Tutti gli articoli di redazione

Per l’unità dei rivoluzionari nella lotta contro l’imperialismo. Allegato agli atti del processo Moro-ter, Seconda Corte d’Assise di Roma

L’internazionalismo è da sempre l’elemento fondante della concezione rivoluzionaria della lotta di classe e della costruzione del comunismo. Nelle lotte antimperialiste che si sono radicate nei diversi poli dello scontro mondiale vive uno stesso filo conduttore, che si sviluppa trovando ogni volta elementi di originalità, di continuità e di rottura nelle trasformazioni qualitative storicamente avvenute nel capitalismo.

Oggi che i rapporti di forza tra proletariato e borghesia si giocano in un quadro prevalentemente internazionale, «l’internazionalismo è una necessità elementare», come hanno scritto alcuni compagni latino-americani al «movimento anti-FMI».

La mobilitazione contro il congresso del Fondo Monetario Internazionale/Banca Mondiale di settembre a Berlino Ovest è un punto di arrivo e di partenza in questa direzione, e dimostra che la fase apertasi venti anni fa con la nascita del movimento internazionalista contro la guerra del Vietnam non ha esaurito la sua spinta propulsiva. Trova invece nuovo sviluppo nel dibattito che si è consolidato negli ultimi anni in Europa Occidentale e nel mondo.

Questa nuova realtà che si è venuta a determinare nello scontro di classe e che trova i suoi elementi di forza nelle esperienze delle guerriglie e dei fronti rivoluzionari, è una significativa tappa nella costruzione di una strategia rivoluzionaria internazionale contro il sistema imperialista nel suo insieme a livello continentale europeo, mediterraneo e mondiale.

In questa direzione si colloca la scelta politica ed operativa delle organizzazioni Rote Armee Fraktion e Brigate Rosse-PCC nel quadro di una strategia comune contro l’imperialismo all’interno della scadenza contro il Fondo Monetario Internazionale/Banca Mondiale.

Questa è l’indicazione politica che emerge con chiarezza dall’attacco al Sottosegretario alle Finanze tedesco Hans Tietmeyer. Con questa scelta le due organizzazioni guerrigliere intendono concretizzare il «salto necessario ad una politica di fronte» in Europa Occidentale, in dialettica con le parti più avanzate del movimento rivoluzionario che si sono attivate in questa mobilitazione.

