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Rivendicazione dell’azione contro Roberto Ruffilli

Sabato 16 aprile un nucleo armato della nostra Organizzazione ha giustiziato Roberto Ruffilli ideatore del progetto politico di riformu­lazione dei poteri e delle funzioni dello Stato nonché suo articolatore concreto.

Chi era Roberto Ruffilli, non certo il «mite uomo di pensiero e di studio» che le veline dello Stato cercano di accreditare nel tentativo di sminuire la portata politica dell’attacco subito. Egli era invece uno dei migliori quadri politici della Dc, uomo chiave del «rinnovamento», vero e proprio cervello politico del progetto demitiano, progetto teso ad aprire una nuova fase «costituente».

Ruffilli era altresì l’uomo di punta che ha guidato in questi anni la strategia democristiana sapendo concretamente ricucire attraverso forzature e mediazioni, tutto l’arco delle forze politiche intorno a questo progetto, comprese le opposizioni istituzionali; questo senza nulla concedere alle spinte demagogiche di stile craxiano né tantomeno a proposte tanto onnicomprensive quanto impraticabili.

Quindi un politico puro e perno centrale del progetto di riformula­zione delle «regole del gioco» all’interno della più complessiva rifun­zionalizzazione dei poteri e degli apparati dello Stato.

Questo progetto politico si ricollega nella sostanza alla «terza fase morotea» pur necessariamente in un contesto politico e sociale assai mutato; è attraverso questo progetto che la stessa Dc si riqualifica e si pone come partito pilota di questi cambiamenti.

Roberto Ruffilli viene chiamato nell’8l dalla segreteria di De Mita in qualità di esperto di problemi istituzionali, nell’83 eletto senatore viene designato dal partito come responsabile dei problemi dello Stato. Come capogruppo Dc nella commissione Bozzi svolge un ruolo di rottura per farla uscire dal pantano dei grandi disegni inconcludenti al fine di soluzioni più pragmatiche e consone ai tempi politici e ai rap­porti di forza tra le classi nel paese; affianca il «decisionismo craxiano» per conto della Dc nei passaggi concreti che costituiranno poi la più complessiva rifunzionalizzazione dello Stato, ovvero quei passaggi inerenti all’accentramento dei poteri nell’esecutivo (creazione del supergabinetto, legge sulla presidenza del consiglio).

È in quegli anni che prende corpo la strategia demitiana imponendosi come baricentro a tutte le forze politiche. Ruffilli è di questa uno dei protagonisti: dal tentativo di staffetta «indolore», un’alternanza regolata e programmata alla guida dell’esecutivo; alle forzature costituzionali nella funzione del Presidente della Repubblica, avvenute con gli inse­diamenti dei governi di transizione (sia quello elettorale di Fanfani che quello di Goria); fino all’oggi con la cooptazione delle forze dell’op­posizione istituzionale alle cosiddette riforme istituzionali. Una ma­novra complessiva non priva di contraddizioni solo secondariamente riferite alle stesse forze politiche, ma principalmente riferite a un quadro politico e sociale nel paese niente affatto pacificato! Una manovra com­plessiva tesa ad aprire una nuova fase «costituente».

Ma cos’è il progetto politico demitiano, in quale contesto storico, politico e sociale si inserisce.

In termini generali questo progetto (di riforma istituzionale) si in­serisce nella tendenza attuale di ridefinizione/riadeguamento com­plessivo di tutte le funzioni e istituzioni dello Stato ai nuovi termini di sviluppo dell’imperialismo e ai corrispettivi termini nel governo del conflitto di classe. Ossia una tendenza generale di riadeguamento delle democrazie parlamentari quali forme di dominio più mature degli Stati a capitalismo avanzato, quindi un avanzamento delle forme di dominio della dittatura della borghesia imperialista. Una tendenza ge­nerale che nelle sue linee direttrici, se pur con tempi e modi diversi, interessa molti paesi europei (non a caso in riferimento a questi processi si è formato un gruppo di studio italo-tedesco) e che in Italia assume caratteristiche peculiari in relazione al ruolo economico/politico che il nostro paese ha nel contesto della catena imperialista, alla qualità della lotta di classe sviluppata nel nostro paese con la presenza della prassi rivoluzionaria portata avanti dalle Br in dialettica con i settori più avanzati dell’autonomia di classe; ai caratteri infine della classe do­minante nostrana necessariamente prodotta dai primi due fattori. Non a caso l’attuale fase politica in cui è inserito il progetto demitiano evi­denzia la continuità pur nella rottura con le diverse fasi politiche e sto­riche vissute nel nostro paese.

In altri termini c’è un filo continuo che lega la costituente del ’46, espressione dei rapporti di forza usciti dalla resistenza al nazifascismo, a questa nuova fase costituente; un filo continuo che passa dalla re­staurazione degli anni ’50 per contrastare il movimento insurrezionale ereditato dalla Resistenza, al centro-sinistra degli anni ’60; al tentativo neogollista di stampo fanfaniano dei primi anni ’70 teso a contrastare in termini reazionari le forti spinte dell’autonomia di classe e dell’esor­dio della guerriglia; all’unità nazionale morotea in un clima di forte scontro politico per il potere diretto e organizzato dalla strategia della lotta armata, alla controrivoluzione degli anni ’80, vera e propria base su cui ha trovato forza questa fase politica.

Una fase politica che non può essere considerata di stampo reazio­nario anche se è vero che dovendo fare riferimento alla storia concreta vi sono riadattati elementi del passato come per esempio i caratteri del neocorporativismo italiano che è proprio del fascismo; non si tratta quindi del tentativo di un blocco reazionario che vuole svuotare e re­visionare il parlamento e la Costituzione anche perché i blocchi sociali nel contesto attuale della polarizzazione tra le classi operata dallo svi­luppo dell’imperialismo, sono antistorici. Si tratta invece di far fun­zionare al massimo la democrazia formale adeguandosi ai modelli delle democrazie mature europee. L’ossatura del progetto politico demitiano è imperniata sulla formazione di coalizioni che si possono al­ternare alla guida del governo dandogli un carattere di forte stabilità, una maggioranza forte e un esecutivo stabile in grado di garantire da un lato risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico internazionale. Questo è il massimo della democrazia formale dove «l’alternanza» fa la funzione dell’opposizione e dovrebbe riuscire a contenere le spinte antagoniste che si producono nel paese. Infatti i governi di coalizione attuali non sono altro che fasi di transizione per approdare a questa nuova fase senza grossi traumi. Per questo i passaggi intermedi sono d’importanza fondamentale e verificano fin da subito la tenuta politica degli schieramenti; questi passaggi oggi contemplano un diverso assetto delle funzioni delle due camere; l’iter parlamentare delle leggi (voto segreto, corsia preferenziale) fino alla modifica dei regolamenti elet­torali. Questo complesso disegno si avvale anche della necessità di sti­molare la funzione della «democrazia rappresentativa» attraverso il varo di una nuova legge sui referendum. La proposta di renderli con­sultivi costituisce l’ulteriore passaggio e approfondimento sul terreno della democrazia formale di cui riflette la sostanza stessa in quanto da un lato viene colta la capacità di incidere (sia pure minimamente a livello legislativo come invece il referendum abrogativo) mentre dal­l’altro sanciscano nel fatti una delega al governo per legiferare: «sentito il parere dei cittadini». Divengono così degli strumenti per la raccolta di un consenso attorno alle scelte dell’esecutivo e della «maggioranza» che le presiede. Questi sono, già oggi, usati come momenti di mobi­litazione delle masse, promuovendo così movimenti lealisti al suo operato, attivizzando in ciò le forze di opposizione istituzionale (vedi le ultime vicende referendarie sui giudici e sul nucleare). Ma l’uso più antiproletario dei referendum è quello utilizzato dai sindacati per im­brigliare e depotenziare le spinte conflittuali delle relazioni industriali sostanziando così il neo-corporativismo. Intorno ai tratti essenziali di questo progetto e dei suoi caratteri politici si riformulano anche gli apparati dello Stato, dal ruolo della magistratura che deve rifunzionalizzarsi all’esecutivo, sia con la corte costituzionale garante della co­stituzionalità della riforma, sia con la Corte dei conti dove è rilevante la legge sulla spesa in riferimento a un diverso equilibrio dei bilanci statali, al diverso rapporto tra Ministero degli Esteri e Ministero della Difesa compreso nella riforma della Farnesina. Inoltre il terreno della sperimentazione concreta ai termini della rifunzionalizzazione com­plessiva dello Stato viene proposto nella riforma degli enti locali.

La riforma degli enti locali tende a funzionalizzare i poteri decentrati sia in termini di spesa che di gestione dell’esecutivo. Con la conferenza Stato-Regioni, la legge sulle autonomie locali, si apre il terreno di spe­rimentazione della legge elettorale. Lo sforzo dei politicanti è di far apparire questo progetto come asettico e idilliaco, privo di riferimenti con le condizioni politiche e materiali vissute nello scontro di classe, come una cosa che riguarda solo il modo di sedersi a Montecitorio. La realtà è ben diversa. Lo Stato non è al di sopra delle parti ma rap­presenta ed è organo della dittatura borghese nonché mediatore nel conflitto di classe. Nello sviluppo storico dell’imperialismo queste due funzioni sono esaltate dal «complessificarsi» del suo ruolo, sia per il maggior peso del suo intervento nei processi economici, sia per il ca­rattere della controrivoluzione preventiva come politica costante per contenere la lotta di classe.

Che questo progetto politico affondi le sue radici nella natura e fun­zione dello Stato ne sono ben coscienti gli stessi elaboratori i quali si richiamano ai termini economici e di sviluppo di questa fase dell’im­perialismo, di qui il puntare alla scadenza del ’92 in riferimento alla liberalizzazione dei capitali in modo da favorire la formazione di nuovi monopoli. Per quanto riguarda il conflitto sociale, una delle riflessioni fondamentali di questo progetto parte proprio dalla constatazione del fatto che in Italia si è prodotto uno scontro di classe che ha trovato nella guerriglia il suo punto più alto. La controffensiva dello Stato negli anni ’80 parte dal presupposto che senza assestare un duro colpo alla guerriglia non si sarebbe potuto procedere alla ristrutturazione eco­nomica che la crisi rendeva impellente, una dinamica controrivolu­zionaria che a partire dall’attacco all’O. e ai settori più avanzati del­l’economia di classe ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe costruendo i termini dei nuovi rapporti di forza a favore dello Stato.

È su questi rapporti di forza che può essere varato il patto neocor­porativo, esso stesso ratifica e avanzamento della controrivoluzione, un modello di relazioni che a partire dal rapporto capitale/lavoro ha costretto tutti i soggetti sociali dell’opposizione costituzionale a mo­dificare il proprio ruolo. Un riadeguamento che dovendo ruotare in­torno al processo di rifunzionalizzazione dello Stato potrà essere tale nella funzione assegnatagli dal modello di «democrazia compiuta» che questo progetto politico persegue. Per questo possiamo dire che il più generale processo di rifunzionalizzazione dello Stato – in cui tale pro­getto è inserito – ha nella sostanza modificato, sulla base dei nuovi rapporti di forza, il carattere della mediazione politica tra classe e Stato, la funzione degli strumenti e dei soggetti istituzionali con cui lo Stato si rapporta al proletariato, il modo stesso di governare il conflitto di classe, per questo possiamo dire che nella mediazione politica attuale tra classe e Stato vi è incorporato il salto di qualità operato dalla con­trorivoluzione degli anni ’80.

Controrivoluzione che ha nel modello neocorporativo il suo punto di arrivo e di partenza più significativo nel quale tale progetto politico trova la base concreta di partenza. Lo sviluppo di questo progetto è prefigurato per tappe attraverso i momenti di forzatura e mediazione e necessita del coinvolgimento ulteriore dell’opposizione, per altro esclusa a priori da qualunque ipotesi di alternanza al potere. Chiarisce bene infatti la manovra democristiana sulla questione del diritto di sciopero che è stata ed è tesa a un coinvolgimento fattivo del Pci. L’obiettivo è quello di una «democrazia governante» dove al massimo dell’accentramento del potere reale corrisponde la più vasta apparenza di democrazia; cioè il massimo di democrazia formale, è questo il pro­getto politico attuale: formalmente teso alla costruzione di una «de­mocrazia finalmente matura», ma nei fatti teso a concentrare tutti i poteri nelle mani della «maggioranza» di governo nel nome di un in­teresse generale del paese che nella realtà è solo l’interesse della frazione dominante della borghesia imperialista, nella normale dialettica tra maggioranza e opposizione in cui la «maggioranza ha gli strumenti di governo e l’opposizione ha facoltà di critica senza però intervenire direttamente nei processi decisionali, in un gioco in cui apparentemente i partiti rappresentano l’intera società, nella realtà solo gli interessi della borghesia imperialista». Un progetto politico che nel complesso tende a svincolare il governo della società dalle spinte antagoniste ga­rantendo la stabilità politica del sistema; è per questo che tale progetto è in questo momento il cuore dello Stato in quanto da un lato sancisce l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi della borghesia imperialista, dall’altro, assesta e ratifica i rapporti di forza fra classe e Stato a favore dello Stato, necessari per poter procedere speditamente nell’attuazione sia dei provvedimenti di politica economica imposti dalla crisi e dagli interessi relativi all’andamento del quadro politico internazionale gravido della tendenza alla guerra. Possiamo considerare chiusa la fase politica imperniata sulla controrivoluzione per conto dello Stato, sull’apertura della Ritirata Strategica per parte del movi­mento rivoluzionario, sul carattere resistenziale per parte proletaria. Essa si è sostanzialmente esaurita con il referendum sulla scala mobile dell’85 attestando lo scontro momentaneamente a favore della bor­ghesia e dello Stato. Un esempio concreto dell’andamento discontinuo dello scontro, soprattutto riferito al piano rivoluzionario che ha posto nuovi termini per la ridefinizione degli strumenti di organizzazione e di lotta sia per parte rivoluzionaria che proletaria.

La sconfitta tattica di questi anni (inevitabile nel percorso di lunga durata) ha attraversato in modo differente la classe, il movimento ri­voluzionario, le Br. La classe, dopo un primo momento di difesa delle precedenti condizioni di vita, politiche e materiali, ha dovuto confron­tarsi subito con i nuovi termini di relazioni industriali propri del neo­corporativismo messi in campo per imbrigliare e depotenziare qualsiasi possibilità d’espressione di autonomia e organizzazione di classe. Quin­di non tanto di classe in difensiva si può parlare (ciò sarebbe una visione statica dello scontro) ma di una classe non propriamente pacificata, che cerca di fornirsi degli strumenti idonei a sfondare gli steccati co­struiti dal neocorporativismo, nonostante i durissimi attacchi politici e materiali che lo Stato in prima persona decide di operare. I tentativi della classe di organizzarsi al di fuori delle gabbie neocorporative pro­ducono di riflesso la cosiddetta crisi di rappresentatività del sindacato. Una spinta conflittuale che non riempie le prime pagine dei giornali ma che vive costantemente sia nei principali poli industriali che nei centri della piccola industria. Una lotta tenacemente perseguita dalle avanguardie di classe che pur vivendo nella condizione generale di controrivoluzione (basti pensare al clima da caserma nei posti di lavoro) si misura concretamente con essa. Questo non significa la possibilità di ripresa di chissà quali cicli di lotta nell’immediato, perché non è dato il ribaltamento dagli attuali rapporti politici esistenti tra le classi, stante la modifica del carattere della mediazione politica tra classe e Stato.

Per quanto riguarda il movimento rivoluzionario dobbiamo dire che esso ha subito un arretramento politico che ha portato nella gran mag­gioranza ad avvitarsi intorno alla sconfitta.

A tutt’oggi il movimento rivoluzionario stenta a uscire dalla palude della logica difensivistica che per estremo porta a fare l’apologia dello Stato o al massimo a cavalcare qualsiasi espressione di lotta con la propria visione politica arretrata. Queste caratteristiche non sono solo il prodotto della sconfitta e della controrivoluzione ma esse sono tali per la presenza della guerriglia; questa questione fa sì che il movimento rivoluzionario risenta perennemente dell’agire della guerriglia se è al­l’offensiva (da un lato) e della controrivoluzione dello Stato se con­trattacca (dall’altro).

