Il 10 Febbraio 1986 un nucleo armato della nostra Organizzazione ha giustiziato Lando Conti, dirigente della SMA e stretto collaboratore del ministro della guerra, il porco sionista Spadolini.
Lando Conti faceva parte di quel ceto politico-imprenditoriale ossatura della Borghesia Imperialista nei suoi progetti congiunturali. Ceto politico che coniuga direttamente gli interessi economici legati al settore bellico con le scelte generali dell’imperialismo occidentale.
Infatti, è stato instancabile animatore delle forzature politiche per una più diretta partecipazione dell’Italia, anche in senso militare, nell’alleanza atlantica.
Lo ritroviamo costantemente a fianco del ministro detta guerra attivizzato a promuovere e sostenere apertamente la posizione americana nel Mediterraneo.
La SMA (segnalamento marittimo ed aereo), piccola ed agile azienda per autodefinizione, partecipa ai più importanti sistemi d’arma e principalmente al programma USA delle guerre stellari SDI, attraverso il consorzio italiano per le tecnologie strategiche (CITES) promosso dall’Agusta. Essa fa parte del “club Melara”, circolo che racchiude il meglio detta produzione bellica italiana, controlla diverse aziende del settore con diramazioni anche all’estero, la sua produzione spazia dai sistemi radar alle componenti elettroniche per missili. Produzioni qualitative queste che in un mercato in espansione hanno suscitato l’interesse della Fiat ad una consistente partecipazione azionaria.
L’espansione produttiva e nei mercati mondiali della SMA è provata dalle sue esportazioni in tutte le parti del mondo, non disdegnando tra l’altro i sionisti israeliani, i golpisti NATO della Turchia, il regime segregazionista sudafricano, il regime filippino del dittatore Marcos ed i vari regimi sudamericani per citarne solo alcuni.
Il ruolo svolto da Lando Conti sia nel consiglio d’amministrazione della SMA, sia come esponente di rilievo del PRI, nonché nel panorama del potere politico locale è indicativo per comprendere fino in fondo le interconnessioni d’interesse politico-economico-militare assunte oggi dal settore bellico.
Se si sfoglia un qualsiasi manuale inerente ai problemi della guerra, vi si troverà citato il principio per cui il massimo di difesa è direttamente proporzionale alla capacità offensiva. Una legge generale della guerra che, non uno, ma nemmeno mille caminetti ginevrini possono invalidare.
La cosiddetta “Iniziativa di Difesa Strategica” promossa dagli USA determina necessariamente una corsa al riarmo, corsa che non riguarda soltanto lo spazio, investendo pesantemente il riadeguamento tecnologico-offensivo dei sistemi d’arma convenzionali, nel solco dell’idea guida dello “scudo stellare” consistente nel realizzare le condizioni per rendere praticabile (correndo un rischio accettabile) l’uso dell’arsenale nucleare. Sarebbe comunque riduttivo presentare lo SDI esclusivamente come un gigantesco strumento militare, sarebbe come essere ciechi di fronte alle sue motivazioni di carattere economico. Motivazioni che stanno alla base della diretta partecipazione al programma di vasti settori dell’economia generando una stretta relazione tra il politico, il militare, l’industriale e lo scientifico accademico.
Lo SDI é il programma pilota che la Borghesia Imperialista intende adottare per far fronte alle proprie necessità consistenti nel ridisegnare una nuova divisione internazionale del lavoro con la rottura degli attuali rapporti di forza interimperialistici, come condizione indispensabile per un’adeguata valorizzazione dei capitali impiegati.
Ventisei miliardi di dollari investiti solo nel campo della ricerca, una stima di 1500-2000 miliardi di dollari di spesa per la sua realizzazione vogliono dire un giro d’affari moltiplicatori che fa venire l’acquolina in bocca ai capitalisti, malcelata con le ipocrite perplessità politiche espresse dai vari governi europei.
Il lancio del cartello europeo Eureka, pur non avendo la potenzialità per competere con il Programma USA, rafforza le posizioni europee nelle acquisizioni delle commesse americane in quantità e quantità, cercando nel contempo di mascherare, dietro la demagogia di una “Europa autonoma”, la scelta dell’opzione bellica che comporta il porsi al carro dello SDI. Questa massa di capitali di tecnologia avanzata, sono un boccone prelibato per la fame inesauribile di profitti delle industrie belliche e non.
Per il capitale multinazionale USA la promozione e lo sviluppo di tale programma rappresenta il rilancio e l’amplificazione della propria supremazia nel mondo, mantenendo sotto la propria guida la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro. Da un lato l’ulteriore cementazione dei rapporti gerarchici all’interno della catena imperialista occidentale; dall’altro il disegno di imporre all’URSS una per essa dissanguante corsa ad armamenti sempre più sofisticati, perseguendo cosi l’obbiettivo di un suo ridimensionamento anche in assenza di una vera e propria guerra diretta, costringendola ad una netta subordinazione politica.
Una velleità di vincere la guerra senza sparare un colpo che non ha possibilità di successo date anche le obbligatorie contromisure militari che all’Est si predispongono. Quella che stiamo vivendo è crisi generate storica del Modo di Produzione Capitalistico che ha origini nelle sue stesse contraddizioni interne. Essa è determinata da una sovrapproduzione assoluta di capitali, non eccesso di ricchezza, ma un’eccessiva produzione di mezzi di lavoro e sussistenza in relazione alla possibilità di un loro impiego nello sfruttamento della classe a condizioni di profitto che consentano la valorizzazione della base produttiva, l’accumulazione e riproduzione allargata.
La struttura multinazionale è condizione indispensabile al moderno capitalismo monopolistico multiproduttivo per strappare i margini di profitto ancora possibili.
Solo essa è in grado di affrontare con immense capacità tecnologiche-finanziarie gli impegni continui che si pongono sul terreno delle ristrutturazioni produttive. I capitali diversamente strutturati continuano ad esistere ma all’interno di una chiara dipendenza, destinati comunque ad essere inglobati.
La concorrenza tra capitali si sviluppa in una dimensione transnazionale e vede le strutture economiche d’ogni singolo Paese profondamente innervate ad ogni livello con capitali aventi il polo principale in altre nazioni dell’area.
La sostanza delle contraddizioni specifiche del capitale non è stata stravolta, ma è mutata la forma in cui esse si manifestano oggi. Tutto ciò comporta una complessa integrazione ed interdipendenza gerarchica che ha ovvie conseguenze sulle politiche di ogni singolo Stato, il quale non è certo uno strumento straniero che opera per conto di un capitale senza volto che annulla ogni suo carattere nazionale, anzi, ogni Esecutivo svolge una delicata funzione di articolazione delle politiche che meglio si adattano alle esigenze dei capitali, tenendo ben presente i caratteri della specifica Formazione Economico Sociale esistente, tutto questo nel rispetto delle indicazioni, generali o particolari, che in modo sempre più vincolante passano a livello internazionale, alla cui elaborazione ogni singolo governo, così come ogni capitale, partecipa in riferimento alla propria forza complessiva.