  1. Nella scadenza contro il FMI/BM si sono evidenziati alcuni dati politici importanti.
    Questa mobilitazione ha messo al centro i progetti politici principali dell’imperialismo – e in particolare le cosiddette «politiche di sviluppo» – e le istituzioni e determinazioni sovranazionali che elaborano ed attuano le decisioni strategiche, economiche, finanziarie, monetarie, sociali… necessarie per tentare di governare le contraddizioni crescenti indotte dalla crisi capitalistica.
    Ciò significa affrontare il carattere distintivo dell’imperialismo di questa epoca: il suo consolidarsi come sistema sovranazionale a livello mondiale, un sistema unitario che percorre tutta la formazione sociale metropolitana dal centro alla periferia, riproducendo in ogni area del mondo la tendenza storica intrinseca del capitalismo, lo sviluppo e il sottosviluppo in una unità inscindibile.
    Un sistema che ormai da vent’anni è alla ricerca di una riorganizzazione e stabilizzazione a seguito dell’approfondirsi della crisi mondiale del capitale e della crisi dello stesso sistema di egemonia USA. Questo processo di riorganizzazione e riassetto d’altra parte non trova, e non può trovare, soluzione stabile neppure attraverso il consolidato meccanismo degli organismi sovranazionali e dei vertici periodici tra i «7 Grandi». E tantomeno nella stagione di accordi strategici e di intesa sui «conflitti regionali» tra USA e URSS.
    Anche le politiche del FMI/BM sono un prodotto storico specifico del movimento della crisi capitalistica e sono un chiaro aspetto della contemporaneità e inscindibilità di crisi e sviluppo nel capitalismo.
    «La grande importanza di tutte le crisi sta nel fatto che esse rendono palese ciò che è nascosto, respingono il convenzionale, il superficiale, il secondario, spazzano via i rifiuti della politica e svelano le molle reali della lotta di classe effettivamente in atto » (Lenin).
    Al congresso di Berlino Ovest i ministri ed i governatori dei sette paesi più industrializzati si sono complimentati con se stessi per la situazione delle loro economie, che crescono addirittura ad un ritmo più alto di quello previsto (il 4%), anche grazie al coordinamento delle politiche economiche stabilito dal vertice di Toronto.
    Come ha detto il rappresentante del Tesoro USA: «mi sembra giusto che dal nostro dibattito emerga che sia desiderabile mantenere lo status quo. Dovremo rafforzare le politiche di coordinamento e non perdere di vista eventuali miglioramenti dei meccanismi, ma la strada sulla quale ci troviamo è solida e ci ha dato soddisfazioni».
    Ma di fronte a questo ottimismo capitalista sta lo status quo dell’indebitamento e dell’immiserimento dei paesi delle aree dominate.
    I paesi del «Terzo Mondo» sono sempre più poveri e per loro il FMI/BM è una vera e propria macchina di sfruttamento e morte. E’ uno strumento di dominazione diretta perché organizza le basi del sistema economico di quei paesi: attraverso di esso il capitalismo estorce ricchezza per il suo sviluppo.
    Nella situazione che si è venuta a determinare a livello mondiale, in questo stadio dell’imperialismo, il FMI/BM più che centralizzare il ritmo dei flussi finanziari verso i paesi in via di sviluppo diviene sempre più «poliziotto del sistema finanziario» a livello mondiale. In questa direzione si moltiplicano e articolano i diversi gradi di ingerenza del FMI/BM nell’economia di ogni paese.
    Un indebitamento di 1200 miliardi di dollari per i paesi del «Terzo Mondo» è sicuramente una contraddizione per l’economia mondiale, ma è soprattutto una questione di sopravvivenza per i popoli di quei paesi.
    Già all’inizio degli anni ’70 l’impossibilità di pagare i debiti si traduce nella necessità di contrarne ulteriori per pagare almeno gli interessi: il 75% dei nuovi prestiti erano concessi per pagare gli interessi di quelli precedenti!
    A Berlino nessuna soluzione di revisione delle politiche di prestito è stata adottata, e tantomeno una riduzione generale dell’ammontare del debito, mentre si è riconfermata la linea egemone americana del «Piano Baker», cioè di un approccio caso per caso, paese per paese, in base agli interessi degli stati imperialisti occidentali più forti ed alla spietata politica delle multinazionali.
    Le politiche del FMI/BM, ben lungi dall’invertire il flusso di capitali dal Sud verso il Nord – flusso che è anche alla base della ristrutturazione e dello sviluppo del sistema produttivo nel centro imperialista – non fanno che favorire il processo di accumulazione e concentrazione capitalistica.
    Nei fatti il trasferimento netto di capitali da questi paesi verso il Nord, tra l’84 ed oggi, si aggira sugli 87 miliardi di dollari.
    La «crisi del debito» ha fatto capire a tutto il mondo il meccanismo di dominazione e dipendenza attraverso cui viene strangolata la maggioranza della popolazione mondiale. Le politiche del FMI/BM hanno agito nell’esclusivo interesse dei paesi industrializzati, intensificando la dinamica di sviluppo ineguale alla base del peggioramento delle condizioni di vita nelle aree dominate.
    Queste due istituzioni sovranazionali si rivelano sempre più come due organismi di sfruttamento al servizio degli USA e del «Gruppo dei 7».
    E’ assodato che oltre il 60% dei debiti che oggi i paesi sottosviluppati dovrebbero pagare non è stato utilizzato a favore della crescita economica di quei paesi, ma ha costituito una ricca fonte di profitti per i paesi industrializzati. A ciò si aggiungono gli effetti tragici delle strategie di «austerità e risanamento» imposte ai paesi più indebitati. Il FMI/BM ha stabilito in quelle aree una politica diretta ad aumentare le risorse destinate al pagamento dei debiti attraverso la riduzione dei consumi interni e l’aumento delle esportazioni delle materie prime e delle produzioni agricole, a scapito di quella parte della popolazione che è esterna al mercato. Ormai definitivamente un surplus per l’economia mondiale!
    Un esempio di questo pesante meccanismo di annientamento è fornito dalle valutazioni fatte dagli esperti di 23 paesi riuniti a Cartagena (Colombia) agli inizi di settembre. In America Latina dall’80 all’85 – cioè in soli cinque anni – il numero dei «poveri» è aumentato del 25%.
    Pagare 410 miliardi di dollari con i relativi altissimi interessi ha significato un calo del 14% nel reddito di ogni abitante tra l’80 e l’86, la caduta reale dei salari, l’aumento della disoccupazione e la riduzione della spesa pubblica. Oltre 60 milioni di persone vivono in condizioni di «miseria assoluta».
    Questa politica di sfruttamento nei confronti dei popoli delle aree dominate trova esplicite conferme nei piani di «aiuti allo sviluppo» adottati dai paesi europei nei confronti del Medio Oriente e del Nord Africa (rispetto ai quali si favoleggia di un nuovo «Piano Marshall» moltiplicatore di profitti), nel Centro e Sud America, e nella costruzione del sistema produttivo decentrato nel Sud-Est Asiatico, dove le fabbriche delle multinazionali possono spingere al massimo lo sfruttamento della manodopera.
    Ma il ruolo del FMI/BM si estende a tutto il mondo capitalistico, anche nel centro: esso è funzionale a determinare l’egemonia dei capitali più forti su quelli più deboli, esercitando un controllo generale sullo «stato di salute» delle economie di ogni paese.
    Nella stessa Europa Occidentale, ad esempio, se in precedenza, secondo stime CEE, i «poveri» erano 24 milioni, ora sono ben 62 milioni; alle aree del grande sviluppo nelle produzioni ad alta tecnologia si contrappongono le «regioni industriali in declino» e quelle del sottosviluppo cronico.
    È chiaro comunque che questo pesante meccanismo agisce in modo completamente diverso nei paesi dominanti.
    Il problema del debito nel centro imperialista – gli Stati Uniti ad esempio sono il paese più indebitato del mondo – assume un’importanza relativa, per il fatto stesso che il FMI/BM è un organismo al servizio soprattutto dei loro interessi.
    In questo congresso del FMI/BM, che è stata una delle assise più importanti della borghesia imperialista dopo la seconda guerra mondiale, quello che balza agli occhi, a più di quarant’anni dalla ridefinizione e spartizione del mondo in sfere d’influenza, è che il sistema imperialista mette a disposizione della maggior parte dell’umanità sempre meno risorse.
    La politica imperialista tende a riprodurre inesorabilmente il processo di sviluppo e sottosviluppo in ogni area del mondo, dal centro alla periferia, ed il consolidamento del sistema mondiale imperialista non fa che aggravare questa tendenza.
    In questo senso la legge dell’accumulazione capitalistica di Marx trova la sua puntuale verifica all’interno dello sviluppo del capitalismo, anche nel suo attuale sviluppo metropolitano.
    «Questa legge determina un’ accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza ad uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale » (Marx).
  1. Se da un lato la mobilitazione anti-FMI/BM focalizza il rapporto centro-periferia ed il ruolo che in esso ricoprono i vari organismi sovranazionali dell’imperialismo, trova dall’altro un suo punto di forza nell’individuazione e comprensione del ruolo specifico dell’Europa Occidentale nel sistema imperialista.
    Questa mobilitazione è concepita come iniziativa di lotta e comunicazione a dimensione continentale europea e mondiale contro le strategie ed i progetti sovranazionali attraverso cui l’imperialismo organizza ed impone lo sfruttamento del proletariato nel centro e nella periferia.
    All’interno della scadenza, l’attacco alla formazione del «blocco europeo-occidentale» è diventato un elemento centrale. Questo processo capitalistico è lo sviluppo di «una controtendenza che mira al rilancio dell’accumulazione, che tende a realizzare una riduzione dei costi su scala europea» (dichiarazione dei prigionieri della guerriglia al processo di Stammheim, 1988).