Per quanto riguarda l’Organizzazione possiamo dire che questi anni di Ritirata Strategica ci hanno insegnato alcune questioni fondamentali soprattutto a fronte della giovinezza politica e della relativa originalità del processo rivoluzionario nel nostro paese che ci hanno costretto a misurarci con le leggi generali dello scontro, che vivono nello scontro di classe di lunga durata negli Stati a capitalismo maturo, ossia con le peculiarità politiche che questo scontro rivoluzionario comporta. Il modo in cui lo Stato si contrappone alla guerriglia non è solamente militare, ma si definisce con veri e propri interventi politici, sempre diversi secondo le fasi di scontro che hanno la caratteristica di poter essere ribaltate sull’intero corpo di classe, favorendo l’accerchiamento strategico. L’accerchiamento strategico è un dato di fondo che la guer­riglia vive nella guerra di classe e che si esaurisce solo nella controf­fensiva finale. Solo la sconfitta tattica ha reso evidente questa legge dello scontro nel momento cioè in cui la controffensiva ha scompagi­nato l’adesione di massa alla strategia della lotta armata avvenuta nella fase precedente. Infine le politiche antiguerriglia sono il prodotto del­l’esperienza che lo Stato stesso ha fatto, esse si affinano con l’appro­fondirsi dello scontro e con le necessità generali che più si impongono. C’è infatti continuità e riadeguamento tra il pentitismo nato nelle ca­serme, la dissociazione prodotta dalla politica penitenziaria antiguer­riglia e il progetto di soluzione politica per la guerriglia elaborato dallo Stato nei suoi massimi vertici politici. Quest’ultimo progetto si diffe­renzia dai precedenti perché è inserito in una fase costituente e ha la velleità di aprirla in bellezza eliminando il problema Br, la guerriglia essendo forza viva dello scontro non è immune da errori, l’attacco dello Stato ci ha posto contraddizioni di tipo nuovo che si sono mani­festate nel concepire la Ritirata Strategica, scelta politica legittima, in termini di tenuta e di logica resistenziale.

In tal modo si è venuti meno al principio della Ritirata Strategica. E cioè: i ripiegamenti da parte delle forze rivoluzionarie avvengono quan­do si constata l’impossibilità di portare avanti una posizione offensiva, pertanto si ritirano allo scopo di ricostruire i termini più idonei per nuove offensive. Ripiegare è un elemento dinamico delle leggi della guerra tanto più della guerriglia; ignorare questa concezione porta, in termini militari al dissanguamento delle forze, e in termini politici all’avventurismo. L’aver considerato il ripiegamento come un atto di­fensivo ci ha portato alla logica resistenziale, logica che è la negazione della guerriglia in quanto si sottopone al logoramento politico-militare del nemico, di fatto all’annientamento. Cadere in questa contraddizione ci ha portato, anche se legittimamente a fare una battaglia di retro­guardia contro le concezioni dogmatiche, vero e proprio difensivismo, tali deviazioni hanno fatto arretrare il movimento rivoluzionario.

Questi anni di Ritirata Strategica uniti all’esperienza di 18 anni di prassi-teoria-prassi rivoluzionaria non fanno altro che confermare la validità fondamentale della strategia della lotta armata fondata sullo sviluppo della guerra di classe di lunga durata. È stato lo scontro con­creto a chiarire che non erano sufficienti due sole fasi rivoluzionarie, così come erano state ipotizzate dall’organizzazione al suo esordio, ossia la fase di accumulo di capitale rivoluzionario e quella del suo di­spiegamento nella guerra di classe di lunga durata; una concezione linearista che non aveva ben compreso la complessità del processo ri­voluzionario nei paesi a capitalismo avanzato. Preventivare a priori lo svolgimento dello scontro al di fuori del procedere dello stesso, fatto salvo lo sviluppo generale definito dalla strategia, non è un criterio materialista. Nella realtà il succedersi delle fasi rivoluzionarie è sempre il prodotto dell’esito della fase di scontro precedente, basti pensare che la fase rivoluzionaria dell’agire da Partito per costruire il Partito doveva risolversi in teoria nell’apertura della fase di «guerra dispiegata», ma l’esito dello scontro ha invece prodotto la fase della Ritirata Stra­tegica.

Questa fase a tutt’oggi non è conclusa nel suo significato strategico, ma già vive al suo interno la fase rivoluzionaria odierna, e cioè: di ri­costruzione di forze rivoluzionarie e degli strumenti politico-organiz­zativi per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato con lo Stato.

Questo processo vive in stretta relazione ai termini attuali di costru­zione del Pcc, ovvero oggi la direzione dello scontro non può limitarsi ad accumulare semplicemente le forze che si dispongono spontanea­mente sul terreno rivoluzionario, ma comporta una formazione delle stesse in termini qualitativi arricchendole del patrimonio dell’esperienza rivoluzionaria; una direzione che comporta principalmente di saperle disporre all’interno degli obiettivi politici e programmatici perseguiti; una direzione che deve tenere conto di tutti i fattori interni e interna­zionali che caratterizzano lo scontro rivoluzionario e di quanto si sia approfondito in questi anni di prassi rivoluzionaria.

 

Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente

Aprile 1988

L’antagonismo totale tra il sistema dei bisogni…

L’antagonismo totale tra il sistema dei bisogni del proletariato – critica ai rapporti sociali di produzione capitalistici – e la necessità del capitale di imporre le proprie regole a tutta l’organizzazione sociale, di sottomettere a sé ogni potenzialità di cooperazione, rende la lotta operaia lotta sovversiva, distruttiva dei rapporti sociali esistenti. Il capitale si arma contro la lotta operaia, proletaria sovversiva; irrigidisce ogni rapporto sociale, ogni articolazione del suo modo di produzione nella difesa della propria necessità di valorizzarsi e di espandersi; allinea figure di comando che presidiano ogni più piccolo passaggio dei rapporti di produzione, ogni più recondita piega del vivere sociale; sentinelle, trincee successive – percorsi di guerra imposti alla lotta proletaria – che la lotta proletaria deve aggredire. L’esplosione di comportamenti autonomi da parte del proletariato ha provocato una proliferazione incredibile di figure di comando, di regolamento per ognuno dei passaggi della vita sociale. Ciò che il capitale cerca di imporre è una pratica tremenda di terrore, di distruzione fisica del proletariato, di logoramento di ogni briciola di potere politico.

Dalla fucilazione dei militanti rivoluzionari, alla tortura, al sequestro dei militanti della lotta operaia, alla sanzione del diritto di esproprio del reddito proletario a favore del blocco sociale antioperaio, fino all’azione quotidiana del più sconosciuto capo officina, ogni giorno il capitale produce una montagna di provvedimenti, sanzioni, ingiunzioni, decreti che applicano le sue regole generali. Se lo Stato rappresenta l’assunzione centrale della regolamentazione dei rapporti di produzione capitalistici, ogni cosa è parte dello Stato, tutta la vita sociale si fa stato, amministrazione violenta della necessità del capitale. La socializzazione del comando è la fonte di legittimità del comando stesso. La nuova democrazia è una foto di gruppo delle gerarchie sociali di comando che sono garanti del regolare sviluppo del capitale. Dopo la confusione generata dalla trasformazione degli istituti di contrattazione e di mediazione dei conflitti – consigli di fabbrica, decentramento amministrativo, organismi territoriali – in puri organismo di comando. Questo salto politico è fondamentale poiché permette una generalizzazione di indicazioni politiche di combattimento, di iniziativa di lotta, dall’organizzazione combattente al quadro combattente proletario e agli istituti della lotta di massa. L’iniziativa capitalistica ha chiuso una fase di lotte in cui era immediata la conquista di obbiettivi, l’imposizione di una pratica di programma con la semplice lotta di massa; il capitale risponde con la guerra, con il funzionamento rigido delle leggi della società. Le giornate di marzo sono state una grande lezione: da condizioni oggettive che massificavano bisogni e caratteri politici del proletariato si è passati alla lotta di massa contro lo stato. In essa si sono esplicitate le diverse ipotesi politiche che vivono nell’area rivoluzionaria tra le organizzazioni combattenti, si sono manifestati i limiti della rete organizzata che ha diretto queste lotte e ha fatto pratica di combattimento in quella fase. La domanda politica sviluppata in questi mesi, la ricerca di una chiarezza, di un progetto lucido di prospettiva e di organizzazione impone di rompere tutte le nozioni di ‘area’: da quella autonoma a quella armata, di scatenare la battaglia politica, di confrontare proposte politiche con la tensione rivoluzionaria che vive nel proletariato e nella classe operaia.

Ciò che va puntualizzato prima di tutto per il dibattito – che in maniera parziale e interlocutoria cominciamo ad introdurre in questo numero zero del giornale di PL – è la natura del processo di ristrutturazione complessiva degli assetti capitalistici. Va capito non solo come si moltiplicano le figure di comando, se ne serrano i ranghi, ma si esplicita il carattere politico di dominio della struttura produttiva. La forma della produzione non ha niente di naturale, ha la natura del capitale, della distruzione – in ogni suo passaggio – della forza politica, sovversiva della classe; ha il carattere della espropriazione di ogni scintilla di forza creativa del proletariato. Il capitale non produce più singole merci e macchine ma strutture generali di comando sulla produzione, assetti produttivi territoriali in cui garantire il profitto. Il comando sul meccanismo di accumulazione, la sottomissione di ogni capacità produttiva. Si vendono assetti territoriali, macchine, tecnologie, scienze, tecnici per svilupparle.

Tutto ciò è sottomesso ai movimenti del capitale sulla scala del mercato mondiale: dalle armi alla scienza del comando, della produzione, della amministrazione… Produzione e comando sono inestricabilmente intrecciati. Da ciò segue la messa all’ordine del giorno per la lotta operaia e la pratica combattente dell’attacco alla circolazione delle merci come riproduzione del comando sulla classe. Alla socialdemocrazia in questa fase in Italia in particolare è delegata la riproduzione del comando in ogni luogo della società, la costituzione dello stuolo di funzionari del capitale ad ogni stazione della catena di produzione capitalistica. Essi sono i guardiani fedeli dei rapporti di produzione, i fedeli esecutori (i più fedeli di tutti) delle direttive del capitale. Sono i promotori di quel processo di legittimazione e di ricostruzione del comando che passa per la sua socializzazione. Sono i cani lupo più accaniti, i segugi più feroci nel seguire la pista dei rivoluzionari. L’attacco generale alle concezioni fondamentali del dominio del capitale, lo svelamento dell’aspetto politico di ogni condizione del proletariato in questa società è oggi più che mai possibile per la miseria di ciò che la socialdemocrazia ha messo in piedi come adesione operaia al progetto del capitale, come blocco operaio antiproletario. Certo la ristrutturazione ha messo a segno parecchi colpi, la socialdemocrazia e gli istituti sindacali hanno spezzato a più riprese le capacità di mobilitazione della classe, ma è da oggi cha ha inizio il tentativo di consolidare alcuni puntelli fondamentali per il comando capitalistico, sulla base dell’attacco portato in questi anni. Il capitale – recitando lo scontato gioco delle parti nelle trattative istituzionali, secondo i ruoli affidati dopo il 20 giugno – passa all’attacco del cuore della classe operaia, porta lo Stato in fabbrica, stringe i ranghi, rinnova le attrezzature, rilancia i nuovi centri di impresa e finanziari, scarica sul proletariato tutto quanto i nuovi assetti internazionali della produzione e del mercato richiedono, affinché la grande impresa italiana e con essa tutto l’apparato produttivo stia al suo posto nella gerarchia imperialista. Il ruolo conquistato dalla grande impresa italiana pubblica e privata, dai centri finanziari come impresa multinazionale, la competitività sul mercato mondiale di settori produttivi tradizionali, mantenuta con il nuovo decentramento produttivo, sono la base del rilancio che il capitale internazionale è deciso a sostenere nei confronti del suo segmento italiano. Si apre un dibattito fra i comunisti, sul quale ora non ci soffermiamo, sul ruolo che un processo rivoluzionario in Italia gioca nel determinare contraddizioni più vaste nel mercato mondiale. Lo sviluppo di una opposizione operaia alle nuove condizioni determinate nei diversi paesi dalla ristrutturazione (Francia, Spagna, Inghilterra fanno testo), l’applicazione delle regole della produzione capitalistica dal sud-America ai paesi socialisti (richiedono la costruzione di nuovi assetti politici e sociali, il che rende omogenee le diverse situazioni nazionali molto più di prima), la definizione di una maggiore centralizzazione dell’azione del capitale e quindi, per così dire, l’unificazione delle controparti delle diverse sezioni del proletariato internazionale, tutto questo compagni fa nascere nuovi problemi per i comunisti che si sforzano di prevedere i passaggi della guerra civile in Italia, il formarsi degli schieramenti. Fa anche della lotta rivoluzionaria del proletariato italiano un punto di riferimento storico di un processo più generale, che in tutti i paesi vede una crescente politicizzazione dello scontro di classe, e con essa l’esplicitazione dei reali interessi in gioco. A fronte di questo assistiamo ad un processo che va incrementato e guidato, di sabotaggio sociale da parte dei proletari: cresce il combattimento proletario e l’iniziativa dei settori più lucidi delle organizzazioni combattenti. Contro la scientificità, la capillarità, l’estensione dell’attacco capitalistico si deve radicare il combattimento come sviluppo della guerra da parte proletaria, con caratteri di stabilità, di regolarità, di riproduzione di strutture embrionali di esercito proletario.

Sbaglia chi oggi spara a zero contro lo spontaneismo del combattimento proletario e vuole ridurre il combattimento ai soli percorsi verso l’organizzazione ed alla sua pratica diretta. E’ vero invece che si deve radicare una pratica combattente fondata sulla definizione precisa dei terreni di scontro, delle forme di organizzazione, dei rapporti tra disarticolazione del comando nemico, riappropriazione di ricchezza sociale, e costruzione di organizzazione. Lo sviluppo del combattimento proletario è un processo contraddittorio e collettivo: è imperativo il confronto serrato fra le formazioni che lo praticano. Questo non può essere ridotto ad uno schema fisso, comunque oggi lo sviluppo dello scontro deve contemporaneamente arricchire, trasformare, ma anche omogeneizzare un tessuto organizzativo che sia in grado di riprodursi nelle sue caratteristiche fondanti. Deve attuarsi una dialettica tra massimo di scontro politico e sforzo di omogeneizzare la tattica. Del resto l’evidenza dell’iniziativa del nemico di classe, la forza con cui si riproducono elementi di programma nelle lotte proletarie spingono in quella direzione. E’ tale l’esperienza accumulata in questi anni, la legittimità degli obiettivi, degli elementi di programma ad essi collegati, i modelli operativi che per non farlo ci vuole una precisa volontà contraria. Il superamento delle istanze di semplice autonomia, la nascita di una tensione apertamente rivoluzionaria, producono una forte domanda politica che qualcuno confonde con la delega; si tratta in realtà di domanda di intelligenza politica come capacità di cogliere il progetto del capitale, le contraddizioni e l’unità della coscienza proletaria, i passaggi della costruzione, nella guerra civile, dell’organizzazione di combattimento della classe. E’ maturo a questo punto un discorso sui caratteri fondamentali dell’organizzazione comunista combattente, sul programma rivoluzionario.

 

L’organizzazione

Mentre il proletariato tenta di sciogliersi dalla sua esistenza duplice ed ambigua, in questa società, di forza-lavoro socializzata, sottomessa al capitale, e di soggetto politico irrimediabilmente contrapposto ad esso, l’organizzazione comunista esprime la volontà lucida della parte avanzata della classe di abbattere la società e di realizzare un processo rivoluzionario. La delega da parte del proletariato, l’esternità dell’organizzazione, non si basano su una separazione tra una parte maggioritaria della classe passiva ed attendista ed una minoranza superattiva che si sostituisce al compito storico del proletariato, ma sul rapporto dialettico tra lo strumento di lotta rivoluzionaria che è l’organizzazione e lo sviluppo della faccia rivoluzionaria della classe a scapito di quella di forza-lavoro, di merce particolare del mercato capitalistico.

L’intelligenza politica dei comunisti, la loro pratica combattente non sono altro da questo: la riproposizione al proletariato stesso, in forma stabile e lucida, di quanto esso ha prodotto come scienza della rivoluzione. L’organizzazione comunista combattente allora sviluppa la sua opera di promozione e di direzione del combattimento operaio e proletario, per un’articolazione massima dei diversi livelli di maturità organizzativa e politica, per una massima definizione e circolazione dei modelli operativi. Lo sviluppo del combattimento diventa elemento centrale di rovesciamento della vita del proletariato, strumento per la pratica e la permanenza dell’antagonismo verso questa società: si apre una dialettica positiva tra definizione del sistema dei bisogni, programma rivoluzionario e crescita degli strumenti di lotta rivoluzionaria, che si articolano nei diversi modi di esistenza della classe in questo periodo storico.

 

L’azione combattente dell’organizzazione

All’altro polo di queste posizioni politiche stanno coloro che negano la necessità dell’azione di organizzazione, la usa esplicitazione agli occhi delle masse. La lunga storia del combattimento in Italia ha prodotto in una rete di quadri comunisti un dibattito politico, che permette di indirizzare lucidamente l’azione combattente contro i nodi del dominio del capitale, che permette di colpire secondo previsioni politiche precise sullo sviluppo dello scontro, che disarticola la capacità scientifica del capitale di costruire il proprio dominio. Del resto è di fronte agli occhi di tutti la trasformazione continua della pratica di organizzazione per un avanzamento dei terreni di scontro e per uno spessore sempre maggiore del combattimento proletario; l’osmosi continua tra pratica soggettiva d’organizzazione e radicamento di organizzazione combattente nella classe; l’azione dispiegata su tutta l’ampiezza dei rapporti sociali; la dialettica fra proletariato e lo sviluppo e il radicamento delle capacità di combattimento dentro la classe operaia. Si debbono necessariamente esplicitare i nessi tra pratica di programma e crescita di un programma rivoluzionario, tra disarticolazione del comando nemico e crescita di un’esistenza politica sovversiva autonoma combattente della classe. Non faremo qui il lungo elenco degli obiettivi della lotta proletaria che sono assieme proposta di bisogni immediati da soddisfare, critica pratica a questa società, proposta di programma per una nuova società: ampiamente ne dibattono il movimento ed i rivoluzionari. È difficile oggi immaginare una proposizione di programma che non sia frutto della pratica stoica della classe, d’altra parte svanisce nella memoria collettiva della classe il ricordo del programma che ha praticato e resta patrimonio di intellettuali nostalgici, se questi elementi non si trasformano da subito in pratica combattente.