FMI, commissione esecutiva CEE, SME, banca europea per gli investimenti, svolgono un’attività di rigido indirizzo che comporta pesanti ricadute specialmente per gli Stati più deboli. Il FMI è lo strumento privilegiato con cui gli USA esercitano la loro supremazia a livello mondiale, manovrando l’emissione di finanziamenti condizionati all’adozione di politiche gradite, siano quelle antinflattive o quelle che mirano alla perpetuazione dello stato di completa dipendenza di gran parte del mondo, cercando di controllare direttamente le contraddizioni che in modo lacerante si presentano, come nel caso dell’indebitamento di dimensioni enormi che è stato accumulato dai Paesi dipendenti, autentica mina vagante per l’intero mondo capitalistico, che vede tra i massimi responsabili della sua minacciosa presenza gli stessi “artificieri disinnescatori”.
Nello specifico europeo, gli organismi CEE stabiliscono dai limiti d’oscillazioni delle monete alle quote di produzione in vari settori produttivi.
Per quanto riguarda la situazione italiana, queste decisioni hanno comportato ad esempio nel siderurgico, la disattivazione di importanti impianti, cosi come dei limiti sono stati posti in campo agricolo. Ovviamente queste misure provocano reazioni e scontri, come prova la sofferta storia di questi organismi, nessuno è disposto ad attuare con indifferenza restrizioni di questo genere, ma è verificabile un sostanziale allineamento ad esse nella coscienza del quadro generale di crisi, dei propri limiti di potenza, nella mancanza di alternative praticabili.
Non un pacifico affratellamento tra capitali e Stati, ma neanche un piatto riprodursi di quadri politico-economici già visti, cogliendo le differenze tra quantità e qualità e il punto in cui una può trasformarsi nell’altra.
È a partire da questa situazione che possiamo trovare le basi reali che portano poi alle politiche degli Stati imperialisti, sia rispetto alle condizioni di vita del proletariato, continuamente attaccato dai singoli governi, che allo stato di sempre maggiore conflittualità tra i due blocchi. È in questo vulcanico crogiolo che vivono le basi di una sempre più marcata tendenza alla guerra.
La storia ci insegna che altre gravi crisi hanno scosso il MPC e che esse sono state superate con lo scatenamento di guerre interimperialistiche che con le immense distruzioni di mezzi di produzione, di forza lavoro, di merci consentono poi la ripresa espansiva del ciclo economico, una diversa ripartizione delle aree di dipendenza nel mondo.
Nella necessità d’espansione del capitale maggiormente sviluppatosi vanno inquadrati tutti gli attacchi che l’amministrazione USA rivolge contro gli accordi di Yalta, perché essi rappresentano la sanzione d’equilibri tra i due blocchi oggi non più accettabili.
Indichiamo gli USA ed i suoi alleati europei come responsabili principali dell’attuale tendenza alla guerra, non per una valutazione di tipo ideologico positiva nei riguardi del blocco a dominanza URSS, anzi affermiamo che anche in questo caso ci troviamo davanti ad un Paese capitalistico dato che la proprietà statale dei mezzi di produzione non significa automaticamente socialismo.
Non di questo dunque si tratta ma della valutazione del diverso tipo di sviluppo del capitale e delle contraddizioni che lo percorrono, che conseguentemente lo portano a scelte politico-economiche diverse, per cui possiamo dire che in questa fase la corsa al riarmo, in generale, non gioca un ruolo economico positivo nell’Unione Sovietica, data la necessità di investire capitali in settori dove si registrano croniche carenze, pur nella determinazione a mantenere la propria area d’influenza.
Per quanto riguarda il campo occidentale vari sono gli esempi del rapporto crisi economica-guerra.
In risposta alla crisi del ‘29 La borghesia adotta le politiche Keynesiane che guidano il “New Deal” americano consistenti nell’intervento massiccio dello Stato come produttore di domanda aggiuntiva, tramite opportune manovre di definizione del saggio d’interesse, il fisco, strumenti di controllo sulla massa complessiva degli investimenti. Ma nel breve arco di tempo che va dal loro dispiegarsi alla vigilia della seconda guerra mondiale, questa risposta anticiclica dimostra tutti i suoi limiti e contraddizioni: una spesa federale che quasi si raddoppia in presenza contemporanea di un netto calo del Prodotto Interno Lordo ed una sestuplicazione della disoccupazione.
La via d’uscita dalla grave crisi verrà invece imboccata con l’esplosione del conflitto, con le forniture militari ai Paesi Alleati e il successivo intervento diretto provocano l’accelerazione produttiva con la conseguente quasi scomparsa della disoccupazione. Negli stessi anni anche la Germania cerca la sua via d’uscita alla crisi con le politiche pianificatrici dello Stato nazista, ideate per risolvere con la forza la caduta di valorizzazione dei capitali. Esse erano basate sullo sviluppo della produzione bellica finanziata dallo Stato, con il controllo dei commerci con l’estero del mercato valutario, dei prezzi e, ovviamente, dei salari.
La produzione ripartì a pieno regime nel 1937. L’indice della produzione legata al bellico, rispetto al 1928 era superiore del 37,2% a fronte, nello stesso periodo, di un aumento del 4,5% in industrie producenti merci destinate ai consumi di massa. In presenza di una diminuzione dei salari l’ammontare complessivo dei profitti aumentò oltre il 100%. Una situazione che non poteva non generare nel tempo effetti incontrollabili, ma nella realtà questo tempo non sarebbe maturato data la pianificata intenzione di scaricare verso l’esterno queste contraddizioni.
Allo scoppio della guerra di Corea, in fase di ristagno dell’economia, la spesa bellica svolge ancora un ruolo di locomotiva con i suoi effetti generatori di nuovi investimenti, così come durante la guerra d’Indocina con l’80% dell’aumento degli acquisti federali riconducibili alle spese militari che portarono ad una delle più lunghe progressioni dell’economia USA; insomma si verifica ancora una volta il rapporto tra “Welfare State” e Warfare State. A questi fatti si aggiunge poi la realtà sempre operante del commercio di armi tra USA ed Europa e tra queste e il “Terzo Mondo”, con diversi gradi a seconda che si tratti di Paesi con capacità di pronto pagamento (in denaro o materie prime) o meno. In queste vendite vengono rispettati ovviamente dei rigidi criteri politici riferiti al grado di affidabilità e alla rilevanza strategica di ogni singolo Paese. Inutile dire che l’ammontare complessivo della torta bellica d’esportazione viene divorata per 3/4 dall’imperialismo occidentale.
Vediamo, ora le caratteristiche peculiari della produzione bellica… entriamo nel ventre della bestia.
