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La linea di demarcazione. Carcere di Cuneo – Documento di Adriano Carnelutti, Giuliano Deroma, Carlo Garavaglia, Ario Pizzarelli

«…Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: “andiamo nel pantano!”

e se si comincia a confonderli ribattono: “che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà di invitarvi a seguire una via migliore?”

Oh, sì, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto noi pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano, e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati.

Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la grande parola di libertà, perché anche noi siamo “liberi” di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso». Lenin, Che fare?

 

La controrivoluzione lubrifica le sue armi

L’annunciata campagna d’autunno a favore della «soluzione politica» copre l’ambiziosa intenzione di assestare alla guerriglia il colpo decisivo.

Chi vuol dare «soluzione» al problema dei prigionieri politici si propone in realtà di arrivare alla soluzione finale del problema della guerriglia. Liquidare la guerriglia in Italia: questo è l’obiettivo che accomuna tutte le componenti coinvolte nell’operazione, e su cui convergono oggettivamente le linee più contraddittorie, la cui reciproca distanza va misurata solo in relazione al «far politica» necessario per conseguire l’identico scopo.

Ma appiattire ogni posizione non rende però un buon servizio alla battaglia politica contro la «soluzione»: alcune tesi sono più insidiose di altre, vanno attaccate proprio mentre si propongono di creare un movimento «di massa» che le copra, legittimandole.

Oggi c’é chi dal carcere appoggia la guerriglia e chi invece lavora per il suo disarmo ideologico e politico-militare: questo è l’unico valido criterio di giudizio che i rivoluzionari devono adottare in un momento difficile e complesso che vede i più variegati polveroni teorici incapaci di occultare la reale portata della posta in gioco, ma più che sufficienti – e lo si è verificato in questi mesi – a seminare veleni ideologici, dubbi, incertezze e una paralizzante confusione. In particolare la pausa di riflessione che vari compagni hanno ritenuto opportuno prendere prima di pronunciarsi con chiarezza, è stata cinicamente utilizzata per accreditare la falsità di un attendismo generalizzato, preludio all’appiattimento sulle tesi della «soluzione politica» di tutte le componenti «più serie» dei prigionieri comunisti.

Ora non è più tempo di attese né di ambiguità.

La linea di demarcazione tra noi e il nemico di classe va rideterminata in modo netto, senza equivoci o ulteriori ritardi. Le prime dichiarazioni pubbliche contro la trattativa infame con lo stato avviata ai margini del Moro-ter, hanno rotto il silenzio inchiodando alle loro responsabilità quanti pensavano di poter continuare ad agire tranquillamente contro la guerriglia, contro le Brigate Rosse, in assenza di una decisa opposizione tra i prigionieri. Ma non basta. Se è vero che più si dispiega trovando compiacenti interlocutori e più la «battaglia di libertà» aperta da Curcio e colleghi si denuncia da sola al movimento rivoluzionario mostrando la miseria, l’opportunismo e la vigliaccheria di un ceto politico che vende il suo fallimento personale come il fallimento dell’intera esperienza della lotta armata, è altrettanto vero che, come ogni campagna intrapresa dal nemico, la «soluzione politica» deve essere contrastata, inceppata, sabotata.

Prima di tutto va attaccato a fondo l’alibi della «irreversibilità» con il suo corollario di disgregazione e disfattismo sparsi a piene mani. Da troppe parti l’analisi concreta della situazione concreta è stata svilita a banale buon senso bottegaio e la verifica dei rapporti di forza in campo ridotta a giustificazionismo a posteriori di scelte già prese.

Indossati per l’occasione i panni di un accorto e puntuale uso della tattica, gli aderenti alla presunta ala sinistra del soluzionismo sostengono che la tendenza è irreversibile perché la trattativa andrebbe comunque in porto; tanto vale adeguarsi, seguire la corrente per deviarla al momento opportuno traendone almeno dei vantaggi utili per tutta la «sinistra di classe».

Noi di irreversibile possiamo constatare solo il progressivo slittamento di queste tesi nel campo delle posizioni che stanno oggettivamente portando al disarmo della guerriglia.

Ma, in generale, sono evidenti i guasti provocati da una concezione che vuol dipingere quanto sta accadendo fra i prigionieri come una sorta di destino ineluttabile, che coinvolgendo tutti non evidenzi le responsabilità di nessuno, permettendo a chiunque – col solo fatto di starsene zitto – di aggregarsi al carrozzone soluzionista senza compromettersi con l’una o l’altra cordata. Questa è stata la carta giocata con abilità veramente dorotea dal gruppo iniziale dei soluzionisti, cervello politico dell’intera operazione.

Il tandem Curcio-Moretti, grazie alla perfetta conoscenza della situazione di relativa debolezza dei prigionieri comunisti all’indomani di una serrata battaglia politica culminata in una nuova scissione delle Brigate Rosse, ha potuto venire allo scoperto proprio contando sul «né aderire né sabotare» che la maggioranza dei compagni sembrava nelle condizioni di esprimere come massimo livello di coscienza.

Come è ormai noto l’asse portante della «soluzione politica», cioè il concreto terreno di incontro con le forze borghesi interessate o direttamente coinvolte nella trattativa, può essere riassunto con la formula: far pesare il carcere sull’esterno, il passato della lotta armata contro il suo presente e il suo futuro. Si vuol buttare sul piatto della bilancia dell’impegnativa fase che la guerriglia sta attraversando tutto il carico della presunta autorevolezza dei «capi storici». Costoro, dall’alto del piedistallo di personaggi «giustamente famosi» (costruito dalla propaganda borghese e purtroppo in parte assunto da errate concezioni presenti nel movimento rivoluzionario) sanciscono che un ciclo storico di lotte politico-sociali, a cui apparterrebbe per intero l’esperienza delle BR, ha ormai esaurito il suo corso, pretendendo così di togliere ogni legittimità ai comunisti che continuano a impugnare le armi. Appropriatisi indebitamente delle chiavi del patrimonio d’organizzazione (quella continuità che è stata anche la forza delle successive rotture operate dalla guerriglia) le vogliono mettere all’asta aggiudicandole alla controrivoluzione e, subito, a quell’arco di forze trasversale all’intero sistema dei partiti in grado di garantire la loro liberazione. Forse più smaliziati di certi loro interlocutori, che in periodo elettorale hanno creduto pagante confondere queste chiavi politiche con chiavi metalliche di un archivio segreto, i soluzionisti sono consapevoli dei limiti di una autorevolezza non politicamente sostanziata. Da anni esclusi dal dibattito rivoluzionario, estranei ad ogni componente od area organizzata, forti solo di un carisma prefabbricato, Curcio e Moretti dovevano coinvolgere da un lato militanti ancora legati a vincoli organizzativi e comunque rappresentativi di linee esistenti, dall’altro ostentare di parlare a nome di tutti i prigionieri.

Infatti, per quanto famoso possa essere, un piccolo gruppo di arresi resta sempre tale e nessuna presa di distanza morale dall’abiura può evitargli di essere identificato come l’ultimo acquisto della dissociazione, specie in presenza di spezzoni dell’apparato statale che con scarsa preveggenza si accontenterebbero di incanalarlo in questo vicolo cieco.

L’avvio della manovra ha avuto l’esito che conosciamo.

Il logorroico florilegio di lettere apparse sul manifesto, suggella l’avvenuta crescita di peso contrattuale nei confronti dello stato della cordata Curcio-Moretti. La prima tappa è superata; Moretti dimostra di non aver millantato credito sostenendo in una intervista all’Espresso (un po’ in anticipo, ma i tempi appaiono accuratamente concertati) di avere in tasca l’adesione di chi solo poco prima era fra quanti rivendicavano l’azione politico-militare attuata dalle Brigate Rosse tutt’altro che… esaurita! Ma c’è dell’altro: l’aver finalmente arruolato alcuni militanti già organizzati nelle BR/PCC permette ai soluzionisti di far intravvedere allo stato, dopo tanto fumo, l’arrosto che stanno cucinando. Ora infatti la speranza di riuscire a condizionare dal carcere la guerriglia non è solo affidata al ricatto ideologico che toglie ai combattenti il retroterra della legittimazione attraverso la cesura della continuità ( i «capi storici» che disconoscono i «nuovi terroristi»). Il ricatto sull’esterno diventa direttamente politico, una aperta pressione operata da chi si suppone possa avere più concreta voce in capitolo.

Eppure è proprio all’apice del successo pubblicitario che l’area della «soluzione», giunta alla maggiore espansione numerica, mostra tutta la sua debolezza politica.

Nascono le prime divisioni interne, la corsa dei vari soggetti a differenziarsi per mantenere con la «reciproca autonomia» la possibilità di giocare su più tavoli. Il manifesto pubblica un intervento di alcuni prigionieri che vogliono estromettere Curcio dalla gestione della storia e auspicano che «la sinistra nella sua accezione più ampia» si faccia carico della vertenza, superando quella «miopia» che in passato la portò invece a favorire la dissociazione. Si tratta di una posizione che, come abbiamo accennato e come analizzeremo meglio, non cambia per niente il giudizio dal punto di vista rivoluzionario sui contorsionismi ideologici di questi neotogliattiani in relazione al disarmo politico della guerriglia. Del resto è proprio la Rossanda a riconoscere che la patina di sinistra di certe tesi, pur essendo ancora un tantino ostica da digerire, copre solo in superficie l’implicito allineamento sulla parola d’ordine «la guerra è finita, tutti a casa». Ma il fiato corto dei soluzionisti alla vigilia della loro campagna d’autunno non nasce certo da queste contraddizioni, relative ad un campo contro cui vogliamo accelerare la costruzione di una polarizzazione rivoluzionaria fra i prigionieri comunisti che intendono appoggiare fino in fondo la guerriglia, le Brigate Rosse.

Caduta la fragile impalcatura della rappresentatività di Curcio e Moretti, portavoce solo di se stessi e dei liquidazionisti, denunciati pubblicamente i termini tecnici delle offerte democristiane ai conciliaboli di Rebibbia, tutt’altro che scontata la disponibilità di spezzoni di movimento alla possibilità di gestirla da sinistra, la «soluzione politica» oggi è in difficoltà, ma non è stata battuta nei presupposti, nelle implicazioni immediate e nei guasti che può ancora produrre in prospettiva.

Con il nostro intervento ci proponiamo di fornire nuovi spunti di riflessione alla battaglia politica da ingaggiare con il massimo impegno contro questo ennesimo attacco della borghesia e dei suoi ventriloqui alla guerriglia. La necessità di prendere posizione in tempi brevi e la convinzione che il dibattito aperto troverà in futuro spazi e strumenti per crescere costruttivamente, ci impongono di concentrare l’attenzione solo su alcuni aspetti. Sarebbe sbagliato, oggi, pretendere di esaurire un discorso tutto da sviluppare.

 

«Soluzione politica» e democrazia compiuta

Una prima domanda. Ma è possibile? È possibile che una sera il telegiornale diffonda la dichiarazione del Ministro di Grazia e Giustizia annunciante la scarcerazione dei «capi storici» delle Brigate Rosse?

Il modo corretto di impostare la questione non è se ma perché potrebbe essere possibile. La risposta sta tutta nella natura dello stato imperialista di questo scorcio di anni ’80, vista in relazione alle nuove caratteristiche del conflitto sociale dentro il quadro dei rapporti di forza generali scaturiti dalla sostanziale vittoria della ristrutturazione.

Rispondere significa delineare uno scenario i cui elementi principali sono già tutti presenti nella situazione politica e sociale odierna, sottesi da dinamiche economiche ormai affermatesi in tendenze di lungo periodo, confermate e non smentite dalle oscillazioni cicliche che semmai ne accentuano visibilmente la costante peculiarità. Che la forma stato attuale, ibrido prodotto dell’intreccio fra obsolescenza istituzionale della repubblica post fascista e crisi divenuta cronica del sistema di potere democristiano, si stia avviando a rappresentare una camicia di forza per gli obiettivi strategici della borghesia imperialista italiana, è un fatto troppo noto perché valga la pena di suffragarlo con qualche autorevole citazione confindustriale.

Sul punto di concludersi un breve ciclo relativamente favorevole – e già divenuto aureo nella apologetica craxiana d’uso corrente – i tradizionali vincoli strutturali dell’economia si stanno riproponendo ad un grado tanto più elevato quanto si è accresciuto il ruolo del paese nel complesso del sistema imperialista. Questi vincoli sono tutti riconducibili alla sfera statale di regolazione del rapporto fra l’incremento dei livelli di integrazione competitiva nei confronti delle altre economie imperialiste e la gestione delle condizioni sociali e politiche che lo rendono ottimale. E’ un ruolo sempre più contraddittorio dal momento che le politiche economiche neoliberiste, che nel resto d’Europa hanno drasticamente ridisegnato il rapporto stato/società, trovano in Italia un preciso limite di applicazione nell’adattamento alle particolari caratteristiche del patto sociale (uniche, nell’intero occidente, per storia, funzione e articolazione) che ha consentito da più di 40 anni la riproduzione della sostanziale stabilità del sistema anche nei momenti congiunturalmente più difficili per la borghesia. Il patto sociale che ha favorito l’integrazione contraddittoria del proletariato nelle istituzioni attraverso la mediazione della sinistra storica, è continuamente ridiscusso dai rapporti di forza originati dalle successive fasi della lotta di classe, ma non può essere denunciato, nella sua sostanza, da una borghesia seppur fortissima, nemmeno in presenza del minimo di espressione dell’autonomia della classe e della massima contrazione del suo peso generale nella sfera politica.

Esemplare di questa realtà è l’attuale relazione stato/padroni/sindacato da un lato e PCI/partiti borghesi dall’altro.

Nelle recenti e maggiori vertenze industriali, originate dalla versione italiana della privatizzazione di importanti comparti produttivi già pubblici o a partecipazione statale, i padroni – per voce di Romiti – hanno detto chiaramente che le stesse ragioni che li condussero a strappare al sindacato l’enorme potere accumulato negli anni ’70, oggi impongono di tenere artificialmente in vita la sua funzione di mediazione/controllo, pur essendo la realtà del rapporto capitale/proletariato tale da consentire direttamente l’applicazione della legge capitalistica classica della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro.

Il superamento – nei fatti – dell’ipotesi di patto neocorporativo come regolatore istituzionalizzato di uno degli aspetti del patto sociale, dimostra solo che il contrappeso contrattuale della sinistra storica nei confronti dei suoi partners borghesi si è ulteriormente affievolito. Il che non smentisce certo che il problema della riqualificazione del ruolo di governo e contenimento dell’antagonismo proletario di PCI e sindacato debba comunque essere ridefinito – anche formalmente – nella prospettiva del suo più organico inserimento nelle future politiche statali di pacificazione imperialista del fronte interno.

Allo stesso modo la riduzione del welfare è la strada obbligata per contenere il debito pubblico crescente, eterna fonte di spinte inflazionistiche che obbligano a ricorrenti aggiustamenti recessivi in ovvio contrasto con le esigenze espansive di una borghesia imperialista tutta proiettata nell’acquisizione di nuovi spazi di mercato, ma trova un confine nella capacità della sinistra di ammortizzare socialmente gli inevitabili squilibri che da tale riduzione derivano, in presenza di un tasso di disoccupazione strutturalmente ineliminabile.

Napolitano che si mostra sdegnato più perché il PCI non è stato cooptato preventivamente nell’iter decisionale della scelta interventista, che per lo stesso invio della marina militare nel Golfo Persico, è una bella fotografia dello stesso problema visto in un’altra dimensione politica.

L’installazione dei missili americani non avvenne forse grazie al sostanziale avallo del PCI? E la mistificazione del carattere di «missione di pace» a proposito del contingente italiano a Beirut non fu costruita forse con l’apporto decisivo dei revisionisti? L’accettazione dell’«ombrello protettivo» della NATO, la svolta dell’EUR, il coinvolgimento anche militare nell’attacco alla guerriglia e nella repressione dei movimenti antagonisti, la pianificazione della cercata (e ottenuta) sconfitta operaia al referendum sulla scala mobile, sono tutti esempi dell’articolazione sul versante del lealismo istituzionale, di quel patto sociale varato con l’inserimento di Togliatti fra i padri costituenti della repubblica.

