padronali, che con la più feroce repressione antiproletaria avrebbero garantito il perpetuarsi del potere della borghesia. Dietro le cortine fumogene, dietro le fantasiose formule inventate da Moro, si è sempre celata la più accanita volontà di ingabbiare la classe aporia, di ridurre all’impotenza le masse popolari, di spezzare con la violenza armata dello Stato la resistenza proletaria. Dietro la maschera degli “equilibri più avanzati”, e delle “aperture a sinistra”, Moro ha sempre cercato di nascondere il volto della dittatura DC, il volto della reazione, della conservazione del potere ad ogni costo. Sotto la patina degli atteggiamenti preteschi c’è sempre stato l’alto protettore delle più vergognose corruttele, clientelismi, complicità; sotto l’odore di sacrestia, c’è sempre stato quello ancor più nauseabondo del losco manovratore di intrighi, del lugubre complice delle stragi, del terrore antiproletario. Questo è il Moro che i proletari avevano conosciuto in tanti anni, che per tanti anni avevano dovuto subire e sopportare: questo è il Moro che è stato giudicato e che, per le sue dirette responsabilità è stato condannato. La sua condanna ha segnato per i proletari, i rivoluzionari. i comunisti, una tappa fondamentale, incancellabile, del generale processo che condurrà inesorabilmente i gerarchi della DC, il loro regime, il loro sistema di potere, nel baratro di una condanna storica che, nella coscienza e nella volontà popolare è già stata decretata.
L’esecuzione di Aldo Moro
Se l’esecuzione della condanna a morte di Moro concretizzava coerentemente il giudizio popolare, anche sul piano politico, è valutando i riflessi dirompenti che avrebbe avuto sullo schieramento nemico, che si dimostrava la scelta più giusta.
È chiaro che l’unanimistica “linea della fermezza” sulla quale si erano attestati i maggiori partiti, e che apparentemente rappresentava il massimo di unità mai raggiunto, in realtà era il risultato di calcoli politici e di interessi di partito differenti per ciascuna di loro, e che, se nell’immediato potevano sembrare concomitanti, alla lunga avrebbero messo in evidenza la loro incongruenza. Questo, ben inteso, se la contraddizione Moro fosse rimasta aperta: L’UNICO MODO PER IMPEDIRNE L’ARCHIVIAZIONE ERA ESEGUIRE LA CONDANNA.
La DC che contava di rifarsi sulla pelle di Moro una impossibile verginità finita l’ondata (…) montato, si sarebbe di nuovo ritrovata assediata, ancor più vigorosamente dall’iniziativa guerrigliera, con in più alle spalle una solenne sconfitta, attaccata e colpita, con la dimostrazione non mistificabile della sua vulnerabilità ed impotenza, con la dimostrazione lampante che l’abbraccio con il PCI non aveva prodotto l’effetto sperato di addormentare il proletariato.
Messa al centro dell’offensiva rivoluzionaria, braccata nei suoi uomini, inesorabilmente “condannata”, avrebbe visto aumentare tra i suoi boss, il panico da cui non riescono più a liberarsi. Il coacervo di forze che costituisce il suo sistema di potere, avrebbe subito un inevitabile sconquasso: molte certezze sarebbero cadute; le divisioni interne che gli intrallazzi di Moro avevano appena sanato, si sarebbero riaperte indebolendo, per il peso che questa ha, la forza della DC nell’attuazione del progetto imperialista al quale è stata designata.
Questo è regolarmente accaduto.
Il PCI che aveva creduto, nel “farsi Stato”, di acquistare una buona carta di credito da riscuotere con concessioni nella gestione del potere, si sarebbe visto ributtare in faccia la sua demagogica “rigidità”, poiché la borghesia imperialista non sa che farsene delle “garanzie” offerte dai berlingueriani, se non nel senso di una sempre maggiore compromissione nella repressione anti-operaia, una assunzione sempre più esplicita del ruolo di polizia, di spie, di delatori interni al movimento operaio senza per questo nulla concedere ai loro vaneggiamenti riformistici.
Inoltre, ben più importante, l’esecuzione di Moro avrebbe dato una forte spallata alla già traballante credibilità dei berlingueriani, nei confronti di una base proletaria che, già durante la prigionia di Moro, aveva dimostrato una profonda avversione verso il collaborazionismo vergognoso che gli veniva indicato.