    L’integrazione capitalistica in Europa Occidentale si fonda sui processi di concentrazione/centralizzazione dei capitali, sulla ristrutturazione e ridefinizione del sistema produttivo attorno ai grandi progetti dell’alta tecnologia (ESPRIT, EUREKA, ecc.) e sull’integrazione e coordinamento degli apparati militari. Essa è diretta a costruire la base economica e sociale per assicurare ai capitali multinazionali le condizioni ed il mercato necessari per continuare a svilupparsi e per essere competitivi a livello mondiale.
    Il complesso delle iniziative di integrazione economica, finanziaria e monetaria attorno alla scadenza del «Mercato Unico» del 1992 danno corpo concretamente a questo progetto.
    A questo proposito è bene tenere presente che il «blocco europeo-occidentale» non è una realtà già data, ma un processo in costruzione in cui la forte spinta del capitale internazionale, che si muove ormai in una dimensione europea e mondiale, deve fare i conti sia con la conflittualità delle strategie di produzione e di mercato dei diversi capitali, sia con gli interessi particolari e le politiche divergenti dei vari governi e stati europei.
    Questa dinamica, comunque, già oggi porta a dei significativi mutamenti nella collocazione degli stati europei all’interno del mercato capitalistico e del sistema di dominio imperialista.
    In questo contesto il perdurare della crisi di egemonia USA, a causa della impossibilità per questo paese di sostenere da solo i costi crescenti della crisi capitalistica internazionale – data la sua attuale complessità e profondità – fa assumere un ruolo specifico ed un peso politico complessivo più rilevante all’Europa Occidentale e al Giappone.
    Gli stati europei più forti (RFT, Francia, Gran Bretagna, Italia) non hanno più soltanto il compito di affiancare le strategie dell’amministrazione americana a livello mondiale; oggi impegnano direttamente la loro forza economica, politica e militare come parte integrante del sistema di potere dell’imperialismo occidentale.
    Questa ridefinizione dell’assetto capitalistico in Europa Occidentale, si traduce immediatamente in un aumento dello sfruttamento e della disoccupazione, in un peggioramento generale delle condizioni di vita del proletariato, in sostanza in una intensificazione dell’alienazione nella metropoli.
    È un processo che si materializza anche verso l’esterno, proiettandosi in modo consistente nelle diverse aree del mondo, sia come ruolo della CEE nelle principali regioni di crisi, sia come intervento mirato dei singoli stati europei.
    Il peso crescente dell’intervento degli stati e dei capitali multinazionali italiano e francese in Medio Oriente e in Nord Africa, di quello inglese in tutta l’Africa, di quello tedesco in Africa Australe, America Latina, Sud-Est Asiatico, è la prova più evidente di questa dinamica.
    Ancora più evidente in questo senso è il ruolo della «Convenzione di Lomè», tra la CEE e 66 paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, in cui i piani di «aiuto allo sviluppo» finanziati direttamente dal Fondo Europeo di Sviluppo (FES) e dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) consentiranno sempre più alla Comunità di «intervenire nei processi di riaggiustamento strutturale delle economie dei paesi beneficiari». Queste politiche si muovono nella stessa direzione di quelle del FMI/BM, ricercando costantemente un maggior coordinamento tra di esse.
    In definitiva possiamo dire che i programmi economici «concordati» tra il paese che accede al credito, gli organismi sovranazionali finanziari e monetari (FMI/BM, FES, BEI, ecc.) ed il grande capitale finanziario privato, sono semplicemente la pianificazione delle possibili linee di penetrazione del capitale imperialista nelle aree dominate.
    Ma questo meccanismo si riproduce anche nei confronti di alcuni paesi dell’Europa, in base al principio della divisione di quote all’interno del FMI/BM in rapporto al potere di ognuno dei sette paesi più industrializzati.
    L’Italia nell’ultima riunione ha aumentato il suo potere nel comitato esecutivo del FMI/BM, assumendo il compito di rappresentare, oltre agli interessi di Grecia, Portogallo e Malta, anche quelli della Polonia (uno dei paesi in cui è più forte la penetrazione del capitale FIAT!).
    E, proprio per rendere più efficiente questa strategia di profitto, al Congresso di Berlino Ovest sono andati in massa i grandi banchieri, i dirigenti delle grandi multinazionali, i supertecnocrati degli stati e degli organismi sovranazionali.
    I porci imperialisti seduti attorno al grande banchetto del FMI/BM erano ben 14.000!
    È contro questi uomini, questi progetti e apparati che tendono a potenziare la cosiddetta «politica di sviluppo» del capitalismo sulla pelle del proletariato del centro e della periferia, che si è indirizzata la mobilitazione in questa scadenza, stabilendo una connessione strategica tra le lotte nel «centro europeo-occidentale» e quelle nel «Tricontinente» (Asia, Africa, America Latina).
  1. Dal punto di vista della classe, la mobilitazione sviluppatasi attorno alla scadenza del Congresso di Berlino Ovest è parte di quell’ampia dimensione di dibattito che si è aperta da tempo nel movimento rivoluzionario a livello internazionale. Dal Convegno di Francoforte dell’86, alle «Giornate Antimperialiste» di Barcellona dell’87, in cui si ponevano in primo piano «i processi concreti di coordinamento della lotta comune contro l’imperialismo».
    Ciò che viene posto al centro è il proletariato internazionale come soggetto mondiale della rivoluzione e il suo processo di costituzione in classe nella lotta contro l’imperialismo nel suo insieme. Questa importante dinamica di lotta è un’espressione dello scontro prodotto dallo sviluppo storico del capitalismo, che ha creato ormai un’unica formazione sociale estesa a tutto il mondo, dove il processo di proletarizzazione, che riveste caratteri specifici nelle diverse aree, costituisce la base oggettiva che mette «in relazione» le diverse frazioni del proletariato mondiale, dall’Europa Occidentale alle Filippine, alla Corea del Sud, dal Perù al Salvador, dai Territori Occupati della Palestina al Libano, fino all’Africa Australe.
    Si può dire che c’è un salto storico che ha internazionalizzato in maniera irreversibile il concetto di classe: alla fine degli anni ’70 il processo rivoluzionario mondiale come processo unitario è diventato attuale.
    È nella lotta contro l’imperialismo che il proletariato internazionale si ricompone a livello mondiale e si costituisce in classe rivoluzionaria che combatte per il proprio interesse.
    «La dominazione del capitale ha creato a questa massa (di lavoratori) una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale ma non ancora per se stessa. Nella lotta (…) questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe». (Marx).
    La progressiva omogeneizzazione delle contraddizioni di classe nella formazione sociale capitalistica metropolitana è la base da cui scaturisce la simultaneità delle lotte nei diversi poli rivoluzionari e che fonda il carattere antimperialista dei movimenti e delle guerriglie in Europa Occidentale come in Medio Oriente, in America Latina come nel Sud-Est Asiatico.
    Anche nella mobilitazione contro il FMI/BM emerge questa qualità nuova del processo rivoluzionario: il carattere internazionale del soggetto e della lotta, e la dialettica ampia fra le lotte proletarie e rivoluzionarie nelle diverse aree del mondo. La mobilitazione ha agito da catalizzatore del movimento di classe, sia nel lungo dibattito preparatorio, sia durante la scadenza.
    Sul piano continentale europeo, perché pur trovando nella iniziativa del movimento tedesco il suo punto di forza, ha stabilito un processo comunicativo ampio tra i proletari di tutti i paesi dell’area.
    Sul piano mondiale, perché è diventata un punto di riferimento della iniziativa dei proletari e dei rivoluzionari in diversi paesi delle aree dominate, attivando un primo ed importante momento di interazione rivoluzionaria.
    In America Latina si è avuta una significativa mobilitazione attorno alla scadenza contro il FMI/BM, con iniziative in vari paesi. Alcuni compagni dei sindacati boliviani «dei contadini e delle donne lavoratrici» si sono rapportati direttamente al «movimento anti-FMI/BM» scrivendo: «la lotta internazionalista vive nella lotta antimperialista: nessuno ha l’illusione che le riforme possano cambiare la politica assassina del FMI/BM, nessuno pensa seriamente che la lotta per la liberazione sia possibile in un contesto nazionale, nessuno pensa seriamente che la lotta di liberazione in un quadro nazionale possa minacciare il perdurare della politica imperialista perché questa politica è a dimensione mondiale».
    A vent’anni dalla morte di Che Guevara si assiste ad un sicuro risveglio del dibattito e della iniziativa rivoluzionaria in tutte le aree di scontro del mondo, risveglio che pone al centro proprio i contenuti di rottura dell’internazionalismo proletario: una sola lotta delle diverse frazioni del proletariato internazionale contro l’imperialismo.
    «Non ci sono frontiere in questa lotta mortale, non possiamo rimanere indifferenti di fronte a ciò che avviene in qualsiasi parte del mondo; la vittoria di un paese qualunque sull’imperialismo è una nostra vittoria, così come la sconfitta di una qualunque nazione è una sconfitta per tutti. La pratica dell’internazionalismo non è soltanto un dovere dei popoli che lottano per assicurarsi un futuro migliore ma anche una necessità imprescindibile» (Che Guevara, Secondo Seminario Economico di Solidarietà Afro-Asiatica, Algeri 1965).