Altro che blocco progressista messo alle strette dalla svolta reazionaria! L’opera gentilmente prestata dai revisionisti allo stato imperialista deve trovare un riflesso gratificante anche sul piano politico formale, pena l’incepparsi di un meccanismo prezioso e indispensabile in un futuro che è già agitato da venti di guerra.

Il necessario aggiornamento del patto sociale negli anni’90 dovrà portare il PCI a poter votare «i crediti di guerra» per la repubblica democratica, come fecero i socialisti tedeschi nel ’14 per il Kaiser, senza perdere gli attuali legami di massa.

Le modalità politiche di questo processo si intrecciano così con lo scioglimento di un altro nodo fondamentale, tutto interno questa volta alla crisi di rappresentatività partitica delle esigenze dirette della borghesia imperialista e di cui il contrasto cronico tra le forze di maggioranza indica solo il sintomo più superficiale.

La ristrutturazione del welfare, la sua contrazione e riadeguamento, sono una garanzia strategica imprescindibile per il sostegno dello stato alla espansione concorrenziale di un’economia necessariamente sbilanciata sull’esportazione. Ma l’aggiornamento del welfare è un passo irrinunciabile per i piani della borghesia che si scontra da tempo con la crisi del sistema di potere democristiano, incapace di autoriformarsi in quanto tradizionalmente basato sul controllo delle leve di formazione della spesa pubblica oltre che sui meccanismi finanziari di erogazione del credito, fonti insostituibili di riproduzione della sua piattaforma di consenso interclassista e – insieme – ammortizzatori sociali di collaudata efficacia. La lotta per l’efficienza dell’azienda Italia contro le distorsioni del parassitismo clientelare è da anni un luogo comune – e terreno di incontro con la sinistra – la facciata propagandistica di una critica di fondo che coinvolge tutti i partiti, evidenziando la contraddizione fra i costi di mantenimento della lottizzazione partitocratica, ovvero la «costituzione reale» odierna, e i vantaggi della modernizzazione del sistema politico in funzione di una rifondazione dello stato nel senso voluto dal grande capitale. La fatiscenza istituzionale dello schema democratico post fascista (ruolo dell’esecutivo subordinato alla tripartizione dei poteri, sistema bicamerale, sistema elettorale proporzionale, rapporto centralismo/autonomie locali ecc.) è accelerata dal divaricarsi di questa contraddizione. Il riadeguamento dei partiti, sul doppio binario della ristrutturazione interna efficientista, moralizzatrice e modernizzante e dell’acquisizione pubblica dei temi della riforma istituzionale, marcia così sui tempi della ricerca concorrenziale del riconoscimento di interprete generale più affidabile della borghesia imperialista.

La seconda repubblica, dunque, è matura. La sua costruzione dipende dalla velocità di questa dinamica. La seconda repubblica coronerà il processo di formalizzazione sul terreno politico-giuridico-istituzionale di una realtà già data nelle sue linee economiche e sociali essenziali, risultato – come abbiamo ripetuto più volte – della sconfitta subita dalla classe con il dispiegarsi della controffensiva statale e padronale dell’inizio anni ’80. E quale migliore inizio per ratificare solennemente l’avvio di un nuovo corso dell’Italia imperialista finalmente messasi alla pari ad ogni livello del ruolo che già le compete, che la definitiva chiusura della sgradevole parentesi dei «terribili» anni ’70?!?

Ecco che la nostra domanda d’apertura ha così trovato risposta.

La legittimazione storica della seconda repubblica si costruirà dimostrando di aver ricomposto le contraddizioni e archiviato i problemi ereditati dalla prima. Non sarà uno stato socialdemocratico né, tantomeno, fascista. Sarà la democrazia compiuta in un paese del centro imperialista nell’epoca dei concreti preparativi per la guerra. Per questo è possibile leggere in filigrana nella «soluzione» tutte le categorie politiche, ideologiche e culturali fondanti il nuovo ordine che la borghesia ci sta allestendo. La «soluzione politica» allora non è solo il proseguimento del progetto di disgregazione per linee interne della guerriglia iniziato con l’uso degli infami e proseguito con quello dei dissociati. È un’operazione di ampio respiro, su cui si misura anche la capacità delle forze politiche candidate a governare i passaggi della ristrutturazione istituzionale e che dalla liquidazione della guerriglia si propongono di trarre il miglior attestato di affidabilità che si possa esibire agli occhi del grande capitale. È anche, fin da ora, terreno di scontro/incontro tra queste forze, non affare privato dei democristiani. La gestione iniziale della DC, incerta, contraddittoria e presto trasformata nella solita serie di ricatti incrociati e di facili speculazioni pre-elettorali, dimostra piuttosto la lunga strada che il partito di Piccoli e Cavedon deve ancora compiere per rivelarsi all’altezza della situazione. È un progetto controrivoluzionario che richiede la partecipazione diretta e indiretta di tutti i protagonisti che stipuleranno il nuovo patto costituzionale, PCI compreso. Il ministro, che potrà dare in televisione l’annuncio della sua conclusione, non potrà certo essere un ministro qualsiasi di un governo qualsiasi.

 

«L’alternativa di sinistra» e la sua sterzata a destra

Si può forse pensare di dare un autentico carattere di sinistra alla «soluzione politica»?

Tutto nasce da un equivoco: il ritenere che l’attaccamento ai valori, principi ed all’ideologia m-l, basti di per sé a definire il campo dei comunisti rivoluzionari. Il fatto è che l’elemento politico-ideologico se non si lega e realizza in una teoria-prassi che concretamente opera quale inimicizia e rottura radicale degli assetti borghesi, scade in una mera coscienza politica, imbelle e non necessariamente rivoluzionaria. La strategia della lotta armata, l’unità del politico e del militare (fin da subito e non in chissà quale futuro), è il modo di essere comunisti rivoluzionari in un paese imperialista. Fuori da una tale concezione possono anche esserci «bravi compagni», ma che muovendosi su un terreno tutto politico, vengono per così dire assorbiti nell’ambito di una conflittualità convenzionata che, in quanto tale, non determina alcuna rottura rivoluzionaria.

Se i contenuti e le proposte del gruppo Curcio sono solamente evidenti nel porsi fuori e contro il movimento rivoluzionario, in maniera diversa si pongono invece quelle tesi che possono inquadrarsi in un tentativo di «gestione da sinistra» della questione dei prigionieri politici. Ci riferiamo alla lettera apparsa sul manifesto a firma di un gruppo di prigionieri che dichiarano di riconoscersi «in quella parte delle BR che si denomina UCC» (come se le BR fossero divise in correnti).

Lo scritto – che la Rossanda inserisce a pieno titolo nella rassegna di posizioni interessate ai problemi sollevati da Curcio – sembra mosso da una preoccupazione: riportare la questione della prigionia politica nell’ambito di una battaglia che riguardi tutta la sinistra. Una battaglia che «può costituire un momento importante di quel generale rilancio della sinistra…». I «nostri» vogliono così differenziarsi dal discorso di Curcio, ritenuto pericoloso in quanto tutto interno ad una logica che favorirebbe «l’offensiva conservatrice delle forze eternamente al governo».

Ma cosa implica l’apparentemente lodevole tentativo di riproporre la problematica della prigionia comunista il Italia? In una fase in cui è evidente l’assenza di un forte movimento di classe capace (come negli anni ’70) di considerare la liberazione dei prigionieri comunisti una parte integrante della più vasta lotta contro lo stato, non si comprende proprio quale possa essere questa sinistra interessata a vedere i rivoluzionari imprigionati come un patrimonio da liberare, e attraverso cui riscattarsi dalla bassa marea di questi anni. Certo è che nella sinistra, anche quella cosiddetta di classe, molti sono stati i settori e le forze interessate a dare soluzione al problema dei prigionieri politici: dal PCI, al manifesto, passando per DP ed alcune aree del sindacato, si è assistito a svariati interventi che con fare più o meno possibilista guardavano con attenzione ad una proposta di amnistia. Ma questi non erano certi atti di disinteressata generosità, né tantomeno frutto di un atteggiamento per così dire unitario che li portavano a difendere una serie di forze anche rivoluzionarie, per far fronte comune contro la «svolta reazionaria».

L’attenzione nei nostri confronti è invece dettata dalla storica logica riformista di ritagliarsi maggior spazio e potere contrattuale all’interno della società e dello stato borghese, cercando di essere «i patroni» ora dei movimenti di massa, ora delle lotte, ora delle varie emergenze, fino all’attuale nodo dei prigionieri politici. Così come nei confronti delle avanguardie di lotta operaie e proletarie l’appoggio viene fornito finché esse non acquistano una reale autonomia e non mettono in discussione la pace sociale, allo stesso modo l’eventuale «interessamento» per le avanguardie combattenti imprigionate presuppone il loro concreto abbandono della lotta armata.

Rivolgersi alla sinistra, storicamente interna al sistema borghese e che da svariati decenni non rappresenta più gli interessi storici e generali del proletariato reprimendone (anche militarmente) le spinte antagoniste, era un suicida gioco al ribasso già, se operato tatticamente, 20 anni fa. Oggi ha il significato di totale subalternità alle regole dettate dalla democrazia borghese. E allora: contrapporre una gestione di sinistra a quella che Curcio e la DC vogliono imprimere alla «soluzione» e chiamare tutta la sinistra a raccolta su questa base, non significa forse rappresentare di fatto l’altra faccia della medaglia? La stessa medaglia!

Sia chiaro che la liberazione dei comunisti non può essere delegata a nessuna forza operante nel rispetto della legalità borghese o che si muove entro una sorta di conflittualità democratica.

Solo un movimento rivoluzionario che combatte e lotta radicalmente contro l’ordine della borghesia può far propria la liberazione di quei prigionieri comunisti che rappresentano una parte inscindibile del suo patrimonio. Sia infine chiaro che la ventilata amnistia, che a non pochi ha fatto perdere la testa, oggi non può che passare per l’abbandono della lotta armata, cioè per un attestato di fedeltà alle leggi «democratiche». Che lo si faccia alzando il pugno o abbassando la cresta è per la borghesia questione assai relativa.

Tutte le argomentazioni di questa posizione nascono da un quadro di fondo che fa proprie tesi estranee a quei punti forti (e fermi) che la teoria rivoluzionaria ha espresso in oltre 15 anni di esperienza.

Una delle questioni su cui la lettera al manifesto si dilunga è l’affermazione che ci si trova di fronte a una «offensiva conservatrice» diretta dalle forze borghesi storicamente antiproletarie (DC in testa). La contrapposizione a questa offensiva dovrebbe rappresentare l’occasione per un rilancio della sinistra. È questa una visione della società borghese che pensavamo superata da svariati decenni, cioè da molto prima della morte di uno dei suoi più insigni ispiratori: Togliatti. È la visione di un sistema borghese al cui interno vi è un blocco conservatore e reazionario espresso dalla DC e un altro progressista e di sinistra in conflitto con il primo. Che all’interno dello stato esistano diversi schieramenti in relativa contraddizione è cosa fin troppo nota. Sono contraddizioni spesso profondamente laceranti, ma mai antagoniste, essendo riflesso di forze altrettanto responsabili e compartecipi della riproduzione del sistema capitalistico. Riformismo e conservatorismo son l’uno la ruota di scorta dell’altro, combaciano nell’articolare un sistema statale in grado di dosare sapientemente controllo, repressione e assorbimento delle contraddizioni di classe, di integrarsi all’imperialismo occidentale mantenendo una pur relativa autonomia, di favorire e incentivare i processi di ristrutturazione generale promuovendo lo sviluppo imperialista con la sua penetrazione e sfruttamento delle aree della periferia.

Riformismo e conservatorismo (o progresso e reazione? O democrazia conseguente e clerico-fascismo?… tanto per utilizzare categorie proprie dell’area teorica di riferimento dei «nostri») si scontreranno/incontreranno anche per giungere a quella ridefinizione istituzionale ormai necessaria per garantire ad un grado più elevato, negli anni ’90, tutto quanto abbiamo prima accennato. Su questa univocità di intenti si regge quel patto sociale che dal dopoguerra si è creato in Italia tra le forze della sinistra storica e la borghesia e che sta alla base della solidità della democrazia borghese. Non ci scordiamo, per non andare troppo lontani e sforzandoci di adottare la stessa visione del gruppo Gallinari & C., che la cosiddetta «svolta reazionaria» non poteva dispiegarsi senza la complicità di PCI e sindacato, che la resero possibile attuando quell’altra svolta (quella dell’EUR) responsabile di aver fatto pagare alla classe tutti i costi di una feroce ristrutturazione. In realtà, visto che il loro appello alla sinistra, intesa esplicitamente in «senso ampio» (includendo anche il PCI), vorrebbe porsi come elemento catalizzatore di un ipotetico fronte ampio del… progresso contro la canea reazionaria, l’unica cosa chiara della loro proposta diviene quindi che la guerriglia va sacrificata (oppure congelata, il che non cambia molto) sull’altare dell’unità con le sinistre, o al limite concepita quale arma da utilizzare per ultima ratio contro la reazione per la difesa della «democrazia»! Ma anche al di fuori dei partiti storici della sinistra con chi altri vorrebbero dialogare? Approfondire il rapporto con la Rossanda e DP? oppure privilegiare la variopinta (di muffa e incrostazioni opportuniste) area del vecchio gruppismo emmellista? Ovvero rivalutare, dopo averlo combattuto per anni, un arco di forze caratterizzato da una pratica imbelle e codista diretto da un ceto politico che è potuto sopravvivere nella democrazia borghese anche grazie al viscerale attacco alla lotta armata in generale e alle BR in particolare e spesso approdato ad un attivo fiancheggiamento della dissociazione? La strategia della lotta armata fin da subito si pose come elemento di rottura con questa sinistra. Che senso ha oggi volerle ridare peso, attenzione e legittimità? O si è vittime di una incurabile miopia ultratatticista che impone di ritrovare terreni di incontro con i Brandirali di oggi e le Rossanda di sempre, o al contrario si spera di essere ritrovati da costoro per esserne legittimati! Del resto il discorso dei «nostri» può portare ancora più lontano (dalla strada della rivoluzione, è chiaro!). Dal concetto di svolta reazionaria a quello di rifondazione e unità della sinistra a quello del più ampio fronte contro la conservazione si arriva, seguendo un filo a piombo, al concetto di movimenti popolari e di blocco storico. Qui il referente diretto non sono più i settori rivoluzionari del proletariato, i soggetti politici e le aree sociali da inseguire si ampliano, diventando appunto un blocco storico. Ma i blocchi storici sono sempre stati un raggruppamento eterogeneo-interclassista composto da figure sociali notoriamente antagoniste agli interessi politici del proletariato, che in alcune congiunture ne possono favorire lo sviluppo sociopolitico per usarlo quale massa di manovra. La contraddizione principale è così spostata dallo scontro proletariato/borghesia al contrasto tra blocco progressista e blocco conservatore. Di questo passo, a quando la proposta del «patto fra produttori»? o dell’alleanza «capitale-lavoro contro la rendita»? o dell’appoggio alla piccola e media industria nazionale contro lo strapotere delle multinazionali? Ma Gallinari & C. se ne sono accorti? La loro lettera contiene in nuce tutti gli elementi di progressiva degenerazione revisionista che lo stesso PCI ha maturato in decenni!! Eppure, sostengono di non voler abbandonare il patrimonio delle BR e riaffermano sdegnati la distanza dall’abiura e dalla dissociazione, volendo rivolgersi a settori capaci di organizzare la mobilitazione di un movimento di massa sulle loro tesi. Dal punto di vista teorico una tale posizione non fa che arretrare di più di 20 anni il dibattito nel movimento rivoluzionario, riproponendo grottescamente l’anacronistico ciarpame togliattiano, ancor più banalizzato da improrogabili (per loro!) urgenze tattiche. Dal punto di vista politico l’esistenza stessa della guerriglia si pone come un ostacolo insormontabile per i loro obiettivi. È ovvio allora che queste tesi tendano oggettivamente a inserirsi fra quelle che ne auspicano la conclusione. La realtà si incaricherà di deluderle!