Di fronte ad una conclusione dura, ma coerente di un processo contro il nemico di sempre, vasti strati proletari avrebbero ricevuto un’iniezione di fiducia, avrebbero avvicinato la loro pratica militare a quella delle avanguardie armate, accelerando l’isolamento politico al quale il partito di Berlinguer è ormai votato.
ISOLARE, ESPELLERE DALLA CLASSE OPERAIA, I BERLINGUERIANI, COLPIRLI COME I PEGGIORI NEMICI DEL PROLETARIATO, QUANDO TRASFORMATISI IN SQUALLIDI SGHERRI DEL REGIME, SCHEDANO, SPIANO, DENUNCIANO I COMPAGNI CHE NON ACCETTANO E LOTTANO CONTRO LA RISTRUTTURAZIONE IMPERIALISTA, è un obiettivo che le avanguardie comuniste si devono porre per sviluppare ed organizzare la mobilitazione rivoluzionaria. Il PSI, che durante la prigionia di Moro aveva assunto, principalmente per bassi fini elettorali, una posizione vagamente “possibilista”, si sarebbe trovato, unico partito tra i filogovernativi, pericolosamente “scoperto”, senza averne guadagnato alcunché, con un peso nella “grande coalizione” ancor più ridimensionato, e avrebbe quindi rappresentato un ulteriore elemento di contraddizione interna. In definitiva, l’esecuzione della condanna a morte di Moro, avrebbe costretto i vari partiti politici a pagare un prezzo che, se immediatamente sembrava loro il minore dei mali, sarebbe stato dopo il più alto, perché avrebbe ributtato al loro interno, ingigantite, le contraddizioni laceranti che l'”accordo di governo” mirava invece a ricomporre. Dopo l’esecuzione di Moro, le alleanze appena costruite hanno cominciato a scricchiolare, le complicità antiproletarie sapientemente progettate, una volta smascherate ed evidenziate, hanno perso gran parte della loro efficacia. Il blocco di potere che, costituitosi 55 giorni prima, avrebbe dovuto gestire speditamente la ristrutturazione imperialista, non è riuscito a consolidarsi, ma anzi, da allora, ha cominciato a sfaldarsi.
Questo è uno dei risultati che ci proponevamo con la battaglia del 16 Marzo, e per quanto era nelle possibilità di quella battaglia, l’obiettivo è stato pienamente raggiunto.
Costruire il Partito e rafforzare ed estendere il potere rivoluzionario
Con la Campagna di Primavera, il processo di costruzione del Partito Comunista Combattente ha compiuto un nuovo balzo in avanti e le Brigate Rosse si sono affermate come suo nucleo strategico e baricentro politico-militare. L’attacco portato al “Cuore dello Stato”, ha sbrindellato irreversibilmente i piani della borghesia imperialista per la normalizzazione del paese e ha impedito di fatto la saldatura delle contraddizioni politiche che col nuovo regime essa andava perseguendo. Con il 16 Marzo, non si è affermato un nuovo regime in grado di stabilizzare la situazione economica-politica-sociale, com’era nella intenzione dei democristiani e dei loro complici berlingueriani, ma si è invece manifestata clamorosamente l’esistenza di due poteri contrapposti, in lotta, espressioni di classi antagoniste, di interessi, bisogni, e aspirazioni nettamente inconciliabili. Nello stesso tempo, le nuove condizioni entro le quali ha dovuto esprimersi lo scontro di classe in seguito alla Campagna, hanno indotto il Movimento Proletario di Resistenza Offensivo, nella sua generalità (anche se alcune sue componenti restano tuttora imprigionate nei lacci delle ideologie economiciste e spontaneiste), ad assumere LA GUERRA DI CLASSE CONTRO LO STATO IMPERIALISTA, COME LINEA DI COMBATTIMENTO DOMINANTE. “SVILUPPARE L’OFFENSIVA E COLPIRE SENZA TREGUA LO STATO IMPERIALISTA PER DISARTICOLARE IL SUO APPARATO MILITARE E POLITICO”, SI È AFFERMATA COME PAROLA D’ORDINE UNIFICANTE IN TUTTO IL MOVIMENTO, COME PROGRAMMA GENERALE DEL MOVIMENTO PROLETARIO DI RESISTENZA OFFENSIVA NELLA NUOVA CONGIUNTURA.