 

  1. La mobilitazione contro il FMI/BM non nasce dal nulla. Essa è il risultato di un lungo percorso di dibattito sviluppatosi nel movimento rivoluzionario in Europa Occidentale, a partire dai contenuti internazionalisti e antimperialisti affermati dalla guerriglia nelle due offensive dell’84 e dell’86.
    In questo contesto, negli ultimi due anni, sono stati posti al centro i nodi fondamentali dello scontro fra borghesia imperialista e proletariato internazionale e della organizzazione rivoluzionaria nella metropoli, e la necessità del superamento della parzialità delle lotte settoriali.
    Attorno a questo percorso si è determinato il convergere di esperienze di lotta anche molto diverse e si sono create le condizioni per la presa di coscienza della dimensione internazionale della crisi e dello scontro, e per un più maturo sviluppo del rapporto tra guerriglia e movimento rivoluzionario all’interno del Fronte Rivoluzionario Antimperialista.
    Il consolidamento di questo processo di autorganizzazione proletaria, pur essendo ancora disomogeneo e contraddittorio, ha una portata politica indiscutibile che va al di là del contingente; esso rilancia i contenuti strategici che erano alla base del grande movimento antimperialista nato alla fine degli anni ’60, collocandoli all’interno dello scontro attuale.
    Il dato più importante che emerge da questa ricca dimensione di confronto, lotta e organizzazione affermatasi intorno alla scadenza è la coscienza che le frazioni più avanzate di questo movimento hanno maturato di lottare contro il nemico comune assieme al proletariato di tutto il mondo direttamente contro la politica del capitale e lo stesso meccanismo intrinseco del modo di produzione capitalistico.
    Questo ampio e forte movimento di lotta si colloca con chiarezza sul terreno della critica rivoluzionaria dell’imperialismo di questa epoca, mettendo in discussione la sostanza del rapporto sociale capitalistico e muovendosi in direzione della costruzione del potere proletario.
    L’enorme rilevanza della contraddizione al centro della scadenza e l’altezza dello scontro che vi si è aperto, hanno fatto in modo che si mobilitasse un vastissimo arco di soggetti e di esperienze. La manifestazione degli 80.000 a Berlino Ovest dimostra l’ampiezza dello scontro su questi aspetti peculiari della formazione economico-sociale capitalistica.
    Gli stessi riformisti, vecchi e nuovi, ne hanno dovuto prendere atto, tentando di inserire e propagandare i contenuti dell’impossibile «riconversione democratica» di una politica che non può essere riformata, con l’unico risultato di svelare ancora di più la loro impotenza e subalternità all’imperialismo.
    I contenuti di rottura e di potere consolidati in questi ultimi anni di pratiche di lotta della «resistenza rivoluzionaria» si sono tradotti in questa occasione in precise iniziative volte a sviluppare l’unità strategica con la guerriglia nel Fronte.
    Questo è il senso delle iniziative programmate e sviluppate contro il FMI/BM, con gli attacchi incendiari contro le banche, contro le multinazionali Siemens, Schering, Adler, con l’irruzione nei locali della «Conferenza di Amburgo» e la bastonatura del direttore esecutivo tedesco del FMI, con l’«assedio» del DIE (Istituto Tedesco per la politica di sviluppo)… Come molte altre iniziative.

 

  1. Con l’attacco a Tietmeyer la guerriglia riconferma il terreno strategico di scontro aperto negli anni passati, ponendosi come punto di riferimento nei confronti del movimento di classe per il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria nel suo complesso.
    La lotta del Fronte Rivoluzionario nel centro imperialista viene oggi concepita in «unità strategica» con le lotte nel «Tricontinente del Sud», per questo viene attaccato uno dei principali operatori del management della crisi «sul piano nazionale, europeo ed internazionale», un delegato al FMI/BM, agli incontri del «Gruppo dei 5» e del «Gruppo dei 7»… perché dentro questi meccanismi viene decisa, sviluppata ed accelerata la politica di annientamento «delle masse e dei popoli del Terzo Mondo».
    «La lotta contro i concreti progetti della strategia imperialista deve essere condotta con lo scopo di collocarsi al loro limite… di bloccarne ed impedirne il funzionamento per rompere realmente la strategia dell’imperialismo e per incentivare il processo di erosione del sistema » (RAF, 1988).
    In questa iniziativa la guerriglia ha saputo tener conto sia dell’insieme delle condizioni internazionali, europee e nazionali che si vanno determinando nello scontro, sia della necessità di aprirsi alla dialettica con i diversi soggetti e le lotte che hanno preso corpo intorno alla scadenza anti-FMI/BM, per dare il respiro strategico adeguato ad un’offensiva più matura e consolidata delle forze rivoluzionarie che si «incontrano» nel Fronte.
    Il dato politico che emerge è una pratica che pone in primo piano il processo rivoluzionario nella metropoli come parte del processo di liberazione ed emancipazione del proletariato mondiale, come guerra di lunga durata tesa all’indebolimento del sistema imperialista. Un processo rivoluzionario di dimensioni mondiali che costruisce le condizioni per specifiche rotture in specifici punti/aree di crisi nel mondo.
    Non si tratta di seguire una errata concezione di rivoluzione mondiale come esplosione simultanea ed unica in tutto il mondo, quanto di porre al centro gli scopi universali del processo di emancipazione proletaria ed i passaggi concreti che muovono nella sua direzione all’interno dello scontro tra borghesia imperialista e proletariato internazionale nelle diverse aree.
    Lo scontro tra imperialismo e rivoluzione in Europa Occidentale ha assunto negli ultimi anni una dimensione più ampia e feroce per l’accelerazione del processo di integrazione dei capitali e delle politiche degli stati europei da una parte, e per il radicarsi dell’iniziativa rivoluzionaria nell’intero continente dall’altra.
    La borghesia imperialista, nel processo di ristrutturazione e «sviluppo» capitalistico che ha preso corpo dalla metà degli anni ’70 in poi – e che è entrato nel vivo nei primi anni ’80 – si è rimangiata gran parte delle conquiste operaie e sociali, e soprattutto ha teso a distruggere ogni aspetto dell’autonomia e auto-organizzazione proletaria: dalla FIAT nell’80 alla Renault, alla Wolkswagen, dai massicci tagli occupazionali della siderurgia a quelli nell’area dei servizi che hanno attraversato tutta l’Europa, dai poli industriali nella Ruhr, in Lorena e in Inghilterra, a quelli italiani.
    Ma soprattutto la borghesia ha attaccato i contenuti di rottura della pratica rivoluzionaria che si è affermata nel centro imperialista, cercando di far franare le organizzazioni guerrigliere e l’esperienza rivoluzionaria più in generale, che in Europa si è posta nella direzione della distruzione dell’imperialismo e della costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria del proletariato, mettendo al centro i rapporti di potere tra le classi.
    In realtà negli anni ’80 lo scontro rivoluzionario nei singoli stati europei si è ridefinito nei suoi caratteri fondamentali, collocandosi sul terreno dei rapporti di forza tra borghesia e proletariato a livello continentale. Si è aperto un nuovo terreno di sviluppo del processo rivoluzionario nella metropoli, una prospettiva unitaria che trova nell’antimperialismo il suo elemento principale e che nel corso degli ultimi anni si è caratterizzata con una pratica di attacco ai progetti e alle determinazioni sovranazionali dell’imperialismo e ai processi di rifondazione dei singoli stati.
    La guerriglia, come asse centrale del Fronte, ha teso prima ad affermare questa prospettiva nel movimento di lotta e nella classe, per sviluppare poi un processo di unità dei rivoluzionari e di cosciente unificazione delle lotte, radicandola definitivamente nel centro imperialista.
    In questa direzione, la campagna dell’85-86 delle organizzazioni Action Directe e Rote Armee Fraktion ha costituito un indubbio passo avanti della soggettività rivoluzionaria in Europa nel quadro dell’attacco ai progetti centrali dell’imperialismo.
    Il filo conduttore che lega le azioni Audran-Zimmermann, Brana, Beckurts, Braunmühl e Besse è estremamente chiaro: «Colpire sulla linea di demarcazione e di scontro Proletariato Internazionale/Borghesia Imperialista (…). Organizzare il Fronte Rivoluzionario in Europa Occidentale (portando) le lotte nella metropoli ad un livello politico militare con un orientamento strategico che metta in discussione il sistema imperialista nel suo insieme e cominci il processo di ricostruzione della classe come processo internazionalista.» (Action Directe, 1986).
    È questa progettualità che la borghesia vuole sconfiggere, è questa capacità delle forze rivoluzionarie di situare lo scontro nei singoli paesi europei a livello dei rapporti di forza sul piano continentale a dover essere distrutta!
    Ma la rottura rivoluzionaria operata dalla guerriglia nella metropoli è un punto di non ritorno, è un processo ormai aperto ed affermato, nonostante gli attacchi che la controrivoluzione riesce puntualmente a sferrare. Essa trova ogni volta la capacità di rilanciarsi nei contenuti stessi dello scontro tra borghesia e proletariato che si è andato delineando in questa area, e lo dimostra la capacità stessa delle organizzazioni guerrigliere di superare le diverse fasi critiche succedutesi in questi anni.
    Questa è la chiave di lettura che può consentire ai comunisti di vedere più in là delle periodiche «batoste» che le forze rivoluzionarie subiscono in Europa Occidentale.
    Oggi l’unità dei rivoluzionari e l’unificazione delle lotte in una strategia comune contro l’imperialismo sul territorio europeo ricevono una nuova spinta con la scelta politica ed operativa della RAF e delle BR-PCC. Questa è una indicazione estremamente importante e pone le condizioni per un avanzamento rispetto alla stessa fase chiusasi nell’86.
    La scelta strategica operata da queste due organizzazioni storiche ha un grosso peso politico, perché mette in primo piano i processi unitari che possono «sviluppare la forza politica e pratica» per consolidare la prospettiva del Fronte.
    «Il salto ad una politica di Fronte è necessario (…). Le differenze storiche di percorso e di impianto politico di ogni organizzazione non devono essere di impedimento alla necessità di lavorare ad unificare le molteplici lotte e l’attività antimperialista in un attacco cosciente e mirato » (Raf/BR-PCC, 1988).
    È il segno di una tendenza che si è fatta sempre più forte e concreta, e che oggi mette in primo piano la connessione con le lotte rivoluzionarie nell’intera area europea, mediterranea e mediorientale. Un processo unitario aperto che costruisce i passaggi concreti per una solida unità e cooperazione con le altre forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo in questa area geopolitica: dalla Grecia all’Irlanda, dal Portogallo alla Spagna fino al Medio Oriente e al Nord Africa. In primo luogo con le organizzazioni rivoluzionarie e la lotta del popolo palestinese e libanese.