Se è sempre sbagliato tracciare una netta linea divisoria tra produzione di merci e contesto politico essa è ancora più assurda nel caso della merce-arma poiché essa racchiude in sé il massimo di politicità. Politico per eccellenza è intanto l’acquirente cioè gli Stati, con conseguente uso schiettamente politico, rivolto da una parte all’interno dall’altra proiettato verso l’esterno. All’interno il suo possesso rappresenta una sorta di assicurazione sulla vita, il miglior investimento atto a perpetuare il proprio dominio di classe; le masse che con il loro lavoro forgiano gli strumenti destinati al mantenimento della loro posizione d’oppressi e che, tramite la rapina fiscale sono costrette a finanziarne l’acquisto!
All’esterno come strumento di potenza a tutela dei propri interessi già esistenti e per fronteggiare il blocco avverso cercando di conquistare nuovi spazi per i capitali multinazionali che risultano eccedenti nell’area geopolitica in cui già operano questo con logica imperiale o sub-imperiale a seconda dei casi.
Il fatto che il committente sia uno Stato rappresenta per le industrie belliche un fattore estremamente positivo perché garantisce stabilità della domanda con corrispondente stabilità, verso l’alto, dei prezzi.
La presenza di una continua corsa all’adeguamento tecnologico, unita alla possibilità di elaborare programmi a lunga scadenza, data la garanzia di questa stabilità, permette lo sviluppo d’immobilizzi di capitali maggiore rispetto al resto delle produzioni. Per tutto questo si può dire che tale settore è il più appetibile per il capitale finanziario, data la sostanziale assenza di rischio.
Infatti in anni di crisi è riscontrabile un diverso andamento del profitto tra le altre merci e quella bellica in favore di quest’ultima.
Al centro di questo colossale affare sta l’imperialismo USA, al cui interno opera da tempo, in conseguenza dei fatti storici anzidetti, un consolidato complesso politico-industriale-militare-scientifico in grado di condizionare tutti i settori istituzionali e di estendere la sua influenza in tutto il campo occidentale, materializzato anche in un interscambio del materiale bellico con gli Alleati europei, che si colloca a favore degli USA in rapporto di 10 a 1, questo come pratica conseguenza del secondo conflitto mondiale che segnò la generale dipendenza politica ancora operante.
Nello specifico settore bellico la politica americana si è articolata inizialmente in una pura e semplice massiccia fornitura di armi nello scacchiere europeo, per rispondere alle esigenze di minaccia immediata verso l’URSS e si è poi sviluppata in presenza delle varie industrie belliche europee, da una parte manovrando commesse e licenze, compartecipando direttamente con la presenza azionaria e dirigenziale, dall’altra cercando di confinare l’attività di esse a settori produttivi tecnologicamente di medio livello, riservando a sé la capacità di progettare e produrre i nuovi sistemi d’arma.
In questo panorama si comprende bene il progetto di uniformare sempre più i sistemi d’arma, ultimi quelli spaziali, poiché questo, al di là di puri problemi di tecnica militare, consente il perpetuarsi del controllo USA sul momento di progettazione e produzione del “cuore” tecnologico andando poi preferibilmente ad accordi bilaterali con ogni singolo partner. Questa politica non poteva non incontrare resistenze in Europa, queste sono state attuate in special modo dalla Francia, mentre invece per quanto riguarda l’Italia, ha sempre dominato l’avversione alla costituzione di un’autonomia produttiva, sia per il totale asservimento politico alle indicazioni di Washington, sia perché una tale ipotesi la vedrebbe comunque marginalizzata dato il prevedibile formarsi di un’egemonia anglo-franco-tedesca, globalmente meglio attrezzate.
Caratteristica fondamentale dell’industria della guerra italiana è la specializzazione delle forniture ai Paesi del “Terzo Mondo” con una progressione di un volume d’affari impressionante: si passa negli ultimi anni ad aumenti anche di dieci volte superiori rispetto alla fine degli anni ‘60, con effetti devastanti sulle condizioni di vita (o di morte) di quei popoli i cui governanti si armano sempre più per conquistare l’egemonia nelle proprie aree con una logica da sotto impero, cercando di qualificarsi come più adatti al mantenimento della “tranquillità” nelle vie d’approvvigionamento dei Paesi capitalistici loro fornitori. Ai problemi storici che in questi Paesi si sono accumulati, in conseguenza del vecchio e nuovo colonialismo, rapina delle ricchezze naturali, sfruttamento selvaggio della manodopera, insufficienza degli alimenti indotta dall’imposizione della monocoltura, indebitamento con l’estero, dipendenza politica realizzata dalle borghesie locali, si aggiunge cosi il dissanguamento per l’acquisto di materiale bellico che rappresenta un terzo delle importazioni di tecnologia avanzata, assorbendo ingenti ricchezze che rappresentano un’ipoteca sulle possibilità di uno sviluppo futuro, dato anche il corollario di ulteriori spese dovute alla manutenzione, all’aggiornamento operativo spesso condotto da personale proveniente dal Paese fornitore data la sfasatura esistente tra l’alta tecnologia incorporata nei sistemi d’arma e il sottosviluppo locale.
Nel polo italiano è esplicativo il ruolo che svolge il maggiore gruppo di capitale privato, la FIAT, che ha una memoria storica ben viva sull’importanza dell’industria bellica e della guerra stessa. Infatti alla vigilia della prima guerra mondiale si trovava al trentesimo posto per grandezza industriale in Italia, alla fine di essa la ritroviamo al terzo, con un capitale sociale sette volte più grande e con 40.000 dipendenti invece che 4.000 ed utili dichiarati pari all’80% del capitale investito.
Fare una mappa della sua presenza nel bellico vuol dire coprire l’intero panorama settoriale: dallo spaziale all’aeronautico, dal meccanico al navale all’elettronico. Quello che è interessante valutare è un suo sempre maggiore impegno in quest’ultimo periodo (in particolare nella SNIA grande produttrice di combustibile per missile) proprio in vista dello SDI, del resto Agnelli non ne fa mistero, visto che a proposito di possibili accordi con industrie del Settore auto americane, mette come fatto centrale la volontà della FIAT di usare tali rapporti per meglio inserirsi nei prossimi progetti americani del Pentagono.
Nel campo della produzione bellica italiana – tenendo presente che è italiana in modo relativo, visto che la componente tecnologica straniera, in particolare USA, non rappresenta mai meno di un quarto del valore totale – è divisa per metà tra industria pubblica privata ed è possibile rilevare che la prima prevale in quei settori dove più alte sono le spese di investimento che lo Stato deve sostenere per l’importanza strategica e esse rivestono. Come l’aeronautico (2/3) estremamente tecnologizzato e il navale (3/4) da tempo in crisi, a proposito del quale merita ricordare che proprio sull’esigenza una sua espansione è nata l’industria siderurgica ad intervento statale.