Ci interessa poi il nesso tra distruzione di comando e costruzione di forza collettiva della classe. Il rapporto con le merci, con il prodotto finito, con le strutture sociali, ne è parte fondamentale, esso è determinato dallo scontro, dai rapporti di forza fra le classi. Nelle merci non va letto soltanto il carattere distruttivo dei bisogni proletari ma anche la funzionalità al dominio del capitale. Per definire un atteggiamento corretto nei confronti del prodotto finito non si può operare un’astratta suddivisione fra valore d’uso e valore di scambio, soltanto la conoscenza concreta di come le merci e la produzione comandano sui proletari, di come il possesso della ricchezza nelle mani degli espropriatori ricatta i proletari, può fondare parametri corretti di valutazione. Si può sottolineare la funzione della ricchezza sociale come valore d’uso solo se la forza dei proletari organizzati è in grado di sottrarla al dominio del capitale. Parte del dibattito che si è sviluppato dopo le azioni alla Magneti-Fiat, alla Sit-Siemens di Milano, alla Fiat di Prato, è stato contagiato da forti tentazioni opportuniste: si attribuiva a queste azioni la responsabilità di far arretrare il dibattito ad un periodo in cui la ristrutturazione non aveva ancora piegato il processo produttivo ad una forma adatta a piegare la classe nei suoi nuovi assetti internazionali, nel suo decentramento territoriale, nella concentrazione del potere finanziario che aveva sottomesso a pochi centri di potere il controllo sul ciclo produttivo. Che il nodo da sciogliere sia il potere politico, la capacità di esercitare forza, è evidente per esempio nello sviluppo del combattimento proletario contro il decentramento produttivo, le forme di lavoro nero in cui non si riesce a legare disarticolazione del ciclo produttivo come forma di comando e riorganizzazione della forza proletaria per legare sopravvivenza e lotta. Appare chiaro che si sottovaluta il nesso che esiste tra azione di reparti avanzati della classe che disarticolano per primi il comando nemico e schieramento rivoluzionario che si realizza nello scontro: la parte avanzata della classe nella sua azione pone il resto del proletariato nell’alternativa tra avviarsi ad una strada di lotto e/o legarsi al carro del capitale per ricrearne le condizioni di dominio. Il sabotaggio del funzionamento generale della macchina capitalistica è stato ed è tuttora pratica delle lotte di massa; quando il capitale si arrocca, si arma, consolida i passaggi fondamentali dei processi di riproduzione, allora l’azione politica della classe si deve elevare. A nulla valgono ancora una volta le accuse di sostituzione alla classe, vale invece il principio di articolare i terreni politici di attacco, di fornire alla classe nuovi strumenti per lottare. Vale il principio di rendere pratica la critica allo sviluppo mostruoso del capitale.

Stante l’attacco concentrato in questi mesi al reddito proletario ed alla rigidità del mercato del lavoro, si prevede una ripresa di lotte per la riappropriazione di elementi di ricchezza sociale: ciò si svilupperà ed avrà continuità se, e solo se, l’attacco al comando come lo abbiamo descritto creerà e fonderà le condizioni per cui quelle che fino ad oggi sono state soltanto parole d’ordine di movimento – il contropotere, la milizia proletaria – diventino pratica reale di costruzione di organizzazione. Il nostro punto di vista sull’organizzazione è la negazione della concezione che identifica sviluppo del partito e dell’esercito proletario in un unico soggetto, che poi è l’organizzazione comunista combattente, che punta a forzare i passaggi sulla reazione dello Stato alla iniziativa rivoluzionaria, sulle sconfitte degli strumenti di lotta operaia autonoma, questo nega una dialettica tra masse e partito, una dialettica di scontro politico interno alla classe. Quando evidenziamo la necessità del carattere politico militare della organizzazione proletaria noi intendiamo affermare la dialettica precedente, poiché questa fase di scontro ci ha sì consegnato una serie di vittorie per il capitale, il ricomporsi di un suo blocco sociale, elementi di un suo progetto politico, assieme però ad una tensione operaia e proletaria a contrastarlo, a realizzare il proprio sistema di bisogni con uno scontro frontale, senza mediazioni nella prospettiva di un lungo processo di lotta rivoluzionaria. Non confondiamo alcune ipotesi sconfitte come quella dell’area dell’autonomia: una visione aggregativa della costruzione dell’organizzazione, di fronte alla potenzialità rivoluzionaria della classe ed al radicamento crescente di ipotesi ed elementi di organizzazione in essa.

Oggi è sufficientemente maturo un ceto politico rivoluzionario, con conseguente radicamento di idee rivoluzionarie nella classe, perché si imponga un rapporto diretto tra masse ed organizzazione, perché nella classe si sviluppi parallelamente dibattito sull’organizzazione combattente proletaria e sul partito, perché appaia chiaro il nesso tra sviluppo del combattimento e del programma, perché l’azione intelligente dell’organizzazione costruisca la figura del combattente, dell’agitatore del programma, del dirigente dei nuovi processi di organizzazione delle masse. Il processo di costruzione dell’esercito proletario in un paese a capitalismo avanzato passa per l‘intreccio tra organizzazione combattente e istituti di potere della classe.

 

Sulla rappresaglia, sull’attacco alla figura di comando

La storia di atti di rappresaglia in Italia, l’intensificazione nell’ultima fase dell’attacco alle figure di comando impone di dare precise indicazioni politiche a questo proposito. L’intensificazione dello scontro armato in Italia, il precisarsi dell’azione controrivoluzionaria con l’obiettivo di annientare i quadri combattenti – l’ultimo episodio della fucilazione del compagno Lo Muscio insegna – e insieme di sbaragliare la rete operativa e proletaria di movimento, tutto questo fa si che l’eliminazione di un nemico non è più un atto isolato di rappresaglia, ma un’azione precisa contro i corpi più efferati delle truppe della controrivoluzione, contro i centri di comando dell’attacco antiproletario. L’organicità al progetto capitalistico di tutte le forme di attacco controrivoluzionario rende la rappresaglia parte dell’azione generale delle forze combattenti.

Al di là di punte più o meno alte dello scontro, in cui si intensifica l‘azione di guerra, l’azione combattente ha carattere di continuità in ogni suo aspetto: proprio per questo è molto grave quanto è accaduto a Roma nel tentativo di colpire la guardia carceraria Velluto, non è ammissibile l’errore in una azione simile, ai compagni che l’hanno compiuta va la responsabilità di aver fatto arretrare nei proletari la comprensione della necessità dell’attacco, di confondere i contenuti di cui è portatrice l’azione combattente. La decisione di eliminare un nemico oggi è più attuale parallelamente al fatto che lo scontro diviene più duro in ogni suo aspetto, infatti all’altro polo dello scontro di classe l’opera di delazione dei vari momenti del comando decentrato rende necessaria un’azione più dura contro di esso, sia pure calibrata alle necessità. Rispetto all’invalidamento delle figure di comando va detto che all’organizzazione combattente compete la promozione del combattimento proletario su questo terreno e la definizione della sua azione ad un livello di intelligenza e di attacco più alto, e che queste due cose vanno nettamente differenziate, che non vale più la sostituzione del combattimento proletario con l’organizzazione o l’appiattimento di questo tipo di azione ai suoi livelli medi consolidati. Va detto anche qui che l’organizzazione combattente quando sbaglia provoca grossi danni politici a se stessa ed agli altri. In queste settimane ci siamo assunti la responsabilità di alzare il livello di attacco alle figure di comando, parallelamente ad un livello di promozione del combattimento proletario su terreni che in passato erano propri dell’organizzazione: questa è indicazione che vale per tutta la prossima fase. La suddivisione tra i terreni di combattimento dell’organizzazione e del combattimento proletario va definita in modo preciso anche nello scontro con le forze armate della controrivoluzione, dello Stato, in azione complessiva che cominci a rendere impraticabili i modelli con cui esse controllano i territori, bloccano città, entrano nelle fabbriche. La disarticolazione complessiva dell’apparato di comando è indicazione che nasce dalle lotte di questi mesi, passaggio necessario al proseguimento di ogni iniziativa proletaria.

 

Prima Linea

 

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. 263-269.

 

Nucleo fiorentino, Volantino in ricordo di Luca Mantini e Sergio Romeo

La mattina del 29 ottobre 1974 a Firenze cinque militanti dei NAP sono caduti nella premeditata imboscata tesa a loro dai carabinieri di Calamari. I compagni fucilati in Piazza Alberti erano militanti dei NAP e come tali li rivendichiamo. Lo scopo della loro operazione: un esproprio per autofinanziamento e le loro vite sono state stroncate a raffiche di mitra con la precisa intenzione di ottenere il massacro che si è concluso con la morte di due compagni ed il ferimento di altri due: uno dei quali in modo grave. Un compagno è riuscito a fuggire ed è ora in luogo sicuro. Questa logica del massacro premeditato, si ricollega alla fucilazione di Del Padrone (Firenze-Murate), alla strage di Alessandria, alla morte dei compagni uccisi a San Basilio e a Lamezia Terme, tanto per citare gli ultimi fatti che concretizzano la precisa volontà dello Stato dei padroni. Come sempre anche a Firenze i carabinieri hanno aperto il fuoco senza preavviso alcuno contro i nostri compagni, sicuri dell’impunità propria dei lacchè armati dello Stato, garantita e avallata dalla diretta complicità della stampa borghese e revisionista con i suoi falsi, con le sue mistificazioni. La morte di questi compagni prosegue l’infinita lista di quanti da sempre hanno saputo battersi e morire per la libertà anche quando il “comodo politico” di tutti esigeva i più immondi baratti di questo inalienabile valore.

Sappia di illudersi chiunque pensi che la morte di Mantini e Romeo sia un pauroso esempio di repressione che dovrebbe far desistere quanti, proprio da questo esempio, trarranno motivo e momento per effettuare un salto qualitativo definitivo dalla loro lotta.

Mentre le trombe della paura padronale strombazzano la presunta sconfitta dell’organizzazione che per prima porta avanti i toni della lotta armata (Brigate Rosse) queste ottengono dai fatti la loro vittoria che si realizza nel progressivo generalizzarsi di questa scelta a tutti i livelli proletari. Questo nuovo massacro rientra nei precisi disegni del potere che tende a rafforzare, fascistizzando ulteriormente le strutture autoritarie dello Stato, un quadro di pesante ristrutturazione e di svolta a destra già in atto da tempo; e che trova nella politica di delazione e di tradimento della sinistra parlamentare la sua migliore garanzia.

Dalla dinamica dei fatti di Piazza L.B. Alberti emergono incontestabili due dati di fatto:

  • La premeditazione. Intesa come scelta di intervenire nel fatto solo quando fosse stato possibile, secondo i canoni della logica borghese, “giustificare il massacro”.
  • La precisa volontà di uccidere. Essenziale affinché la brillante operazione dei carabinieri fosse esemplare.

Significativa la corsa affannosa della stampa padronale tutta tesa ad esaltare il massacro richiedendo alla pubblica opinione un vasto assenso; negato di fatto nei commenti dei proletari fiorentini nonostante la disinformazione sul fatto specifico.

Mantini e Romeo sono morti coscientemente, avendo accettato a priori una possibilità di questo genere, forti della convinzione che l’unico banditismo esistente sia quello capitalistico; banditismo che si combatte oggi con l’unico mezzo che abbia una possibilità reale di trasformarsi in vittoria: la lotta clandestina, propaganda armata ed anticipo della lotta armata del proletariato.

Ricordiamo a quanti ancora si illudono (in buona o malafede) che la lotta rivoluzionaria sia possibile all’interno di un contesto legale, che la legalità in Italia è firmata Mussolini. Quella cilena è firmata Pinochet. Quella dell’imperialismo mondiale è firmata dalle multinazionali USA.

Il modo in cui sono morti i compagni Mantini e Romeo ci impone di portare i livelli del nostro scontro anche contro gli individui della repressione; ed a questo dato si uniformeranno le nostre prossime azioni. Non si illudano i lacchè armati dello Stato che sia ancora possibile il ripetersi della causa che ha portato al massacro di P.zza Alberti (una delazione esterna è del tutto estranea e distribuita a tutti i suoi componenti) e siano questa volta veramente pronti difendere la loro vita poiché colpiremo come e quando riterremo opportuno sia logico fare affinché i conti tornino pari. Tutti sappiamo che i NAP si muovono all’interno di una logica di lotta totale allo Stato e che a questo principio si uniformeranno per rispondere al massacro di Firenze.

Viva il comunismo, viva i compagni Mantini e Romeo!

 

Nuclei Armati Proletari. Nucleo fiorentino

 

 

Pubblicato in Nuclei Armati Proletari, Quaderno n. 1 di Controinformazione, Milano 1976.

 

Campagna D’Urso, Comunicato N.7

Organizzare la liberazione dei proletari prigionieri. Smantellare il circuito della differenziazione. Costruire e rafforzare i comitati di lotta. Chiudere immediatamente l’Asinara.

 

La lotta dei proletari prigionieri continua. Il giorno 31-12-1980, alle ore 19,15 un nucleo armato della nostra Organizzazione ha giustiziato il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi dell’ufficio di coordinamento dei servizi di sicurezza delle carceri.

1) Avevamo detto che non avremmo accettato nessun tentativo di reprimere le legittime richieste dei Comitati di Lotta con la forza dei sicari dei corpi speciali. La borghesia squassata dalle lotte tra le due diverse fazioni ed il suo Stato in pezzi non hanno saputo e voluto dare alcuna risposta politica ai proletari prigionieri in lotta nel kampo di Trani. Accettare anche solo di discutere con i prigionieri in lotta significava ammettere una realtà ormai storicamente consolidata: che il proletario prigioniero – a pieno titolo inserito all’interno del proletariato metropolitano – da anni conduce una lotta irriducibile per affermare i suoi bisogni, per conquistare il suo programma immediato, per costruire e organizzare la sua liberazione contro i piani della borghesia imperialista che vuole strangolarlo ed annientarlo. La censura sui Comitati di Lotta che il governo ha sempre imposto non è soltanto la volontà di reprimere la loro voce, di impedire che il loro programma rivoluzionario raggiunga pienamente il suo naturale referente dentro e fuori dalle carceri, ma il ridicolo tentativo di negare e quindi di ignorare la loro stessa esistenza. Ma la lotta di classe non si cancella a piacere perché è costruita materialmente giorno per giorno dalle lotte che tutti i proletari conducono per organizzarsi a conquistare i propri bisogni. I Comitati di Lotta non sono un’appendice organizzativa di una qualche organizzazione combattente nelle carceri, ma, come dicono i prigionieri di Trani, sono gli organismi di massa che raccolgono le tensioni, le spinte e la volontà e capacità di lotta di uno strato di classe rinchiuso nelle carceri. La loro forza e la loro capacità offensiva nascono dal loro essere interni allo strato di classe a cui appartengono.

Questo è il significato delle battaglie che negli ultimi tempi hanno distrutto alcuni kampi, delle azioni di lotta che hanno impedito il trasferimento dei prigionieri nell’ex-lager dell’Asinara, della battaglia di Trani. Di fronte a quest’ultima battaglia che ha visto il Comitato di Lotta conquistare con la lotta il controllo del kampo ed il proporsi come interlocutore diretto dell’esecutivo in dialettica con la battaglia iniziata all’esterno con la cattura del boia D’Urso. Il governo ha concentrato – con calcolo e spettacolarità criminali – tutta la potenza dei suoi mercenari-robot più addestrati, ha messo la potenza di un esercito – con l’approvazione di tutte le forze politiche – contro un comitato di lotta che portava avanti precise richieste per soddisfare i bisogni di classe dei proletari prigionieri, allo scopo di affermare l’immagine di un governo forte, senza esitazioni ed efficiente. Un’immagine tutta tedesca, che doveva mettere in ombra le ormai evidenti contraddizioni nelle file della borghesia e dentro lo stesso governo e snaturare, ridimensionare, una prima vittoria che (…) avevano raggiunto con la chiusura definitiva dell’Asinara. Per queste ‘superiori’ esigenze di regime la borghesia imperialista non ha esitato a scatenare i suoi sgherri contro i proletari del kampo di Trani. Questa scelta può essere sembrata vincente, ma solo per un giorno. Alla distanza è destinata a rivelare tutta la sua cecità politica. Questo è già chiaro oggi: lo hanno dimostrato le forze rivoluzionarie giustiziando il generale dei CC Enrico Galvaligi.