Inoltre, sconfiggendo nella pratica le ultime ma tenaci illusioni legaliste, rappresentate da alcuni componenti della Autonomia Organizzata, il movimento proletario di resistenza offensiva, ha realizzato un decisivo salto di qualità:
– per la lievitazione quantitativa, l’estensione territoriale, la crescita qualitativa, degli attacchi armati;
– per le crescenti assonanze tra le campagne offensive promosse dalle BR e l’iniziativa particolare dei settori avanzati del proletariato.
ESSO HA ACQUISTATO LE DIMENSIONI DI UN VERO E PROPRIO MOVIMENTO DI MASSA RIVOLUZIONARIO. Questi sono i nuovi dati della realtà oggettiva e soggettiva che dobbiamo assumere a fondamento della nostra riflessione e della nostra pratica; dati che è necessario indagare in tutte le loro molteplici implicazioni perché stanno alla base dei nuovi compiti e dell’ulteriore rafforzamento del Partito Comunista Combattente in formazione, del Potere Politico Rivoluzionario e dell’unità dialettica tra generale e particolare che ne definisce il rapporto.
La Campagna di Primavera, ci proietta in una nuova e completa congiunzione politica: ora non siamo più nella fase della “PROPAGANDA ARMATA”, pur non essendo ancora in quella della “GUERRA CIVILE DISPIEGATA” dobbiamo prestare molta attenzione alla specificità e alle contraddizioni che distinguono questa congiuntura e non sottovalutare il fatto che la transizione da una fase all’altra potrà essere anche relativamente prolungata nel tempo. Questa CONGIUNTURA Dl TRANSIZIONE, dipende infatti, sia dall’evolvere strutturale della crisi capitalistica imperialistica, che dalla capacità soggettiva del proletariato metropolitano di costituirsi in Partito e condensare il suo antagonismo in un sistema di potere rivoluzionario autonomo, articolato e diffuso in tutti i poli: da Milano a Palermo, da Torino alla Barbagia. In questa direzione molti passi sono già stati fatti, soprattutto nella omogeneizzazione politica delle forze e delle linee di combattimento e nella verifica dei punti di “non contraddizione”.
Ma non dobbiamo sottovalutare il fatto che ulteriori progressi sono legati allo sviluppo di una rigorosa LOTTA IDEOLOGICA E POLITICA che chiarifichi agli occhi delle masse e faccia emergere nella pratica di combattimento, le peculiarità di ciascuna Formazione guerrigliera, favorendo così un confronto serrato e di massa senza il quale nessuna effettiva e forte unità sembra possibile.
Partito e organismi di massa rivoluzionari
Ogni tipo di lotta che si produce, conosce una certa auto-organizzazione che si produce spontaneamente come esigenza improrogabile; queste forme di auto-organizzazione sono state variamente chiamate: organizzazioni di massa, di lotta, ecc… In genere questi organismi sono meteore: durano il tempo della lotta e poi svaniscono; sgonfiano e si rigonfiano come le ragioni della lotta; si esauriscono quando questa cessa, per poi riprendere in un momento successivo.
Tutte le grandi rivoluzioni hanno vinto anche perché accanto all’organizzazione di Partito si sono formate potenti organizzazioni di massa che hanno saputo, favorite dall’azione di Partito, non solo crescere e mantenere una durata nel tempo, ma anche diventare, prima degli organismi centralizzati a livello “regionale” del POTERE ROSSO e infine assumere la funzione di veri e propri ORGANI DELLA DITTATURA DEL PROLETARIATO, come i Soviet in Unione Sovietica e i Comitati Rivoluzionari in Cina.
Ma se questi organismi sono la manifestazione ed il prodotto di cause oggettive, la loro forma, maturità e durata, dipendono soprattutto dall’intervento del Partito.
Di fronte agli organismi di massa, il Partito rappresenta il programma Strategico, il punto di vista generale. Di fronte al Partito, gli organismi di massa rappresentano il Programma Immediato, il punto di vista dei bisogni particolari. Il Partito, proprio per continuare ad assolvere al suo ruoto specifico di avanguardia politico-militare, deve farsi carico via via, di tutti i problemi delle masse: Mao diceva che “il Partito deve farsi carico e risolvere anche i problemi del riso e del sale”.