 

La perestrojka dei pragmatisti

Nel composito e variegato campo della «soluzione politica» e del disarmo della guerriglia un discorso a parte merita quel gruppo di prigionieri che con puntualità camaleontica è passato (nel volgere di breve tempo) dall’appoggio e sostegno alle iniziative della guerriglia, all’apologia di Curcio e del peggiore disfattismo. Su questo gruppo di elefanti in via di addomesticamento va fatta una breve premessa onde evitare facili e disoneste strumentalizzazioni. Qualcuno infatti potrebbe essere indotto a legare l’indecoroso tonfo del gruppo in questione con l’impianto teorico-politico delle BR/PCC, mostrandone così la fragilità stessa, e la sua inadeguatezza. Diciamo subito che una tale operazione oltre ad avere il fiato corto, altro non farebbe se non portare ulteriore acqua al putrido mare del liquidazionismo.

Fatta questa premessa, va chiarito, che il corpo di tesi con cui oggi questi signori tentano di giustificare l’adesione alla «soluzione politica», è del tutto estraneo al patrimonio teorico e politico delle BR stesse. Le tesi in questione sono in realtà il frutto di un percorso teorico distorto che nel suo divenire si è progressivamente ma significativamente estraniato dalle direttrici strategiche della guerriglia.

È il caso ad esempio di teorizzazioni sostanzialmente vicine ad una versione aggiornata della «quinta colonna». Che in due parole si può sintetizzare nel seguente assunto: in una fase di assenza dei movimenti antagonisti, di debolezza delle forze rivoluzionarie, di tenuta e ripresa dell’imperialismo, la possibilità di dare impulso e sviluppo ad un processo rivoluzionario è legata all’andamento immediato delle contraddizioni internazionali in particolare tra il campo socialista e quello imperialista. Si tratta allora di legarsi a queste dinamiche favorendo il campo socialista la cui avanzata si riflette automaticamente (in termini di ricaduta positiva) in ogni processo rivoluzionario nazionale. Alla fin fine nel quadro di questa analisi la contraddizione tra est ed ovest viene assunta ad immediatamente determinante nello spostamento dei rapporti di forza generali tra proletariato internazionale e borghesia imperialista, tra rivoluzione e controrivoluzione. L’inadeguatezza e i rischi di degenerazione di tale impostazione sono notevoli. Così infatti si va a ricondurre il proprio avanzamento all’andamento per così dire ciclico dello scontro tra est e ovest, a questo (di fatto) vengono subordinate le sorti di una forza rivoluzionaria in questa fase. E così oggi, che il new-deal gorbacioviano ha dato impulso ad una nuova fase di «distensione» (per altro congiunturale) e di «apertura» verso l’ovest, allineando (più o meno ordinatamente) ad una tale politica alcune forze o stati del campo antimperialista (vedi OLP sull’opzione della conferenza internazionale, oppure la Siria), in questo quadro, e con una ritenuta debolezza della guerriglia e dei movimenti di classe, il passo ad «allinearsi» diventa molto breve… come infatti è stato per il gruppo inizialmente citato.

Sullo sfondo di certe tesi (quelle sopradette) vi è un approccio metodologico che, per le sue conseguenze nefaste, crediamo non sia affatto irrilevante sottoporre a critica. Nel particolare ci si riferisce ad un metodo materialistico-dialettico che nella pur giusta e necessaria battaglia contro il dogmatismo e lo schematismo libresco presenti nel movimento rivoluzionario, è alla fine sconfinato nella estremizzazione opposta, assolutizzando (de facto) l’analisi concreta della situazione concreta, piegando così alla mera realtà immediata (o congiunturale) il campo dell’analisi, del necessario e del possibile… insomma siamo al pragmatismo!!

L’analisi delle tendenze generali e obbligate dell’imperialismo, delle contraddizioni storiche tra borghesia imperialista e proletariato internazionale, della lunga durata di una strategia di guerriglia, venivano per così dire relativizzate in virtù del primato della realtà concreta e di una viscerale avversione a quel determinismo che invece rappresenta l’essenza stessa del marxismo.

Tutto questo non può che portare ad una accentuazione/sopravvalutazione delle dinamiche immediate che ritenute centrali, vengono così rese autonome e slegate (recise) dalle tendenze storiche generali. Ad esempio la relativa ripresa dell’economia capitalistica mondiale (tanto enfatizzata dalla borghesia ma ormai al tramonto), e la timida apertura dei mercati dell’est viene quasi scambiata per un nuovo ciclo espansivo dell’imperialismo. Quando invece i suoi effetti non possono che essere temporali ed effimeri, se inquadrati non solo nell’epocale senilità dell’imperialismo, ma e soprattutto nella crisi generale storica apertasi attorno agli anni ’70.

Oppure, per fare un altro esempio chiarificatore, il discorso di un’avvenuta distensione e pacificazione a livello internazionale e interno. Anche questa congiuntura distensiva (pur relativa e assai precaria) se così si può chiamare, non può essere disgiunta dalle tendenze generali della fase storica apertasi da oltre un decennio; una fase attraversata da tali e laceranti contraddizioni, che i conflitti, le guerre, le rivoluzioni diventano passaggi obbligati. Si confonde, per usare una metafora militare, la pausa tra un combattimento e l’altro con la presunta fine delle ostilità.

Per concludere si può senz’altro affermare che l’arco di tesi qui sinteticamente affrontato, si distacca fortemente da quella che è la teoria-prassi della strategia della lotta armata in un paese del centro imperialista. Detto questo, il gruppo di donne e uomini fino a ieri interni alla guerriglia, al di là di una patina rivoluzionaria che cerca di mantenersi, in realtà sostiene anch’esso la sporca operazione di disarmo e isolamento politico e ideologico della guerriglia e del movimento rivoluzionario. Sia chiaro che d’ora in poi ce li troveremo contro nel mentre, con il buon senso dei giusti, e il realismo dei vecchi saggi difenderanno il trattato di resa, la pacificazione sociale… contro i «vuoti irriducibilismi».

Che se ne tornino pure a casa, i loro nomi e la loro fine non potrà che accantonarsi nell’ammuffito ripostiglio dei vecchi quadri!… dove l’unica attenzione che riceveranno sarà quella della… rodente critica dei topi.

 

Dal crollo delle ragioni alle ragioni del crollo

Sullo sfondo di quanto abbiamo sostenuto fino ad ora resta il problema delle motivazioni profonde che stanno alla base del desolante panorama offerto dal crollo di tanti ex rivoluzionari. Un crollo che va assumendo le proporzioni del tramonto definitivo di una certa generazione di militanti e che non può essere liquidato – come pure si sarebbe tentati di fare, specie di fronte a certi comportamenti – con il facile ricorso a categorie che esulano dall’analisi politica, rientrando in altre discipline scientifiche.

È necessario fare qualche passo indietro: nella riflessione su questi anni di lotta armata dobbiamo sottolineare ancora una volta l’elemento di rottura davvero epocale che la guerriglia ha rappresentato nel processo rivoluzionario, entrando nel merito di ciò che ha permesso questa rottura e di quanto essa ha irradiato nei passaggi successivi.

Questo elemento di rottura è stato la «fusione» del politico e del militare. L’uso della violenza rivoluzionaria era sempre stato concepito come uno strumento tattico dalle organizzazioni proletarie d’avanguardia, uno strumento come molti altri, che «si tirava fuori» solo in alcune fasi, dispiegandosi compiutamente solo in quella insurrezionale e diventando elemento strategico nella guerra civile, in cui la dominanza passava al militare come fattore determinante di vittoria.

In dialettica con questi diversi passaggi si ponevano gli altri aspetti della politica del partito proletario. Così, a grandi linee, la codificazione del rapporto tra il politico e il militare nell’impianto terzinternazionalista.

Con l’assunzione della strategia della lotta armata questo rapporto trova una dimensione totalmente nuova e originale. La fusione del politico e del militare dà al partito, che ingaggia sin dall’inizio la lotta armata come strategia per la presa del potere, una connotazione altrettanto originale: nasce il partito comunista combattente.

Le BR, che già dal loro sorgere si muovevano «da partito», danno tutto il segno di questa originalità, di questa rottura irreversibile nella storia del movimento operaio e comunista italiano.

Alla luce dei recenti avvenimenti riteniamo che quanto abbiamo ricordato, e che pure ogni compagno dovrebbe conoscere a memoria, non sia stato ancora compreso in tutta la sua portata. Non solo: lo squallore della «soluzione politica» è l’ultimo episodio che ci fa pensare come anche chi questa rottura epocale l’assunse facendola propria (da un punto di vista soggettivo) e chi addirittura la promosse, l’abbia interpretata come una assunzione più «formale» che «sostanziale».

Se questo è vero, attraverso un’altra lente troveremmo migliore lettura di quanto può apparire superficialmente indecifrabile, cioè di come una buona parte di un’intera generazione di militanti di allora sta arrivando, seguendo i sentieri più vari, allo stesso traguardo: il crollo.

Con questa chiave di lettura non pretendiamo di esaurire tutte le «motivazioni profonde» dei cedimenti a cui stiamo assistendo, ma ogni altra spiegazione deve tener ben presente questo aspetto.

E allora «storicizziamo» schematicamente, come pare vada di moda oggi, ma con intenti opposti a quelli degli imbalsamatori della lotta armata.

Ricordiamo il quadro di dinamiche oggettive e soggettive da cui emerse quella rottura. A cavallo degli anni ’60-70 fu la classe a ritenere esaurita, nel ruolo di rappresentante generale e storico dei propri interessi, la sinistra istituzionale. Una maturazione di consapevolezza frutto di dinamiche oggettive proprie del grado di sviluppo del MPC nel loro intrecciarsi ad altri fattori interni e internazionali.

1) Nei cicli produttivi delle grandi fabbriche del nord, l’incontro fra l’operaio professionale, con la sua eredità resistenziale mai sradicata del tutto dal PCI, e la forza-lavoro di riserva meridionale, strappata dal suo contesto sociale nella fase espansiva del boom, dotata di un bagaglio di cultura contadina antistituzionale incontrollabile per la sinistra storica.

2) L’impatto di questa realtà con quella studentesca, espressione delle contraddizioni nate dalla scolarizzazione di massa in rapporto al mercato del lavoro, che pone in discussione radicalmente tutto l’apparato ideologico e si dimostra l’elemento consapevole – dal punto di vista soggettivo – di quante potenzialità quella fase di crisi degli assetti sociali, economici, politici conteneva per l’apertura di sbocchi rivoluzionari.

3) I riflessi della lotta internazionale contro l’imperialismo (Vietnam, paesi della periferia) e contro il fascismo (Grecia, Spagna, Portogallo), l’onda lunga guevarista della Rivoluzione cubana e la Rivoluzione culturale cinese.

È un periodo di grande disordine sotto il cielo in cui, tra l’altro, la contraddizione tra gli elevati livelli di scolarizzazione e il massimo livello di alienazione della grande fabbrica spinge oggettivamente il proletariato – nei suoi settori più avanzati – all’assunzione soggettiva della necessità di ricomporre il lavoro intellettuale con quello manuale, un obiettivo comunista maturo che si rifletterà in modo dirompente anche nel processo di formazione delle avanguardie di classe. Sostanziare l’acquisizione di questo elemento traducendolo nella sfera dell’attività rivoluzionaria significava già porre le condizioni dell’unità del politico e del militare, significava fare il primo passo per riscattare la violenza rivoluzionaria dal suo orizzonte tradizionale nella storia del movimento comunista – la tattica – collocandola in una prospettiva strategica. Pena il riassorbimento in tempi più o meno brevi nel quadro istituzionale. I gruppi e gruppetti che si formarono, non riuscendo a comprendere qual era la strada da imboccare e tentando livelli di mediazione con questo passaggio obbligato, finirono per riprodurre una versione più estremista di quanto avevano già rappresentato per la classe PCI e PSI. Anche Togliatti, utilizzando la sinistra del PCI, per più di un decennio riuscì a prendere per il culo i proletari con le astuzie del «doppio binario», simulando la possibilità di ricostruire l’apparato militare da mettere in campo in vista della leggendaria «ora x». I gruppi ne fecero la serissima parodia organizzando i servizi d’ordine. Anche chi propugnava le idee più avanzate (ma dentro la stessa visione del processo rivoluzionario, da Potere Operaio alla prima LC e, meglio ancora, dai GAP alla XXII Ottobre) non poteva che equivocare, oscillando dalla «militarizzazione» del movimento al rinverdimento di vecchi allori resistenziali con concezioni da braccio armato di tutta la sinistra. E dove questa contraddizione non trovò «rientro» produsse lacerazioni e accelerò la fuga nell’opportunismo di tanti sessantottini.

I soli a capire la necessità del salto da operare furono i compagni che diedero vita alle Brigate Rosse, che ruppero verticalmente con quanto sino ad allora era stato concepito e praticato nel processo rivoluzionario in Occidente a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre, prolungando politicamente la rottura orizzontale già operata dai settori più avanzati della classe. Vediamo meglio. La nascita della lotta armata, storicamente definita in un quadro di condizioni ovviamente peculiari ma frutto della maturazione delle dinamiche di un’intera epoca, seppe interpretare dal suo sorgere, anzi, con, il suo sorgere, la necessità di trasporre su un piano più elevato -quello strategico- le spinte delle avanguardie dello strato di classe allora più combattivo e tendenzialmente egemone sull’intero proletariato. Spinte che pure alludevano alla questione fondamentale della presa del potere politico, ma che – di per sé – non esaurivano l’inverarsi di tutte le condizioni richieste per definire una data congiuntura come effettivamente rivoluzionaria. Ma questa «trasposizione» non può essere identificata con le caratteristiche della situazione contingente che la resero possibile (inizio anni ’70) e quindi condannata a condividere la sorte del progressivo affievolirsi e spegnersi del presunto «clima rivoluzionario» di quel periodo.

Fu un salto di qualità che approdò alla concezione della guerra rivoluzionaria di lunga durata nella metropoli imperialista e non certo al prolungamento soggettivista e «in altre forme» di una insurrezione abortita, o – peggio – alla copertura militare dell’antagonismo di una specifica figura proletaria destinata (ABC del marxismo-leninismo!), come tutte quelle che l’hanno preceduta e la seguiranno, ad estinguersi o trasformarsi nelle successive fasi di sviluppo del MPC.

La guerriglia fu una svolta epocale che ha significato per gli autentici comunisti un’acquisizione irreversibile, perché ha indicato al proletariato l’unica strada vincente per la conquista del potere politico in un paese del centro… al proletariato come classe e non all’operaio massa, cioé a uno specifico referente protagonista di un momento ritenuto rivoluzionario, da paragonarsi all’operaio della manifattura per la Russia del ’17 o all’operaio professionale per l’Ordine Nuovo di Gramsci. Il fatto che oggi l’operaio massa della grande fabbrica, dopo la vittoria della ristrutturazione, abbia mutato il ruolo che occupava nella composizione proletaria, il fatto che esista l’addetto ai robot mentre le foto degli scarriolanti delle bonifiche padane sono conservate nei musei della «cultura contadina», non smentisce ma conferma la continuità della lotta di classe e il ruolo che in essa hanno i comunisti, per lo meno fino a quando questi ultimi non scambieranno l’ascesa dei titoli azionari con l’uscita dell’imperialismo dalla crisi generale e storica che conduce alla guerra. Questo lo evidenziamo per ricordare a chi legge la voluta imbecillità di tesi ricalcate dai pezzi di colore di Giorgio Bocca e che legano la fine congiunturale di un ciclo di lotte offensive di una particolare figura proletaria alla fine della strategia della lotta armata. Voluta imbecillità. A meno che, sino da allora, non si sia frainteso a livello macroscopico quanto si stava facendo, confondendo «strategia» con «tattica». Una assunzione «sostanziale» e non «formale» delle categorie fondanti della guerriglia non avrebbe certo lasciato spazio ad un «equivoco» del genere, protrattosi negli anni successivi in tutta una serie ben conosciuta di deviazioni nel rapporto partito/masse.