All’interno del settore pubblico esiste una divisione tra IRI ed EFIM che spesso porta a sovrapposizioni e scontri per il controllo dei vari comparti, che in questa congiuntura politica si caratterizzano come uno dei terreni di battaglia tra DC e PSI.
In ballo c’è la guida di un settore, il quale proprio per questo rapporto tra industria bellica e potere politico, si presenta come un punto nevralgico per il rafforzamento del complesso politico-economico-militare sull’esempio di quello americano.
È dunque all’interno di questa congiuntura e nella prospettiva della guerra interimperialista, che la produzione del settore bellico svolge un ruolo trainante, volano dell’economia. Non a caso la tecnologia avanzata, la ricerca di base, l’applicazione di sistemi flessibili, l’automazione spinta ed i computer di quinta generazione trovano nel settore “militare” il proprio naturale terreno d’espansione. Proprio questo ruolo trainante del settore bellico ha tali implicazioni nei confronti delle politiche economiche dei vari Stati da coinvolgerli anche direttamente nella concorrenza spietata in atto fra le più potenti multinazionali per l’accaparramento di questo mercato.
Il caso Westland è esemplificativo degli enormi interessi che ruotano intorno a questo particolare settore. La Westland, essendo strettamente legata al programma americano delle guerre stellari, ha attirato intorno al suo “salvataggio” le più forti concentrazioni economico- finanziarie (Fiat-Sikorsky da una parte e “consorzio europeo” dall’altra), appoggiati palesemente dagli Stati che con queste lobby hanno più interessi. Un aspro scontro, proprio per questo coinvolgimento, può avere ripercussioni, è questo il caso, negli assetti e negli equilibri politici fra le varie consorterie della Borghesia Imperialista.
La realizzazione del maggior impegno dello Stato nella spesa militare non è già nell’immediato socialmente indolore. Quello che infatti si verifica è una sostituzione di questa alle altre spese, in particolare quelle riconducibili alle conquiste ottenute dalle lotte proletarie. Il dato politico che emerge è quindi che i programmi militari-politici che si sono dispiegati potranno raggiungere il loro massimo sviluppo se si verificherà una sconfitta storica della classe. Obbiettivo che la borghesia intende perseguire fino in fondo, anche perché in questi ultimi anni si sono realizzati dei rapporti di forza ad essa favorevoli, figli di un’offensiva generale che si è sviluppata dal terreno economico, al politico, al militare.
L’attacco alle condizioni di vita della classe ha avuto nell’80 alla Fiat il suo momento di svolta; il successo qui ottenuto dalla borghesia con l’espulsione di migliaia lavoratori e la decapitazione delle avanguardie ha segnato il via libera al successo in tutto il Paese delle ristrutturazioni produttive. Sull’altare del Capitale sono stati immolati centinaia di migliaia di posti di lavoro che hanno incrementato il già sterminato esercito di disoccupati e cassa integrati; il tutto in un quadro di ridefinizione dell’intero mercato del lavoro, con il ristabilimento delle chiamate nominative, lo sfruttamento del lavoro nero o part-time, la prospettiva di dover saltare da un sottolavoro all’altro per garantirsi la sopravvivenza, con una situazione per i “fortunati” rimasti nelle fabbriche fatta di supersfruttamento, in un clima in cui il semplice ammalarsi viene colto come atto d’insubordinazione. Tanto che il signor Romiti ha potuto affermare con soddisfazione che in fabbrica è stato immesso “il sano elemento psicologico della paura”.
Una situazione generale che vede l’Esecutivo protagonista di due tornate di trattative triangolari con Confindustria e sindacati sulle tracce di un modello neocorporativo sul quale la nostra Organizzazione si è pronunciata colpendo Giugni e Tarantelli responsabili ai massimi livelli nella realizzazione del tentativo di patto sociale.
È tutto l’ambito istituzionale che viene investito da quella che viene chiamata la “Grande Riforma Istituzionale”, cavallo di battaglia principale del PSI Craxiano che proprio su questo terreno programmatico si è guadagnato la guida dell’Esecutivo. Proprio per la portata della ristrutturazione, per le implicazioni e le trasformazioni di carattere complessivo che l’hanno accompagnata, essa va modificando tutti gli aspetti della mediazione politica e istituzionale tra le diverse istanze dello Stato nel loro rapporto con la classe. Sul piano generale dello scontro classe-Stato, l’essenza stessa della controrivoluzione preventiva, trova il suo adeguamento a livello dei rapporti di forza che si sono instaurati; in un ambito complesso di mediazione dosa riformismo e annientamento, mettendo in atto attraverso tutte le “istituzioni democratiche” il tentativo di compatibilizzare e contenere le spinte più antagoniste della lotta di classe: il pur marginale movimento degli studenti ha esemplificato questa funzione di intervento costante dove il riformismo demagogico statuale è stato strettamente accompagnato dalla repressione poliziesca nell’intento di trasformarlo in movimento reazionario di massa in senso lealista nei confronti delle politiche antiproletarie dello Stato.
Alla riuscita di questa prima fase di dispiegamento della ridefinizione in senso reazionario dell’intera Formazione Economico Sociale non è estranea la sconfitta che in questi anni ha subito l’avanguardia comunista combattente, determinando l’impossibilità di un indispensabile direzione politica della classe.
Così come siamo netti nel sostenere senza inutili veli mistificatori, che la borghesia ha riportato significative vittorie e la classe subito i relativi contraccolpi disgregativi, siamo altrettanto risoluti nel rilevare che i cicli di lotta seguiti agli accordi del 22/1/83 e 14/2/84 hanno espresso una rilevante autonomia politica dalle mistificazioni sindacali e revisioniste e una comprensione massificata della sostanza politica che stava dentro tali accordi, rivolgendo la propria lotta contro il governo, superando la rivendicazione economica. Tali lotte hanno avuto un andamento ciclico, esplodendo in coincidenza degli attacchi più significativi che vengono portati contro la classe, rifluendo poi in situazioni di apparente stasi rotti da episodi di lotta in singole situazioni, con una ripresa di egemonia dei sindacati basata più sulla mancanza di una seria alternativa politico-organizzativa, che obbliga la classe in una situazione d’attesa, che non su qualche forma di consenso ad una impostazione che non vuole tutelare neanche i semplici bisogni economici, essendosi proposti di muoversi nel rispetto di tutte le rigide compatibilità tracciate dalla ristrutturazione e questo anche come elaboratori diretti delle stesse.