2) Nella Risoluzione della Direzione Strategica 80 abbiamo affermato che i CC sono oggi un vero e proprio esercito antiproletario e che il loro vertice è già lo stato maggiore di un apparato per la guerra civile. La strategia di guerra in mano ai militari è oggi affidata in larga e decisiva parte ai CC, che hanno in mano il controllo della ‘struttura speciale’ a cui è affidato il compito di condurre la lotta contro le Organizzazioni Comuniste Combattenti e le forze rivoluzionarie. Questa struttura speciale è una struttura integrata composta da militari, magistrati selezionati, che lavorano a tempo pieno contro la guerriglia. Esso è il cuore strategico militare dello stato imperialista e contro di esso va esercitato ogni sforzo per annientarlo. Accettare la guerra nell’attuale congiuntura significa passare all’offensiva – senza accettare lo scontro frontale – praticando il livello della guerra sui terreni scelti della guerriglia. Significa quindi che la guerriglia deve creare la capacità di operare una selettività a partite dai ruoli e dalle funzioni della struttura speciale predisposta per l’antiguerriglia. Perché se il potere ha inferto colpi al movimento della classe e alle sue avanguardie combattenti non è affatto il momento di stare sulla difensiva ma al contrario di sferrare colpi dieci volte maggiori e più terrificanti nelle fila della borghesia.

3) Chi era il generale dei CC Ernico Galvaligi: era il braccio destro di Dalla Chiesa da tempi molto lontani. Insieme al suo degno compare aveva organizzato l’Ufficio di coordinamento per i servizi di sicurezza nelle carceri e, in concreto, aveva realizzato e pianificato, le modalità della strategia di guerra nel carcerario. Ai Carabinieri come Dalla Chiesa e Galvaligi, la borghesia ha affidato il compito di reprimere la lotta dei proletari prigionieri, di frenare le spinte rivoluzionarie e di impedire l’attuazione del loro diritto alla liberazione, è loro compito di garantire l’internamento per sempre, la segregazione e l’annientamento dei prigionieri più combattivi e delle forze rivoluzionarie catturate. Questi ‘eroici’ militari devono garantire la ristrutturazione del carcerario e l’attuazione dei livelli di differenziazione necessari. Ad essi il compito di cingere d’assedio i kampi, di isolarli. Ad essi il compito di comandare le altre forze militari e civili adibite alla repressione nelle carceri. Questa è la storia dell’Ufficio di coordinamento per i servizi di sicurezza nelle carceri che questi due generali organizzavano, a partire dal 1978 con la delega del Parlamento e l’accordo dei vertici del Ministero di Grazia e Giustizia, dei vari Molino, Altavista, Sarti. Galvaligi rappresentava la continuità delle linee dell’intervento dei CC dentro il Ministero di Grazia e Giustizia e, proprio per questo, il boia D’Urso lo conosceva bene. Erano due facce della stessa medaglia.

4) La battaglia iniziata con la cattura del boia D’Urso continua e nel proseguimento di essa le Br sono incondizionatamente al fianco dei Pp in lotta. Continueremo a combattere sul fronte delle carceri al fianco dei Comitati di Lotta. Il loro programma risponde ai bisogni ed alle esigenza del proletariato prigioniero, ed è il frutto di una grande unità e di una grande mobilitazione di massa. Combatteremo perché gli obiettivi di questo programma vengano perseguiti, e perché venga sconfitto il muro di omertà e di censura che il regime sta tentando di costruire intorno ad esso.

 

Per il Comunismo

Brigate Rosse

Roma, 1-1-81.

 

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

Alcune questioni per la discussione sull’organizzazione

Documento interno

Alcune questioni per la discussione sull’Organizzazione
1. L’Organizzazione politico-militare.

“La lotta politica tra le classi non può più essere sviluppata senza una precisa capacità militare”. Da questa convinzione è nata nel novembre del 1970 la nostra scelta di procedere alla costruzione di una avanguardia proletaria armata. I criteri che abbiamo posto a fondamento di questo passaggio sono noti ma li ricapitoliamo:

· Punto di origine del nuovo capitolo rivoluzionario sono le avanguardie politiche della classe operaia delle grandi fabbriche dei poli industriali e metropolitani;

· È dai bisogni politici di questo strato rivoluzionario che siamo partiti per la costruzione dell’avanguardia rivoluzionaria armata;

· Per avanguardia armata non abbiamo inteso il braccio armato di un movimento di massa disarmato, ma il suo punto di unificazione più alto, la sua prospettiva di potere. L’avanguardia armata cioè è sin dal suo nascere il potere rivoluzionario delle classi sfruttate che lottano contro il sistema per la formazione di una società e di uno Stato comunista;

· L’avanguardia proletaria armata pur nascendo nella più rigorosa clandestinità non rinuncia a svolgersi per linee interne alle forze dell’area dell’autonomia operaia.

2. La clandestinità.

La questione della clandestinità si è posta nei suoi termini reali solo dopo il 2 Maggio ’72. Fino ad allora, impigliati come eravamo in una situazione di semilegalità, essa era vista più nei suoi aspetti tattici e difensivi che nella sua portata strategica. Inoltre il pregiudizio che mette in opposizione ‘clandestinità’ e ‘linea di massa’ rallentava la presa di coscienza. Fu l’offensiva scatenata dal potere contro l’organizzazione il 2 maggio che cancellò ogni dubbio sul fatto che la clandestinità è una condizione indispensabile per la sopravvivenza di un’organizzazione politico-militare offensiva che operi all’interno delle metropoli imperialiste.

Il 2 maggio cominciammo così a costruire l’avanguardia proletaria armata a partire dalla più ermetica clandestinità. Come abbiamo detto nel primo punto però la condizione di clandestinità non impedisce che l’organizzazione si svolga per linee interne alle forze dell’area dell’autonomia operaia. Oltre alla condizione di clandestinità assoluta si presenta perciò, nella nostra esperienza, una seconda condizione in cui il militante pur appartenendo all’organizzazione opera ‘nel movimento’ ed è quindi costretto ad apparire e muoversi nelle forme politiche che il movimento assume nella legalità. Questo secondo tipo di militanza clandestina da un punto di vista politico è alla base della costruzione delle articolazioni del potere rivoluzionario; da un punto di vista militare è a fondamento dello sviluppo delle milizie operaie e popolari. Operare ‘a partire dalla clandestinità’ consente un vantaggio tattico decisivo sul nemico di classe che vive invece esposto nei suoi uomini e nelle sue installazioni. Questo vantaggio viene completamente annullato quando la clandestinità è intesa in un senso puramente difensivo. La concezione difensiva della clandestinità sottintende o nasconde l’illusione che lo scontro tra borghesia e proletariato in ultima analisi si giochi sul terreno politico piuttosto che su quello della guerra e cioè che gli aspetti militari siano in fondo solo aspetti tattici e di supporto. Questa concezione errata è ancora presente all’interno di alcune ‘assemblee autonome’ come quella dell’Alfa Romeo, ad es. quando dice: “riteniamo che in questo momento storico la direzione politica debba essere completamente responsabile di fronte alle masse, pur sviluppando funzionali modelli di clandestinità necessari per la sopravvivenza della organizzazione rivoluzionaria”. Ma è chiaro a tutti che si confonde qui, quando si dice: “la direzione politica deve essere responsabile di fronte alle masse”, l’essere una ‘organizzazione legale’ con l’essere una ‘organizzazione riconosciuta’. Si fa passare cioè un problema politico (essere direzione riconosciuta) per un problema organizzativo (essere una organizzazione legale). E si finisce per non capire che si può essere ‘direzione riconosciuta’ anche senza essere una ‘organizzazione legale’.

3. L ‘impostazione offensiva.

Il problema della guerra, dell’attualità della lotta armata intesa come risvolto proletario della crisi di regime, non è un problema di difesa degli spazi politici minacciati, di ‘difesa della democrazia’. Al contrario è un problema di attacco, di lotta armata per il comunismo. La nostra è dunque un’organizzazione che in questa prospettiva si costruisce per una guerra di movimento. Essa è lo strumento dell’iniziativa tesa a costringere la borghesia sul terreno della difesa di un numero di obiettivi sempre più elevato, sempre più esteso nello spazio, sempre più vario nella qualità. Proprio questa impostazione richiede il rispetto di due principi che sono anche due vantaggi pratici: l’alta mobilità e l’agilità delle strutture. L’alta mobilità dobbiamo intenderla come capacità di mutare continuamente i punti ed i fronti dell’attacco in modo da rompere in continuazione l’accerchiamento, non fornire bersagli fissi e obbligare il nemico di classe ad una perenne rincorsa. L’agilità delle strutture vuol dire invece che in questa fase della guerra le colonne non devono subire il condizionamento di strutture organizzative pesanti. Le installazioni pesanti, nella misura in cui sono indispensabili devono perciò essere governate direttamente dal fronte logistico centrale.

4. Vivere tra le masse.

Il nostro punto di vista è che la lotta armata per le caratteristiche storiche e sociali del nostro paese deve essere condotta da un’organizzazione che sia diretta espressione dell’avanguardia del movimento di classe operaia. In questa fase dobbiamo perciò sviluppare un’azione di guerriglia legata ai bisogni politici di questa avanguardia. Radicare la lotta armata nel movimento vuol dire in primo luogo costringere l’avanguardia del movimento a praticare direttamente la lotta armata. Sempre più la nostra iniziativa militare dovrà essere condotta insieme al popolo. Una porzione crescente di movimento dovrà cioè essere coinvolta nella nostra iniziativa militare. Particolare attenzione dobbiamo fare all’impostazione del rapporto tra organizzazione e popolo, tra fronti e popolo. Ora se per il fronte di massa il problema del rapporto tra fronte e popolo si è venuto chiarendo via via che procedeva l’esperienza delle brigate, per gli altri due fronti si tratta di fare un grande sforzo creativo per evitare che affermino tendenze ripetitive non necessariamente giustificate dati i differenti compiti e i diversi ambiti. Anche nel fronte di massa però si deve fare uno sforzo creativo superiore per far assumere alle Br una effettiva dimensione di potere rivoluzionario locale.

5. Le colonne.

La nostra scelta strategica di sviluppo dell’organizzazione per poli implica da un punto di vista organizzativo un analogo processo di crescita per colonne. La colonna è l’unità organizzativa minima che riflette, sintetizza e media al suo interno tanto la complessità del polo e delle sue tensioni che la complessità dell’organizzazione, la sua impostazione strategica e la sua linea politica. Le colonne sono unità politico-militari complessive. Esse cioè sono in grado di operare su tutti i fronti all’interno di un polo di classe significativo. Da un punto di vista politico esse si centralizzano attraverso la direzione strategica e i fronti. Da un punto di vista organizzativo esse sono indipendenti, e cioè contano su di un proprio apparato. La formazione di nuove colonne deve avvenire per partenogenesi e non per aggregazione di nuovi elementi.

6. La compartimentazione.

La compartimentazione è una legge generale della guerra rivoluzionaria nella metropoli. Ed è uno dei principi fondamentali della sicurezza della nostra organizzazione. La nostra esperienza ha dimostrato che chi trascura questa legge o non la applica con assoluto rigore è destinato inevitabilmente alla distruzione. Marighella: “Dobbiamo evitare che ognuno conosca gli altri e che tutti conoscano tutto. …Ognuno deve sapere solo ciò che riguarda il suo lavoro”. Che: “Nessuno, assolutamente nessuno deve sapere in condizioni di clandestinità altro che lo strettamente indispensabile e non si deve mai parlare davanti a nessuno”.

Nella nostra organizzazione è necessario realizzare una compartimentazione verticale (tra le varie istanze a tutti i livelli) e orizzontale (tra le colonne, tra i fronti, tra le brigate, tra i compagni di uno stesso organismo). È necessario ricordare però che anche la struttura meglio compartimentata non reggerebbe a lungo senza una reale discrezione dei militanti. La discrezione in altri termini è una regola di condotta fondamentale per un guerrigliero urbano. Compartimentazione non vuol dire ‘compartimentazione di un dibattito politico e di tutte le informazioni’. È il comitato esecutivo (CE) e sono i vari fronti che per evitare questo pericolo devono garantire ed estendere la pratica delle relazioni informative e politiche e dei bilanci di esperienza che consentano pur in una situazione di compartimentazione organizzativa assoluta il più ampio dibattito politico.

7. I Fronti

I fronti sono una acquisizione recente della nostra esperienza organizzativa. Essi sono stati costruiti per rispondere al bisogno di elaborazione di organizzazioni di lotta in settori politici specifici (es. grandi fabbriche, controrivoluzione). Non sono strutture di servizio. I fronti tagliano e percorrono l’organizzazione verticalmente. Essi pertanto sono i canali più idonei ad assolvere al compito della centralizzazione del dibattito politico. I fronti da potenziare in questa fase sono tre: il fronte delle grandi fabbriche; il fronte di lotta alla controrivoluzione; ed il fronte logistico.

Il fronte di lotta alla controrivoluzione deve porsi come obiettivo la conquista degli avamposti strategici per la sua esistenza, ed inoltre: il perfezionamento dell’apparato di informazione, lo sviluppo dell’attacco allo Stato già iniziato con la campagna Sossi ed una linea di condotta che porti ad affermare l’egemonia del nostro discorso strategico sulle forze dell’antifascismo militante. Il fronte logistico in primo luogo deve esistere. Poi i suoi compiti sono definiti dalla necessità di perfezionare e sviluppare le strutture logistiche (basi, strumenti, mezzi, documenti); militari (armamento ed istruzione militare); industriali (laboratori) e di assistenza (medica e legale e di latitanza).

8. Forze regolari e forze irregolari

La nostra organizzazione si appoggia su due tipi di forze. Le forze regolari e le forze irregolari. Entrambe sono essenziali per la nostra esistenza, ma giocano un ruolo diverso. Le forze regolari sono composte dai quadri più consapevoli e disponibili che la lotta armata ha prodotto. Esse sono completamente clandestine ed i militanti che le compongono hanno tagliato ogni genere di legami con la legalità. La nostra esperienza dimostra che senza forze regolari è impossibile creare ed edificare basi rivoluzionarie stabili come le colonne e i fronti. Le forze regolari hanno dunque un carattere strategico e i loro compiti fondamentali sono definiti dalle esigenze di sopravvivenza e sviluppo dei fronti e delle colonne. Anche le forze irregolari – brigate o cellule che siano – hanno un carattere strategico, ma i militanti di queste forze vivono nella legalità. La loro è una clandestinità d’organizzazione, ma non personale. È questa collocazione che impone dei limiti alla loro iniziativa e sono questi limiti ‘oggettivi’ che definiscono le differenze con le forze regolari. Gli operai partigiani delle forze irregolari svolgono però una funzione tanto più decisiva quanto più lo scontro civile è sviluppato. Esse hanno due compiti fondamentali: conquistare all’organizzazione il più ampio sostegno popolare; costruire i centri e le articolazioni del potere rivoluzionario. Da un punto di vista politico, non vi è differenza tra i militanti delle forze regolari e delle forze irregolari. Entrambi concorrono con parità di diritti e di doveri a far rivivere la linea politica generale dell’organizzazione. Per questo anche i militanti delle forze irregolari possono far parte della direzione strategica dell’organizzazione, anche se ovviamente nessuno di loro potrà far parte delle direzioni dei fronti, delle colonne o del comitato esecutivo.

9. La direzione strategica

All’origine della nostra storia c’è un nucleo di compagni che operando scelte rivoluzionarie si è conquistato nel combattimento un ruolo indiscutibile di avanguardia. Questo nucleo storico ha portato sin qui l’organizzazione sottoponendo nella misura del possibile ogni scelta fondamentale, le vittorie e le sconfitte, alla discussione dei compagni delle forze regolari e delle forze irregolari. Oggi con la crescita dell’organizzazione e della sua influenza, della sua complessità e delle sue responsabilità politiche e militari, questo nucleo storico è di fatto insufficiente. Si impone cioè una ridefinizione e un ampliamento del quadro dirigente complessivo dell’organizzazione. Si propone pertanto alla discussione dei compagni la formazione di un consiglio rivoluzionario che raccolga e rappresenti tutte le tensioni e le energie rivoluzionarie maturate nei fronti, nelle colonne e nelle forze irregolari. Questo consiglio dovrà essere la massima autorità delle Br. A questo consiglio dovrà essere riconosciuta la funzione indiscutibile di direzione strategica dell’organizzazione. Sarà esso a formulare gli orientamenti generali e di linea politica dell’organizzazione. Dovranno essergli riconosciuti inoltre da parte di tutti:

· il diritto di emanare ed applicare leggi e regolamenti rivoluzionari;

· il diritto di giudicare ed applicare correzioni disciplinari nei confronti di quei membri dell’organizzazione che abbiano tenuto un comportamento scorretto o controrivoluzionario;

· il diritto di approvazione e revisione dei bilanci;

· il diritto e il potere di modificare le strutture dell’organizzazione.