Il partito comunista combattente è un partito nuovo e diverso da tutte le esperienze organizzative che l’hanno preceduto, non è uno strumento che si possa piegare a una prassi che la sua stessa esistenza dimostra di aver radicalmente superato, così come l’originalità della sua strategia non può essere ridotta a una sinergia di tattiche ereditate da altri impianti. La soggettività rivoluzionaria organizzata nella strategia della lotta armata per il comunismo non opera come un qualsiasi partito della sinistra storica proteso ala ricerca di una maggioranza sociale o di un’ampia influenza su di essa da spendere come peso contrattuale nella coabitazione con le forze borghesi entro la cornice vincolante delle istituzioni democratiche. Il partito comunista combattente è vettore di una strategia capace di articolarsi nelle tappe di un processo rivoluzionario senza appiattirsi sulle diverse congiunture, determinando la tattica e non risultandone determinato.

A distanza di anni, e ci siamo soffermati sul passato per parlare del futuro, chi vuole inchiodare le BR agli anni ’70 inchioda se stesso a una estraneità storica dalla guerriglia; conferma nei fatti, pur avendo – magari – sempre sostenuto il contrario, una concezione fuorviante e distorta del partito comunista combattente e dei suoi compiti; una militanza segnata fin dall’inizio da contraddizioni accantonate e mai ricomposte al punto da esplodere alla prima proposta democristiana veramente allettante.

I militanti che hanno indossato solo ideologicamente i panni del guerrigliero sopra abiti tratti da vecchi guardaroba, ora si trovano nudi di fronte al loro fallimento o esibiscono senza ritegno la consunta tenuta da braccio (e per di più disarmato!) dell’intera sinistra. Alla fine della loro parabola hanno di nuovo separato il politico dal militare. Storicizzato (e archiviato) il militare, usano il politico come categoria borghese operante entro i limiti della «conflittualità democratica», strumento di trattativa… garanzia di scarcerazione.

 

La fine e l’inizio

I nemici della guerriglia stanno sbagliando i loro calcoli. I giornalisti in divisa e i carabinieri in doppiopetto, gli esponenti dei partiti, il personale istituzionale, stanno condividendo lo stesso equivoco di fondo. La guerriglia non è un esercito borghese che, abbandonato o tradito dai suoi generali, si sbanda al punto da ridursi a fenomeno eliminabile con un fortunato rastrellamento poliziesco. Ne siamo perfettamente consapevoli proprio mentre partecipiamo alla battaglia politica contro la «soluzione» per sconfiggere l’ultimo più articolato e insidioso progetto di liquidazione della guerriglia in Italia. La situazione attuale, in quanto rimette in luce vecchie e recenti incrostazioni teoriche, vecchie deviazioni riproposte e aggiornate, impone lo scioglimento di nodi ben conosciuti, rappresentando così l’occasione decisiva per rivitalizzare il dibattito nel movimento rivoluzionario e, per quanto ci riguarda direttamente, fra i prigionieri comunisti che appoggiano la guerriglia in generale e le BR/PCC in particolare.

La strategia della lotta armata trae forza dalla continuità della sua esperienza per uscire dalle secche del continuismo e affrontare le tappe del processo rivoluzionario negli anni ’90 in un paese del centro imperialista. La storia delle Brigate Rosse si conferma ancora una volta irriducibile alle distorte letture di parte, vitalmente refrattaria a chi vuole «conservarla» per svenderla, a chi pretende di «trasformarla» per diluirla nel pantano socialdemocratico, a chi sogna di confezionarla in un accattivante pacco dono da anni ’70 pronto per l’immissione nell’industria culturale postmoderna. È un processo che si arricchisce giorno per giorno costruendosi nella lotta di classe, rafforzandosi nelle sconfitte e alimentandosi della materia sociale in movimento.

L’esperienza delle Brigate Rosse è un’arma che continueremo a impugnare. Perché la rivoluzione sa appendere i quadri storici al muro e trovare la strada per la vittoria.

 

Adriano Carnelutti, Giuliano Deroma, Carlo Garavaglia, Ario Pizzarelli

 

Cuneo, settembre 1987.

Tribunale di sorveglianza di Firenze – Dichiarazione del militante delle BR-PCC Roberto Morandi allegata agli atti dell’udienza del 11.02.2005 per ricorso al provvedimento di 41 bis

Lo stato vorrebbe avere la pretesa di infliggere una qualche sconfitta politica alle BR-PCC ed alla classe in generale. Cercando con questo provvedimento di 41 bis di usare i militanti BR ed i militanti rivoluzionari prigionieri come ostaggi su cui fare pressione e con il fine di impedirli ad intervenire politicamente nei cosiddetti “processi alle BR”, di annullare il dato politico che in realtà va ben al di là del rapporto prigionieri/stato, rappresentato dal rilancio della lotta armata. Come se agendo sui prigionieri in qualità di ostaggi da parte dello stato, si riuscisse a liquidare il peso che l’intervento combattente delle BR ha avuto, ed ha, nello scontro rivoluzionario e di classe in questo paese. Ma questa azione evidentemente non può cancellare quanto il rilancio della strategia della lotta armata rappresenti oggi nei rapporti di forza generali. Tra le classi uno svantaggio strategico per la borghesia ed invece un vantaggio altrettanto strategico per il proletariato. Tutto ciò inoltre in un contesto in cui le contraddizioni ed i conflitti di classe si vanno sempre più acuendo e polarizzando sul piano interno, per effetto di una crisi i cui costi la borghesia vuole puntualmente rovesciare sulle spalle della classe. Come sul piano internazionale dei rapporti tra imperialismo ed antimperialismo, se da un lato sempre più si è sviluppata la necessità di imprese belliche ed aggressive da parte dell’imperialismo, in particolare del suo polo dominante USA, dall’altra la resistenza e la guerriglia dei popoli libanese, palestinese, afghano e irakeno, ha impedito il rafforzarsi e stabilizzarsi nell’area della controrivoluzione e degli interessi imperialisti. Così come la resistenza di questi popoli ai disegni imperialisti ha reso più instabile e contraddittoria la coesione della catena imperialista su tutti i fronti di guerra. Avendo pure un netto riflesso sulla situazione del “fronte interno” ai paesi imperialisti in generale, ed in particolare a quelli della coalizione anglo-usa-italiana e dei volenterosi che invasero l’Iraq, non consentendo una costante e stabile mobilitazione di massa a sostegno della guerra di aggressione all’Iraq e all’Afghanistan. Una condizione storico generale che impone sicuramente agli stati imperialisti di rinsaldare il governo del conflitto politico e di classe interno e impedire che vada a saldarsi con le istanze antimperialiste espresse dai popoli aggrediti, come nello specifico del rapporto Rivoluzione/Controrivoluzione di questo paese. Lo stato deve agire su più “fronti interni”, dato il significato concreto che il rilancio dell’iniziativa politico-militare delle BR-PCC da all’avanzamento della lotta sul terreno del potere e per il potere della classe e delle sue avanguardie rivoluzionarie che su questo si dispongono. È chiaro in quale clima politico e sociale, dopo le misure “antiterrorismo internazionale”, perse dal governo con il consenso bipartisan di tutte le forze politiche-istituzionali, questo provvedimento di 41 bis contro i militanti BR e rivoluzionari catturati dal 2003 ad oggi, si collochi! Il dato di fatto è però che se la soggettività politica della borghesia pensava ad una controrivoluzione assestata, per cui le condizioni storiche e politiche in cui i conti con la strategia della L.A. E della lotta per il potere della classe fossero regolati una volta per tutte, con il rilancio invece della L.A quale strategia che consente all’avanguardia rivoluzionaria di esercitare ruolo di direzione ed organizzazione della classe rispetto allo scontro, si è dovuta amaramente ricredere. Così, pur nelle mutate condizioni politiche dello scontro, si è verificato che la strategia della lotta armata è motore capace di modificare a favore della classe il quadro dello scontro e dei rapporti di forza a fronte di un doppio processo controrivoluzionario, che sul piano internazionale modificava a favore dell’imperialismo equilibri e rapporti tra borghesia imperialista e proletariato internazionale, e sul piano interno nei rapporti rivoluzione/controrivoluzione e classe/stato, pareva essersi definitivamente assestato. Quadro dello scontro che si è modificato per come si è qualificato il rilancio della L.A. Cioè di attacco al cuore dello stato, inteso come progetto antiproletario e controrivoluzionario, con cui la borghesia si rapporta ai nodi centrali dello scontro che la oppongono al proletariato. Progettualità che viene individuata riaffermando i criteri che permettono l’attacco allo stato intervenendo nel vivo dello scontro e che sono del patrimonio rivoluzionario più avanzato quello espresso dalle BR-PCC e cioè di centralità selezione e calibramento. Centralità del progetto dominante, selezione del personale perno dell’equilibrio a suo sostegno e calibramento ai rapporti di forza interni ed internazionali, nonché allo stato delle forze rivoluzionarie e proletarie e alla loro disposizione sulla lotta armata. Criteri che, unitamente ai principi politico-organizzativi-strategici, come quelli di clandestinità, compartimentazione e centralizzazione delle direttive-decentramento delle responsabilità politiche e politico-organizzative che consentono alla guerriglia di praticare la strategia della L.A. come strategia adeguata d impattare e distruggere le forme politiche attuali del dominio della borghesia sul proletariato nei paesi imperialisti e sostenere lo scontro, come processo di guerra di classe prolungato con la borghesia e il suo stato, cosicché dall’attacco si abbia il massimo vantaggio politico per il proletariato e la propria organizzazione rivoluzionaria in questa fase dello scontro, come in generale di ritirata Strategia e di ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie, dove il dato politico predomina sull’aspetto militare sino al momento della rottura rivoluzionaria, consentono all’iniziativa rivoluzionaria di incidere dove si formano i rapporti di forza e politici nello scontro tra le classi, quale conseguenza del danneggiamento dovuto all’attacco militare portato al progetto e agli equilibri politico-sociali intorno ai quali si vengono a stabilire tali rapporti. E con ciò sviluppare il processo di costruzione del partito Comunista Combattente. Progettualità che esprime il rapporto politico tra la classe e lo stato e che è rappresentata come centralità della rimodellazione economico-sociale dei rapporti e relazioni tra le classi in senso neocorporativo e di riforma istituzionale dello stato. Ed è proprio rispetto al danneggiamento inflitto allo stato che con la linea espressa le BR hanno rafforzato le istanze di autonomia della classe e ristabilito una dialettica storica con queste, in virtù del peso che le BR hanno assunto nello scontro di classe del paese, per l’opzione praticata e proposta a tutta la classe quale unica rispondente alle necessità politiche e strategiche del proletariato di un’ alternativa rivoluzionaria alla crisi economica sociale e politica della borghesia imperialista e alla sua offensiva antiproletaria, controrivoluzionaria e bellicista volta ad aumentare lo sfruttamento della classe operaia, del proletariato metropolitano e a rafforzare il proprio dominio. Per cui i settori ed avanguardie di classe nella loro resistenza hanno trovato maggior forza per rompere le gabbie neocorporative, quale conseguenza del rafforzamento generale delle istanze di autonomia poste nello scontro, trovando le condizioni per riprendere l’iniziativa di lotta proprio intorno al danno pitico subito dalla borghesia per merito dell’iniziativa rivoluzionaria. Un dato politico che ha fatto sì che il rilancio rafforzasse la resistenza proletaria e le sue istanze autonome, nonostante i tentativi dell’esecutivo di riversare i successi della controguerriglia nei confronti delle BR-PCC sull’intero campo di classe e rivoluzionario per farlo arretrare e poter riprendere l’offensiva contro di esso. È questo il risultato mancato che sostanzia l’impotenza politico-strategica dello stato e della borghesia. A questo dato lo stato e la sua controrivoluzione si devono per forza rapportare nel cercare di riadeguarsi e recuperare lo svantaggio sofferto nei confronti della classe e della sua avanguardia rivoluzionaria, ma trovandosi di fronte a un dato di rilevanza strategica, lo stato deve far pesare al massimo i risultati conseguiti solo sul terreno della controguerriglia negli ultimi tempi e dare il massimo risalto controrivoluzionario ai “processi alle BR” cercando di utilizzare in qualità di ostaggi i militanti BR e rivoluzionari prigionieri e propagandando ancora una volta l’ennesima e supposta sconfitta storica delle BR. Ma non essendo stato sufficiente tutto questo nel cercare di divaricare la proposta delle BR dalla classe, e avendo un bilancio dei processi in forte passivo per lo stato, si cerca oggi un ulteriore affondo nell’attacco politico all’Organizzazione attraverso questo provvedimento di 41 bis segno evidente che l’intervento politico dei militanti BR e rivoluzionari in prigionia ai processi, è stato all’altezza di rappresentare e sostenere gli avanzamenti e attestazioni storiche conseguite dalla guerriglia con il rilancio della lotta armata, riaffermando con ciò la propria identità rivoluzionaria in modo sempre più adeguato sottraendosi al ruolo di ostaggio che lo stato utilizza contro la classe, cercando oggi di nascondere la propria attuale debolezza politica generale nel voler agire sui militanti prigionieri, non potendo incidere sui processi storici nel ristabilire l’assestamento controrivoluzionario precedente al rilancio stesso. Quindi rispetto a questo provvedimento di 41 bis e all’utilizzo dei prigionieri come ostaggi è necessario riaffermare la propria identità rivoluzionaria e il sostegno alla propria organizzazione e ciò facendo prendere posizione contro tale provvedimento come atto della ricerca di legittimazione e di un consenso alle politiche dominanti da parte della borghesia imperialista che non possono essere trovati nella realtà dello scontro di classe. Per cui lo stato borghese si riduce alla battaglia contro i mulini a vento della criminalizzazione delle parole politiche dei prigionieri che disconoscono la sua legittimità storica e politica. Una battaglia illusoria perché i processi reali si svolgono fuori dalle mura delle prigioni, sono di carattere politico storico e segnati dall’approfondirsi della crisi dell’imperialismo. E sul piano storico proprio il rilancio della lotta armata dimostra di come le politiche controrivoluzionarie sugli ostaggi perseguite sino ad ora e oggi lo stesso si può dire per questo provvedimento di 41 bis, siano state armi spuntate che non possono fermare il processo rivoluzionario. Per cui pensare di poterlo fare attraverso i militanti BR e rivoluzionari in prigionia usati come ostaggi e attaccarli nell’espressione della propria identità politica, in quanto sono soltanto le “figure” pubbliche della rivoluzione è puramente velleitario e ulteriore riprova del fallimento politico da cui questo provvedimento deriva.

 

Il militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente Roberto Morandi

 

Da un militante BR processato in Svizzera. Documento di Antonio De Luca messo agli atti

L’iniziativa dei compagni della RAF contro Tietmeier, uno dei principali artefici della formazione delle politiche economiche comunitarie, ha rimesso al centro il nodo politico di fondo con cui si devono confrontare oggi tutte le organizzazioni combattenti della nostra area geopolitica indipendentemente se le loro finalità strategiche siano la liberazione nazionale o la dittatura del proletariato: lo sviluppo ed il consolidamento del Fronte Antimperialista Combattente (FAC) in quanto politica di alleanza tra le forze combattenti dell’area.

