Sabato 16 aprile un nucleo armato della nostra Organizzazione ha giustiziato Roberto Ruffilli ideatore del progetto politico di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato nonché suo articolatore concreto.
Chi era Roberto Ruffilli, non certo il «mite uomo di pensiero e di studio» che le veline dello Stato cercano di accreditare nel tentativo di sminuire la portata politica dell’attacco subito. Egli era invece uno dei migliori quadri politici della Dc, uomo chiave del «rinnovamento», vero e proprio cervello politico del progetto demitiano, progetto teso ad aprire una nuova fase «costituente».
Ruffilli era altresì l’uomo di punta che ha guidato in questi anni la strategia democristiana sapendo concretamente ricucire attraverso forzature e mediazioni, tutto l’arco delle forze politiche intorno a questo progetto, comprese le opposizioni istituzionali; questo senza nulla concedere alle spinte demagogiche di stile craxiano né tantomeno a proposte tanto onnicomprensive quanto impraticabili.
Quindi un politico puro e perno centrale del progetto di riformulazione delle «regole del gioco» all’interno della più complessiva rifunzionalizzazione dei poteri e degli apparati dello Stato.
Questo progetto politico si ricollega nella sostanza alla «terza fase morotea» pur necessariamente in un contesto politico e sociale assai mutato; è attraverso questo progetto che la stessa Dc si riqualifica e si pone come partito pilota di questi cambiamenti.
Roberto Ruffilli viene chiamato nell’8l dalla segreteria di De Mita in qualità di esperto di problemi istituzionali, nell’83 eletto senatore viene designato dal partito come responsabile dei problemi dello Stato. Come capogruppo Dc nella commissione Bozzi svolge un ruolo di rottura per farla uscire dal pantano dei grandi disegni inconcludenti al fine di soluzioni più pragmatiche e consone ai tempi politici e ai rapporti di forza tra le classi nel paese; affianca il «decisionismo craxiano» per conto della Dc nei passaggi concreti che costituiranno poi la più complessiva rifunzionalizzazione dello Stato, ovvero quei passaggi inerenti all’accentramento dei poteri nell’esecutivo (creazione del supergabinetto, legge sulla presidenza del consiglio).
È in quegli anni che prende corpo la strategia demitiana imponendosi come baricentro a tutte le forze politiche. Ruffilli è di questa uno dei protagonisti: dal tentativo di staffetta «indolore», un’alternanza regolata e programmata alla guida dell’esecutivo; alle forzature costituzionali nella funzione del Presidente della Repubblica, avvenute con gli insediamenti dei governi di transizione (sia quello elettorale di Fanfani che quello di Goria); fino all’oggi con la cooptazione delle forze dell’opposizione istituzionale alle cosiddette riforme istituzionali. Una manovra complessiva non priva di contraddizioni solo secondariamente riferite alle stesse forze politiche, ma principalmente riferite a un quadro politico e sociale nel paese niente affatto pacificato! Una manovra complessiva tesa ad aprire una nuova fase «costituente».
Ma cos’è il progetto politico demitiano, in quale contesto storico, politico e sociale si inserisce.
In termini generali questo progetto (di riforma istituzionale) si inserisce nella tendenza attuale di ridefinizione/riadeguamento complessivo di tutte le funzioni e istituzioni dello Stato ai nuovi termini di sviluppo dell’imperialismo e ai corrispettivi termini nel governo del conflitto di classe. Ossia una tendenza generale di riadeguamento delle democrazie parlamentari quali forme di dominio più mature degli Stati a capitalismo avanzato, quindi un avanzamento delle forme di dominio della dittatura della borghesia imperialista. Una tendenza generale che nelle sue linee direttrici, se pur con tempi e modi diversi, interessa molti paesi europei (non a caso in riferimento a questi processi si è formato un gruppo di studio italo-tedesco) e che in Italia assume caratteristiche peculiari in relazione al ruolo economico/politico che il nostro paese ha nel contesto della catena imperialista, alla qualità della lotta di classe sviluppata nel nostro paese con la presenza della prassi rivoluzionaria portata avanti dalle Br in dialettica con i settori più avanzati dell’autonomia di classe; ai caratteri infine della classe dominante nostrana necessariamente prodotta dai primi due fattori. Non a caso l’attuale fase politica in cui è inserito il progetto demitiano evidenzia la continuità pur nella rottura con le diverse fasi politiche e storiche vissute nel nostro paese.