Il consiglio potrà essere riunito normalmente una o due volte ogni anno e straordinariamente quando ciò sia richiesto da almeno una colonna, da un fronte o dal CE. Esso nominerà per il governo quotidiano dell’organizzazione un CE.

10. Il comitato esecutivo.

Al CE spetta il compito di dirigere e coordinare l’attività del fronte e delle colonne oltre che i rapporti dell’organizzazione tra un consiglio e l’altro. Al CE possono essere collegati anche nuclei o individui che svolgono la loro militanza individualmente. Esso risponde del suo operato direttamente ed esclusivamente al consiglio e da questo viene nominato e può essere revocato.

Nel CE devono essere rappresentati i tre fronti in modo da consentire una efficace centralizzazione delle informazioni e una rapida esecuzione delle direttive. Tutte le azioni militari di carattere generale che investono nel suo complesso l’organizzazione dovranno essere approvate dal CE. All’occorrenza per decisioni particolarmente importanti l’Esecutivo può ricorrere alla consultazione dei rappresentanti delle colonne. Al CE spetta la responsabilità dell’amministrazione dei beni e del patrimonio dell’organizzazione.

Avviso.
Queste note non sono il punto di arrivo della discussione sulla organizzazione bensì un punto di partenza. Ovviamente esse sono modificabili e integrabili. La discussione nei fronti e nelle colonne e con le forze irregolari deve portare oltre che ad una redazione finale anche alla identificazione della direzione strategica.

Campagna D’Urso – Comunicato n. 8

ORGANIZZARE LA LIBERAZIONE DEI PROLETARI PRIGIONIERI
SMANTELLARE IL CIRCUITO DELLA DIFFERENZIAZIONE
COSTRUIRE E RAFFORZARE I COMITATI DI LOTTA
CHIUDERE IMMEDIATAMENTE L’ASINARA

1. L’interrogatorio del boia D’Urso è giunto a conclusione ed ha confermato in pieno il suo ruolo infame di massacratore di proletari. Questo “tecnico” chiamato a Roma ed istruito dai maiali del Ministero di Grazia e Giustizia ha saputo svolgere fino in fondo la parte che la borghesia imperialista gli ha affidato. L’ha fatto diligentemente, con deliberazione e logica di gelido burocrate, che archiviando cartacce doveva archiviare la morte civile di centinaia di esseri umani.

D’Urso è stato un vero e proprio stakanovista della differenziazione e dell’annientamento, capace di dedicare il giorno e la notte sul suo “dignitoso lavoro per guadagnarsi il pane’”, come dice lui; per guadagnarsi promozioni e quattrini sulla pelle dei proletari, come è nella realtà. Altro che un onesto padre di famiglia e un lavoratore! D’Urso è stato il più vile e feroce dei servi della banda imperialista al governo!

Alcune cose sono emerse dall’interrogatorio a cui il boia è stato sottoposto nella prigione del popolo:

– D’Urso è stato al Ministero di Grazia e Giustizia il continuatore della “vecchia guardia che ora non c’è più’”, come ha detto lui. Il boia della seconda generazione dopo i Palma, i Tartaglione, gli Altavista, i Minervini, i Buondonno. E’ stato una rotella essenziale dell’infernale macchina che è la strategia differenziata, perché ha consentito che i piani per l’annientamento, elaborati a tavolino da belve travestite da esperti come Di Gennaro e Beria D’Argentine, con la delega di ministri “riformisti’” come Zagari, Bonifacio, Morlino e Sarti, potessero andare avanti e perfezionarsi. D’Urso e il suo ufficio sono stati l’avamposto, la zona di frontiera nella repressione del movimento dei proletari prigionieri e delle forze rivoluzionarie. Se è vero che questo “disgraziato di provincia” non è all’altezza degli illustri pescecani della differenziazione, abituati a frequentare il palcoscenico internazionale, e non è l’unico responsabile della strategia differenziata, è anche vero che ne è stato l’esecutore diligente e più convinto. Solo la sua mentalità nazista può consentirgli di affermare di essere sì un massacratore di proletari, ma senza colpe, perché qualcuno più in alto glielo ha ordinato.

– D’Urso ha portato a perfezionare la macchina carceraria come gli interrogatori già noti hanno confermato. E’ stato l’uomo della magistratura di guerra e dei Carabinieri dentro il Ministero di GG. L’uomo dei Sica, Gallucci, Caselli, complice dei Galvaligi, dei Risi, sempre pronto ad eseguire i suggerimenti di morte raccomandatigli dai magistrati, poliziotti e carabinieri; e quindi assegnare, trasferire e seppellire i prigionieri più combattivi nei lager più disumani. Sempre pronto a far finta di non vedere ciò che questi massacratori facevano, quando si trattava di torturare, quando si trattava di torturare dei singoli combattenti al momento della cattura, di tortura di massa dei prigionieri dopo le azioni di lotta, di sadica gestione degli aguzzini ai suoi ordini nei vari kampi. L’Asinara per D’Urso era soltanto un’isola, la più sicura per i proletari più combattivi; che fosse invece il mortale prodotto di una strategia d’annientamento in mano ad un pazzo criminale come Cardullo non era per lui rilevante.

Ad un solo tipo di prigionieri D’Urso ha dedicato le sue amorevoli cure: agli infami venduti. Per qualcuno è giunto persino a scordarsi di averlo in carcere.

– D’Urso è un “boia pentito’”, non certo per ravvedimento tardivo, ma più concretamente per scelta immediata per salvare la pelle. La sua piena collaborazione apre oggi una nuova contraddizione nel fronte imperialista, riversando al suo interno un problema su cui continuamente ha battuto la gran cassa e che non è mai stato del movimento rivoluzionario: la questione dei pentiti e della cosiddetta amnistia. Le chiacchiere che sulla stampa di regime hanno visto impegnato tutto lo schieramento borghese, dai cosiddetti garantisti ai più loschi personaggi delle bande di potere, sono diventate solo rumore di fondo di fronte all’iniziativa combattente. La borghesia ed il suo regime sono costretti oggi a risolvere una loro contraddizione, perché di questo si tratta: c’è un boia della borghesia “pentito” e che collabora con la giustizia proletaria. E’ chiaro a questo punto che ciascun mercenario, tecnico, funzionario vede in D’Urso la sua immagine come riflessa in uno specchio. Ci vorrà ben altro che depennare dalla pubblicazione del suo interrogatorio i nomi di decine di aguzzini per tranquillizzarli del fatto che ad essi spetta la sorte del carabiniere Galvaligi. Se la guerriglia è arrivata ad un supergenerale dei corpi speciali, figurarsi se non saprà colpire i topi annidati nei covi ministeriali.

– Per noi e per il movimento rivoluzionario il processo D’Urso si chiude qui. Di fronte alla morte fisica e politica di centinaia di proletari prigionieri che D’Urso ha cinicamente perseguito in questi anni, e alla piena consapevolezza che aveva del suo ruolo, la sentenza non può essere che di condanna a morte.

La condanna a morte del boia D’Urso è un atto necessario di giustizia proletaria, ed è anche il più alto atto di umanità che questo regime ci consente.

2. La Lotta dei proletari prigionieri continua. Nella battaglia del 28 dicembre il Comitato di Lotta di Trani affermava tra l’altro: “In questo modo i proletari prigionieri di Trani si dialettizzano con le Brigate Rosse trasformando l’aguzzino D’Urso in un loro prigioniero”. Il Comitato di Lotta è l’organismo di massa che rappresenta nei kampi la forma organizzata del potere proletario armato. E’ questa una forma organizzata autonoma, propria dei proletari prigionieri, ne rappresenta i bisogni, sintetizza il loro programma di potere in obiettivi di lotta, guida la potenzialità di questo strato di classe. Per questo i Comitati di Lotta dei kampi e gli altri organismi di massa sono, nei fatti, una delle determinazioni fondamentali e irrinunciabili del potere proletario armato. Le Brigate Rosse agiscono da partito per costruire il Partito Combattente. Non c’è quindi un rapporto di identificazione tra le Brigate Rosse e gli organismi di massa rivoluzionari, né l’uno è subordinato all’altro. C’è invece un rapporto di stretta dialettica tra Partito e organismi di massa rivoluzionari, il cui insieme costituisce il potere proletario armato. Questa dialettica consente un’azione congiunta contro la strategia imperialista, e dà vita ad uno scontro di potere di un’efficacia senza pari. La campagna di combattimento che si è sviluppata contro le carceri imperialiste con un insieme di battaglie condotte dai proletari prigionieri e con l’iniziativa di partito delle Brigate Rosse, si colloca dentro questa strategia di costruzione del potere proletario armato.

Confermiamo e ribadiamo, contro le mistificazioni del regime, che le Brigate Rosse appoggiano incondizionatamente il programma e gli obiettivi che gli organismi di massa dentro le carceri si sono dati. Ad essi non accordiamo una generica ed inutile solidarietà a parole, ma continueremo su questo terreno l’attacco allo stato imperialista, perché si rafforzi e consolidi il potere proletario armato nelle carceri e gli obiettivi del suo programma vengano raggiunti. La lotta dei proletari prigionieri, il programma dei Comitati di Lotta, come avevamo già affermato, ci riguardano direttamente. E riguardano anche il boia D’Urso. Siamo perfettamente d’accordo con i proletari di Trani quando dicono che D’Urso è anche loro prigioniero. Per quanto ci riguarda abbiamo già emesso un giudizio secondo i criteri della giustizia proletaria, ed essa corrisponde sicuramente a quanto ogni proletario ha già decretato. La condanna a morte di D’Urso è sicuramente gusta, ma l’opportunità di eseguirla o di sospenderla deve essere valutata politicamente. Questo spetta oltre che alle BR, esclusivamente agli organismi di massa rivoluzionari dentro le carceri. Ad essi solo spetta valutare gli obiettivi già raggiunti dalle battaglie fin qui condotte, ad essi la valutazione esatta dei rapporti di forza che hanno consentito una significativa avanzata nella realizzazione del programma immediato dei proletari prigionieri. Questa voce, per decidere se eseguire o sospendere l’esecuzione D’Urso, è l’unica che ci interessa sentire. Vogliamo essere più espliciti: non deve essere impedito al Comitato di Lotta di Trani, al comitato di kampo dei prigionieri di Palmi di esprimere integralmente, senza censurare neanche le virgole, le loro valutazioni politiche e il loro giudizio.

Questo vogliamo sentirlo dai vostri strumenti radiotelevisivi, leggerlo sui maggiori quotidiani italiani, così come avevano chiesto i proletari di Trani in lotta. La repressione e la censura nei confronti degli organismi di massa dei kampi troverà da parte nostra la più dura e decisa opposizione, e sapremo assumerci tutte le nostre responsabilità. Questo regime ci ha dato più volte prova che è solo capace di essere tanto feroce quanto stupido, ciò nonostante vogliamo fornire a chi tra le fila della borghesia ha ancora un minimo di ragionevolezza, un’ultima occasione di rendersi conto che il movimento dei proletari prigionieri non può essere annientato, perché non si lascerà annientare.

 

Brigate Rosse

Roma, 4-1-1981

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. 215-217.

Tutte le strutture del Movimento Comunista Organizzato Veneto

La rivoluzione comunista non si arresta

Mobilitazione immediata ed eccezionale a Padova, in tutto il Veneto, a livello nazionale, di tutti i compagni, di tutti i comunisti, delle organizzazioni rivoluzionarie, di tutte le strutture organizzate e di massa del movimento proletario, di tutti gli strumenti politici comunisti d’informazione.

Oggi, 7 aprile 1979, è scattata una vasta ed eccezionale operazione militare contro compagni, organizzazioni, strumenti politici del movimento comunista organizzato. Dalle prime notizie parziali, mentre viene scritto questo primo comunicato, l’operazione delle bande armate legalizzate di regime è a livello nazionale. Sono stati sequestrati molti compagni. (…) Sono stati criminalizzati i giornali del movimento, Rosso, Controinformazione, Autonomia e Metropoli con tutte le loro redazioni. L’accusa centrale è di “avere organizzato e diretto una associazione denominata Potere Operaio e altre analoghe associazioni variamente denominate collegate fra loro e riferibili tutte alla cosiddetta autonomia operaia organizzata…, inoltre per avere organizzato e diretto un’associazione denominata Brigate Rosse, costituita in banda armata con organizzazione paramilitare…”.

Gli ordini di cattura sono firmati dal P.M. Calogero Pietro – 22 ordini di cattura per banda armata e una settantina di comunicazioni giudiziarie per associazione a delinquere – noto a tutti i compagni per avere condotto, due anni fa, un’analoga operazione contro l’autonomia operaia veneta. Operazione, allora, fallita e smontata, pezzo per pezzo dall’intelligenza, dall’iniziativa dei comunisti. Compagni, occorre sconfiggere anche in questa occasione, in tutta la ricchezza del movimento, questo violento, pericoloso e idiota tentativo di annientamento fisico e organizzativo delle avanguardie operaie e proletarie. Per l’ampiezza, il blitz rappresenta il più alto colpo banditesco delle strutture armate statali di questi ultimi dieci anni. In queste ultime settimane gli strumenti di persuasione e di formazione del consenso, dalla Rai ai giornali, hanno orchestrato una campagna terroristica contro l’autonomia operaia, padovana in particolare, con lo scopo di preparare l’opinione pubblica sull’inevitabilità di una operazione preventiva di repressione contro proletari e strutture collettive “socialmente pericolose”. Dentro questo coro di fedeli servi ed esecutori delle direttive del cervello capitalistico si distinguono i piciisti. In prima linea nel richiedere misure eccezionali, senza indugi, hanno dato l’esempio spiando, denunciato compagni che hanno l’unica colpa, per loro!, di lottare per la liberazione proletaria dallo sfruttamento capitalistico. Non servono altre parole per ‘schedare’ questi individui. Il proletariato ha un’abitudine a ricordare, cari compromessi, e molta ma molta pazienza. Se in queste ore gioite perché lo Stato vi ha tolto, lo credete davvero?, dai vostri sogni inquieti e compromessi lo spettro del comunismo, della lotta comunista organizzata, dell’autonomia proletaria, diffusa e di classe, dalla logica delle regole che sovraintendono il sistema di dominio capitalistico, non vi illudete, non riuscirete, come nel passato, ad esorcizzare i comportamenti antagonisti di classe con la semplice collaborazione data alle teste di cuoio di Dalla Chiesa – di cui attendevamo l’arrivo – che da oggi scorrazzano per i territori del Veneto. Le accuse lanciate dal Calogero Pietro e da chi gli ha dato le direttive sono ridicole e provocatorie – hanno messo di tutto per potere confezionare con più credibilità possibile il loro gioco – perché sono messe sotto accusa le lotte, le forme di lotta, i comportamenti, la pratica militante che il proletariato ha costruito e organizzato dal 68 ad oggi. È questa l’accusa che noi gettiamo, con tutta la ricchezza e la superiorità politica e morale dei proletari e dei comunisti, contro i vostri uomini e le strutture che sorreggono questo sistema bestiale di sfruttamento. Compagni, la mobilitazione da oggi e per i prossimi giorni deve essere generale, complessiva. Tutte le strutture proletarie sono chiamate a esprimere l’intera articolazione del programma proletario.

Non ci sono tentennamenti che tengono. Chi si dichiara compagno, deve schierarsi, deve impegnarsi per la liberazione immediata, da subito, dei compagni arrestati, per la mobilitazione di massa, per la sconfitta delle manovre antiproletarie e anticomuniste del nemico di classe. A Calogero, alla Procura della Repubblica, alle cricche di vertice dei partiti e in particolare ai compagni di Berlinguer, all’antiterrorismo e, perché no?, al super generale Dalla Chiesa Alberto, ricordiamo che la posta in gioca questa volta è alta e che, quindi, ognuno si assuma le sue responsabilità. Seguiranno altri comunicati. Tutti i compagni devono essere rilasciati.

Avvertiamo i delinquenti della pericolosità di eventuali maltrattamenti sul fisico dei compagni arrestati. La mobilitazione nazionale e regionale sarà ininterrotta fino alla liberazione dei compagni sequestrati. Smascherare il ruolo controrivoluzionario e poliziesco dei piciisti. Senza tregua!

TUTTE LE STRUTTURE DEL MOVIMENTO COMUNISTA ORGANIZZATO VENETO

Padova, 7-4-79.