 

  1. Nel contesto specifico dello scontro rivoluzionario in Italia, il percorso realizzato in questi anni dalle BR-PCC costituisce un importante contributo al superamento della logica difensivistica e del risorgente revisionismo, che hanno intralciato la pratica della guerriglia e dell’intera esperienza rivoluzionaria italiana dopo la sconfitta dell’82. Questo percorso ha saputo riportare l’iniziativa rivoluzionaria sul terreno strategico dell’attacco ai progetti e alle determinazioni centrali della borghesia imperialista.
    L’azione contro Ruffilli ha posto al centro la contraddizione fondamentale della rifondazione dello stato in un momento cruciale della ridefinizione e integrazione delle politiche imperialiste a livello europeo.
    Oggi, ponendo al centro il processo unitario della guerriglia in Europa e nel Mediterraneo all’interno del Fronte, e collocando l’attacco sul terreno della dimensione sovranazionale delle politiche e dei progetti dell’imperialismo, questa organizzazione fa vivere un livello di progettualità più alto e complessivo.
    L’attacco della controrivoluzione nei confronti delle forze rivoluzionarie in questi ultimi mesi in Italia, mostra come il rilancio dell’iniziativa guerrigliera e rivoluzionaria in generale in questo paese si muova su un terreno particolarmente difficile e contraddittorio, data la durezza dello scontro con cui si deve misurare, anche a fronte della politica di distruzione della soggettività rivoluzionaria portata avanti dallo stato dai primi anni ’80 in poi (dalle operazioni mirate dei carabinieri al «progetto pentiti», alla «soluzione politica»…).
    Esiste oggi in tutta evidenza un problema di riqualificazione della avanguardia, di ricostituzione delle forze rivoluzionarie e degli strumenti politico-organizzativi, e ciò non può trovare certo risoluzione dentro una concezione lineare del processo rivoluzionario.
    In questo senso, uscire dalla difensiva non può significare partire da sé e tantomeno dai livelli imposti dalla controrivoluzione. È necessario invece porre al centro la complessità dello scontro di classe così come si è venuto a determinare riadeguando in esso l’agire della avanguardia.
    Anche oggi si tratta di rilanciare e consolidare la rottura rivoluzionaria aperta dalla nascita della guerriglia metropolitana nel ’70, ponendo ancora una volta al centro i problemi fondamentali dell’«organizzazione», della «teoria» e della «progettualità rivoluzionaria nella metropoli» con un orientamento strategico capace di sviluppare il processo complessivo di costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria del proletariato nelle condizioni che si vengono a creare ogni volta nello scontro.
    Di qui si può partire per «sviluppare la lotta rivoluzionaria nella metropoli europea. Perché di questo si tratta. Non tanto di vincere subito e di conquistare tutto, ma di crescere in una lotta di lunga durata » (Collettivo Politico Metropolitano, 1970).
    La riqualificazione della soggettività rivoluzionaria si trova di fronte al compito di tracciare una precisa linea strategica capace di radicare il processo rivoluzionario per linee interne alla classe, sviluppando una concreta dialettica con il movimento rivoluzionario.
    «La direzione dello scontro non può limitarsi ad accumulare semplicemente le forze che si dispongono spontaneamente sul terreno rivoluzionario, ma comporta una formazione delle stesse in termini qualitativi arricchendole del patrimonio dell’esperienza rivoluzionaria; una direzione che comporta principalmente il saperle disporre all’interno degli obiettivi politici e programmatici perseguiti: una direzione che deve tenere conto di tutti i fattori interni ed internazionali che caratterizzano lo scontro rivoluzionario » (BR-PCC, 1988).
    Il problema è quello di far vivere la pratica della guerriglia nella dialettica possibile e necessaria con il movimento rivoluzionario, attorno ad una strategia incentrata sui terreni principali in cui oggi si determinano i rapporti di potere tra le classi, e capace in questo di essere forza propulsiva ed espansiva dello scontro di classe.
    In questo senso il carattere della avanguardia rivoluzionaria è sempre distinto e peculiare rispetto a quello del movimento, per i compiti politici che si pone e per lo scontro mortale che vive con lo stato e l’imperialismo.
    Il percorso che ha cominciato a prendere corpo in Europa e in Italia, con l’affermarsi di una strategia comune delle forze guerrigliere contro l’imperialismo, apre una valida prospettiva rivoluzionaria e costituisce un grosso contributo al rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria anche in questo paese.
    È questo il dato politico indiscutibile che si è affermato nella pratica e che la controrivoluzione non può cancellare!
    Questo percorso di lotta e organizzazione rivoluzionaria va sostenuto e sviluppato da tutti i comunisti e i rivoluzionari all’interno di un confronto aperto e responsabile in cui vanno messi al centro gli aspetti unitari della lotta antimperialista e internazionalista.
    Un confronto che arricchisca e contribuisca a riqualificare la progettualità rivoluzionaria alimentandosi delle diverse esperienze, dei differenti percorsi e del dibattito che compongono l’intero movimento rivoluzionario europeo.
    Come comunisti prigionieri non possiamo che collocarci all’interno di questa potente dinamica unitaria che si è sviluppata attraverso le iniziative della guerriglia, lavorando con determinazione a costruire in questa direzione un processo unitario di lotta anche tra i prigionieri della guerriglia in Europa Occidentale.