CONTRIBUIRE ALLA CREAZIONE DEGLI ORGANISMI Dl MASSA RIVOLUZIONARI, ED IMPOSTARE UN GIUSTO RAPPORTO DIALETTICO TRA ESSI E IL PARTITO È IL COMPITO GENERALE DELLA TRANSIZIONE, DEL PASSAGGIO DALLA FASE DELLA “PROPAGANDA ARMATA” ALLA “GUERRA CIVILE DI LUNGA DURATA”. Tra Partito e Organismi di massa Rivoluzionari, non opera un rapporto di continuità, ma un’interazione dialettica.
Non esiste una “coscienza politica” al di fuori delle forme organizzative che la esprimono.
Così se noi diciamo che il Partito è l’unità organizzata degli elementi comunisti rivoluzionari, diciamo anche che il Movimento di massa Rivoluzionario, non va inteso come relazione formale, meccanica, causale, tra due realtà “separate”: il Partito “sopra” e gli Organismi di massa Rivoluzionari “sotto”.
II Partito infatti è la componente d’avanguardia del Movimento di massa rivoluzionario e perciò é allo stesso tempo “parte” di questo movimento e “distinto” da esso.
“Parte”, in quanto ne è assolutamente interno e ciò vuol dire che i suoi militanti – qualunque forma organizzativa assumano: clandestini, “legali”, ecc… – costituiscono la spina dorsale di questo movimento, il suo lievito, rivoluzionario, la sua avanguardia politico-militare. “Distinto” da esso, nel senso che il Partito mantiene una propria autonomia politica, militare, organizzativa, e cioè, pur operando all’interno del Movimento di massa Rivoluzionario, non si discioglie in esso, né con esso si identifica, poiché la sua funzione rivoluzionaria non si esaurisce nella specificità delle singole situazioni e delle distinte componenti del proletariato metropolitano.
IL NUOVO COMPITO, FONDAMENTALE IN QUESTA CONGIUNTURA, E CIOE’ “ORGANIZZARE IL MOVIMENTO Dl MASSA SUL TERRENO DELIA LOTTA ARMATA PER IL COMUNISMO”, RICHIEDE ALLE ORGANIZZAZIONI COMUNISTE COMBATTENTI, DI RIDEFINIRE. IL LORO RUOLO IN RAPPORTO AI NUOVI LIVELLI DI COMBATTIVITÀ DELLE MASSE E ALLE FORME NUOVE Dl ORGANIZZAZIONE, GENERATE, NEL LORO MOVIMENTO, DAI SETTORI PIÙ AVANZATI DEL PROLETARIATO. IN PARTICOLARE E’ NECESSARIO EVITARE DUE ERRORI.
Il primo consiste nell’inventarsi “Organismi di massa” entro cui tentare di imbottigliare il movimento reale, invece di prendere atto delle forme storiche che la dialettica fra rivoluzione e controrivoluzione produce.
Il secondo consiste nel voler ricondurre tutte le forme di organizzazione delle masse, ad organizzazioni di Partito, negando così ancora una volta, il movimento reale nella sua concretezza ed originalità.
La crescita del POTERE PROLETARIO, implica di conseguenza e nello stesso tempo, il rafforzarsi della capacità di egemonia, di direzione, ed organizzazione del Partito, sul Movimento Proletario di Resistenza Offensiva nel suo complesso, da un lato, dall’altro, il consolidarsi della capacità di mobilitazione e di combattimento degli Organismi di massa generati dai settori avanzati del proletariato metropolitano.
Il compito principale delle Organizzazioni Comuniste Combattenti nella nuova congiuntura, rispetto al movimento rivoluzionario nel suo complesso deve perciò essere quello di ESALTARE LE POTENZIALITÀ DEL MOVIMENTO, AIUTARLO AD ORGANIZZARSI IN FORME PROPRIE ED ORIGINALI DI COMBATTIMENTO, DIRIGERLO STRATEGICAMENTE INSERENDONE LE TENSIONI DENTRO UN DISEGNO POLITICO-MILITARE UNITARIO, UNIFICANDO GLI ELEMENTI COMUNISTI NEL PARTITO COMBATTENTE.
PROLETARI DI TUTTI I PAESI UNIAMOCI!!
Brigate Rosse
Marzo 1979
Fonte: progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.