Anni di lotte egualitarie vengono descritte come “inumano appiattimento” da eliminare, nascono così le piattaforme contrattuali basate sugli aumenti molto differenziati da una categoria all’altra, la differenziazione del punto unico di contingenza – a cinque fasce nella proposta sindacale -, la minimizzazione degli aumenti automatici e la riproposizione di quelli legati al “merito” nell’ambito della generale riforma della struttura del salario. Da sottolineare il carattere “sotterraneo” che ha assunto l’ultima tornata di consultazione, materializzando, anche sul piano formale la natura reazionaria del patto sociale neocorporativo.
La classe con i suoi valori, le sue conquiste, é sottoposta ad una serie d’attacchi concentrici. Sul suo cadavere politico i suoi nemici si giocano la possibilità di essere all’interno dei momenti congiunturalmente favorevoli che si presentano a livello mondiale; momenti che non hanno certo potenzialità risolutiva rispetto alle impellenze del grande capitale, le difficoltà del quale, per restare alla situazione italiana risiedono principalmente nello sforzo che deve sostenere per stare al passo delle punte più avanzate della produzione mondiale, date le carenze strutturali del nostro Paese e per come è situato nella divisione internazionale del lavoro, sempre in bilico dall’essere parte attiva del centro imperialista ed essere estromesso dalle più importanti decisioni prese in sede internazionale dal pool dei Paesi più forti.
Nel progetto di definizione del peso politico della classe, un ruolo letale continua ad essere svolto dal PCI, che nella ricerca di una collocazione in chiave governativa, nell’ambito delle forze borghesi, si trova nel pieno di una grave crisi politica giocata sulla ricerca dei perché di questo mancato accesso. Le cure proposte sono varie, a volte anche spiritose come quella del cambio anagrafico, ma tutte evitano di dire la verità a loro ben nota: il PCI viene mantenuto all’opposizione perché da lì deve svolgere il suo ruolo di contenimento istituzionale dell’opposizione di classe attuando così la sua funzione antiproletaria che tanto viene apprezzata dalla borghesia. Una funzione deleteria che del resto è sempre più individuata a livello di massa come dimostrano gli stessi dati sul calo degli iscritti, principalmente nelle aree industriali metropolitane dove maggiormente si esplica la repellente trama.
Anche nel movimento contro la guerra il PCI tenta di far passare a livello di massa la posizione più addomesticata data dal pacifismo interclassista che mai è riuscito ad evitare un conflitto, mentre nelle sedi politiche appoggia i peggiori progetti imperialisti, dal Sinai a Beirut, all’approvazione dei finanziamenti per l’industria bellica (AMX), contrapponendosi a movimenti popolari come quello che alla Maddalena vuole l’allontanamento della base per sommergibili nucleari o approvando al parlamento Europeo la relazione del democristiano Egon Klepsch che propugna la formazione di un’agenzia europea per l’approvvigionamento di armamenti in contrasto anche con il gruppo parlamentare del PCF, linea confermata dall’aperto appoggio offerto al progetto Eureka presentato nel bollettino “Europa Italia” dai revisionisti come “rilancio sulla ricerca e sulle tecnologie avanzate”, epitaffio davvero singolare per un programma basato sullo sviluppo sofisticato degli armamenti! Forse che i popoli interessati dovrebbero esaltarsi alla prospettiva di una distruzione autoprodotta? Dopo i fasti del “Eurocomunismo” ormai tramontati, dobbiamo assistere al lancio del “Euromorte”?
ATTACCARE IL REAZIONARIO PATTO SOCIALE NEOCORPORATIVO! DISPERDERE LA CANEA REVISIONISTA!
I cicli di lotta sviluppati dal proletariato hanno evidenziato il loro limite che consiste proprio nell’essere movimento di resistenza; permanendo su questo terreno non possono che arretrare più o meno rapidamente sotto i colpi che, con costanza e salti politici sempre più intensi, gli vengono rivolti dalla borghesia e dalle sue rappresentanze politiche. Dare una prospettiva diversa a tale situazione vuol dire affrontare problemi che non possono essere risolti spontaneamente da un movimento di massa per quanto maturo esso sia e che proprio nei suoi aspetti più generali si pone degli obiettivi che cozzano contro il reticolo sempre più stretto delle compatibilità economiche dettate da crisi e ristrutturazioni relative.
Pur non sostenendo l’inevitabilità della trasformazione della lotta economica – che ovviamente continua ad esistere – in lotta politica è indubbio che le varie mobilitazioni si sono scontrate direttamente con politiche economiche che hanno visto la centralità del ruolo del governo, rendendo ancor più evidente la necessità di una rappresentanza politica rivoluzionaria degli interessi generali della classe che la guidi nello scontro. La legittimità storica della nostra Organizzazione sta proprio nel saper rispondere a tale esigenza ed in tale ottica si spiega la sua capacità di reazione a dure sconfitte, sia dovute a nostri errori politici che contemporaneamente dai colpi della controrivoluzione. Non è quindi di una generica “irriducibilità” o di una semplice questione di miglior preparazione materiale rispetto ad altre esperienze ormai dissolte; ma è parte viva dello scontro generale tra le classi proprio nel momento in cui risponde alla necessità di dare prospettiva strategica sul terreno dello scontro diretto contro lo Stato. L’assolvere a questo indispensabile ruolo è il miglior modo per aprire la via all’offensiva della classe.
Il rifiuto dell’impostazione per cui per catturare consenso, i comunisti dovrebbero agire con azioni combattenti per garantire singoli risultati sul terreno della lotta economica, in una logica di braccio armato o come strumento per educare le masse alla necessità della rivoluzione violenta, un’organizzazione comunista che mira a diventare partito guida del proletariato metropolitano, deve saper sviluppare il proprio intervento politico-militare attaccando le politiche congiunturali che la borghesia mette in campo sui nodi centrali che dominano lo scontro tra le classi, individuando la contraddizione politica centrale.
Quando si parla di vittorie concrete da realizzare si deve intendere non la conquista rateale del comunismo, ma la capacità di sconfiggere la borghesia nei suoi progetti congiunturali, facendo conseguentemente avanzare la classe su posizioni politiche più favorevoli per le successive fasi dello scontro.