Questo è il senso che diamo alla nostra identità di comunisti in carcere ed è anche il modo di costruire la nostra internità reale allo scontro in atto.

Costruire l’unità dei rivoluzionari nel Fronte Rivoluzionario Antimperialista in Europa occidentale e nell’area mediterranea!

Sviluppare la più ampia dialettica con tutti i proletari e i rivoluzionari che nel mondo combattono l’imperialismo.

Solidarietà alla lotta del popolo palestinese!

 

Susanna Berardi, Vittorio Bolognese, Lorenzo Calzone, Luciano Farina, Natalia Ligas, Giovanni Senzani

 

Roma, 12 ottobre 1988

Roma, processo Moro-ter – Dichiarazione di Susanna Berardi, Vittorio Bolognese, Lorenzo Calzone, Luciano Farina, Natalia Ligas, Giovanni Senzani

Come comunisti prigionieri vogliamo esprimerci dal processo Moro-ter sull’azione dell’organizzazione Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente contro il senatore democristiano Roberto Ruffilli: noi riteniamo importante appoggiare tutte quelle pratiche e forze rivoluzionarie che si muovono nella direzione della guerriglia metropolitana per il comunismo.

A nostro avviso questo attacco mette in luce uno dei nodi su cui la borghesia cerca di riadeguare il suo sistema di potere per funzionalizzare l’insieme delle strutture e articolazioni dello stato ai processi di integrazione economico-politico-militare dell’imperialismo occidentale.

La cosiddetta “riforma istituzionale“ su cui è in atto un ricompattamento dell’intero arco delle forze politiche, è uno dei passi necessari per adeguare la struttura di governo ai processi di ristrutturazione del sistema produttivo italiano già avviati da anni in una dimensione internazionale.

Nel quadro dello scontro tra borghesia e proletariato quest’azione contribuisce a svelare i progetti di stabilizzazione politica e di centralizzazione delle decisioni nell’esecutivo e attacca la pacificazione sociale che lo stato tenta di imporre sul tessuto di classe. Nello stesso tempo riafferma per tutti i comunisti la necessità di lavorare unitariamente al rilancio della prospettiva rivoluzionaria.

La guerriglia in questi ultimi anni si è confermata a livello internazionale, come in Italia, l’unica strategia rivoluzionaria capace di affermare gli interessi generali del proletariato contro il rapporto sociale capitalistico di questa epoca. Ciò è ampiamente dimostrato dalla pratica sviluppata in Europa occidentale dalla RAF, da Action Directe, dalle Brigate Rosse-PCC e dalle altre organizzazioni rivoluzionarie che combattono in Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda.

Queste organizzazioni, di fronte all’attacco controrivoluzionario scatenato dall’imperialismo nei confronti del proletariato internazionale, sono state capaci di mantenere vivo il patrimonio storico della lotta armata nell’intero territorio europeo e hanno cominciato a tracciare e concretizzare i primi passi di una strategia rivoluzionaria internazionale nella metropoli.

È un’indiscutibile realtà che mette in crisi tutte quelle posizioni liquidazioniste che in questi ultimi tempi tentano di disgregare il movimento rivoluzionario.

Lo scontro in Italia oggi vede il manifestarsi di chiari segnali di ripresa dell’iniziativa di classe, soprattutto nelle lotte di alcuni settori operai (dai siderurgici di Bagnoli, Genova e di altri poli, contro i tagli occupazionali previsti dai piani CEE, fino ai nuovi fermenti degli operai metalmeccanici della FIAT e Alfa), nelle estese lotte dei lavoratori dei servizi e nella costante mobilitazione contro il piano energetico nucleare.

Queste dinamiche di lotta, in cui cominciano a vivere seppur contraddittoriamente momenti di autonomia e autorganizzazione di classe, si scontrano sempre più con i processi di ristrutturazione che la borghesia e le imprese multinazionali stanno portando avanti per essere competitive a livello mondiale ed attrezzarsi adeguatamente rispetto ai piani di integrazione del capitale europeo e internazionale. E soprattutto in vista dell’apertura del mercato unico europeo del 1992.

Tutto ciò per i proletari si traduce in maggior sfruttamento, disoccupazione e criminalizzazione di ogni lotta antagonista. Dalle manganellate durante le manifestazioni alle denunce per picchetti e blocchi stradali, fino all’attacco al diritto di sciopero.

Questo scontro è lo stesso che vive ormai da anni in vari paesi europei per il movimento unitario delle contraddizioni generate dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica. Allo stesso modo diventa sempre più estesa la lotta di vari strati del proletariato metropolitano europeo contro le politiche imperialiste di rapina e di guerra nei confronti del proletariato e dei popoli oppressi in ogni angolo del mondo.

Oggi la dinamica nazionale interna ai singoli stati europei si intreccia indissolubilmente con il ruolo internazionale che essi vengono ad assumere nel sistema imperialista mondiale.

In questo senso anche le scelte operate dallo stato italiano negli ultimi anni evidenziano la reale natura del suo ruolo e dei suoi interessi economici, politici e militari nelle diverse aree di crisi del mondo.

In primo luogo l’appoggio alle politiche americane e sioniste nel Medio Oriente contro il popolo palestinese, libanese e arabo in generale, sostanziato soprattutto dagli accordi bilaterali con Israele nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrorismo internazionale”, dal sostegno attivo alle “missioni diplomatiche” di Schultz e quindi nella pianificazione della repressione delle organizzazioni rivoluzionarie e delle lotte di liberazione nell’area.

Le “democratiche denunce” dei politici e dei mass-media italiani contro i massacri di Israele in Gaza e Cisgiordania e contro gli assassinii del Mossad a Cipro e Tunisi, servono a coprire la responsabilità dello stato italiano a fianco dell’imperialismo americano e sionista.

Allo stesso modo lo stato italiano è con la sua flotta, i suoi missili e le sue bombe nel Golfo Persico a fianco degli USA e degli altri stati europei per pacificare un’intera area, difendere gli interessi vitali e imporre l’ordine dell’imperialismo occidentale (ne sono una conseguenza la corresponsabilità nel massacro di migliaia di Curdi e il pieno accordo alle operazioni di guerra congiunte degli USA e dell’Iraq contro l’Iran…).

Il ruolo imperialista dell’Italia e degli altri stati europei, d’altra parte, si proietta in modo chiaro in altre aree come il Corno d’Africa, il Sud-Africa, il Sud-Est Asiatico, l’America Latina…

Per queste ragioni il proletariato internazionale individua sempre più come nemico da combattere anche lo stato italiano, come dimostrano i numerosi attacchi portati da diverse organizzazioni rivoluzionarie internazionali, sia all’interno che all’estero, rispetto alla sua politica filo-americana e sionista.