La necessità del salto politico al FAC si pone oggi in termini soggettivi a partire dal grado di sviluppo dell’imperialismo sia dal punto di vista economico che, e soprattutto dal punto di vista delle politiche di coesione, che impongono la necessità della costruzione di quei livelli di unità e cooperazione che permettano di incidere sulle politiche dominanti dell’imperialismo, pur senza esaurire con questa attività il complesso del lavoro che ogni organizzazione combattente porta a-vanti relativamente ai suoi obiettivi strategici ed alle caratteristiche storiche e sociali del proprio paese.

Infatti anche l’attività delle BR non si esaurisce nell’attività di attacco all’imperialismo, ma lega questa attività all’attacco al cuore dello stato, cioè l’attacco alle politiche dominanti dello stato che nelle congiunture sono atte a determinare nel paese equilibri politici tra classe e stato funzionali all’attuazione dei programmi della frazione dominante della BI (Borghesia Imperialista), che in questa congiuntura si riconducono all’attacco del progetto demitiano di riformulazione e rifunzionalizzazione dei poteri dello stato e dei suoi apparati.

Attacco che mira, in ogni congiuntura, a disarticolare l’iniziativa del nemico favorendo l’ingovernabilità delle tensioni di classe per rovesciarle sul terreno della guerra civile di lunga durata contro lo stato, dando prospettiva allo scontro di classe.

Attività che può svilupparsi solo a partire da un criterio offensivo, che nella metropoli significa immediatamente organizzazione della lotta armata, in quanto unico terreno praticabile in questa fase storica per lo sviluppo di un processo rivoluzionario, questo a causa dello sviluppo delle forme di dominio della BI, che fin dal secondo dopoguerra con lo sviluppo delle politiche di controrivoluzione preventiva divenute strutturali all’agire degli stati, ed a fronte di profonde modificazioni sociali date dalla proletarizzazione della maggioranza della popolazione nei paesi del centro imperialista, hanno reso impraticabile la politica dei due tempi con l’accumulazione di forze sul terreno politico da rovesciare sul terreno militare al momento opportuno, rendendo così necessario sviluppare il processo rivoluzionario fin dall’inizio in un rapporto di guerra, accumulando e disponendo le forze su questo terreno, costruendo su questo terreno la dialettica con le varie componenti dello scontro di classe, un processo che si sviluppa in termini non lineari, secondo le leggi della guerra, che può quindi avere avanzamenti o subire arretramenti, in relazione al procedere dello scontro.

Questo processo, oggi, nella metropoli, si scontra con l’imperialismo e le sue crescenti esigenze di stabilità e coesione, che producono tra l’altro una tendenziale omogeneità delle forme di dominio della BI che vanno nel verso di un approfondimento della democrazia rappresentativa (borghese) che da sempre è “il miglior involucro del capitale”, esigenze il cui aspetto puramente repressivo nei confronti delle forze rivoluzionarie europee e mediorientali, non è che quello più evidente di quanto oggi sia inutile e perdente pensare di potersi incuneare e sfruttare le contraddizioni tra gli stati imperialisti. La necessità del FAC si dà oggi in quanto prassi offensiva che mira alla disarticolazione delle politiche dominanti dell’imperialismo per determinare quelle condizioni di instabilità politica nell’area funzionali al procedere del processo rivoluzionario a livello nazionale.

Perciò per le BR e la RAF si è posto fin dall’inizio e in termini soggettivi il problema della ricerca di un primo livello di unità (concretizzatosi nel testo comune diffuso dai compagni della RAF dopo l’iniziativa contro Tietmeier, partendo non da considerazioni ideologiche, ma dai problemi politici relativi all’organizzazione dell’attacco su cui maturare i livelli di unità successivi. Questo perché organizzare il FAC significa organizzare l’attacco, non si tratta di un modello rivoluzionario o di una categoria ideologica.

Obiettivo del FAC è dunque determinare una condizione di ingovernabilità dell’area, cosa differente dall’impedire il processo di integrazione e coesione in atto a livello internazionale, anche perché la stessa attività rivoluzionaria (oggettivamente o soggettivamente antimperialista) è uno degli elementi che contribuiscono allo sviluppo di questo processo di integrazione, poiché l’attacco all’imperialismo produce come conseguenza non una separazione tra i vari stati, ma al contrario produce una risposta sempre più unitaria e centralizzata.

Un processo questo che si sviluppa e ridetermina di volta in volta in relazione alle necessità imposte dall’evolvere della crisi ed all’andamento della contraddizione est/ovest, che è quella dominante nel mondo, su cui maturano le tappe della tendenza alla guerra, cosa questa comunque da non intendersi né come progetto pianificato dall’inizio alla fine, né come portato oggettivo e meccanico prodotto da un certo livello di crisi. Questo anche per chiarire che una cosa è la contraddizione est/ovest, su cui maturano i passaggi della tendenza alla guerra, un’altra è la contraddizione imperialismo/antimperialismo, il cui unico legame è dato dalla sovrastruttura ideologica con cui uno dei due blocchi si presenta, questo perché la BI non fa la guerra al proletariato e ai popoli del Terzo Mondo, ma si limita a sfruttarli (trovandolo molto più conveniente) imponendo il proprio ordine dove necessario, cosa questa diversa dalla guerra intesa come controtendenza necessaria per ridare slancio all’accumulazione capitalistica. Anche se questo elemento interviene nelle relazioni tra i blocchi nella misura in cui a partire dalle sconfitte subite sul campo dalla BI ad opera delle guerre di liberazione nazionale, ha concorso a modificare l’approccio globale dell’imperialismo nei confronti dell’altro blocco, evoluzione relativa anche allo sviluppo del capitale le cui esigenze (legate all’approfondimento della crisi) rendono oggi vitali per l’imperialismo tutti gli angoli del mondo.

Ed è questo insieme di fattori (di cui quello dominante è la contraddizione est/ovest) che produce questo processo di coesione e concentrazione politica tra i paesi imperialisti, del quale un passaggio significativo è stato il recente accordo sugli euromissili, che al di là del folklore pacifista ha rappresentato un salto di qualità sul terreno della concertazione politica dei paesi imperialisti nei confronti dell’altro blocco segnando un’altra tappa della tendenza alla guerra, nella misura in cui ha messo le basi per una politica di riarmo centralizzata nella NATO e, basata sul convenzionale in quanto permette un più grosso immobilizzo di capitali delle armi nucleari essendo legata ai settori tecnologicamente più avanzati. Politica di riarmo che non è il prodotto dell’asservimento del potere politico al complesso militare-industriale, ma una politica economica che in periodi di crisi dà la possibilità ai capitali a più alta composizione organica di continuare la produzione dirottandola verso settori improduttivi a spese dello stato.

A fianco di questo processo di coesione di carattere generale che ha prodotto all’interno del blocco un equilibrio politico subordinato e funzionale alle scelte della riconosciuta leadership USA, se ne sviluppa un altro più specificatamente europeo che produce la formazione delle politiche per la coesione europea che hanno determinato l’accrescersi dell’attivismo europeo nell’area, riflesso anche del parziale riequilibrio economico tra USA ed Europa.

Politiche che si sviluppano su diversi piani.

Quello economico con la formazione di politiche economiche atte a favorire la formazione di nuovi monopoli in grado di sostenere la concorrenza del mercato mondiale, che tendono tra l’altro a rimodellare il rapporto nord/sud in relazione al grado di sviluppo raggiunto dal capitale (rimodellazione che non può comunque avvenire al di fuori del ridimensionamento del blocco socialista con la ridefinizione delle aree di influenza).

Quello politico/diplomatico, che ha prodotto una diplomazia europea fortemente integrata che costituisce l’ossatura dell’attivismo europeo nell’area sia nel portare avanti una linea politica unitaria, che per l’elaborazione di queste linee.

Quello militare in cui assume un’importanza particolare la rifunzionalizzazione in atto del fianco sud della NATO, in nome del quale è stato deciso il riavvicinamento tra Grecia e Turchia imposto d’autorità dalla CEE, che ha portato al rischieramento degli aerei di Torrejon in Italia seguito alla “vittoria” referendaria, che si trasformeranno in volo da aerei USA in aerei NATO, rischieramento che mette in evidenza tanto l’ambizione italiana di ritagliarsi un ruolo da “anello forte” nel Mediterraneo, quanto la sempre più diretta assunzione della NATO nelle questioni della regione, vedi anche l’appoggio indiretto, dato con l’invio di navi tedesche nel Mediterraneo, alle spedizioni nel Golfo Persico, ecc.

Quello dell’antiguerriglia, che passa attraverso una più stretta centralizzazione e coordinamento degli apparati repressivi, ed un’omogeneizzazione degli strumenti legislativi che ha prodotto tra l’altro lo spazio giuridico europeo, la definizione e messa in atto di iniziative politiche controguerrigliere come la soluzione politica.

Questo complesso di fattori si riflette al di fuori dell’Europa (oltre che al suo interno) concretizzandosi in iniziative politiche tese in questa fase alla stabilizzazione dell’area, come obiettivo funzionale non tanto in termini economici attraverso una ripresa degli investimenti garantiti dalla stabilità politica (ipotetica) dell’area, come al limite potrebbero far pensare i propositi di “piano Marshall” per il Medio Oriente (legato alla conferenza internazionale di “pace” del piano Shultz, e quindi al riconoscimento da parte araba di Israele), oppure i progetti integrati per il Mediterraneo della CEE o altro, poiché anche questi aspetti economici sono funzionali all’acquisizione di migliori rapporti di forza da parte dell’imperialismo nei confronti dell’altro blocco.

In questi tentativi di stabilizzazione l’Europa si distingue per il suo attivismo diplomatico tanto nei confronti degli arabi che di Israele più volte richiamato alla necessità di una sua opportuna acquisizione di uno status diplomatico più consono al ruolo che tendenzialmente è chiamato a svolgere nell’area, cosa questa per cui si è esibito anche Cossiga con il suo show in Israele con cui legittimava nei fatti la repressione sionista nei territori arabi occupati.

Un progetto di stabilizzazione che è poi il progetto politico dominante dell’imperialismo nell’area, che trova il suo maggiore ostacolo nella lotta antimperialista condotta dal popolo palestinese e libanese, sulla cui pelle, nei fatti, deve passare.

 

– Costruire alleanze antimperialiste per rafforzare e consolidare il fronte antimperialista combattente nell’area!

– Sostenere la guerra del popolo palestinese e libanese contro l’oppressione imperialista e sionista!

– Organizzare le forze intorno alla costruzione del partito comunista combattente per attrezzare e dirigere il campo proletario nello scontro prolungato contro lo stato per il potere!

– Attaccare, disarticolare il progetto politico demitiano di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello stato!

– Su questi termini di programma costruire l’unità dei comunisti per la costruzione del partito comunista combattente!

– Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti!

 

Antonio De Luca – militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente

 

Firenze – Dichiarazione dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente Maria Cappello e Fabio Ravalli

Il rilancio che le BR hanno operato in questi anni di ritirata strategica dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria, le prospettive politiche che questo ha aperto sia sul terreno del rapporto classe/stato che sul terreno dell’antimperialismo, ha determinato uno spostamento in avanti del piano di scontro rivoluzionario. Un movimento consapevolmente prodotto e calibrato dalle BR rispetto ai rapporti di forza generali fra le classi e al rapporto imperialismo/antimperialismo.

L’elemento di forza di questo rilancio è costituito dal fatto che si è forgiato all’interno delle condizioni della controrivoluzione degli anni ’80, quindi con delle caratteristiche di crescita il cui portato politico si è reso subito tangibile nel dispiegamento pratico della attività rivoluzionaria per la sua capacità di dialettizzarsi in termini di direzione/organizzazione con le istanze più mature dell’autonomia di classe, di costituire cioè il catalizzatore delle componenti rivoluzionarie e proletarie vive del paese; nel contempo di proporsi, sul piano dell’antimperialismo, come forza rivoluzionaria autorevole, non solo per il contributo già operato su questo terreno, ma soprattutto per il contributo al rafforzamento e consolidamento della politica del Fronte combattente antimperialista. Questo il dato politico centrale nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione che ha indotto lo stato a ridefinire contromisure per contrastare il portato politico della proposta delle BR al movimento di classe, al proletariato. Più precisamente, misure che siano in grado di “gravare” e divaricare il terreno alle aspettative che si sono create nell’ambito operaio e proletario.

Il processo alle “BR toscane” si inserisce in questo quadro. Un processo contro le BR letteralmente costruito: attraverso la ricattabilità (purtroppo) della condizione proletaria, si è agito sulla debolezza di alcuni per elevarli al “rango” di collaboratori, in modo da avere una base materiale al fine di determinare una pagante deterrenza politica e militare nei confronti di quei compagni e componenti proletarie che si dialettizzano con la proposta rivoluzionaria, o che comunque non accettano supinamente la pubblicistica della controguerriglia. Una costruzione che, in ultima istanza, obbedisce al dettato politico democristiano di: sempre e comunque prevenire. L’attività delle BR è sullo sfondo e a questa ci riferiamo, come militanti delle BR-PCC, e rivendichiamo la giustezza e l’interezza di questa attività e segnatamente l’attacco contro Lando Conti, uomo di punta nelle politiche di riarmo nonché caldeggiatore degli interessi sionisti. Un attacco che ha segnato una tappa importante per la definizione politica/programmatica e la costruzione/consolidamento del FCA (Fronte Combattente Antimperialista) come marcatamente dimostra l’attacco, su base politica unitaria tra RAF e BR, contro Hans Tietmeyer.

Come le leggi della guerra dettano, con la cattura di alcuni militanti, lo stato batte la grancassa per avere dei risultati politici da poter ribaltare su tutti i piani dello scontro: dal messaggio spicciolo che i carabinieri sono più forti, alla ratifica politica suggerita dai servizi che nulla più esiste, alle pressioni giudiziarie sui militanti dell’organizzazione catturati, e in special modo sui militanti rivoluzionari al fine di romperne l’omogeneità e la tenuta.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Maria Cappello, Fabio Ravalli

 

Firenze, 25/11/1988

Costruire e consolidare il Fronte Combattente Antimperialista. Roma, processo per Insurrezione – Dichiarazione comune di Brigate Rosse e Rote Armee Fraktion letta in aula dai militanti delle BR-PCC Sandro Padula e Francesco Sincich il 4.4.89

Il processo per “insurrezione” si configura come un momento della politica controrivoluzionaria dello stato ed aspira ad essere un processo alla guerriglia, alle Brigate Rosse, all’esistenza stessa di una progettualità rivoluzionaria.

Abbiamo già dichiarato che la nostra posizione in questo processo è quella di militanti prigionieri delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente e perciò siamo qui unicamente per sostenere la linea, la pratica e il progetto rivoluzionario della nostra organizzazione.

Oggi, nelle nuove condizioni imposte dallo scontro di classe a livello interno ed internazionale, la costruzione ed il consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista nell’area (Europa occidentale, Mediterraneo, Medio oriente) è parte integrante della linea e della pratica delle BR/PCC.

Indebolire e destabilizzare l’imperialismo vuol dire creare le condizioni per lo sviluppo dei processi rivoluzionari nell’area. Per questo motivo la RAF e le BR hanno stabilito un’unità d’azione ed hanno diffuso una dichiarazione comune, che espone i contenuti politici e programmatici della convergenza raggiunta e testimonia del livello di maturità conseguito dalle forze rivoluzionarie che combattono in quest’area.

Sulla base delle direttrici fondamentali di questa dichiarazione comune la nostra organizzazione, le BR/PCC, opera per stabilire più ampi livelli di alleanza antimperialsta con le forze rivoluzionarie.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Sandro Padula, Francesco Sincich

 

Roma, 4.4.89

 

Riportiamo qui di seguito la dichiarazione comune RAF/BR-PCC.

 

Per le forze rivoluzionarie il salto alla politica del fronte per portare lo scontro alla durezza necessaria è necessario e possibile.