In altri termini c’è un filo continuo che lega la costituente del ’46, espressione dei rapporti di forza usciti dalla resistenza al nazifascismo, a questa nuova fase costituente; un filo continuo che passa dalla restaurazione degli anni ’50 per contrastare il movimento insurrezionale ereditato dalla Resistenza, al centro-sinistra degli anni ’60; al tentativo neogollista di stampo fanfaniano dei primi anni ’70 teso a contrastare in termini reazionari le forti spinte dell’autonomia di classe e dell’esordio della guerriglia; all’unità nazionale morotea in un clima di forte scontro politico per il potere diretto e organizzato dalla strategia della lotta armata, alla controrivoluzione degli anni ’80, vera e propria base su cui ha trovato forza questa fase politica.
Una fase politica che non può essere considerata di stampo reazionario anche se è vero che dovendo fare riferimento alla storia concreta vi sono riadattati elementi del passato come per esempio i caratteri del neocorporativismo italiano che è proprio del fascismo; non si tratta quindi del tentativo di un blocco reazionario che vuole svuotare e revisionare il parlamento e la Costituzione anche perché i blocchi sociali nel contesto attuale della polarizzazione tra le classi operata dallo sviluppo dell’imperialismo, sono antistorici. Si tratta invece di far funzionare al massimo la democrazia formale adeguandosi ai modelli delle democrazie mature europee. L’ossatura del progetto politico demitiano è imperniata sulla formazione di coalizioni che si possono alternare alla guida del governo dandogli un carattere di forte stabilità, una maggioranza forte e un esecutivo stabile in grado di garantire da un lato risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico internazionale. Questo è il massimo della democrazia formale dove «l’alternanza» fa la funzione dell’opposizione e dovrebbe riuscire a contenere le spinte antagoniste che si producono nel paese. Infatti i governi di coalizione attuali non sono altro che fasi di transizione per approdare a questa nuova fase senza grossi traumi. Per questo i passaggi intermedi sono d’importanza fondamentale e verificano fin da subito la tenuta politica degli schieramenti; questi passaggi oggi contemplano un diverso assetto delle funzioni delle due camere; l’iter parlamentare delle leggi (voto segreto, corsia preferenziale) fino alla modifica dei regolamenti elettorali. Questo complesso disegno si avvale anche della necessità di stimolare la funzione della «democrazia rappresentativa» attraverso il varo di una nuova legge sui referendum. La proposta di renderli consultivi costituisce l’ulteriore passaggio e approfondimento sul terreno della democrazia formale di cui riflette la sostanza stessa in quanto da un lato viene colta la capacità di incidere (sia pure minimamente a livello legislativo come invece il referendum abrogativo) mentre dall’altro sanciscano nel fatti una delega al governo per legiferare: «sentito il parere dei cittadini». Divengono così degli strumenti per la raccolta di un consenso attorno alle scelte dell’esecutivo e della «maggioranza» che le presiede. Questi sono, già oggi, usati come momenti di mobilitazione delle masse, promuovendo così movimenti lealisti al suo operato, attivizzando in ciò le forze di opposizione istituzionale (vedi le ultime vicende referendarie sui giudici e sul nucleare). Ma l’uso più antiproletario dei referendum è quello utilizzato dai sindacati per imbrigliare e depotenziare le spinte conflittuali delle relazioni industriali sostanziando così il neo-corporativismo. Intorno ai tratti essenziali di questo progetto e dei suoi caratteri politici si riformulano anche gli apparati dello Stato, dal ruolo della magistratura che deve rifunzionalizzarsi all’esecutivo, sia con la corte costituzionale garante della costituzionalità della riforma, sia con la Corte dei conti dove è rilevante la legge sulla spesa in riferimento a un diverso equilibrio dei bilanci statali, al diverso rapporto tra Ministero degli Esteri e Ministero della Difesa compreso nella riforma della Farnesina. Inoltre il terreno della sperimentazione concreta ai termini della rifunzionalizzazione complessiva dello Stato viene proposto nella riforma degli enti locali.