Non solo. In Italia una vasta e articolata critica proletaria nei confronti delle politiche imperialiste dello stato si è manifestata nei movimenti di massa. Ne sono un chiaro esempio le iniziative di solidarietà con la lotta del popolo palestinese e dei popoli dell’America Latina, contro l’apartheid in Sud-Africa, contro l’intervento nel Golfo Persico, contro la NATO, contro gli USA…

Questa realtà significativa evidenzia un processo di costruzione e radicamento della coscienza antimperialista ed internazionalista nella realtà di classe italiana.

È sotto gli occhi di tutti l’emergere della simultaneità delle lotte e dei processi rivoluzionari su scala mondiale e questa, secondo noi, è la caratteristica principale dello scontro di questa epoca, perché l’intera formazione economico-sociale capitalistica è contraddistinta da un insieme di contraddizioni comuni che al di là delle singole specificità attraversano tutte le aree del mondo.

Nell’interazione di queste lotte e nel loro intreccio internazionale si generano processi di costituzione in classe di qualità completamente nuova, si creano le condizioni per la costruzione di una strategia rivoluzionaria internazionale che si ponga come nemico mortale dell’imperialismo.

La lotta antimperialista e internazionalista supera il carattere semplicemente solidaristico e di appoggio ai movimenti di liberazione e diviene sempre più lotta comune del proletariato internazionale contro il sistema imperialista nel suo insieme.

In questo contesto la prospettiva del Fronte Rivoluzionario Antimperialista che le organizzazioni guerrigliere hanno teso a radicare negli ultimi anni in Europa occidentale individua con chiarezza il terreno unitario su cui comincia a svilupparsi l’iniziativa combattente e a consolidarsi la dialettica con il movimento di classe e rivoluzionario.

All’interno di questo percorso teorico pratico si è concretizzato un primo livello di organizzazione dell’attacco all’imperialismo come sistema unitario in Europa occidentale, individuando i terreni principali dello scontro su cui si giocano i rapporti di potere tra le classi.

Su questi presupposti l’avanguardia comunista può realizzare la sua crescita e la sua pratica in dialettica e per linee interne ai movimenti di lotta e alle frazioni più avanzate del proletariato in questa fase storica.

Lottare uniti per costruire la più ampia e concreta dialettica tra tutti i rivoluzionari che in Europa occidentale, nel Mediterraneo e nel mondo combattono contro l’imperialismo.

Sviluppare l’internazionalismo proletario nella guerra di classe all’imperialismo.

Solidarietà con il popolo palestinese.

Onore a tutti i proletari e rivoluzionari arabi caduti combattendo contro l’imperialismo e il sionismo.

Susanna Berardi, Vittorio Bolognese, Lorenzo Calzone, Luciano Farina, Natalia Ligas, Giovanni Senzani

 

Roma, 26 aprile 1988

Roma – Dichiarazione dei militanti prigionieri delle BR-PCC – Domenico Delli Veneri, Antonino Fosso, Sandro Padula, Remo Pancelli

Sabato 16 Aprile le Brigate Rosse hanno attaccato il progetto demitiano di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato. Progetto politico dominante volto a far coincidere l’accentramento del potere reale con la più vasta apparenza di democrazia. Con la rifunzionalizzazione dello Stato la borghesia italiana intende sancire nuove “regole del gioco” in senso antiproletario (vedasi tra l’altro l’attacco al diritto di sciopero) per meglio inserirsi nella competizione capitalistica internazionale. Questo progetto, in parte già avviato, vuole realizzare una serie di trasformazioni negli apparati dello Stato e nelle strutture di rappresentanza e di governo, per rendere i meccanismi decisionali più adatti alle nuove esigenze capitalistiche.

L’accentramento dei poteri nell’esecutivo e la ridefinizione di “nuovi” strumenti di governo delle contraddizioni sociali, rappresentano dei passaggi politici inquadrabili in una fase storica nella quale la borghesia cerca di trasformare tutti i termini delle relazioni tra le classi, dalla contrattazione della forza-lavoro agli aspetti più generali del rapporto politico tra proletariato e Stato.

Con le cosiddette “riforme istituzionali” lo Stato tende a creare le condizioni politiche più idonee per cercare di prevenire e controllare i movimenti antagonistici del proletariato, nonché le condizioni politiche migliori per il ruolo che l’Italia va assumendo sempre più attivamente nello scenario internazionale, anche come pilastro fondamentale del fianco Sud della NATO.

L’attacco a tale progetto è dunque l’esplicazione più alta dell’interesse generale del proletariato in contrapposizione alla borghesia e al suo Stato.

Portare l’attacco al cuore dello Stato!

Rafforzare il campo proletario per attrezzarlo allo scontro in atto!

Costruire alleanze antimperialiste per rafforzare e consolidare il Fronte Antimperialista Combattente nell’area!

Sostenere la guerra del popolo palestinese e libanese contro l’oppressione imperialista e sionista!

Guerra all’imperialismo! Guerra alla NATO!

Onore a tutti i compagni caduti combattendo!

I militanti prigionieri delle Brigate Rosse per la costruzione del PCC – Domenico Delli Veneri, Antonino Fosso, Sandro Padula, Remo Pancelli

 

Roma 26 aprile 1988

Un’ipoteca sulla ripresa rivoluzionaria. Carcere di Voghera, alcune compagne

Ci sembra opportuno e per certi versi doveroso, come comunisti, esprimere il nostro punto di vista sulle attuali dinamiche politiche che stanno attraversando i prigionieri in Italia, quantomeno per cercare di svelare il progetto di soluzione politica che da alcuni di essi viene riproposto al movimento rivoluzionario.

A nostro avviso non si tratta unicamente dell’ennesima defezione prodottasi nelle fila dei prigionieri comunisti, seguendo una dinamica già nota e quindi immediatamente configurabile, quanto di un progetto politico ben più ambizioso, diretto da ex-rivoluzionari «prestigiosi», che, a nome del loro presunto riconoscimento e a partire da difficoltà reali incontrate dal processo rivoluzionario in questi anni, sono tutti intenti a dare colore politico e senso strategico al loro opportunismo.

Da parte dello stato questo progetto poggia sulla necessità di rilegittimare la propria immagine e di rifondarsi su basi più solide e su coordinate «democratiche»; in ultima analisi, sulla necessità di assestare una vittoria strategica sulla prospettiva rivoluzionaria in Italia. E il coinvolgimento e l’attivizzazione di ex-rivoluzionari in questo progetto, conduce direttamente ad una condizione i cui effetti possono essere capitalizzati all’interno di una prospettiva di pacificazione del fronte interno, di largo respiro per la borghesia. È d’altronde facilmente comprensibile in termini politici come la possibilità per lo stato di affermarsi come «stato democratico» debba necessariamente passare attraverso la rilettura e la risoluzione del «fenomeno» degli anni ’70 e, di conseguenza, misurarsi sul riconoscimento politico di una fase di scontro per il potere in Italia e delle Brigate Rosse come avanguardia rappresentativa di quello scontro. Riconoscimento, sia chiaro, che per uno stato imperialista è possibile esclusivamente se serve a ratificare una sconfitta e, conseguentemente, a riconoscere l’inattualità e l’improponibilità della trasformazione rivoluzionaria della società, per riaffermare l’ambito istituzionale borghese come l’unico in grado di dare soluzione alle contraddizioni sociali.