Per questo è necessario che tutte le posizioni ideologiche-dogmatiche che ancora oggi esistono all’interno delle forze combattenti e dei movimenti rivoluzionari in Europa occidentale siano combattute e sconfitte, perché dividono i combattenti e perché queste posizioni non possono raggiungere il livello di cui c’è bisogno per portare le lotte e gli attacchi alla durezza politica necessaria.

Le differenze storiche nello sviluppo e nell’impianto politico delle singole organizzazioni, le differenze (secondarie) nell’analisi eccetera, non possono e non devono essere d’ostacolo alla necessaria unificazione delle molteplici lotte e delle attività antimperialiste in un attacco cosciente e mirato al potere imperialista.

Non si va verso la fusione delle singole organizzazioni in un’unica organizzazione: il fronte in Europa occidentale si sviluppa in un processo di conoscenza diretto e organizzato, sulla base dell’attacco pratico, in questo maturano i momenti più stretti di unità tra le forze combattenti.

L’organizzazione del fronte rivoluzionario combattente significa organizzazione dell’attacco, non è né una categoria ideologica, né un modello rivoluzionario. Al contrario si dirige verso lo sviluppo della forza politica e pratica che combatte adeguatamente il potere imperialista, che approfondisce la frattura nella metropoli imperialista e matura un salto di qualità della lotta proletaria.

La nostra esperienza comune dimostra come sulla base della decisione soggettiva è possibile per ogni organizzazione, nonostante le differenze e contraddizioni esistenti, sviluppare in avanti il fronte; nella discussione comune noi non abbiamo mai perso d’occhio l’elemento unitario dell’attacco contro l’imperialismo.

L’Europa occidentale è punto cardine nello scontro tra proletariato internazionale e borghesia imperialista.

L’Europa occidentale è per il suo carattere storico, politico e geografico il punto in cui si intersecano le tre linee di demarcazione: Stato/società, Nord/Sud, Est/Ovest.

L’aggravamento della crisi del sistema imperialista e la diminuzione della potenza economica degli Usa sono i motivi principali che, insieme con altri fattori politici, portano a una relativa perdita di peso politico degli Usa e che spingono avanti lo sviluppo del processo di integrazione economica, politica e militare del sistema nel suo insieme.

In questo contesto aumenta la funzione dell’Europa occidentale nel management imperialista della crisi.

Sul piano economico: l’Europa occidentale esplica un piano di politica economica organico all’interno del management imperialista delle crisi come cuscinetto e supporto contro le contraddizioni economiche;

– sul piano militare: l’accelerazione dell’integrazione politico-militare all’interno della Nato con il progetto di riarmo politico economico nella nuova strategia militare imperialista per il confronto con l’Est e con interventi politico-militari integrati contro i conflitti che si acutizzano nel Terzo mondo, in prima linea contro la regione di crisi del Medio oriente;

– sul piano controrivoluzionario: il riarmo e l’integrazione delle polizie e dei servizi segreti contro lo sviluppo del fronte rivoluzionario, contro le lotte rivoluzionarie nel loro complesso e contro l’allargamento e l’inasprimento degli antagonismi di massa; la riorganizzazione e l’integrazione per l’intervento politico mirato contro la guerriglia, per esempio il progetto di “soluzione politica” in diversi paesi dell’Europa occidentale;

– sul piano politico-diplomatico: i progetti di “dialogo politico” per disinnescare i conflitti e consolidare la posizione di forza imperialista.

Queste iniziative hanno anche la funzione di intensificare il processo di formazione politica dell’Europa occidentale all’interno del sistema nel suo complesso. Questi piani sono legati tra loro e spingono in avanti la formazione politica dell’Europa occidentale; un movimento da cui nessun paese è escluso.

Nessuna forza rivoluzionaria combattente, nella sua attività rivoluzionaria, deve trascurare questi fatti.

Questi elementi politici formano il quadro nel quale il fronte in Europa occidentale è necessario e possibile.

Il livello storicamente raggiunto dalla controrivoluzione imperialista ha mutato sostanzialmente il rapporto nel confronto tra imperialismo e forze rivoluzionarie. Ciò significa essere coscienti del crescente peso della soggettività nello scontro di classe e di ciò, che il terreno rivoluzionario non può essere puro riflesso delle condizioni oggettive.

L’attacco del fronte europeo occidentale all’attuale progetto strategico della formazione politica, economica e militare dell’Europa occidentale mira all’indebolimento del sistema imperialista per determinare un’ampia crisi politica.

La nostra offensiva comune si dirige:

– contro: la formazione della politica economica e monetaria dell’Europa occidentale, che è concepita nel sistema imperialista nel suo insieme come cuscinetto e supporto contro l’acuta erosione economica e che, in coordinamento con la politica degli Usa e del Giappone sulla pelle delle masse nella metropoli e nel Terzo mondo, vuole imporre gli interessi di profitto e di potere delle banche e dei consorzi multinazionali e che vuole impedire il crollo del sistema finanziario internazionale;

– contro: la politica della formazione dell’Europa occidentale, che mira al rafforzamento delle posizioni imperialiste, come l’attuale intervento nella regione del Medio oriente sulla pelle dei popoli palestinese e libanese per stabilizzare questa regione.

L’attacco unificato alle linee strategiche della formazione dell’Europa occidentale scuote il potere imperialista.

Organizzare la lotta armata in Europa occidentale.

Costruire l’unità delle forze rivoluzionarie combattenti nell’attacco: organizzare il fronte.

Lottare insieme.

 

Rote Armee Fraktion – Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente

 

Settembre 1988

Unità nella lotta antimperialista. Processo di Roma – Comunicato dei militanti delle BR-PCC Cappello Maria, Grilli Enzo, Grilli Franco, Lori Flavio, Marini Fausto, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio e dei militanti rivoluzionari: Bencini Daniele, Prudente Cesare, Pulcini Carlo, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco letto in aula e allegato agli atti

Le Brigate Rosse per il Partito Comunista Combattente ribadiscono la centralità dell’attacco allo Stato, alle sue politiche dominanti che lo oppongono alla classe, poiché il piano classe/Stato è il binario principale su cui si costruiscono i termini della guerra di classe.

Per i comunisti la questione dello Stato è prioritaria nel definire la conduzione dello scontro, a maggior ragione per la funzione che rivestono gli Stati in questa fase dell’imperialismo; quindi l’attacco al cuore dello Stato fino al suo abbattimento costituisce il primo elemento programmatico delle Brigate Rosse e oggi si materializza nella parola d’ordine dell’attacco al progetto controrivoluzionario e antiproletario demitiano.

In unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato vive l’attacco all’imperialismo, che oggi per le Brigate Rosse si concretizza con il contributo alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista. L’attacco all’imperialismo, nelle sue politiche centrali, in una politica di Fronte, è cioè l’altro asse programmatico su cui s’impernia l’attività rivoluzionaria delle Brigate Rosse, asse che ha assunto un peso rilevante con l’approfondirsi della crisi del modo di produzione capitalistico in questa fase dell’imperialismo, crisi che comporta l’adozione di misure concertate da parte di tutti i paesi e in primo luogo gli USA, sul piano economico/politico/diplomatico/militare, sia a livello interno che internazionale. Si è reso cioè evidente che, stante l’attuale livello di integrazione/interdipendenza delle economie dei paesi della catena imperialista ed i conseguenti livelli di coesione politico/militare, è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area per realizzare un processo rivoluzionario, sia che si tratti di rivoluzione socialista, sia che si tratti di liberazione nazionale. In questo senso cioè, il consolidamento della politica di Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria.

Per le Brigate Rosse, la tematica dell’antimperialismo deve imperniarsi intorno allo sviluppo di politiche di alleanza con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo in quest’area geopolitica (europea, mediorientale, mediterranea) alfine di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo. Più precisamente, si tratta di lavorare a concretizzare, in successivi momenti di unità, l’attacco all’imperialismo all’interno del criterio politico secondo cui l’attività del Fronte non deve essere impedita dalle peculiarità d’analisi e di concezione politica delle diverse forze rivoluzionarie che vi lavorano, né tantomeno discriminare l’attività del Fronte come unica attività rivoluzionaria, ma deve stringere l’unità realizzabile nell’attacco pratico.

Per questo affermiamo insieme alla RAF che non si tratta di fondere ciascuna Organizzazione in un’unica organizzazione, ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo.

Il Contributo della RAF e delle BR al Fronte dimostra come le differenze storiche e di percorso, non possono e non devono costituire un ostacolo al praticare una effettiva politica di alleanza, un contributo questo che costituisce al tempo stesso un salto in avanti nella costruzione del Fronte, perché si inserisce nella necessità di superare il primo periodo sostanzialmente di propaganda della necessità del Fronte stesso, misurandosi invece con la definizione più precisa della sua proposta politica, uscendo così dalle secche del genericismo.

L’approdo al testo comune RAF-BR, e soprattutto l’attività che lo sostanzia, sancisce questo salto di qualità e determina il primo passaggio dell’offensiva comune contro le politiche di coesione dell’Europa Occidentale all’interno dell’interesse generale della catena imperialista, concretizzatasi con l’attacco a Tietmeyr, sottosegretario alle finanze della RFT e uomo chiave delle decisioni politiche e degli indirizzi economici concertati. Un’offensiva destinata a toccare i punti chiave delle politiche di coesione che si esprimono sul piano economico/politico/diplomatico e controrivoluzionario.

La chiarezza degli obiettivi, il realismo politico nell’impostazione della politica di Fronte ne determinano la valenza, che va oltre l’unità immediata raggiunta, perché apre la prospettiva politica dello sviluppo del Fronte sull’attacco all’imperialismo, non solo tra le forze europee, ma con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area, avvicinando concretamente l’unità che già esiste oggettivamente tra le lotte nel centro imperialista e i movimenti di liberazione nella periferia.

Sono le politiche di coesione tese a compattare i paesi dell’Europa Occidentale all’interno degli interessi del blocco, il cuore dei progetti centrali dell’imperialismo, i quali si dispiegano su tre fronti principali.

Il piano delle politiche economiche: attraverso la concertazione delle politiche economiche di supporto alla crisi (nonché di sostegno alla formazione monopolistica e al movimento finanziario) tra cui assume sempre maggiore importanza, specialmente negli USA, la politica di riarmo, in cui anche l’ambito europeo è centralizzato in sede NATO da organismi preposti allo scopo.

Il piano politico diplomatico: costituisce l’aspetto principale della coesione politica dell’Europa Occidentale. In questa fase, ha la funzione di ricucire/sancire le forzature militari operate dagli USA nella fase precedente (anche allo scopo di indirizzare gli alleati a tale compattamento). Un piano, quindi, complementare e non alternativo ai bombardamenti e agli atti terroristici statunitensi e sionisti, finalizzato a «normalizzare» l’area mediorientale con iniziative di supporto e ricucitura al piano Schultz/Shamir, sulla pelle dei popoli libanese e palestinese. In questo quadro rientra anche la proposta CEE del «Piano Marshall» per il Medio Oriente, in cui Israele dovrebbe assumere un ruolo meno compromesso, dalla sua attività terroristica e di polizia finora svolta negli interessi dell’imperialismo occidentale. Un complesso di fattori tesi in ultima istanza, a rideterminare posizioni di forza e di vantaggio per l’imperialismo occidentale, all’interno degli equilibri Est/Ovest.

Il piano controrivoluzionario: è teso principalmente contro l’attività antimperialista del Fronte delle forze rivoluzionarie che combattono contro l’imperialismo. Non si tratta però solo di repressione internazionale concertata, ma si avvale dei progetti politici mirati a contrastare la guerriglia. All’interno di ciò vanno inquadrati i progetti di «soluzione politica» per la guerriglia, che con sfumature diverse, sono presenti in Italia, Germania Occidentale, Spagna.

Sulle parole d’ordine dell’attacco al progetto demitiano e della costruzione delle alleanze nel Fronte Combattente Antimperialista contro le politiche di coesione dell’Europa Occidentale, le Brigate Rosse per il Partito Comunista Combattente lavorano a ricostruire i termini politici e militari dell’andamento della guerra di classe, che in questa fase rivoluzionaria si concretizzano in una conduzione dello scontro tesa a ricostruire le forze rivoluzionarie e proletarie e gli strumenti politico organizzativi per sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato.

Su questi termini programmatici le Brigate Rosse per il Partito Comunista Combattente lavorano alla parola d’ordine dell’unità dei comunisti.

 

Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti!

 

I militanti delle BR-PCC: Cappello Maria, Grilli Enzo, Grilli Franco, Lori Flavio, Marini Fausto, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio. I militanti rivoluzionari: Bencini Daniele, Prudente Cesare, Pulcini Carlo, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco

 

Roma, 13 ottobre 1988

Dichiarazione di Mario Mereu e Pietro Coccone

Ciò che sostanzialmente distingue questo processo da tutti quelli che lo stato ha celebrato fino ad oggi contro i militanti rivoluzionari e della guerriglia è il suo carattere dichiaratamente politico.

Per la prima volta da quando la lotta armata ha fatto la sua comparsa in questo paese la borghesia si costringe a riconoscere la valenza politica e sociale del processo rivoluzionario sviluppatosi all’inizio degli anni ’70.

E il fatto che questo “riconoscimento” arrivi all’apice di una restaurazione complessiva della società che è anche politica e culturale, proprio quando la lotta armata in Italia, riflettendo le difficoltà attuali di tutto il movimento di classe, conosce una fase difficilissima di recupero politico ed operativo, non contraddice il senso e la funzionalità dell’operazione.

Sono questi rapporti di forza, infatti, questa congiuntura politica sfavorevole al movimento rivoluzionario che, nelle intenzioni della borghesia, dovrebbero consentire una dichiarazione formale di morte almeno presunta della lotta armata per il comunismo, l’ultimo passo cioè verso la “soluzione finale del problema”. Si parte dal presupposto, che è poi un assunto, secondo cui le Brigate Rosse sono state vinte. Su questa base si dovranno dimostrare non soltanto la solidità dei rapporti sociali esistenti ma anche, e probabilmente e soprattutto, l’improponibilità storica e sociale della rivoluzione.

È la rivoluzione infatti che deve andare sotto processo, l’idea stessa della sua praticabilità oggi, persino il suo futuro. Ma per farlo è necessario presupporla, rileggere in modo “politico” la memoria e ammetterla come tentativo già consumato. E così lo stato delega al tribunale, già sede e laboratorio di depoliticizzazione della iniziativa rivoluzionaria, il compito inedito di raccontare una insurrezione armata contro i suoi poteri, che è fallita semplicemente perché non esistevano allora, né ovviamente esistono oggi, le condizioni sociali per portarla a compimento.

A questo proposito nulla di nuovo potrà aggiungere l’esito giuridico del processo, dato che la sua inconsistenza politica traspare tutta evidente nella premessa su cui si fonda: le Brigate Rosse infatti esistono!

Sedersi intorno al loro cadavere per “ricordarle”, per mistificarne la memoria o per dichiararle vinte non è possibile. E permangono, più autorevoli di questo tribunale, le condizioni economiche, politiche, sociali e culturali che rendono possibile e motivano la rivoluzione. Si è intensificata inoltre l’interconnessione mondiale delle contraddizioni di classe e, nell’identificazione di un comune terreno di scontro, l’antimperialismo militante combattente; si è aperta nell’area del Mediterraneo e nell’Europa Occidentale una nuova epoca di internazionalismo rivoluzionario già ricca di risultati politici rilevanti.

In questo contesto generale di lotta e di crescita, il movimento rivoluzionario sardo riqualifica la sua militanza attuale e ritrova su basi mutate una nuova dislocazione dentro lo scontro di classe. Qui il terreno di crescita della militanza rivoluzionaria ha una specifica dimensione, dato il rapporto coloniale che lega la Sardegna all’imperialismo italiano ed internazionale, e ruota intorno a una prospettiva ancora da definire di liberazione nazionale di classe.

L’orizzonte più vicino è la fondazione di un soggetto politico rivoluzionario dotato di autonomia teorica e progettuale, capace di orientare positivamente il confronto in atto e di dirigere, organizzandole, le tensioni all’indipendenza ancora spontanee, eppure visibilmente attive, che muovono dal proletariato sardo.