La riforma degli enti locali tende a funzionalizzare i poteri decentrati sia in termini di spesa che di gestione dell’esecutivo. Con la conferenza Stato-Regioni, la legge sulle autonomie locali, si apre il terreno di sperimentazione della legge elettorale. Lo sforzo dei politicanti è di far apparire questo progetto come asettico e idilliaco, privo di riferimenti con le condizioni politiche e materiali vissute nello scontro di classe, come una cosa che riguarda solo il modo di sedersi a Montecitorio. La realtà è ben diversa. Lo Stato non è al di sopra delle parti ma rappresenta ed è organo della dittatura borghese nonché mediatore nel conflitto di classe. Nello sviluppo storico dell’imperialismo queste due funzioni sono esaltate dal «complessificarsi» del suo ruolo, sia per il maggior peso del suo intervento nei processi economici, sia per il carattere della controrivoluzione preventiva come politica costante per contenere la lotta di classe.
Che questo progetto politico affondi le sue radici nella natura e funzione dello Stato ne sono ben coscienti gli stessi elaboratori i quali si richiamano ai termini economici e di sviluppo di questa fase dell’imperialismo, di qui il puntare alla scadenza del ’92 in riferimento alla liberalizzazione dei capitali in modo da favorire la formazione di nuovi monopoli. Per quanto riguarda il conflitto sociale, una delle riflessioni fondamentali di questo progetto parte proprio dalla constatazione del fatto che in Italia si è prodotto uno scontro di classe che ha trovato nella guerriglia il suo punto più alto. La controffensiva dello Stato negli anni ’80 parte dal presupposto che senza assestare un duro colpo alla guerriglia non si sarebbe potuto procedere alla ristrutturazione economica che la crisi rendeva impellente, una dinamica controrivoluzionaria che a partire dall’attacco all’O. e ai settori più avanzati dell’economia di classe ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe costruendo i termini dei nuovi rapporti di forza a favore dello Stato.
È su questi rapporti di forza che può essere varato il patto neocorporativo, esso stesso ratifica e avanzamento della controrivoluzione, un modello di relazioni che a partire dal rapporto capitale/lavoro ha costretto tutti i soggetti sociali dell’opposizione costituzionale a modificare il proprio ruolo. Un riadeguamento che dovendo ruotare intorno al processo di rifunzionalizzazione dello Stato potrà essere tale nella funzione assegnatagli dal modello di «democrazia compiuta» che questo progetto politico persegue. Per questo possiamo dire che il più generale processo di rifunzionalizzazione dello Stato – in cui tale progetto è inserito – ha nella sostanza modificato, sulla base dei nuovi rapporti di forza, il carattere della mediazione politica tra classe e Stato, la funzione degli strumenti e dei soggetti istituzionali con cui lo Stato si rapporta al proletariato, il modo stesso di governare il conflitto di classe, per questo possiamo dire che nella mediazione politica attuale tra classe e Stato vi è incorporato il salto di qualità operato dalla controrivoluzione degli anni ’80.
Controrivoluzione che ha nel modello neocorporativo il suo punto di arrivo e di partenza più significativo nel quale tale progetto politico trova la base concreta di partenza. Lo sviluppo di questo progetto è prefigurato per tappe attraverso i momenti di forzatura e mediazione e necessita del coinvolgimento ulteriore dell’opposizione, per altro esclusa a priori da qualunque ipotesi di alternanza al potere. Chiarisce bene infatti la manovra democristiana sulla questione del diritto di sciopero che è stata ed è tesa a un coinvolgimento fattivo del Pci. L’obiettivo è quello di una «democrazia governante» dove al massimo dell’accentramento del potere reale corrisponde la più vasta apparenza di democrazia; cioè il massimo di democrazia formale, è questo il progetto politico attuale: formalmente teso alla costruzione di una «democrazia finalmente matura», ma nei fatti teso a concentrare tutti i poteri nelle mani della «maggioranza» di governo nel nome di un interesse generale del paese che nella realtà è solo l’interesse della frazione dominante della borghesia imperialista, nella normale dialettica tra maggioranza e opposizione in cui la «maggioranza ha gli strumenti di governo e l’opposizione ha facoltà di critica senza però intervenire direttamente nei processi decisionali, in un gioco in cui apparentemente i partiti rappresentano l’intera società, nella realtà solo gli interessi della borghesia imperialista». Un progetto politico che nel complesso tende a svincolare il governo della società dalle spinte antagoniste garantendo la stabilità politica del sistema; è per questo che tale progetto è in questo momento il cuore dello Stato in quanto da un lato sancisce l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi della borghesia imperialista, dall’altro, assesta e ratifica i rapporti di forza fra classe e Stato a favore dello Stato, necessari per poter procedere speditamente nell’attuazione sia dei provvedimenti di politica economica imposti dalla crisi e dagli interessi relativi all’andamento del quadro politico internazionale gravido della tendenza alla guerra. Possiamo considerare chiusa la fase politica imperniata sulla controrivoluzione per conto dello Stato, sull’apertura della Ritirata Strategica per parte del movimento rivoluzionario, sul carattere resistenziale per parte proletaria. Essa si è sostanzialmente esaurita con il referendum sulla scala mobile dell’85 attestando lo scontro momentaneamente a favore della borghesia e dello Stato. Un esempio concreto dell’andamento discontinuo dello scontro, soprattutto riferito al piano rivoluzionario che ha posto nuovi termini per la ridefinizione degli strumenti di organizzazione e di lotta sia per parte rivoluzionaria che proletaria.