Tradotto in pratica ciò ha significato l’azione Tarantelli, cioè capacità di espletare tattica rivoluzionaria. Scelta dell’obbiettivo in base alla contraddizione politica dominante – patto sociale neocorporativo -, colpendo nel momento più favorevole nella congiuntura che vedeva da un lato l’impatto con la classe della politica economica del governo, dall’altro l’esplodere di contraddizioni tra forze politiche e sindacali borghesi. Gli effetti ottenuti sono stati l’indebolimento dello schieramento borghese e di rafforzamento di quello proletario, di un a quel punto inevitabile successo politico dell’Organizzazione a livello di massa e di avanguardia verificabile in modo chiaro in parole ed in atti. Un elemento quest’ultimo importantissimo, ma la cui presenza immediata non deve essere vista come condizione indispensabile vincolante per l’iniziativa rivoluzionaria, questo perché l’attività di un’OCC non deve essere rigidamente vincolata al grado medio di coscienza politica che si esprime nel movimento di massa, se così fosse la sua attività si ridurrebbe a ridicolo prolungamento bellico, perdendo di vista l’elemento centrale dato dalla necessità storica di un Partito che guidi il proletariato nella lotta contro lo Stato. Rappresentando gli interessi di classe, il Partito è interno a questo movimento, ma in quanto organizzazione di comunisti sviluppa una sua distinta attività che pur tenendo, ovviamente, conto del grado di conflittualità generale che si sviluppa nello scontro Borghesia-Proletariato, non vincola il suo agire alla comprensione immediata di milioni di proletari contemporaneamente. La coscienza politica rivoluzionaria non nasce spontaneamente da questi movimenti antagonisti, i quali non possiedono la conoscenza scientifica generale di tutti gli aspetti della realtà, la quale si esprime proprio nell’attività soggettiva del Partito, tramite i suoi programmi generali congiunturali in stretta dialettica con l’obbiettivo strategico di questa tappa, la conquista del potere politico e l’instaurazione della Dittatura del Proletariato. Nella capacità di applicare questa vera e propria scienza della direzione della lotta rivoluzionaria del proletariato si assolve o meno ai motivi che, con scelta soggettiva, hanno portato alla nascita della nostra Organizzazione. Altra cosa è il pensare di poter organizzare nelle attuati condizioni le lotte di massa che si succedono, perché ciò, oltre che velleitario, significherebbe adattarsi a condizioni politiche contrastanti con i nostri fini strategici.
Nei movimenti di massa diversi sono i livelli di coscienza che convivono e un diverso modo di rapportarsi deve conseguentemente essere da noi adottato nei confronti della massa sociale antagonista qualificandoci con i punti del nostro programma congiunturale da far prevalere sull’insieme dei più vari intendimenti che in essa si agitano. Nel caso invece delle avanguardie che hanno rotto i lacci della tutela revisionista o neorevisionista, non cadendo nella loro trappola imbonitrice, allora senza indugi il rapporto si deve sviluppare nella direzione indicata dalla strategia politico-militare antistatale.
Conquista irrinunciabile dell’attività rivoluzionaria di questi anni è la consapevolezza che la Lotta Armata per il Comunismo non è uno strumento della politica dei comunisti, ma strategia politico-militare che il proletariato organizzato e diretto dal Partito deve adottare, nella prospettiva della guerra di classe di lunga durata per abbattere lo Stato e conquistare il potere politico.
Questo sapendo di seguire un percorso che si differenzia da quelli seguiti da altri Partiti in altre epoche storiche, ciò è dovuto al fatto che hanno applicato strategie e tattiche che ben si adattavano alle condizioni su cui andavano ad incidere e che, in genere vedevano il momento dell’azione armata concentrata nella fase insurrezionale. Strategia e tattica dei comunisti sono storicamente determinate e variano con il variare della situazione concreta. Il dovere dei comunisti è di adottare quelle più adeguate in base all’analisi marxista-leninista, facendo tesoro delle esperienze del movimento comunista internazionale.
In quei momenti storici era giusto partecipare ai parlamenti borghesi ed estremistico non farlo, oggi una simile operazione sarebbe atto controrivoluzionario; il Partito si dotava di sindacati e di altre strutture legali di massa, oggi questo sarebbe criminale poiché manderebbe al massacro quei proletari che si riconoscono nelle nostre impostazioni.
Le trasformazioni storiche del modo in cui si esercita il dominio della borghesia nello scontro di classe, il più maturo articolarsi delle sue forme istituzionali in dialettica con le trasformazioni avvenute nel Modo di Produzione Capitalistico e alla più generale Formazione Economico Sociale nell’attuale contesto internazionale hanno condotto fin dall’inizio della nostra attività alla scelta dell’adozione della strategia della Lotta Armata, non intesa come scontro tra apparati che si perpetua modo lineare ignorando le condizioni concrete dello scontro di classe, ma in dialettica con esso, nella coscienza comunque di operare in una condizione generale non rivoluzionaria che non vede certo una dominanza dell’aspetto militare, ma sapendo che l’intervento soggettivo dei comunisti è parte integrante nella determinazione delle condizioni materiali oggettive di tale scontro.
ATTACCARE I PROGETTI DOMINANTI DELLA BORGHESIA COSTRUIRE IL PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE.
Tracciare il quadro dell’attività aggressiva dell’imperialismo in questi ultimi anni vuol dire abbracciare tutte le aree del mondo.
Volendosi limitare ai fatti più significativi possiamo indicare la dislocazione in Europa dei missili “Pershing 2″ e “Cruise”, il progetto già in fase di sperimentazione delle guerre stellari oltre alle vere e proprie operazioni militari cruente: l’invasione di Grenada dichiaratamente effettuata perché non era gradita la sua politica interna ed estera; la spedizione in Libano per reprimere i patrioti libanesi e palestinesi; abbattimento degli aerei della Jamahirya libica e dell’attuale campagna terroristica dell’imperialismo – nel quadro della famigerata “lotta al terrorismo”-; il recente raid nel Mediterraneo e in Italia in particolare con il dirottamento dell’aereo egiziano, emulati poi dai loro servi sionisti con l’aereo libico; il continuo appoggio con uomini e mezzi ai mercenari che combattono contro il popolo nicaraguense, in un Centroamerica sempre più considerato “cortile di casa” dagli yankee.
Tutti i Paesi della catena imperialista sì sono sempre più impegnati in una politica aggressiva, oltre che nei confronti dell’URSS, anche verso i popoli di tutto il mondo. Il riconfermato ruolo imperiale della Francia “socialista” in Africa, nella repressione della lotta degli indipendentisti in Nuova Caledonia, al rivoltante spettacolo delle ipocrite misure economico-militari contro il Sudafrica che con l’esplodere della rivolta nei ghetti neri vede esaltato il suo ruolo di gendarme di quell’importantissima area, sia per la posizione geografica – passaggio tra oceano Atlantico e Indiano-, che per la ricchezza di materie prime d’importanza strategica che possiede, svolge un ruolo subimperiale con il controllo esercitato su Namibia, Lesotho, Botswana, Swaziland, con continue aggressioni contro i Paesi ex coloniali: Angola, Mozambico, Zimbabwe.
Ad oriente il Giappone ha decisamente imboccato, sotto stimolo americano, la via del riarmo che, grazie alla sua elevata potenzialità economica è in grado di percorrere tappe forzate; il suo ruolo è di controllo su quei mari e di rappresentare una pericolosa spina nel fianco orientale dell’URSS.