Rivendicazione azione contro Ezio Tarantelli

Il 27 marzo 1985 un nucleo armato della nostra Organizzazione ha giustiziato Ezio Tarantelli, uno dei massimi responsabili dell’attacco al salario operaio e alla storia di conquiste politiche e materiali del proletariato nel nostro paese.
Chi era Ezio Tarantelli? Quello che con molta fantasia la borghesia definisce “un professore”, “uno studioso” dei problemi delle relazioni industriali, era in realtà uno dei più autorevoli esponenti tecnico – politici al servizio del grande capitale, che “lavorano” al tentativo di far fronte alla crisi economica della borghesia in uno dei suoi aspetti sociali fondamentali: quello cioè della regolamentazione istituzionale del rapporto antagonistico tra le classi riferito alle condizioni e ai meccanismi di compravendita della forza-lavoro; della ratifica, quindi, giuridico-legislativa dei più generali rapporti di forza tra classe operaia e padronato, dal punto di vista degli interessi borghesi.
Non a caso il “professore” esce da quel covo internazionale di politiche antiproletarie di oppressione imperialista che è il MIT, una delle centrali a livello mondiale della politica economica e finanziaria del grande capitale multinazionale, nucleo operativo responsabile ai massimi livelli tanto dello sfruttamento proletario nei paesi a capitalismo avanzato che della rapina, dell’affamamento e dell’oppressione dell’imperialismo occidentale di 3/4 della popolazione mondiale. Il “brillante professore” è qui che ha appreso l’arte e le tecniche dello sfruttamento capitalistico ed è qui che tornava costantemente ad aggiornarsi, nel caso gliene fosse sfuggita qualcuna.
Massimo esperto economico della CISL, presidente dell’Istituto di Studi di Economia del Lavoro, ex consulente della banca d’Italia, è stato l’ideatore delle più importanti tappe che hanno scandito la politica economica degli ultimi governi, dalla riforma del mercato del lavoro (chiamata nominativa, mobilità, part-time, ecc.) a quella del salario (congelamento e predeterminazione-taglio dei punti di contingenza, diversificazione salariale agganciata alla produttività) a quella più generale della contrattazione centralizzata Governo-Confindustria-sindacati, secondo il modello neocorporativo che si è rivelato nei fatti il più efficace per la borghesia nel perseguire il drastico ridimensionamento del peso complessivo della classe operaia. Il reazionario “patto sociale” con i suoi rivoltanti “scambi politici” ridefinisce il ruolo del sindacato che, specialmente in certi suoi settori, ne è il diretto promotore, considerando ormai marginale la sua attività aziendale e privilegiando la compartecipazione diretta all’elaborazione e gestione delle politiche ristrutturali.
La crisi economica che da oltre un decennio lacera il sistema capitalistico occidentale, da una parte accentua la concorrenza intermonopolistica e, dall’altra, esige l’ attacco diretto alla classe nel tentativo di piegarla alle misure anticrisi. La ristrutturazione dell’apparato produttivo tesa ad abbassare i costi per unità di prodotto non fa che accentuare le contraddizioni in campo borghese e inasprire i termini della concorrenza. Tutte le controtendenze messe in campo non fanno che chiarire ancora una volta l’impossibilità per la borghesia di risolvere la sua crisi se non attraverso un’unica soluzione: la guerra imperialista, la distruzione cioè di mezzi di produzione, merci, forza-lavoro, capitali sovrapprodotti ed “obsoleti”, nel quadro di una maggior centralizzazione e concentrazione di capitali e di un nuovo ordine mondiale dettato dai monopoli multinazionali più forti. Questo disegno trova di fronte a sé un formidabile ostacolo rappresentato dall’antagonismo della classe operaia a farsi compartecipe di questo “nuovo” patto sociale a sostegno degli interessi della borghesia per risolvere la sua crisi.
Per questo la sconfitta politica del Proletariato è, per la borghesia, un obiettivo capitale e di primaria importanza.
Congiunturalmente quest’obiettivo si traduce nell’elaborazione e messa in opera di un progetto di patto neocorporativo che caratterizza la più generale ridefinizione in senso reazionario dei rapporti sociali. La ristrutturazione delle relazioni industriali e del ruolo stesso dei sindacati e dei partiti va nel senso della ridefinizione delle funzioni delle rappresentanze istituzionali del proletariato allo scopo dichiarato di pacificare lo scontro sociale sulla pelle della classe operaia.
In questo quadro deve essere collocata l’offensiva antiproletaria che ha oggettivamente ributtato sulla difensiva il movimento di classe. L’obiettivo che la borghesia si propone è la frammentazione del fronte proletario in una babele di microinteressi conflittuali che, se trovasse la via libera da resistenze, porterebbe ad una sconfitta storica della classe; ad una pacificazione mortifera del fronte interno situazione ideale per affrontare le scadenze della dominante tendenza alla guerra imperialista.
Il contributo dato all’elaborazione e all’esecuzione di questa politica dal “professore” è ulteriormente chiarito dalle prossime scadenze a cui “lavorava”: la proposta di riduzione dell’orario di lavoro, cavallo di battaglia della CISL in questi ultimi mesi. La dimostrazione più evidente dello spirito antiproletario, demagogico, mistificatore e in perfetta sintonia con i piani confindustriali sta nel fatto che tale riduzione è finalizzata a null’altro che all’aumento della produttività, tramite l’introduzione selvaggia della flessibilità, della mobilità, del part-time e del maggior utilizzo del lavoro straordinario, a seconda delle necessità delle imprese. Altro che lotta alla disoccupazione!
Si tratta di fumo negli occhi per prevenire in qualche modo l’acutizzarsi delle tensioni sociali favorendo al contempo il miglior utilizzo della forza-lavoro secondo le esigenze produttive capitalistiche.
Dal canto loro, il sindacato e il partito revisionisti, giocano in questo quadro il ruolo, di muro antisovversivo nel traballante edificio borghese, ruolo rivendicato apertamente dal PCI e da Lama presentandolo come moneta di scambio. Questo lo si è visto chiaramente sia nello scambio politico durante la vicenda del decreto sul fisco, vera foglia di fico a “copertura” dei recenti attacchi al salario operaio e, ancor più, in quella legata all’ostruzionismo al decreto taglia-salari. In queste occasioni si può vedere il PCI nel ruolo d’impareggiabile controllore delle lotte proletarie, alternando il freno nell’azione di piazza all’acceleratore demagogico dell’opposizione parlamentare, il tutto su un terreno di compatibilità istituzionale. Il gioco al rialzo del referendum, anch’esso moneta di scambio, un referendum che per gli stessi propugnatori “non s’ha da fare”, è la manifestazione più evidente delle ambiguità che dimostra un partito borghese come il PCI che cavalca gli interessi operai.
La nostra iniziativa politico-militare ha ancora una volta chiarito la reale natura della rissa tra i partiti su queste questioni e, soprattutto, i reali interessi che stanno alla base delle diverse proposte. Il PCI ha usato ancora una volta la lotta operaia per i suoi meschini calcoli di potere percorrendo goffamente un terreno minato e inciampando puntualmente sull’ostacolo più temibile per la realizzazione dei suoi programmi di contenimento dell’antagonismo di classe: l’attività rivoluzionaria delle Brigate Rosse.
Di fronte alla chiarezza e centralità dell’obiettivo perseguito dalla nostra Organizzazione, cadono gli ultimi veli delle mistificazioni tanto del governo quanto del partito di Natta e il problema malcelato fino ad oggi della ricerca di un accordo politico si rivela per quello che è: evitare l’imprevedibile risposta della classe all’indurimento del conflitto sociale tramite una soluzione “pacificatoria” di un nuovo accordo generale, ancora una volta sulla pelle degli interessi materiali e politici del proletariato, ennesimo scambio politico tra PCI e governo, ulteriore passo verso la sconfitta della classe.
Ma è proprio la difficoltà che il dispiegarsi di questo progetto incontra, la dimostrazione migliore che la sconfitta politica del proletariato nel nostro paese è a tutt’oggi una velleità, velleità non certo priva di reali possibilità, ma resa sempre più debole dall’enorme potenziale di lotta e dalla combattività della classe operaia contro le politiche governative interne ed internazionali. Il carattere di resistenza che le lotte hanno inevitabilmente assunto rappresenta un primo indispensabile momento per la ricostituzione di un tessuto organizzativo proletario, che si è espresso embrionalmente nel modo più chiaro con l’autoconvocazione delle assemblee dei consigli di fabbrica.
Ma se il tutto restasse ancorato nel tempo al carattere di pura e semplice resistenza a difesa di posizioni insidiate, la classe si ritroverebbe chiusa in un vicolo cieco al termine del quale vi sarebbe una sconfitta di dimensione storica.
Come organizzazione comunista il nostro dovere è evidentemente, quello di rappresentare gli interessi generali del proletariato, guidandolo nella lotta contro l’irreggimentazione reazionaria della società e contro i preparativi della guerra imperialista. Assolvendo a questo compito e lavorando all’approfondimento della crisi politica della borghesia, diamo alla classe la materializzazione della nostra proposta strategica: la Lotta Armata per il Comunismo per trasformare la guerra imperialista in guerra di classe per la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato.
Le Brigate Rosse chiamano i comunisti a serrare le fila intorno ai compiti principali che lo scontro di classe mette oggi in evidenza: costruire l’offensiva proletaria e rivoluzionaria contro la ristrutturazione e contro la guerra imperialista e lottare sul terreno politico rivoluzionario per la modificazione dei rapporti di forza a favore del proletariato. E questo a partire da una pratica politico-militare contro le politiche antiproletarie e reazionarie di pacificazione sociale, contro le politiche guerrafondaie della borghesia imperialista.
La crisi del modo di produzione capitalistico sta creando condizioni favorevoli alla lotta proletaria in tutti i paesi occidentali. Sta creando altresì le basi per l’identificazione del nemico comune costituito dalle politiche ristrutturative della borghesia imperialista attuate ovunque tramite l’attacco alle condizioni di vita del proletariato e la crescente militarizzazione e riarmo di tutti i paesi, dovuti ai preparativi di guerra. Queste condizioni generano contraddizioni sociali sempre più acute ponendo al centro il compito da parte dei comunisti di lavorare alla costruzione del Partito Comunista Combattente. Solo così sarà possibile perseguire l’obiettivo della direzione rivoluzionaria dello scontro sociale acutizzato dalle misure anticrisi prese da tutta la borghesia occidentale e dimostrato da cicli di lotte antagoniste che – a diversi livelli – stanno scuotendo tutta l’Europa. L’unità oggettiva degli interessi del proletariato internazionale e i motivi d’alleanza tra questo e la lotta dei popoli progressisti contro l’oppressione imperialista, sono la linfa vitale del necessario carattere internazionalista della rivoluzione proletaria. La lotta contro l’imperialismo occidentale è per questo una caratterizzazione comune a tutte le forze rivoluzionarie, indipendentemente dagli obiettivi strategici che esse perseguono, sia esso la liberazione nazionale o la conquista proletaria del potere politico. Per questo motivo le Brigate Rosse hanno fatto della lotta militante antimperialista un proprio punto di programma irrinunciabile, una costante della propria progettualità politica e delle propria pratica combattente, come stanno a dimostrare la cattura del generale Dozier e l’esecuzione del “diplomatico” Hunt.
Queste campagne contro la NATO sono state concepite come punto di programma fondamentale per il processo rivoluzionario nel nostro paese, e questo perché l’indebolimento e la sconfitta dell’imperialismo nell’area politico geografica in cui l’Italia è collocata, è una delle condizioni che contribuiscono al successo della nostra rivoluzione.
In questo modo le Brigate Rosse intendono lavorare al rafforzamento e al consolidamento del Fronte di lotta all’imperialismo occidentale che ha trovato in questi ultimi tempi rinnovato vigore e forza unitaria dimostrati dalle difficoltà e sconfitte che le imprese imperiali incontrano in tutto il mondo, da Grenada a Beirut al Nicaragua; dalla campagna unitaria contro la NATO della guerriglia in Europa in stretta dialettica con l’eccezionale mobilitazione di massa contro i missili americani nelle metropoli europee.
ATTACCARE E SCONFIGGERE LA COALIZIONE CRAXI—CARNITI—CONFINDUSTRIA ASSE POLITICO DOMINANTE DEL REAZIONARIO PROGETTO DI PATTO SOCIALE NEOCORPORATIVO!
RAFFORZARE E CONSOLIDARE IL FRONTE DI LOTTA ANTIMPERIALISTA!
TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN GUERRA DI CLASSE PER LA CONQUISTA DEL POTERE POLITICO E LA DITTATURA DEL PROLETARIATO!
marzo 1985
Per il Comunismo
BRIGATE ROSSE
per la costruzione del P.C.C.

Unione dei Comunisti Combattenti – Manifesto e tesi di fondazione – ottobre 1985

La lotta rivoluzionaria risorse in Italia negli anni 1968-’69, sulla base della spinta politica impressa dalle vaste mobilitazioni operaie, proletarie e studentesche. Dopo anni di indiscussa egemonia revisionista sulla classe proletaria, dopo anni nei quali il movimento non si elevò punto al di sopra di una lotta tradunionista, di una lotta entro i limiti di una società borghese, ritornò di impetuosa attualità la parola d’ordine della conquista del potere politico e della dittatura del proletariato.

Sin dall’iniziale esplosione delle lotte di massa un problema risultò bensì centrale agli occhi delle vere avanguardie: come dare direzione politica al movimento di classe, quali fossero le forme dell’azione rivoluzionaria in grado di guidare i lavoratori alla presa del potere statale. Invero, ogni lotta di classe è una lotta politica e lo scopo di questa lotta, che inevitabilmente si trasforma in guerra civile, è il monopolio del potere politico. E proprio il prodursi degli eventi, contrassegnato in quel biennio dallo sviluppo impetuoso del movimento di massa nonché dalla reazione e dal contrattacco della borghesia, chiariva manifestamente la natura inconciliabile dell’antagonismo esistente tra capitale e lavoro, mostrava che in ultima istanza le classi combattono per conquistare il potere dello Stato. In breve, la storia di quegli anni pose al proletariato, alle sue avanguardie conseguenti, un compito pratico ed urgente: creare un partito di tipo nuovo, un partito realmente comunista, capace di combattere senza riserve per la dittatura del proletariato e di non farsi allettare dalle sirene della democrazia borghese.

Ma grande era il prestigio del P.C.I. tra le masse ed altrettanto grande si presentava perciò il danno provocato dalla sua involuzione revisionistica, dalla vergognosa politica pacifista che questo partito consumava quotidianamente nelle aule del parlamento borghese. Né tale tradimento poteva considerarsi casuale, né era ulteriormente procrastinabile un esame responsabile dell’evoluzione avvenuta nei rapporti di classe, negli istituti politici della società borghese e nelle esperienze compiute dai movimenti rivoluzionari. Si imponeva insomma la ricerca di vie nuove, di vie adatte a rilanciare la rivoluzione nelle mutate condizioni del secondo dopoguerra.

Chi individuò con precisione e puntualità questo problema, chi riuscì a rispondervi con conseguenza estrema in sede pratica, fu l’organizzazione delle Brigate Rosse e ciò in virtù della loro decisione di iniziare la lotta armata contro lo stato in maniera sistematica e continuata.

Costituitesi nel 1970, le Brigate Rosse dovettero inizialmente navigare controcorrente: non solo, infatti, si trovarono innanzi molti gruppuscoli pseudo rivoluzionari che, disposti a cavalcare le esplosioni violente della lotta di massa, si tiravano da parte quando si trattava di porsi alla testa del movimento in modo organizzato e conseguente, quando si trattava di svolgere una funzione politica e dirigersi sulla lotta spontanea del proletariato; ma, molto di più, esse rompevano scientemente con una mossa di pregiudizi consolidati negli ambienti rivoluzionari che volevano impossibile la lotta armata al di fuori di condizioni insurrezionali e che trovavano una immediata benché surrettizia giustificazione nella grande tradizione dell’Internazionale Comunista. Tuttavia proprio la giustezza della loro visione politica – iniziare la lotta armata costituendo così i primi punti di aggregazione per la fondazione del partito del proletariato – risultò alla base del fatto che le Brigate Rosse ebbero decisamente ragione di queste tendenze ritardanti ed opportuniste. Ben presto esse si stesero nelle principali città italiane, nei principali poli industriali, ben presto fu evidente il senso ed il significato della loro scelta soggettiva d’avanguardia e ben presto, con la loro giusta azione di lotta allo Stato, conquistarono alla lotta armata comunista un ruolo centrale nel panorama politico italiano; altri gruppi iniziarono a seguire il loro esempio.

Marxiste leniniste nel riferimento teorico, fortemente radicate nella classe operaia e negli strati più combattivi del proletariato urbano, le Brigate Rosse si affermano in quanto reparto d’avanguardia innanzitutto perché la loro proposta risultò essere la risposta politica più concreta ad una situazione storica concreta. Da un lato, infatti, risultava assolutamente chiara l’inutilizzabilità del parlamento ai fini dell’attività rivoluzionaria, dall’altro i comunisti rischiavano lor malgrado di trasformarsi in sterili propagandisti, estremisti nella lotta economica e connaturalmente incapaci di influire nell’andamento politico dei rapporti tra le classi. Ma gruppi che non sanno porre davanti alla società tutt’intera le esigenze politiche del proletariato, gruppi che non sanno contrapporsi coi mezzi adatti alle istituzioni borghesi per affermare questi interessi, che non operano al fine di conquistare condizioni generali più favorevoli allo sviluppo della rivoluzione, non sono certo gruppi comunisti, non svolgono certo una funzione dirigente nella lotta di classe.