La sconfitta tattica di questi anni (inevitabile nel percorso di lunga durata) ha attraversato in modo differente la classe, il movimento rivoluzionario, le Br. La classe, dopo un primo momento di difesa delle precedenti condizioni di vita, politiche e materiali, ha dovuto confrontarsi subito con i nuovi termini di relazioni industriali propri del neocorporativismo messi in campo per imbrigliare e depotenziare qualsiasi possibilità d’espressione di autonomia e organizzazione di classe. Quindi non tanto di classe in difensiva si può parlare (ciò sarebbe una visione statica dello scontro) ma di una classe non propriamente pacificata, che cerca di fornirsi degli strumenti idonei a sfondare gli steccati costruiti dal neocorporativismo, nonostante i durissimi attacchi politici e materiali che lo Stato in prima persona decide di operare. I tentativi della classe di organizzarsi al di fuori delle gabbie neocorporative producono di riflesso la cosiddetta crisi di rappresentatività del sindacato. Una spinta conflittuale che non riempie le prime pagine dei giornali ma che vive costantemente sia nei principali poli industriali che nei centri della piccola industria. Una lotta tenacemente perseguita dalle avanguardie di classe che pur vivendo nella condizione generale di controrivoluzione (basti pensare al clima da caserma nei posti di lavoro) si misura concretamente con essa. Questo non significa la possibilità di ripresa di chissà quali cicli di lotta nell’immediato, perché non è dato il ribaltamento dagli attuali rapporti politici esistenti tra le classi, stante la modifica del carattere della mediazione politica tra classe e Stato.
Per quanto riguarda il movimento rivoluzionario dobbiamo dire che esso ha subito un arretramento politico che ha portato nella gran maggioranza ad avvitarsi intorno alla sconfitta.
A tutt’oggi il movimento rivoluzionario stenta a uscire dalla palude della logica difensivistica che per estremo porta a fare l’apologia dello Stato o al massimo a cavalcare qualsiasi espressione di lotta con la propria visione politica arretrata. Queste caratteristiche non sono solo il prodotto della sconfitta e della controrivoluzione ma esse sono tali per la presenza della guerriglia; questa questione fa sì che il movimento rivoluzionario risenta perennemente dell’agire della guerriglia se è all’offensiva (da un lato) e della controrivoluzione dello Stato se contrattacca (dall’altro).