Nella situazione delineata il ruolo dell’Italia non è né irrilevante né di mera esecuzione servile. La sua politica è stata all’avanguardia in Europa, sia nell’installazione i nuovi missili, che nell’adesione al programma di guerre stellari divenendo al di là delle cautele demagogiche che adesso manifesta, sponsorizzatrice di queste nel mondo, il ministro della Guerra, il porco sionista Spadolini, è arrivato a proporle addirittura all’Argentina…
Un ruolo di rilievo viene svolto dall’Italia nel Mediterraneo e in Medio Oriente, dove sviluppa una complessa iniziativa politico-diplomatica dalle alterne fortune, dalla velleità di protettorato su Malta, ai viaggi di Craxi nel Corno d’Africa – nelle terre del posto al sole -, ai rapporti privilegiati con l’Egitto e gli altri Stati Arabi traditori della causa palestinese. Panorama condito con ingenti forniture militari (Mubarak quando è stato avvertito del dirottamento della “Lauro” stava assistendo ad una dimostrazione di lancio di missili da guerra italiani), il tutto con l’attenzione a compatibilizzare la tutela di ingenti interessi economici, con il riconoscimento dell’indispensabile ruolo strategico di Israele. Un equilibrio non sempre facile come dimostra lo scontro politico nato sul caso “Achille Lauro”, le tensioni con gli USA e conseguente messa in crisi del governo da parte del porco sionista.
Tutti fatti che non debbono far perdere di vista la realtà di un’operante concertazione con il resto dell’imperialismo occidentale sulle grandi scelte politico-militari nell’area, come stanno a dimostrare le spedizioni in Libano e la tutela armata – con soldati inviati nel Sinai – degli accordi di Camp David. Fatti questi che hanno sempre più qualificato l’Italia come bastione a tutela del Mediterraneo, data la visione materiale delle linee di sviluppo che vengono perseguite nella ridefinizione dei compiti che le Forze Armate devono svolgere. Il ministero della Guerra con le gestioni Lagorio-Spadolini ha effettuato notevoli balzi in avanti per quantità e qualità. Limitandoci ai dati ufficiali si vede che il suo bilancio passa da 5.780 miliardi dell’80 agli 11.890 dell’83 con un aumento pari al 105,7%, con una previsione – sempre ufficiale – per l’85 di 16.512 miliardi, pari al 20% in più dell’anno precedente. Emerge da questi pur purgati dati ufficiali che la spesa militare in Italia aumenta in misura maggiore di quella decisa in sede NATO, con una progressione che è la più alta tra i Paesi dell’unione Europea Occidentale.
Ancora più interessanti i mutamenti qualitativi derivati dai nuovi armamenti, ma anche da una notevole riorganizzazione interna per l’adeguamento ai nuovi compiti da assolvere. Dal sempre maggior numero di mercenari rispetto a militari di leva, in un quadro che vede il rapporto soldato-armamento modificato a favore di quest’ultimo; al diverso dislocamento delle basi USA e NATO con un progressivo spostamento a sud.
La vecchia visione per cui l’Italia con le sue basi era demandata al compito di difesa del fianco sud della NATO è sempre più errata. L’adozione della portaerei “Garibaldi” con caccia d’attacco a bordo dota la Marina di una propria forza aerea consentendole di operare sul modello militare del corpo dei Marine; l’esistenza di una forza di pronto intervento (FOPI), nonché della costituzione della forza d’intervento rapido (FIR), composte dai più qualificati assaltatori delle varie armi rendono chiaro il ruolo offensivo a largo raggio che le Forze Armate italiane svolgono nel Mediterraneo, con il confine sud dell’alleanza che si sposta sempre più “dal Corno d’Africa alle Azzorre” per Spadolini, “da Capo Horn (!) alla regione del Golfo” secondo Lagorio. Del resto la collocazione proprio a Comiso di parte degli euromissili è un chiaro segno di questa funzione aggressiva puntata verso i Paesi del nord Africa e del Medio Oriente, confermata dalla militarizzazione nella stessa isola di 22.000 ettari sui monti Nebrodi. L’importanza dell’aeroporto di Sigonella recentemente confermata dall’interessamento americano a stanziarci stabilmente la Delta Force; inoltre i nuovi aeroporti militari a Lampedusa e Pantelleria; il dislocamento a Gioia del Colle, in Puglia, di uno stormo MRCA TORNADO, un cacciabombardiere d’attacco ideato per portare nel cuore del territorio nemico sofisticate bombe atomiche; ancora in questa regione, a Birgi, c’è la base degli AWCS americani; mentre a Maddaloni (CE) stanno cominciando i lavori di costruzione del Centro Aerospaziale Nazionale, evento di portata strategica ancora incalcolabile. L’internazionalizzazione della produzione e dei capitali, determina le condizioni di una similitudine nelle politiche ristrutturative che ogni singolo Stato della catena imperialista occidentale adatta in relazione alle proprie condizioni particolari, sviluppando politiche di controrivoluzione preventiva a livello economico-politico-istituzionale contro la classe. Queste politiche, in relazione proprio al grado di aggregazione politico-economico-militare raggiunto, trovano momenti di marcata concertazione fra gli Stati nei confronti dell’attività politico-militare della guerriglia; concertazione che, pur nelle differenze, viene ricercata anche nelle politiche di aggressione ai popoli che combattono per la propria emancipazione.
Tutto ciò all’interno del quadro generale di crisi, che da un lato rafforza queste tendenze, dall’altro scompagina gli equilibri internazionali rendendoli quanto mai precari. Questo quadro di instabilità e polarizzazione sui piano internazionale influenza direttamente gli ambiti nazionali, un dato che rende velleitaria la possibilità di staccare un anello importante della catena imperialista, senza l’indebolimento politico-militare dell’imperialismo occidentale.
Lo sviluppo del processo rivoluzionario nel nostro Paese, per il raggiungimento della prima tappa, si muove dentro e contro gli equilibri di questa condizione generale e non può prescindere, per il suo avanzamento, dall’indebolimento dell’imperialismo occidentale nell’area; elemento quest’ultimo comune a tutte le forze rivoluzionarie che contro di esso combattono, indipendentemente dalle finalità strategiche che esse perseguono.
L’imperialismo occidentale, USA in testa, è il nemico principale e dichiarato del proletariato internazionale e dei popoli progressisti che combattono per la propria emancipazione.
Ciò determina, oggettivamente, un vasto e variegato – sia nella forma che negli obbiettivi – fronte di lotta all’imperialismo, all’interno del quale ci rapportiamo secondo i principi dell’internazionalismo proletario, consistenti nella solidarietà militante e principalmente nel fare la rivoluzione nel proprio Paese.
È da questo complesso di fattori che trova propulsione la proposta del consolidamento soggettivo del Fronte di Lotta Antimperialista nell’area, che lanciamo come obbiettivo da raggiungere in questa congiuntura internazionale.