I comunisti sono gli interpreti coscienti di un processo incosciente: tale è la tesi incontrovertibile del socialismo scientifico. E tramite l’iniziativa politico militare l’avanguardia recuperò spazio nella vita politico nazionale, si condusse appunto in qualità di rappresentante cosciente degli interessi del proletariato: si elevò al di sopra della lotta economica delle masse, al di sopra del pantano gruppista, e si contrappose chiaramente agli agenti della borghesia nel movimento operaio. Attraverso l’uso della lotta armata le Brigate Rosse ribadirono in modo chiaro e netto che obiettivo della classe operaia non è questa o quella riforma parziale, ma la presa violenta del potere politico, il rivoluzionamento generale dell’intera società; e con ciò, nei fatti, nell’azione concreta conforme alle peculiarità della nostra situazione storica, si ricollegarono al contenuto reale, alla sostanza immortale della tradizione comunista.

Fu chiaro infatti in pochi anni che il partito della Brigate Rosse costituiva l’avanguardia del proletariato italiano, la sua direzione politica rivoluzionaria. Sulla base di un’intensa attività combattente e di un costante lavoro di penetrazione nelle masse, nel 1978 le Brigate Rosse poterono legittimamente dichiarare chiuso il primo periodo della loro lotta politico militare: in seguito alla campagna di primavera di quell’anno, al sequestro e all’esecuzione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana e massimo fautore della politica cosiddetta del “compromesso storico” tra D.C. e P.C.I., la lotta armata si affermava definitivamente come punto di riferimento obbligatorio e discriminante per ogni rivoluzionario e, ad un tempo, come l’unica opposizione politica coerente al governo borghese ed alle manovre dei partiti di fronte alle più vaste masse. L’unità del politico e del militare nell’attacco al “cuore” dello Stato, l’iniziativa combattente del partito come direzione politica cosciente della lotta di classe verso la presa del potere politico, si presentava dunque come la conquista storica come il risultato essenziale di quel periodo.

Epperò la storia non procede in linea diritta. Essa ha certo una direzione, una direzione necessaria, ma questa direzione si presenta appunto come risultato di un percorso niente affatto facile, piano, diretto: è attraverso innumerevoli sacrifici ed anche errori, attraverso grandi offensive e ostiche ritirate, che una classe oppressa giunge a conoscere la strada della sua emancipazione.

Se è manifesto ed inconfutabile che le Brigate Rosse riguadagnarono al proletariato italiano la capacità politico-pratica di organizzare la lotta rivoluzionaria allo stato borghese (ed in ciò consiste il loro inestimabile valore storico), è pur vero che, nella loro azione, si basarono su di una concezione politico eclettica, che solo in stretta misura può definirsi marxista. La sovrapposizione di schemi rivoluzionari propri di paesi dipendenti alla situazione sociale di un paese imperialista, la sottovalutazione del ruolo specificamente politico dell’avanguardia comunista, le numerose commistioni tra il marxismo leninismo ed ideologie antimaterialiste di schietta derivazione piccolo borghese, sono solo i più marchiani fra i vari errori commessi sul piano teorico delle Brigate Rosse.

E ad ogni errore teorico, nella lotta di classe, corrisponde un errore pratico: da una parte simili sbagli provocarono l’incapacità di sfruttare appieno le conquiste reali che l’esperienza medesima aveva consegnato ai comunisti, dall’altra condussero ad esaltare aspetti secondari, tutt’affatto estranei alla lotta armata in quanto politica rivoluzionaria. Le Brigate Rosse erano giunte a possedere un enorme prestigio politico, un prestigio ed una autorità da partito; erano riuscite a creare una macchina organizzativa assai forte, una macchina che costituiva uno dei più importanti fattori politici della società italiana, ma questa macchina era al suo interno politicamente debole, mancava la saldezza teorica ed un forte centro dirigente in grado di infondere compattezza ideologica e pratica nei diversi istituti dell’organizzazione. La sconfitta tattica dell’anno 1982, preceduta dall’altalena tra economismo e militarismo, da sintomatiche ed eloquenti scissioni, dalle prime defezioni e collaborazioni col nemico di classe, fu dunque il logico risultato di un accumularsi di contraddizioni che, per quanto visivamente collocabile nel periodo che segue il 1978, si originava senz’altro da ben più lontano.

Quella particolare visione teorica, l’indirizzo di pensiero e di azioni che accompagnò la nascita ed il primo sviluppo della lotta armata nel nostro paese ascrive cosi al proprio rendiconto alcuni errori sostanziali, alcune debolezze politiche di fondo. Ma si tratta di errori e debolezze, per così dire, necessari; di errori e debolezze che il movimento comunista, per farsi strada ed esperienza, non poteva non commettere; di errori e debolezze peraltro facilmente comprensibili, dato il quadro storico in cui la lotta armata è sorta come forma della politica rivoluzionaria ed in cui ha trovato i suoi primi riferimenti ideologici.

Se dunque non v’ha dubbio che nel nostro paese un periodo della lotta rivoluzionaria si è chiuso, è ancor più vero che quel che si è concluso è solamente il periodo della giovinezza della lotta armata, il periodo in cui l’imperativo consisteva innanzitutto nell’affermarla in quanto carattere fondante ed obbligatorio dell’attività di partito. Finalmente, nei quindici anni trascorsi la lotta di classe ha scoperto da sé la formula politica adatta a rilanciare nel nostro periodo storico l’attività comunista. Lo ha fatto tra molte contraddizioni, lo ha fatto per mezzo di ingenuità ed anche errori, ma pure lo ha fatto! Ciò è l’essenziale.

Tutto il periodo storico che va dal 1970 al 1982 è perciò straordinariamente istruttivo per la rivoluzione. Durante questi anni attraverso l’esperienza accumulata dalle Brigate Rosse, si è evidenziato nettamente che la lotta armata è il metodo decisivo della lotta politica comunista contemporanea, carattere fondamentale ed obbligatorio dell’azione di partito. Inoltre, ogni semplice lavoratore, gli elementi avanzanti del proletariato, i sinceri rivoluzionari ed i gruppi organizzati hanno conosciuto e visto in opera tutte le principali tendenze da sempre presenti nell’arena della lotta politica in quanto riflesso del movimento più generale delle classi; ne hanno valutato la portata, osservato la parabola teorica e pratica, esaminato il rapporto reciproco ed hanno imparato a discernere una linea realmente marxista, realmente rivoluzionaria, dalle sue artate contraffazioni. Tutto ciò costituisce in ogni caso un immenso patrimonio per il movimento comunista, un enorme contributo alla teoria ed alla pratica della rivoluzione proletaria non solo per il nostro paese, ma per tutta l’area del centro imperialista. Tutto ciò, soprattutto, rappresenta sicuramente la base reale per ogni ulteriore avanzamento.

Nello stesso tempo però l’esperienza del periodo trascorso ha provato fuori da ogni dubbio che senza una visione scientifica ed organica della nostra rivoluzione, senza un concetto marxista dei compiti e del ruolo del partito, anche le più grandi conquiste della lotta di classe rischiano di rimanere inoperose, persino i più grandi successi possono vanificarsi, inghiottiti tra le pieghe della storia.

Gli anni passati, anni di gigantesche sfide e di coraggiose scelte d’avanguardia ci consegnano la lotta armata come forma della politica rivoluzionaria. Oggi il punto principale è imparare a perfezionare questo insegnamento, imparare a far di più e meglio per spingere oltre i risultati raggiunti, affinché la linea rivoluzionaria possa esser portata avanti senza la minima esitazione.

Ma la situazione chiede scelte appropriate, scelte precise capaci di tradursi in pratica. Non soltanto, infatti, le Brigate Rosse si dimostrarono attualmente incapaci di progredire, nonché di elevarsi al livello politico richiesto dall’evoluzione delle cose stesse; ma già nei settori più inesperti e disgregati del movimento rivoluzionario si delinea chiaramente lo sviluppo di una tendenza revisionista, il cui contrassegno consiste nella teorizzazione (esplicita o sottintesa) dell’abbandono della lotta armata. La situazione di disorientamento attualmente esistente nel movimento di classe; l’incipiente pericolo di vanificare la più grande conquista degli ultimi quindici anni di lotta d’avanguardia; la necessità di battere definitivamente, nella teoria e nella pratica, le impostazioni soggettiviste che tanto danno arrecano alle potenzialità politiche della lotta armata; l’obbligo di difendere con intransigenza di fronte alla borghesia ed ai suoi lacchè la giustezza del cammino percorso dei comunisti negli ultimi anni e di trasmettere alle nuove generazioni rivoluzionarie l’esperienza cumulata; infine, l’evoluzione del quadro nazionale ed internazionale, che disegna l’avvicinarsi di battaglie decisive per il proletariato – tutte queste circostanze pongono chiaramente all’ordine del giorno, rendendolo anzi un dovere, il problema della costituzione di un nuovo gruppo politico, capace di basarsi sulla grande esperienza delle Brigate Rosse e sul marxismo leninismo per giungere ad una teoria ed una pratica rivoluzionarie realmente adeguate alla situazione italiana.

Sulla base di tali considerazioni, nonché sotto l’impulso e l’iniziativa di alcuni ex militanti delle Brigate Rosse fuoriusciti da questa organizzazione in seguito alla loro battaglia per l’adozione delle tesi politiche enunciate nella cosiddetta “seconda” posizione, nel mese di ottobre dell’anno 1985 si è costituita adottando le seguenti tesi, l’Unione dei Comunisti Combattenti.

  1. L’Unione dei Comunisti Combattenti è un’organizzazione marxista leninista. Come tale, essa assume a guida della propria azione la dottrina del materialismo storico-dialettico e riconosce come propri principi inderogabili la dittatura del proletariato ed il potere del Soviet, vale a dire la sostanza di tale dottrina. L’Unione dei Comunisti Combattenti non ha dunque interessi diversi dell’intero proletariato: essa se ne distingue poiché, possedendo una visone complessiva della strada storica che questa classe deve necessariamente percorrere, si sforza di difendere, in ogni svolta della lotta di classe, non gli interessi dei singoli gruppi o professionisti ma gli interessi della classe operaia nella sua totalità.
  2. L’Unione dei Comunisti Combattenti, avanguardia cosciente della classe operaia, opera per trasformare ogni lotta ridotta o parziale in una lotta generale per il rovesciamento dell’ordine capitalistico. Essa organizza e dirige la lotta del proletariato col fine preciso di guidarlo sino all’insurrezione armata contro lo stato borghese, sino allo scontro diretto per la conquista del potere politico.

Per potersi emancipare dalla schiavitù del lavoro salariato, per poter istituire la propria dittatura sulle altre classi sociali ed organizzare il socialismo – stadio inferiore del comunismo – la classe operaia deve innanzitutto conquistare il potere politico nel proprio paese e distruggere senza remore la macchina statale borghese. Dall’altra parte, attraverso il loro movimento spontaneo le masse proletarie non sono in grado di elevarsi alla coscienza compiuta dei propri interessi, alla coscienza dell’irriducibile antagonismo, che esiste tra loro e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo. E proprio in ciò consiste il ruolo dell’avanguardia comunista: rendere il proletariato capace di realizzare la sua grande missione storica, organizzarlo in partito politico autonomo – in reparto d’avanguardia contrapposto a tutti i partiti borghesi e principalmente allo Stato – per dirigere ogni manifestazione della lotta di classe verso il suo sbocco necessario, la dittatura del proletariato.

L’Unione dei Comunisti Combattenti, consapevole che è compito fondamentale dei comunisti quello di rimanere sempre nel più stretto contatto con ampi strati del proletariato, mantiene bensì la più ferma convinzione che i concetti di partito e massa debbono essere tenuti rigorosamente separati. Il partito è una parte della classe, ma distinto da essa; è il suo reparto d’avanguardia, cosciente ed organizzato. In ogni fase della lotta esso è, per sua natura alla testa della mobilitazione, alla guida degli elementi migliori e più devoti del proletariato: ad esso spetta la responsabilità di fare avanzare la rivoluzione, di affrettare la crisi delle classi dominanti e non già di attestarsi sul livello della massa.

Di conseguenza ogni svalutazione nella teoria e nella pratica del ruolo cosciente del partito, ogni concessione allo spontaneismo ed al tradeunionismo, conduce inevitabilmente (e segnatamente nei paesi imperialisti come il nostro) ad assumere posizioni revisioniste, snatura la funzione stessa del comunismo e va combattuta perciò come il peggiore dei nemici della causa proletaria.

  1. L’Unione dei Comunisti Combattenti adotta la lotta armata in quanto metodo decisivo della propria lotta politica comunista. Strutturata coerentemente come organizzazione armata e clandestina, che riunisce sin da subito nella propria azione generale, così come in quella di ogni singolo istituto e militante, il lato politico e quello militare dell’attività rivoluzionaria, essa avversa bensì tutte le concezioni che, proponendo una divisione di ruoli fra organismi militari e politici, minano alla base l’unità d’azione, la compattezza e la natura comunista dell’avanguardia contemporanea.

L’epoca rivoluzionaria esige dai comunisti l’uso di sistemi di lotta capaci di concentrare tutta l’energia del proletariato sino all’estrema, logica conseguenza: l’urto diretto, la guerra dichiarata con la macchina statale borghese. Da un lato, infatti, risulta assolutamente necessario che ogni semplice lavoratore abbia ben chiara la differenza che esiste tra le vere avanguardie comuniste, che lottano per conquistare il potere politico, ed i vecchi partiti ufficiali, che col loro pacifismo parlamentare hanno vergognosamente tradito la bandiera della classe operaia. Dall’altro è bensì evidente che nell’epoca attuale, contrassegnata nei nostri paesi dal massimo sviluppo e dal massimo consolidamento del contenuto reazionario della democrazia borghese, il centro di gravità della vita politica si è spostato in modo totale e definitivo oltre i confini del parlamento, che resta unicamente la maschera formale della dittatura della borghesia ed al contempo un efficace mezzo per inchiodare ai limiti dalla legalità capitalistica ogni reale spinta di opposizione proletaria. In tale contesto storico l’indipendenza politica del proletariato, la sua vocazione storica alla dittatura, si legano indissolubilmente al rifiuto dei vincoli istituzionali e dell’azione parlamentare. Il terreno della lotta d’avanguardia, della lotta dei comunisti, si sposta altrove: nella lotta armata, nell’azione autonoma ed energica di un partito combattente che, rappresentando realmente gli interessi generali della classe lavoratrice in opposizione allo stato borghese, sappia nondimeno incidere nell’andamento politico dei rapporti tra le classi, miri ad accentuare la crisi politica della borghesia contrastandone le mene reazionarie e realizzi al contempo una chiara indicazione rivoluzionaria di fronte alla più vaste masse.

L’Unione dei Comunisti Combattenti, istruita dall’esperienza pratica compiuta sin qui dal movimento rivoluzionario nazionale ed internazionale nonché dalla teoria del socialismo scientifico, difende ed afferma gli interessi generali del proletariato con il combattimento contro lo Stato e considera dunque l’uso attuale della lotta armata (la lotta armata d’avanguardia in condizioni non rivoluzionarie) come la principale e fondamentale discriminante politico pratica tra i veri e i falsi comunisti, tra le vere e le false avanguardie del proletariato.

  1. Per giungere alla rivoluzione, l’avanguardia comunista deve conquistare un’influenza predominante nelle masse proletarie, condizione per poterle guidare effettivamente alla presa del potere politico ed all’abbattimento dello stato borghese. È infatti dimostrato da tutta la storia della rivoluzione proletaria che, nella sua lotta per la dittatura, questa classe non otterrà la vittoria se non quando – entro precise condizioni oggettive – i suoi strati politicamente determinanti si saranno schierati a fianco del comunismo e disporranno di forze sufficienti per infrangere la resistenza della reazione borghese. Da ciò deriva l’incondizionata necessità di principio che, nella costante e continuata battaglia contro le deviazioni opportuniste ed economiste presenti nel proletariato, i comunisti rivoluzionari arrivino a conquistare la direzione politica delle masse e dei loro movimenti di lotta.

L’Unione dei Comunisti Combattenti – che afferma il proprio ruolo di combattente per il socialismo attraverso la lotta armata e conserva in ogni caso la propria autonomia politico-organizzativa qualunque direzione prendano gli avvenimenti e quali che siano le forme del movimento – sin dal primo giorno della sua costituzione si pone esplicitamente come scopo non già la creazione di una setta di propaganda, non già un’attività politico militare avulsa dalla reale dinamica e dal reale contesto della lotta tra le classi, ma proprio la partecipazione cosciente a tale conflitto, l’intervento d’avanguardia nella scena politica e la guida della lotta proletaria secondo una direttiva comunista. Suo obiettivo dichiarato è elevare, nel corso della lotta, il proletariato alla coscienza compiuta dei propri interessi; conquistarne la direzione politica per guidarlo alla presa del potere.

  1. L’Unione dei Comunisti Combattenti respinge categoricamente ogni concezione soggettivista che ritiene possibile la rivoluzione proletaria senza un’adeguata opera di conquista delle masse lavoratrici alla linea politica del comunismo. Ma proprio affinché questa opera sia efficace proprio per impedire la nefasta altalena tra estremismo ed economismo, proprio per combattere l’errata tendenza che vorrebbe immediata e senza ostacoli la conquista del sostegno di massa, è necessario stabilite un giusto rapporto tra l’avanguardia ed il movimento proletario nel suo insieme.