Per quanto riguarda l’Organizzazione possiamo dire che questi anni di Ritirata Strategica ci hanno insegnato alcune questioni fondamentali soprattutto a fronte della giovinezza politica e della relativa originalità del processo rivoluzionario nel nostro paese che ci hanno costretto a misurarci con le leggi generali dello scontro, che vivono nello scontro di classe di lunga durata negli Stati a capitalismo maturo, ossia con le peculiarità politiche che questo scontro rivoluzionario comporta. Il modo in cui lo Stato si contrappone alla guerriglia non è solamente militare, ma si definisce con veri e propri interventi politici, sempre diversi secondo le fasi di scontro che hanno la caratteristica di poter essere ribaltate sull’intero corpo di classe, favorendo l’accerchiamento strategico. L’accerchiamento strategico è un dato di fondo che la guerriglia vive nella guerra di classe e che si esaurisce solo nella controffensiva finale. Solo la sconfitta tattica ha reso evidente questa legge dello scontro nel momento cioè in cui la controffensiva ha scompaginato l’adesione di massa alla strategia della lotta armata avvenuta nella fase precedente. Infine le politiche antiguerriglia sono il prodotto dell’esperienza che lo Stato stesso ha fatto, esse si affinano con l’approfondirsi dello scontro e con le necessità generali che più si impongono. C’è infatti continuità e riadeguamento tra il pentitismo nato nelle caserme, la dissociazione prodotta dalla politica penitenziaria antiguerriglia e il progetto di soluzione politica per la guerriglia elaborato dallo Stato nei suoi massimi vertici politici. Quest’ultimo progetto si differenzia dai precedenti perché è inserito in una fase costituente e ha la velleità di aprirla in bellezza eliminando il problema Br, la guerriglia essendo forza viva dello scontro non è immune da errori, l’attacco dello Stato ci ha posto contraddizioni di tipo nuovo che si sono manifestate nel concepire la Ritirata Strategica, scelta politica legittima, in termini di tenuta e di logica resistenziale.
In tal modo si è venuti meno al principio della Ritirata Strategica. E cioè: i ripiegamenti da parte delle forze rivoluzionarie avvengono quando si constata l’impossibilità di portare avanti una posizione offensiva, pertanto si ritirano allo scopo di ricostruire i termini più idonei per nuove offensive. Ripiegare è un elemento dinamico delle leggi della guerra tanto più della guerriglia; ignorare questa concezione porta, in termini militari al dissanguamento delle forze, e in termini politici all’avventurismo. L’aver considerato il ripiegamento come un atto difensivo ci ha portato alla logica resistenziale, logica che è la negazione della guerriglia in quanto si sottopone al logoramento politico-militare del nemico, di fatto all’annientamento. Cadere in questa contraddizione ci ha portato, anche se legittimamente a fare una battaglia di retroguardia contro le concezioni dogmatiche, vero e proprio difensivismo, tali deviazioni hanno fatto arretrare il movimento rivoluzionario.
Questi anni di Ritirata Strategica uniti all’esperienza di 18 anni di prassi-teoria-prassi rivoluzionaria non fanno altro che confermare la validità fondamentale della strategia della lotta armata fondata sullo sviluppo della guerra di classe di lunga durata. È stato lo scontro concreto a chiarire che non erano sufficienti due sole fasi rivoluzionarie, così come erano state ipotizzate dall’organizzazione al suo esordio, ossia la fase di accumulo di capitale rivoluzionario e quella del suo dispiegamento nella guerra di classe di lunga durata; una concezione linearista che non aveva ben compreso la complessità del processo rivoluzionario nei paesi a capitalismo avanzato. Preventivare a priori lo svolgimento dello scontro al di fuori del procedere dello stesso, fatto salvo lo sviluppo generale definito dalla strategia, non è un criterio materialista. Nella realtà il succedersi delle fasi rivoluzionarie è sempre il prodotto dell’esito della fase di scontro precedente, basti pensare che la fase rivoluzionaria dell’agire da Partito per costruire il Partito doveva risolversi in teoria nell’apertura della fase di «guerra dispiegata», ma l’esito dello scontro ha invece prodotto la fase della Ritirata Strategica.
Questa fase a tutt’oggi non è conclusa nel suo significato strategico, ma già vive al suo interno la fase rivoluzionaria odierna, e cioè: di ricostruzione di forze rivoluzionarie e degli strumenti politico-organizzativi per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato con lo Stato.
Questo processo vive in stretta relazione ai termini attuali di costruzione del Pcc, ovvero oggi la direzione dello scontro non può limitarsi ad accumulare semplicemente le forze che si dispongono spontaneamente sul terreno rivoluzionario, ma comporta una formazione delle stesse in termini qualitativi arricchendole del patrimonio dell’esperienza rivoluzionaria; una direzione che comporta principalmente di saperle disporre all’interno degli obiettivi politici e programmatici perseguiti; una direzione che deve tenere conto di tutti i fattori interni e internazionali che caratterizzano lo scontro rivoluzionario e di quanto si sia approfondito in questi anni di prassi rivoluzionaria.
Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente
Aprile 1988