Fronte che opera contro il nemico principale, l’imperialismo occidentale, senza per altro schierarsi necessariamente col blocco avverso. Allo scopo di realizzare quest’obbiettivo è indispensabile approfondire un fattivo confronto con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo occidentale, al di là di ogni settarismo ideologico, ma nella salvaguardia dei principi che guidano ogni forza rivoluzionaria. Confronto attraverso il quale individuare i punti d’alleanza politica contro il nemico comune, trovando i necessari livelli di cooperazione nel rispetto delle peculiarità e delle diversità che caratterizzano tali forze. In questa dialettica è possibile ricercare il superamento della contraddizione tra forma e contenuto che a volte caratterizza l’attacco all’imperialismo.
Le Brigate Rosse per il PCC collocano l’antimperialismo come parte integrante della guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico, come stanno a dimostrare la cattura del generale Dozier, l’esecuzione del responsabile del FMO in Sinai, garante degli accordi di Camp David, Leamon Hunt e l’esecuzione del dirigente della SMA, Lando Conti.
Le Brigate Rosse per il PCC, lavorano all’unità dialettica tra “attacco al cuore dello Stato” e Fronte di Lotta Antimperialista.
È nella nostra area geopolitica Europa-Bacino mediterraneo-Medioriente, che le contraddizioni dell’imperialismo occidentale sono rese più acute sia dalle lotte del proletariato europeo contro le politiche ristrutturative e del crescente riarmo, sia dalle iniziative politico-militari della guerriglia in Europa e dalle Lotte di Liberazione ed emancipazione dei Paesi dipendenti.
Questo genera da un lato la relativa debolezza politica dell’imperialismo, dall’altro la tendenza oggettiva ad una convergenza fra gli interessi del proletariato europeo con quelli dei popoli progressisti nell’area.
L’intersecarsi dei diversi piani delle contraddizioni formano un coacervo d’interessi contrapposti e di precari equilibri, che rendono l’area in questo momento, il punto di massima crisi nel mondo. Infatti l’Europa, in quanto centro imperialista, concentra le contraddizioni proprie del MPC; in quanto linea di confine degli equilibri scaturiti dalla seconda guerra mondiale, concentra le contraddizioni tra i due blocchi; in quanto punto di contatto tra i Paesi dell’occidente industrializzato e i Paesi dipendenti, è investita direttamente dai conflitti che l’imperialismo occidentale produce in queste regioni – aggravati principalmente dalla questione palestinese, peraltro sempre posta dalla eroica lotta di questo popolo, nonostante il liquidazionismo dimostrato con gli accordi di Amman, dalla direzione borghese dell’OLP -. Queste contraddizioni rendono più insistenti le forzature dell’imperialismo americano, con l’intento di affermare nei confronti degli alleati – in primo luogo europei – una spinta sempre più marcata verso la propria linea guerrafondaia; linea mascherata dietro la famigerata “guerra al terrorismo internazionale”, vero scopo, invece, mantenere ed espandere il controllo nell’area.
È a partire dall’intervento americano a Sigonella che vi sono stati un susseguirsi di veri e propri atti di terrorismo, fino alla maturazione della cosiddetta “crisi libica”; questi hanno prodotto un’accelerazione dei fattori di crisi, tali da cambiare sostanzialmente il quadro dei rapporti nel Mediterraneo.
Queste modificazioni passano anche attraverso l’aperta rivendicazione degli USA e della sua fedele sentinella, i macellai sionisti, del terrorismo di Stato come metodo d’intervento quale ratifica del loro agire.
Tali atti tendono a riformulare anche sul piano politico e diplomatico la posizione degli Alleati europei, sia rispetto agli USA che ai Paesi dell’area, riconducendoli sostanzialmente ad una più stretta fedeltà Atlantica.
Per quanto riguarda la posizione italiana, essa ha conformato il suo attivismo sia in seno all’alleanza, che nelle relazioni con i Paesi arabi; in quest’avvicendamento, non ultimo il patetico tentativo del duo Craxi-Gonzales di barattare con vantaggi economici la loro posizione geografico-strategica.
Queste accelerazioni pongono alle forze rivoluzionarie il dovere di ricercare le necessarie e possibili politiche di alleanze e, di dare quindi il proprio contributo al rafforzamento del Fronte di Lotta Antimperialista.
Non è quindi caparbietà di comunisti irriducibili perseguire l’obbiettivo di staccare quegli anelli della catena imperialista dove le condizioni lo rendono possibile; così come non è sterile pragmatismo ricercare un rapporto di maggiore alleanza con le forze rivoluzionarie europee e con tutte le forze rivoluzionarie dell’area; obbiettivi questi che trovano forza e possibile soluzione nelle crescenti difficoltà che l’imperialismo trova nel dare soluzione alla sua profonda crisi.
Su quest’indirizzo programmatico intendiamo lavorare al rafforzamento del Fronte di Lotta Antimperialista, perseguendo al suo interno anche l’obbiettivo irrinunciabile dell’unità internazionale dei comunisti.
Sulla base dei principi marxisti-leninisti, il dovere dei comunisti a livello internazionale, è di costruire concretamente l’alternativa ai due blocchi dominanti nel mondo e di lavorare senza indugi, nella lotta rivoluzionaria, ai livelli necessari d’unità e alleanza contro l‘imperialismo. Unità dei comunisti che non va certo cercata all’interno del purismo dogmatico dei sempre eterni partitini “emmelle”, tanto ininfluenti nelle dinamiche sociali.
L’unità va ricercata nell’ambito dell’agire concreto delle forze rivoluzionarie marxiste che espletano pratica politico-militare, rappresentando gli interessi generali del proletariato nel vivo dello scontro tra le classi del proprio Paese.
Unità con tutti i comunisti conseguenti che, pur nella diversità delle situazioni concrete, perseguono la finalità strategica della conquista del potere politico e l’instaurazione della Dittatura del Proletariato.
La proposta strategica della Lotta Armata per il Comunismo al proletariato del proprio Paese, è la base per l’unificazione politica e organizzativa più in generale dei comunisti a livello internazionale, linfa vitale per un’effettiva politica internazionalista.
Oggi come sempre te forze rivoluzionarie marxiste rappresentano la punta più avanzata nella lotta all’imperia1ismo; è nel rapporto reale all’indebolimento di quest’ultimo che va ricercato all’interno del Fronte un rapporto privilegiato con esse, senza peraltro sminuire il ruolo che oggi svolgono le altre forze rivoluzionarie.
GUERRA ALLA GUERRA! GUERRA ALLA NATO!
CONSOLIDARE SOGGETTIVAMENTE IL FRONTE DI LOTTA ANTIMPERIALISTA!
UNITÀ INTERNAZIONALE DEI COMUNISTI!
TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN GUERRA DI CLASSE PER LACONQUISTA DEL POTERE POLITICO E LA DITTATURA DEL PROLETARIATO!
Febbraio 1986
per il comunismo
BRIGATE ROSSE
per la costruzione del PCC