L’agitazione comunista verso le masse proletarie, la linea di massa dell’avanguardia, deve essere condotta in modo che i lavoratori in lotta siano portati a riconoscere dalla loro esperienza stessa che la nostra organizzazione è la guida energica e fedele del loro comune movimento. Per ottenere ciò è necessario innanzitutto che l’avanguardia intervenga con la sua azione combattente in sintonia ed in appoggio ai movimenti generali del proletariato, che li sostenga e li guidi indirizzandoli contro i governi e lo stato borghese, che sia capace di generalizzare con vigore le parole d’ordine politico-organizzative più avanzate scaturite da queste lotte e dalla situazione generale. D’altra parte in ognuna delle fasi della lotta politica ed economica, i comunisti debbono diffondere in mezzo al proletariato la consapevolezza che questi movimenti costituiscono solo una parte, una tappa nella più generale lotta di classe, che è una lotta per il potere politico dello Stato; giammai essi dovranno abdicare al loro ruolo specifico: affermare l’interesse generale proletario, spingere avanti la situazione politica.

È attraverso questo lavoro, assolutamente necessario, che un gruppo comunista può diventare l’avanguardia reale di milioni di proletari; guidando le masse lavoratrici nella costante lotta contro le sopraffazioni del capitale risulterà possibile, e sarà anzi doveroso, rendere comprensibile ed attuale il legame che esiste tra la vita quotidiana, tra il movimento di tutte le classi e di tutti i partiti politici, e la parola d’ordine della dittatura del proletariato.

L’Unione dei Comunisti Combattenti, che in quanto organizzazione armata e clandestina non può non porre precisi ed invalicabili limiti al modo con cui svolge la propria attività verso le masse, riconosce in ogni caso pienamente l’importanza fondamentale che quest’opera riveste ai fine della rivoluzione. Guidare, allargare, approfondire, le attuali lotte generali del proletariato e, in conformità al corso del loro sviluppo e dell’esperienza pratica compiuta dalle masse medesime, trasformarle in lotte politiche finali è e resta insomma il criterio da seguire in tale lavoro. Ma ciò sarà infine possibile se L’Unione dei Comunisti Combattenti, autonoma ed in grado di combattere le istituzioni borghesi e le loro politiche in ogni circostanza della lotta di classe, saprà evitare tanto il settarismo quanto la mancanza di principi.

L’Unione dei Comunisti Combattenti si basa organizzativamente sul centralismo democratico, i cui principi essenziali sono: l’eleggibilità degli organi superiori da parte di quelli inferiori, il carattere assolutamente vincolante di tutte le direttive degli organi superiori, l’esistenza di un forte centro dirigente la cui autorità e le cui decisioni, negli intervalli tra i congressi, non possono essere messe in discussione da nessuno. Va da sé che, nelle condizioni di clandestinità in cui si sviluppa la lotta, il principio elettivo può subire delle limitazioni: gli organismi dirigenti hanno pertanto il diritto di cooptare nei proprio effettivi singoli militanti, qualora si presenti la necessità per l’organizzazione.

L’Unione dei Comunisti Combattenti riconosce come propria la causa della fondazione del Partito Comunista Combattente del proletariato italiano. Operando in tal senso, essa si sforza bensì di consolidare, irrobustire ed affermare la tendenza comunista rivoluzionaria contro tutte le deviazioni avventuriste e contro tutte le tentazioni liquidatorie – che si esprimono oggidì nel rifiuto dell’uso della lotta armata – e chiama risolutamente a raccolta, sotto le sue fila organizzative, i marxisti militanti del nostro paese.

Al momento presente, contrassegnato da uno stato di particolare disorientamento del movimento rivoluzionario, si presenta di fatti necessario un deciso lavoro di orientamento politico, teorico e pratico, teso a chiarire la natura della strategia, dei principi e della tattica del partito rivoluzionario, nonché l’arco delle forze interessate alla sua fondazione. L’Unione dei Comunisti Combattenti, che riconosce come propri interlocutori in primo luogo quelle forze e quei gruppi marxisti che oggi si pongono senza tentennamenti sul terreno della lotta armata, è animata in ogni caso dalla convinzione che l’unità dei comunisti di partito debba basarsi sulla chiarezza di vedute e che questa chiarezza, all’ora attuale, non possa che scaturire da un reale ed approfondito confronto intorno alle questioni principali che l’esperienza pratica della rivoluzione proletaria ha posto all’ordine del giorno nel nostro paese.

L’Unione dei Comunisti Combattenti, inoltre, sottolinea l’importanza fondamentale della battaglia antirevisionista. Deve essere infatti chiaro ad ogni rivoluzionario che non è possibile una preparazione anche solo preliminare del proletariato al rovesciamento della borghesia senza una inevitabile, sistematica, ampia ed aperta lotta contro i vecchi partiti ufficiali, ed in particolare contro il P.C.I., che detengono tutt’ora forti posizione nel movimento operaio e che col loro pacifismo parlamentare illudono le masse sulla reale natura della democrazia borghese.

L’Unione dei Comunisti Combattenti infine, si schiera con decisione al fianco della lotta comunista combattente esistente nei paesi capitalistici avanzati e delle lotte di liberazione nazionale che si sviluppano potentemente nei paesi dominati dall’imperialismo. Nella sua aspirazione a raggiungere la completa emancipazione della classe operaia e consapevole che la rivoluzione proletaria è per sua stessa natura internazionalista, essa non risparmia alcuno sforzo per contribuire all’unità dei comunisti e dei lavoratori di tutti i paesi.

Nuclei Comunisti Combattenti – Volantino dell’azione contro la Confindustria

Il giorno 18 ottobre 1992 i NUCLEI COMUNISTI COMBATTENTI hanno attaccato la sede della Confindustria a Roma. Questa iniziativa politico-militare, sebbene riuscita solo parzialmente a causa di problemi tecnici, rappresenta per noi un primo momento del più generale e complesso rilancio della iniziativa rivoluzionaria che le Avanguardie comuniste combattenti devono saper operare all’interno del processo di GUERRA DI CLASSE DI LUNGA DURATA aperto a suo tempo, con la proposta a tutta la classe della strategia della lotta armata. Con questa iniziativa i Nuclei comunisti combattenti hanno voluto attaccare il patto Governo-Confindustria-sindacati, concretizzatosi con l’accordo sul costo del lavoro del 31 luglio scorso, con il quale tra l’altro si è voluta sancire la fine della scala mobile ed eliminare di fatto la contrattazione aziendale, spianando il terreno alla trattativa tutt’ora in corso sulla «riforma della busta paga» e più in generale sulle «nuove relazioni industriali» ossia quel complesso di procedure e meccanismi che regolano il rapporto tra il grande capitale e il proletariato, a partire dai livelli di mediazioni possibili, tenendo conto della maggiore o minore forza che la classe sfruttata assume nello scontro con la borghesia.
Questo accordo rappresenta un punto di arrivo delle politiche anti-proletarie che la borghesia imperialista ha portato avanti negli ultimi anni attraverso i vari governi che si sono succeduti, con la partecipazione attiva degli altri organismi istituzionali, sindacato confederale in testa. Attraverso tali politiche i vari esecutivi hanno operato continue forzature, tese a «ingabbiare» la conflittualità operaia e proletaria, con i continui attacchi al diritto di sciopero, con l’uso sfrenato della precettazione, con l’intervento dei prefetti, magistratura e polizia nelle vertenze sindacali, nella misura in cui queste grazie all’opposizione operaia tendevano a rompere i vincoli imposti dai vertici Cgil-Cisl-Uil.
L’attacco che oggi viene portato contro tutto il proletariato mira a creare le condizioni idonee per un maggiore sfruttamento della forza-lavoro, sia sul piano del suo impiego, (vedi flessibilità e mobilità aziendale, intensificazione dei ritmi di lavoro, etc.) piegando ulteriormente la classe alle nuove esigenze di valorizzazione del capitale, nel quadro della crisi generalizzata.
Un attacco che per ottenere i risultati sperati della borghesia imperialista deve innanzitutto dispiegarsi contro la forza politica del proletariato, contro le istanze più mature dell’autonomia di classe, contro le Avanguardie comuniste combattenti, per impedire che la forte opposizione di classe ai nuovi progetti della borghesia imperialista si traduca in iniziativa rivoluzionaria sul terreno strategico della lotta armata per la conquista del potere politico. In sostanza le modificazioni che la borghesia imperialista intende imprimere nel rapporto con il proletariato rimandano direttamente al più generale progetto di «riforma dello Stato». Nell’attuale quadro internazionale segnato da una profonda crisi economica e dall’accentuarsi dei passaggi della tendenza alla guerra, il processo di ridefinizione degli apparati e organismi politico-istituzionali dello Stato assume un’importanza fondamentale al fine di adeguare i propri organi e istituti di governo tanto alle nuove condizioni in cui si deve procedere nel governo dell’economia, quanto ai nuovi problemi che emergono dai tentativi di governare il conflitto di classe.
Da un lato quindi lo Stato si pone come garante degli interessi generali della borghesia imperialista adeguando il proprio intervento in campo economico alle esigenze generali del capitale multinazionale-moltiproduttivo, (vedi la manovra economica del governo Amato, lo smantellamento dello Stato sociale, le politiche di privatizzazione che ricalcano le politiche liberiste adottate da tempo negli altri paesi della catena imperialista, i processi di deindustrializzazione etc.) dall’altro andando ad affinare e intensificare ciò che ormai è divenuta una politica costante e comune a tutti gli Stati imperialisti: la CONTRORIVOLUZIONE PREVENTIVA.
Nella sostanza il progetto di «riforma dello Stato» tende a sancire i differenti rapporti di forza tra le classi scaturiti in quest’ultimo decennio segnato da una profonda offensiva controrivoluzionaria della borghesia imperialista tesa a recuperare forza di fronte all’incalzare delle lotte proletarie e all’avanzare del processo rivoluzionario diretto dalla guerriglia e in particolare dall’Organizzazione BRIGATE ROSSE – PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE.
La necessità è quella di creare le condizioni idonee per costruire di volta in volta le maggioranze di governo intorno a un esecutivo forte che svincolato dalle spinte antagoniste che si producono nello scontro di classe sappia affrontare incisivamente e in tempi rapidi i problemi posti dall’economia nel suo sviluppo critico, nonché dall’accentuarsi degli elementi di instabilità nel quadro internazionale, andando così a garantire una certa stabilità politica svuotando di fatto il parlamento stesso dei suoi poteri, garantendo il funzionamento della democrazia formale e accentrando i poteri reali nelle mani dell’esecutivo.
In sintesi, nel contesto della crisi generalizzata che investe tutti i paesi a capitalismo avanzato, di fronte quindi ai minori margini di manovra imposti dalla crisi del modo di produzione capitalistico, la borghesia imperialista è posta nella condizione di dover operare delle sostanziali svolte nel governo dell’economia scaricando i costi della crisi sulla pelle della classe operaia e tutto il proletariato, a partire dal costo del lavoro come il blocco dei salari dimostra, con lo smantellamento di fatto dello Stato-sociale attraverso il quale lo Stato può recuperare parte della ricchezza socialmente prodotta da indirizzare a sostegno dei grandi gruppi industriali, intensificando lo sfruttamento dei lavoratori e chiudendo quei comparti della produzione non più funzionali alla valorizzazione del capitale, facendo aumentare così il numero dei disoccupati.
Il tutto in nome dell’«azienda Italia», per recuperare competitività nei mercati internazionali, per permettere di abbassare l’attuale livello del deficit pubblico e mettersi al passo con il resto dei partners europei in vista della scadenza del gennaio ’93, giorno in cui entrerà in vigore il mercato unico europeo, un passaggio questo del processo in atto di coesione politico-economica e militare dell’Europa occidentale. Il «nuovo» patto sociale, la «nuova» stagione dei sacrifici tanto invocata da Governo-Confindustria-sindacati, questi ultimi vere appendici statuali incuneate nel proletariato, deve poter garantire la stabilità politica e la tenuta del governo Amato, svincolando l’esecutivo dall’inevitabile e forte opposizione di classe che si produce nello scontro con la borghesia. Nella gestione di questo delicato passaggio un ruolo di primo piano è assunto tanto dalle forze revisioniste a partire dal Pds quanto da Cgil-Cisl-Uil, le quali ormai appiattite sulle posizioni della borghesia imperialista annullano così anche quei residui di rappresentanza formale a livello istituzionale degli interessi del proletariato (non dimentichiamo a tale proposito le posizioni scioviniste assunte dai vertici sindacali e dal Pds in occasione del massacro del popolo iracheno a opera delle potenze imperialiste Italia inclusa); un ruolo teso a contenere e reprimere le proteste operaie e proletarie, a mistificare la reale natura antiproletaria degli accordi sottoscritti e delle manovre del governo Amato, Una condizione questa dello scontro che ripropone interamente la validità e praticabilità della strategia della lotta armata.
Vent’anni di attività politico-militare della guerriglia e in particolare il patrimonio politico-teorico e militare delle BRIGATE ROSSE – PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE hanno segnato un punto di non ritorno nello scontro di classe del nostro Paese e più in generale nelle metropoli del centro imperialista, la strategia della lotta armata rimane l’unica in grado di affrontare globalmente il nemico di classe dando prospettiva alla questione della conquista del potere politico da parte del proletariato; l’unica prospettiva possibile di fronte alla crisi della borghesia imperialista è la GUERRA DI CLASSE DI LUNGA DURATA, che con l’attacco al cuore dello Stato laddove cioè si determinano i rapporti di potere, e alle politiche centrali dell’imperialismo al fine di ridimensionare la sua forza favorendo così lo sviluppo dei processi rivoluzionari, avanza attaccando il nemico di classe e favorendo la costruzione dell’organizzazione della classe sul terreno strategico della lotta armata per il comunismo. Il livello raggiunto oggi dalla crisi del modo di produzione capitalistico spinge i paesi della catena imperialista a una maggiore coesione a esercitare il proprio dominio in tutte le aree del mondo con il ricorso sempre più massiccio all’uso della forza per far rispettare le regole del «NUOVO ORDINE MONDIALE» a inasprire gli attacchi al proletariato a elaborare manovre economiche-finanziarie che mirano a recuperare i margini di profitto perduti con la grave recessione economica, un movimento questo che procede all’interno della dinamica della tendenza alla guerra imperialista.
Il modo di produzione capitalistico infatti storicamente può trovare soluzione alle sue crisi solamente con la guerra imperialista, con l’immensa distruzione di capitali sovraprodotti, donne e uomini, mezzi di produzione, con l’acquisizione di nuovi mercati e una nuova divisione internazionale del lavoro, solo così la borghesia potrà rilanciare il processo di valorizzazione del capitale. In questo quadro la proposta del FRONTE ANTIMPERIALISTA COMBATTENTE rimane l’unica in grado per costruire la forza materiale per attaccare-indebolire-ridimensionare l’imperialismo in un processo di costruzione di alleanze possibili con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo nell’area geopolitica mediterranea-mediorientale.
Ciò che si è potuto verificare, a partire dall’alto livello di integrazione economica e interdipendenza raggiunto dagli stati della catena imperialista, è la necessità che oggi per favorire l’avanzare dei processi rivoluzionari all’interno degli specifici contesti economico-politico-sociali nell’area è indispensabile attaccare e indebolire tutta la catena imperialista.
ATTACCARE IL PATTO GOVERNO CONFINDUSTRIA SINDACATO! ATTACCARE E DISARTICOLARE IL PROGETTO ANTIPROLETARIO E CONTRORIVOLUZIONARIO DI «RIFORMA DELLO STATO»!
COSTRUIRE E ORGANIZZARE I TERMINI ATTUALI DELLA GUERRA DI CLASSE PER ATTREZZARE IL CAMPO PROLETARIO ALLO SCONTRO PROLUNGATO CONTRO LO STATO!
ATTACCARE LE POLITICHE CENTRALI DELL’IMPERIALISMO E IN PARTICOLARE I PROGETTI DI COESIONE POLITICA E MILITARE DELL’EUROPA OCCIDENTALE E DI «NORMALIZZAZIONE» DELLA REGIONE MEDITERRANEO-MEDIORIENTALE CHE PASSANO PRINCIPALMENTE SULLA PELLE DEI POPOLI PALESTINESE E LIBANESE.
COSTRUIRE-CONSOLIDARE IL FRONTE ANTIMPERIALISTA COMBATTENTE!
ONORE AL MILITANTE COMUNISTA DELLA GUERRIGLIA CARLO PULCINI MORTO A TORINO IL 23 MARZO 1992!
ONORE A TUTTI I COMUNISTI E RIVOLUZIONARI ANTIMPERIALISTI CADUTI COMBATTENDO!
COMBATTERE INSIEME!
NUCLEI COMUNISTI COMBATTENTI
per la costruzione del
PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE
Ottobre 1992.
Pubblicato in Fedeli alla linea, Red Star Press, Roma 2015