Il fine in altre parole è la costituzione di una identità rivoluzionaria sarda forte e aperta al dialogo con tutte quelle realtà rivoluzionarie e guerrigliere che in Europa Occidentale e nell’area del Mediterraneo combattono l’imperialismo. Qui noi stabiliamo la nostra militanza, in questo sforzo e in questa prospettiva. Da qui andiamo avanti con la nostra classe, con il nostro popolo. Con questa coscienza siamo venuti qui!

Ribadiamo infine il nostro sostegno rivoluzionario all’iniziativa politico-militare del 18 marzo contro la Prefettura di Nuoro.

Revochiamo quindi il mandato al nostro difensore di fiducia e diffidiamo chiunque voglia prendere la parola a nome nostro. Quello che farà o deciderà questa Corte non ci riguarda.

 

La lotta armata non si processa.

Costruire e consolidare la rivoluzione in Sardegna.

Al fianco del popolo palestinese e della sua lotta di liberazione.

Con i compagni prigionieri della RAF e della resistenza che, nelle carceri della RFT, lottano per riaffermare la loro identità contro le strategie di annientamento dell’imperialismo.

Rendiamo onore ai nostri compagni caduti.

 

Mario Mereu, Pietro Coccone

 

Roma, 18 maggio 1989

Sosteniamo la lotta dei compagni prigionieri contro l’isolamento! Seconda Corte di Assise di Roma, Processo “BR – Insurrezione armata contro i poteri dello stato” – Documento di alcuni compagni del “Collettivo Comunisti Prigionieri, Wotta Sitta” Vittorio Bolognese, Salvatore Colonna, Natalia Ligas, Giovanni Senzani agli atti del processo

I compagni prigionieri della RAF e della resistenza rivoluzionaria, con altri prigionieri in Germania Occidentale, sono in lotta con lo sciopero della fame dal 1° febbraio contro l’isolamento e per il raggruppamento in grandi gruppi.

Questo sciopero si pone in continuità con gli altri nove che l’hanno preceduto, ma in un contesto qualitativamente diverso, come affermano i compagni prigionieri della RAF nella loro dichiarazione iniziale sullo sciopero.

L’obiettivo di questa lotta oggi è vincere “la strategia imperialista di distruzione lenta dell’identità rivoluzionaria” attraverso l’isolamento in carcere. Strategia che da venti anni trova nello Stato tedesco il suo principale ispiratore e sostenitore, ma che ormai sulla base della esperienza tedesca è diventata una pratica generale ed integrata a livello mondiale.

Pur nelle condizioni difficilissime di totale isolamento, in tutti questi anni i compagni prigionieri della RAF sono riusciti, attraverso la lotta, a contrastare il progetto di disgregazione e annientamento della loro identità rivoluzionaria e a vanificare il tentativo di attaccare la guerriglia attraverso la loro distruzione come soggetto politico.

Tutto ciò è reso possibile anche perché, via via in tutti questi anni, si è sedimentato un processo di organizzazione e di lotta su questa contraddizione in numerose e significative situazioni e realtà del movimento di classe in Germania Occidentale, in prima fila nella lotta antimperialista.

La questione dei “prigionieri politici” è così diventata un terreno stabile del dibattito e della iniziativa all’interno della prospettiva del Fronte Rivoluzionario Combattente in Europa Occidentale. A fianco delle iniziative contro l’intensificazione dello sfruttamento capitalistico, contro la guerra, i missili, il nucleare, le politiche di affamamento degli istituti finanziari sovranazionali, questa lotta ha trovato un suo spazio specifico, perché pur nella sua parzialità questo scontro contiene in sé il senso complessivo della rottura rivoluzionaria, che la guerriglia ha operato nella metropoli agli inizi degli anni settanta.

Questo processo di organizzazione e di lotta ha avuto alcune tappe fondamentali: dalla mobilitazione internazionalista dopo gli assassinii di stato dei compagni a Stammheim fino al sostegno da parte del movimento di classe e rivoluzionario dello sciopero della fame di prigionieri nell’84 e nell’86 in vari paesi europei.

Ma il dato politico dentro cui questa lotta specifica si inscrive – e che in definitiva ne garantisce il respiro strategico – è quello del consolidamento della prospettiva unitaria rivoluzionaria attraverso le campagne dell’85/86 e il tessuto di dibattito e di iniziative rivoluzionarie sviluppatosi intorno alla scadenza contro la riunione del FMI/BM a Berlino Ovest, all’interno della quale la raggiunta unità di azione fra la RAF e le Brigate Rosse costituisce un importante passaggio nell’avanzamento del processo rivoluzionario in Europa Occidentale.

Oggi questa serie di sviluppi in Germania Occidentale e a livello continentale pongono la questione dell’isolamento dei “prigionieri politici” in termini qualitativamente diversi e rendono maturo e vincente il confronto e lo scontro su di essa.

Se è vero che “la ragione di stato” che sta alla base dell’isolamento dei prigionieri è diventata più marcata e di principio per l’imperialismo nel suo insieme – basta vedere l’immediata criminalizzazione dello sciopero della fame in atto come “pratica terroristica a sostegno della RAF” al fine di reprimere direttamente chi lo attua e chiunque lo sostiene attivamente – dall’altro lato oggi è più forte e cosciente l’appoggio del movimento e la solidarietà militante internazionalista.

Questo fa sì che non si realizzi solo un “braccio di ferro” fra stato e prigionieri, ma che viva uno scontro di potere tra movimento rivoluzionario ed imperialismo che rende possibile vincere questo scontro specifico.

La strategia imperialista di distruzione dell’identità rivoluzionaria dei prigionieri si sta sviluppando in modo sempre più integrato in tutto il mondo. In particolare in Europa Occidentale e nell’area mediterranea e medio-orientale.

Essa è parte della dottrina della counterinsurgency, che ha nella “guerra al terrorismo internazionale” il modello operativo e il “collante” delle politiche repressive degli stati europei con alla testa la Nato e gli USA.

Il trattamento riservato ai prigionieri, l’isolamento e la desolidarizzazione nelle sue molteplici forme, sono parte integrante di questo scenario controrivoluzionario. Ma proprio questo pone le basi per un terreno unitario di lotta per tutti i prigionieri.

In questo senso c’è un filo rosso che lega le lotte dei prigionieri rivoluzionari in Germania Occidentale, in Francia, in Belgio, in Spagna e in Irlanda del Nord come quelle dei prigionieri baschi, corsi, maghrebini, guadalupeni… fino a quelle dei prigionieri kurdi in Germania e in Turchia, e dei prigionieri palestinesi nelle carceri sioniste in Israele.

Anche i progetti di soluzione politica della lotta armata in atto in vari paesi europei (Italia, Spagna, Portogallo, Germania…) sono un aspetto organico di questa strategia di distruzione della soggettività rivoluzionaria.

E spesso si affiancano e procedono di pari passo alle pratiche di annientamento psico-fisico.

Dall’iniziativa di “dialogo” sponsorizzata dal partito dei Verdi in Germania per la “riconciliazione”, alla liberazione di dissociati in contemporanea ai pestaggi di chi sta lottando in carcere.

In Italia dopo il processo “Moro-ter”, in cui è stato lanciato il progetto di soluzione politica, si cerca con il nuovo processo “BR-Insurrezione armata contro i poteri dello Stato” di porre “l’atto finale per la soluzione finale” spingendosi a processare l’idea stessa della rivoluzione per dichiararla impossibile con la cooptazione e l’opera di falsificazione storica garantita dagli ex-rivoluzionari. Si vuole cioè usare i prigionieri contro lo sviluppo del processo rivoluzionario!

In realtà, lo scontro rivoluzionario iniziato negli anni ’70 in Italia e in Europa Occidentale è tuttora aperto e sta trovando nuovi sviluppi in questi anni. Non è possibile porre la parola “fine” all’esperienza di questi vent’anni per il semplice fatto che il processo rivoluzionario seppur contraddittoriamente, è andato avanti e la guerriglia si è confermata, nella pratica, come l’unica strategia rivoluzionaria possibile di trasformazione sociale ed emancipazione proletaria. È la continuità storica e politica della lotta armata per il comunismo nelle metropoli europee a rendere impossibile ogni soluzione politica in Italia, come in Germania e in tutta Europa. Contro questa continuità si scatena tutta la forza della controrivoluzione.

In questa particolare congiuntura, caratterizzata dalla ripresa dell’iniziativa di classe e dal consolidarsi della pratica unitaria antimperialista nella direzione del Fronte, la lotta dei prigionieri tedeschi contro l’isolamento e per il raggruppamento assume un significato politico che va al di là del suo obiettivo specifico – parziale – ed è un momento di uno scontro più generale che per qualità e durata e per l’esito che ne potrà scaturire investe direttamente tutti i rivoluzionari in Europa Occidentale.

Per questo l’imperialismo cerca di stroncare sul nascere anche questa lotta e si accanisce contro di essa.

Lo sviluppo della solidarietà militante internazionalista a sostegno di questa lotta contribuisce alla costruzione delle condizioni necessarie per uscire vincenti da questo scontro e, contemporaneamente, diventa un fattore di consolidamento dei processi unitari nella lotta contro l’imperialismo.

 

Alcuni compagni del “Collettivo Comunisti Prigionieri, Wotta Sitta” – Vittorio Bolognese, Salvatore Colonna, Natalia Ligas, Giovanni Senzani

 

Roma 8 marzo 1989

 

(Agli atti del processo “BR – Insurrezione armata contro i poteri dello stato”, Seconda Corte di Assise di Roma, in abbinamento alla lettera di Helmut Pohl, a nome dei prigionieri della RAF.)

La lotta dei compagni prigionieri tedeschi è la nostra lotta! Carcere di Novara – Comunisti prigionieri del “Blocco B”

Dal primo febbraio in Germania i prigionieri della RAF e della Resistenza rivoluzionaria sono in lotta, con lo sciopero della fame, contro l’isolamento totale a cui sono da sempre sottoposti e per il raggruppamento in grandi gruppi.

È un fatto che non può essere ricondotto alla sola situazione specifica della RFT. Questa lotta, al contrario, si inscrive chiaramente nel contesto più ampio dello scontro di classe in atto in Europa Occidentale.

Come comunisti prigionieri, come soggetti rivoluzionari attivi, interni ai percorsi delle forze rivoluzionarie italiane nello sforzo di riadeguamento dell’avanguardia e della progettualità rivoluzionaria in questo paese, riteniamo necessario essere da subito a fianco dei compagni prigionieri tedeschi.

L’insieme dei trattamenti riservati ai prigionieri della guerriglia, in ogni paese, non è altro che l’applicazione, in forme diverse, rispondenti alle specifiche realtà, della strategia di counterinsurgency varata dai governi degli stati europei (sul modello della “guerra al terrorismo internazionale”), per combattere la lotta di classe e antimperialista che si sta sviluppando in Europa Occidentale e che sempre più si lega – oggettivamente e soggettivamente – ai processi rivoluzionari dell’area mediterraneo/mediorientale.

L’esistenza ormai ventennale della guerriglia e di radicati movimenti antimperialisti in molti paesi europei, il loro carattere internazionale e la loro tendenza unitaria sono una contraddizione insostenibile per la borghesia imperialista di fronte ai passaggi obbligati che essa deve compiere per mantenere il sistema di sfruttamento e di valorizzazione di enormi masse di capitali nelle condizioni create da una crisi che non trova sbocchi risolutivi di lungo respiro. Condizioni che sono alla base dell’impegno politico dei vari esecutivi nel quadro della formazione del “blocco europeo occidentale” a sostegno di una maggiore integrazione del mercato capitalistico a livello continentale.

In questo contesto diventa sempre più pressante per ogni stato del “blocco” l’esigenza di reprimere e spezzare la resistenza proletaria ai progetti di ristrutturazione e ridefinizione generale dell’assetto sociale, distruggere le organizzazioni d’avanguardia della classe, in primo luogo la guerriglia. Di qui l’integrazione delle strategie controrivoluzionarie a livello europeo di cui è parte il trattamento carcerario dei rivoluzionari prigionieri.

In Germania, i prigionieri della guerriglia sono sempre stati sottoposti ad un trattamento particolare da parte dello stato.

All’isolamento politico, che in ogni paese la borghesia imperialista ha sempre tentato di imporre ai rivoluzionari, in questo caso si aggiunge l’isolamento fisico più assoluto, mantenuto scientificamente come condizione stabile, fin dai primi anni settanta, dall’inizio stesso della lotta armata in RFT.

Contro questa pratica di annientamento i compagni prigionieri della RAF e delle altre organizzazioni dell’esperienza guerrigliera tedesca hanno sempre opposto una costante iniziativa di lotta che ormai è diventata terreno “storico” di mobilitazione per il movimento in RFT.

In questa lotta sono caduti ben 9 compagni, assassinati per la “ragione di stato” dai boia del governo tedesco.

La ferocia che si è dimostrata inutile: i rivoluzionari prigionieri tedeschi hanno mantenuto la loro identità politica e i vincoli collettivi, sapendosi dialettizzare con il movimento nel suo complesso, e diventandone punto di riferimento.

Oggi questa lotta si svolge in condizioni mutate.

Davanti all’estendersi e radicarsi dell’iniziativa rivoluzionaria in RFT, il governo tedesco, al pari di altri paesi europei come Italia e Spagna, affina le sue strategie di attacco “per linee interne” alla guerriglia, varando leggi premiali per i “pentiti” e concedendo la libertà a noti traditori.

In questo quadro da tempo si sono attivati diversi esponenti di forze riformiste e della chiesa, nel tentativo di inserirsi nello scontro con una proposta di “dialogo” tra le istituzioni, i prigionieri e le organizzazioni combattenti.

Come già i compagni prigionieri della RAF hanno chiarito in alcuni interventi pubblici nello scorso anno, queste manovre sono tutte interne al progetto controrivoluzionario dello stato; il loro obiettivo non è altro che la “pacificazione” delle lotte rivoluzionarie attraverso l’attacco alla identità dei comunisti prigionieri e l’abiura della lotta armata.

Dalla classe vengono ben altri segnali.

Il movimento rivoluzionario tedesco ha saputo far propria questa lotta, e una articolata rete di solidarietà militante e comunicazione antagonista, unita alle mobilitazioni di massa verificatesi ultimamente a sostegno dei prigionieri, contribuiscono consistentemente a spezzare il tentativo dello stato di isolare i prigionieri e di distorcere i contenuti che stanno affermando.

Per noi prigionieri comunisti italiani, e crediamo per tutto il movimento rivoluzionario, non si tratta soltanto di fare della solidarietà (comunque indispensabile) con i compagni prigionieri della RAF e della Resistenza. Noi partiamo dalla consapevolezza che la lotta contro l’isolamento e per il raggruppamento dei prigionieri in RFT, così come quella dello scorso anno dei militanti di Action Directe e di altri compagni in Francia, sia parte di uno scontro che ci vede direttamente coinvolti, seppure in forme e a livelli differenti, qui, nella realtà di classe italiana.

L’attacco dello stato contro la soggettività rivoluzionaria in Italia ha avuto dall’80 in poi una forte accelerazione ed uno sviluppo costante.

La ristrutturazione dell’apparato produttivo e il salto di qualità complessivo che la borghesia imperialista doveva imporre a livello economico, politico e sociale qui, non potevano svilupparsi in modo adeguato senza che fosse ricacciato indietro il forte movimento di classe e drasticamente ridimensionata la guerriglia, che si erano radicati fin dai primi anni ’70 in questo paese.

Non è il caso qui di ripercorrere i vari progetti con cui lo stato ha concretizzato la sua strategia controrivoluzionaria (da quella sui “pentiti” alla dissociazione), ogni rivoluzionario o proletario antagonista ha ormai avuto modo di comprendere il carattere infame di queste dinamiche. Oggi la continuità di questo attacco, che si esplicita nella cosiddetta “soluzione politica”, si inquadra negli obiettivi di “pacificazione sociale” che lo stato vuole imporre alla classe, e anche in questo caso la sostanza di tutte queste manovre emerge sempre più chiaramente.

Gli “appelli al dialogo” degli ex rivoluzionari, i loro patteggiamenti con il Ministero di Grazia e Giustizia si accompagnano ai blitz dei carabinieri nei confronti dei comunisti combattenti che fuori non rinunciano alla lotta.

In carcere, accanto alle “aperture” dello stato verso i prigionieri che proclamano il “distacco dalla lotta armata”, viaggia il giro di vite verso i comunisti che continuano a rivendicare la propria militanza rivoluzionaria, verso i combattenti arabo-palestinesi presenti nelle carceri italiane.

I compagni arrestati nel blitz del settembre ’88 contro le BR sono sottoposti ad un trattamento mirato teso a creare intorno ad essi un isolamento politico. A tutt’oggi si trovano sparpagliati in carceri decentrate, con il divieto di incontrarsi tra di loro e con gli altri comunisti prigionieri.

Questo non è che un esempio della differenziazione sempre più selettiva che caratterizza l’attuale gestione del carcere e che tende ad isolare le aree di prigionieri della guerriglia, ad attaccarne l’identità e a spoliticizzarne la lotta.

La nostra militanza rivoluzionaria nelle attuali condizioni di prigionia può svilupparsi soltanto nell’internità e nel contributo ai percorsi della guerriglia e del movimento rivoluzionario nello scontro di classe attuale.

È questo l’aspetto più importante della nostra identità ed è una dimensione che dobbiamo conquistarci e difendere continuamente, rafforzando l’unità tra i prigionieri comunisti e con il movimento rivoluzionario.

L’attacco della borghesia imperialista in quest’ultimo decennio ha provocato un evidente processo disgregativo nel tessuto di classe e in quelle forme organizzate dell’autonomia proletaria che sono basilari nel processo rivoluzionario. Ma sarebbe un grosso errore assolutizzare questo dato. I mutamenti sostanziali avvenuti nei rapporti di forza generali tra proletariato e borghesia, lungi dal porre fine al conflitto di classe, ne hanno invece innalzato il livello, riproducendo le condizioni per l’iniziativa rivoluzionaria.

Dopo le sconfitte dei primi anni ’80, l’esigenza su cui si è mossa l’avanguardia rivoluzionaria è stata fondamentalmente quella di ricercare/ridisegnare un ruolo adeguato alle mutate condizioni dello scontro.

La ricostruzione dell’iniziativa guerrigliera, in rottura con le tendenze difensivistiche e disfattiste, è un passaggio necessario per consentire reali possibilità di sviluppo del processo rivoluzionario.

Oggi, la ridefinizione della progettualità e dell’iniziativa rivoluzionaria è un compito che va posto al centro, articolandolo per ogni livello di coscienza espresso dal movimento rivoluzionario a partire dal suo punto più avanzato.

Questo processo di riadeguamento in cui da subito va spesa ogni energia, deve cogliere la nuova qualità politica emersa nell’esperienza della guerriglia e nelle lotte rivoluzionarie in Europa e nell’area mediterranea-mediorientale.

Sono maturate nuove condizioni di confronto e di lotta per lo sviluppo del processo rivoluzionario. Attraverso l’unità delle lotte della guerriglia e delle molteplici determinazioni del movimento dell’autonomia proletaria in Europa Occidentale, il Fronte Antimperialista è diventato una prospettiva concreta.

È una dialettica unitaria che vive nell’organizzazione dell’attacco all’imperialismo e in specifico al progetto di formazione del “blocco europeo-occidentale” nei diversi ambiti in cui si manifesta come progetto antiproletario e controrivoluzionario.

In questo contesto assume una valenza rilevante per tutti i rivoluzionari, e dunque anche per i comunisti prigionieri, contrastare il tentativo della borghesia di spoliticizzare l’attività della guerriglia, la smemorizzazione dei contenuti espressi dalle lotte del proletariato e l’attacco all’autonomia di classe.

Sono questi gli obiettivi e il percorso a cui finalizziamo la nostra attività di militanti rivoluzionari prigionieri, senza in ciò operare alcuna semplificazione delle differenze di percorso e di impostazione politica pur presenti al nostro interno.

È questa la tensione che anima questo intervento.

La lotta dei compagni prigionieri tedeschi, la loro resistenza all’annientamento in carcere, è la lotta di tutti i rivoluzionari in Europa Occidentale perché si muove all’interno dei contenuti che le forze rivoluzionarie hanno acquisito in questi 20 anni e sviluppato nello scontro attuale; essa riafferma il ruolo strategico della guerriglia nello sviluppo del processo rivoluzionario nel centro imperialista.

È la lotta di ogni proletario che si riconosce nella determinazione dell’avanguardia rivoluzionaria di combattere la società capitalistica.

È la nostra lotta.

Contro la strategia della borghesia imperialista di attacco all’identità dei rivoluzionari: lottare insieme!

 

Comunisti prigionieri del “Blocco B“

 

Carcere di Novara, marzo 1989

Identità politica. Tribunale di Venezia – Documento di Cesare Di Lenardo, militante delle BR-PCC allegato agli atti

La nostra posizione deriva dalla nostra identità politica. Identità per un comunista è essenzialmente e innanzitutto partito. Nel processo storico che lo esprime, nel suo programma, nel suo progetto strategico, nella sua linea politica, nella sua prassi, il militante costruisce la sua identità, che ha un senso rivoluzionario in quanto identità di partito, nel senso storico del termine e in quello diretto.

In questo processo, come militante delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente, mi identifico nell’organizzazione, nel disegno politico che ha reso possibile l’attuale salto di qualità, nell’attività di ricostruzione politico-organizzativa svolta in questi anni, che è inseparabile dal “risultato” dell’attuale ripresa di iniziativa; oggi nell’azione contro Ruffilli e nell’attività tra i disoccupati, nella classe operaia industriale, tra i lavoratori dei servizi – in una parola, nel proletariato metropolitano.

La capacità dimostrata concretamente dalle Brigate Rosse di sviluppare il progetto politico guerrigliero nelle attuali condizioni dello scontro di classe, è la dimostrazione della necessità e possibilità della lotta rivoluzionaria, di come la sua esigenza vive nel proletariato, del suo respiro strategico.

Oggi questa non è una tesi: è un fatto.

Il cuore dello Stato è l’asse di intervento strategico che caratterizza la continuità delle Brigate Rosse nella loro storia: l’attacco alle politiche dominanti che nella congiuntura oppongono il proletariato alla borghesia, attacco che mira a rompere gli equilibri politici che fanno marciare i programmi della borghesia imperialista, sviluppandone le contraddizioni. Oggi, il passaggio politico della cosiddetta riforma istituzionale, il progetto politico “demitiano” di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato.

Questo si colloca dopo i successi della controffensiva sviluppata dallo Stato nel corso degli anni ’8O, offensiva partita dal presupposto che, senza assestare un duro colpo alla guerriglia, non si sarebbe potuto procedere alle ristrutturazioni economiche che la crisi rendeva impellenti. Questa offensiva ha sviluppato una dinamica che, a partire dall’attacco alla nostra organizzazione ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe, costruendo i termini di nuovi rapporti di forza a favore dello Stato.

Il progetto demitiano è inserito nel processo di rifunzionalizzazione dello Stato che ha modificato, sulla base dei nuovi rapporti di forza, il carattere della mediazione politica tra classe e Stato, la funzione degli strumenti e dei soggetti istituzionali con cui lo Stato si rapporta al proletariato, il modo stesso di governare il conflitto di classe: per questo possiamo dire che nella mediazione politica attuale tra classe e Stato vi è incorporato il salto di qualità operato dalla controrivoluzione negli anni ottanta. L’ambizioso progetto politico di riforme istituzionali intende ratificare al meglio questo rapporto di forza favorevole, sancire l’equilibrio tra classe e Stato in favore di quest’ultimo; da questo il suo carattere antirivoluzionario e antiproletario: stabilizzare e rafforzare la dittatura di classe della borghesia.

Legandosi a quel progetto politico che nella Democrazia Cristiana venne prospettato da Aldo Moro come “terza fase” dopo la ricostruzione post-bellica e gli anni del centro-sinistra, è in questi primi anni ottanta che la strategia demitiana ha preso corpo, ricalibrandosi in un contesto politico e sociale assai mutato e si è imposta come baricentro tra le forze politiche, riqualificando la DC come partito-pilota dei nuovi cambiamenti.

Caratteristica essenziale di questo progetto è sviluppare ancora l’accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo in rapporto alla necessità di ricondurre sempre più il gioco politico alle esigenze della ristrutturazione politica ed economica, allineandosi alle esigenze internazionali del blocco imperialista. L’ossatura del progetto politico demitiano è imperniata sulla formazione di coalizioni che si possano alternare alla guida del governo dandogli così un carattere di forte stabilità, una “maggioranza” forte ed un esecutivo stabile in grado di garantire da un lato risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico internazionale.

Non si tratta di un disegno biecamente reazionario, di un blocco reazionario che vuol svuotare parlamento e costituzione, ma di una strategia che punta a fare funzionare al massimo la democrazia formale, adeguandosi ai modelli delle democrazie mature europee.

Di questo progetto il senatore democristiano Ruffilli era uno dei principali protagonisti, l’uomo di punta che in questi anni ha guidato la DC in questo campo, sapendo ricucire, attraverso forzature e mediazioni, tutto l’arco delle forze politiche intorno a questo progetto, comprese le opposizioni istituzionali.

Che questa manovra complessiva non sia certo priva di contraddizioni lo si vede nelle vicende politiche di ogni giorno; che queste contraddizioni siano in realtà solo secondariamente riferite alle forze politiche ed invece ad un quadro politico e sociale del paese niente affatto pacificato lo si è visto con chiarezza anche sotto il colpo portato al cuore dello Stato; dietro le contraddizioni stanno rapporti di produzione, classi sociali, antagonismi inconciliabili ed è a questi che le BR si relazionano, vi traggono forza e prospettiva per lo sviluppo del progetto rivoluzionario.

In questo progetto tra attacco al cuore dello Stato e la parola d’ordine del Fronte antimperialista combattente vi è la più stretta unità, che caratterizza la linea politica della nostra organizzazione e che parte dalla comprensione di come lo sviluppo del processo rivoluzionario qui è indissolubilmente legato alla lotta generale tra imperialismo e rivoluzione nel mondo, e in modo particolare nella nostra area. L’attuale ristrutturazione dello Stato, la centralizzazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo è direttamente in rapporto al ruolo e alle ambizioni sovranazionali dello Stato imperialista italiano; gli sviluppi concreti del ruolo dell’Italia sulla scena internazionale, nel mondo arabo e nel conflitto mediorientale in questi anni stanno a dimostrarlo.

Sviluppare il processo rivoluzionario significa dunque indebolimento politico-militare dell’imperialismo nell’area, della sua presenza, dei suoi progetti. Ed è proprio a partire da una visione materialista e classista, dalla lettura marxista dell’imperialismo e delle sue leggi, dei conflitti internazionali e di classe, che la politica delle alleanze che ci riguarda si può relazionare con forze rivoluzionarie antimperialiste che possono essere caratterizzate da criteri e finalità anche diversi dalla conquista proletaria del potere: l’unità politica nell’alleanza è data dalla lotta al comune nemico e la sua concretizzazione nei livelli di unità e cooperazione raggiungibili. La nostra organizzazione lavora alla costruzione di alleanze antimperialiste per rafforzare e consolidare il Fronte antimperialista combattente nella nostra area e assume la parola d’ordine di sostenere la guerra del popolo palestinese e libanese contro l’aggressione imperialista e sionista.

Su questi elementi qui molto sommariamente accennati e sull’insieme più ampio e compiuto del bilancio dell’esperienza di questi anni e dell’elaborazione del progetto guerrigliero per la fase che abbiamo davanti che la nostra organizzazione ha prodotto, le Brigate Rosse lavorano oggi per rafforzare il campo proletario, per attrezzarlo allo scontro contro lo Stato; per proseguire nella costruzione del partito comunista combattente non solo accumulando le forze che si dispongono spontaneamente sul terreno, ma creando una direzione che tenga conto di tutti i fattori in gioco, interni e internazionali.

Infine, come aspetto particolare e del tutto secondario dell’iniziativa combattente, vi è il pieno smascheramento nei fatti della natura controrivoluzionaria dell’operazione di “soluzione politica” avviata con grandi velleità di eliminare il problema BR nel quadro ben più generale della riforma istituzionale. La diretta continuità tra il pentitismo nato nelle caserme, la dissociazione prodotta dalla politica penitenziaria antiguerriglia e il progetto di soluzione politica elaborato dallo Stato nei suoi massimi vertici politici, è emersa con la limpida chiarezza che viene dagli avvenimenti e dalle cose, dalla collocazione che ognuno ha trovato e occupato nei confronti dei fatti.

Questa operazione, tra l’altro, intendeva spacciare la lotta armata come una questione ormai di prigionieri; l’identificazione delle BR con il carcere è funzionale e subordinata ai piani dello Stato, è una mistificazione controrivoluzionaria tesa a negare il processo storico in atto: il fatto che è nello scontro di classe, e oggi, che vive la guerriglia.

Le BR sono fuori! Vive, organizzate, combattenti, in uno sviluppo lungo diciotto anni di storia e di lotte.

Qui in carcere ci sono dei militanti; ostaggi nelle mani del nemico, isolati rispetto alla complessiva realtà sociale, nelle sezioni di massima sicurezza, nei carceri speciali. In questa situazione e in queste condizioni la militanza rivoluzionaria è sostanzialmente tenuta dell’identità. Identità che è restituita al grado di integrità concretamente possibile solo per mezzo e attraverso la dimensione di partito, la coscienza e la responsabilità di appartenere a un processo collettivo, a un organismo in movimento nel suo insieme, attraverso la centralizzazione politica e strategica con la guerriglia. Centralizzazione che deve essere perseguita e conquistata imparando dallo sviluppo della lotta reale fuori. In ciò ci può essere, e relativamente, dati i limiti e i condizionamenti che la prigionia strutturalmente comporta, una crescita in rapporto al processo storico nel suo insieme. Tenuta, e sviluppo dell’identità politica in questa disciplina: questo consiste in una lotta, e la lotta qui è questa. Il resto è aria fritta, dove all’incapacità di una condotta coerente si sopperisce con pensieri e parole che a quel punto rimbalzano tra loro.

La comprensione dell’estrema parzialità della condizione di prigionia e dunque della centralità della dimensione di partito, da un lato è nella tradizione del movimento comunista internazionale, nell’esperienza di innumerevoli movimenti rivoluzionari in tutto il mondo, e ha carattere generale, dall’altro è anche il risultato dell’esperienza che abbiamo fatto nel confronto diretto con la controrivoluzione e la sua attività antiguerriglia in carcere, quello che abbiamo imparato in un percorso storico-pratico di anni.

Il senso dunque anche di questa dichiarazione è questo: identità. Per noi e meglio di noi, come altre volte abbiamo detto e come è nella logica della rivoluzione, parla la guerriglia, la nostra organizzazione, le Brigate Rosse.

– Attaccare, disarticolare il progetto politico demitiano di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato!

– Organizzare le forze attorno alla costruzione del partito comunista combattente per attrezzare e dirigere il campo proletario nello scontro prolungato contro lo Stato per il potere!

– Costruire alleanze antimperialiste per rafforzare e consolidare il Fronte antimperialista combattente nell’area!

– Sostenere la guerra del popolo palestinese e libanese contro l’oppressione imperialista e sionista!

Su questi termini di programma costruire l’unità dei comunisti per la costruzione del partito comunista combattente.

 

Cesare Di Lenardo, militante delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente

 

Venezia, 1 giugno 1988