Sono proprio le particolari condizioni di questa fase, caratterizzata da rapporti di forza a favore della borghesia e da un complesso processo di trasformazione dello stato italiano a stato imperialista a pieno titolo, a rendere necessario e possibile questo passaggio e a far sì che il tentativo di pacificazione del fronte interno, giocato intorno all’annientamento politico dell’avanguardia rivoluzionaria in galera, acquisti immediatamente valenza strategica. Innanzitutto, perché il riassorbimento delle avanguardie rivoluzionarie, privando la classe della sua prospettiva, sancisce l’egemonia borghese, stabilizzando i rapporti di forza già assestati a favore della borghesia. E, non ultimo, perché questa immagine di stabilità sociale rafforza il carattere di concreta affidabilità in chiave internazionale dell’Italia, determinante per il ruolo ad essa affidato, e che intende rivestire, all’interno del sistema imperialista.

Questo progetto della borghesia imperialista italiana non si discosta, oltretutto, dall’approccio che il sistema imperialista nel suo complesso riserva all’affrontamento dei conflitti che minacciano la sua egemonia. A partire, infatti, dal livello di sviluppo e crisi imperialista e dalla portata strategica degli interessi in gioco in campo internazionale, si determina oltre ad un’aggressività crescente, l’affermazione necessaria e parallela di risoluzione politica dei conflitti. Ma è perseguendo il suo intento egemonico, nonché la penetrazione economica e politica su scala globale, che l’imperialismo ricerca la sua stabilità. Stabilità che, al contrario, si regge su precari equilibri, soprattutto dettati dalle contraddizioni prodotte dal dominio imperialista nel mondo e dove la tendenza alla guerra imperialista si manifesta oggettivamente nel processo di sviluppo dell’imperialismo.

La guerra imperialista è appunto manifestazione e, nello stesso tempo, controtendenza principale alla crisi imperialista che, al di là delle scelte politiche che ne determinano le forme e l’attuazione, si sta man mano imponendo nelle relazioni internazionali, come tendenza dominante. Non è trascurabile in questo contesto il peso economico raggiunto dall’industria bellica come vero e proprio volano dell’economia mondiale. Un processo che per le stesse leggi economiche che guidano la produzione della merce-arma, non potrà non portare che ad ulteriori squilibri dell’economia capitalista e, conseguentemente, ad un’escalation dell’aggressività dell’imperialismo in tutto il mondo.

È proprio intorno a questa tendenza dominante, infatti, che ruotano e trovano congiunturalmente una convergenza oggettiva anche politiche dettate da interessi strutturalmente diversi, che tuttavia si stanno adoperando nella definizione politica e diplomatica dei conflitti in corso.

Da parte imperialista questa politica non riflette altro, quindi, che la necessità di distruggere preventivamente e annientare alla radice il potenziale sviluppo di forme rivoluzionarie che ne mettono in discussione la stabilità, attraverso la reale possibilità e capacità di legare alla causa rivoluzionaria ed antimperialista le forme di antagonismo generate dalle contraddizioni del sistema sociale dominante. E la borghesia imperialista italiana non si sottrae a questo indirizzo: anzi ha dimostrato a più riprese la determinazione ad assumere una piena responsabilità sia nel riassorbimento delle tensioni politiche, che per una presa di posizione oltranzista in funzione controrivoluzionaria, ponendo a completa disposizione la sua acquisizione di conoscenza in questo campo.

Non di meno, l’attuale proposta di soluzione politica per i prigionieri, come elemento che contribuisca in senso strategico ad un’affannosa quanto improbabile pacificazione sociale, trova terreno favorevole nella particolare situazione dei rapporti tra le classi in Italia. Una situazione che si è determinata in seguito alla sconfitta della classe e delle sue avanguardie e in seguito al processo di ristrutturazione produttiva e al complesso salto di riadeguamento dello stato e del personale politico imperialista che hanno trasformato le caratteristiche dello scontro sociale. Rafforzamento dello stato e ristrutturazione sociale cui non ha corrisposto, proprio per le difficoltà e per la complessità dei problemi posti da questa diversa condizione, un processo di riadeguamento da parte dell’avanguardia rivoluzionaria, diretto a dare prospettiva strategica al processo rivoluzionario.

L’iniziativa di consistenti settori di prigionieri politici si sta pertanto inserendo in modo strumentale in questo contesto di debolezza dell’attività rivoluzionaria e di sensibile scarto nei rapporti di forza tra le classi, con un’attivizzazione crescente rivolta al buon esito della soluzione politica. Si tratta, quindi, di un avallo opportunista di ex-rivoluzionari al progetto di pacificazione portato avanti dallo stato, che in questo modo ne amplia e rafforza la portata e che, in ultima analisi, è teso ad endemizzare l’intervento proletario e rivoluzionario, attraverso la decapitazione della sua direzione strategica espressa dalla lotta armata per il comunismo. In sostanza, l’obiettivo sarebbe quello di conseguire una pace sociale mortifera che, tuttavia, e nonostante i successi riportati dall’offensiva borghese in questi anni, non è stata raggiunta e che rappresenterebbe la condizione migliore per il radicamento delle politiche borghesi di governo dei conflitti sociali e per la massima agibilità delle politiche imperialiste guerrafondaie in campo internazionale.

Il tentativo di affossamento della rottura rivoluzionaria in Italia fa leva sul concetto politico -strumentalmente agitato – di discontinuità fra passato, presente e futuro e sulla chiusura di un ciclo di lotte con l’esperienza storica degli anni ’70, imbalsamata e superata dalla «moderna onnipotenza e tolleranza» imperialista ed improponibile oggi se non come coazione a ripetere, del tutto priva di prospettive. Evidentemente, invece, si sta tentando di porre una pesante ipoteca sul processo rivoluzionario in Italia, con l’obiettivo di delegittimare una possibile ripresa dell’intervento rivoluzionario su basi più mature e adeguate all’attuale livello di scontro. Un tentativo che se si realizzasse comporterebbe più o meno conseguentemente la possibilità per lo stato di capitalizzare e reimmettere – in funzione controrivoluzionaria – nelle dinamiche sociali il patrimonio storico rivoluzionario e dei «personaggi» che vi hanno partecipato. Anche su questa scommessa si misura la capacità dello stato di svolgere il proprio ruolo su basi «moderne» ed «efficienti», conseguenti ad una sua rimodellazione.

Una politica, d’altronde, che nella storia italiana non è sconosciuta e che è stata attuata a più riprese in occasione dei passaggi politici cruciali del dominio borghese e che ha permesso di avvalersi dell’apporto della sinistra, riformista, revisionista o ex-rivoluzionaria, per superare le fasi politicamente critiche.

È infatti di fronte ad un’offensiva rivoluzionaria di enorme portata, profondamente radicata nelle contraddizioni di classe, che lo stato italiano si è trovato ad affrontare una svolta di carattere storico che gli ha imposto un riadeguamento complessivo delle forme di dominio e della mediazione politica. Era andato profondamente in crisi un modello sociale: da una parte l’incalzare del processo di ristrutturazione produttivo a livello internazionale, spinto dalla crisi generale del modo di produzione capitalistico e che avrebbe trasformato radicalmente le condizioni della produzione, con l’introduzione generalizzata dell’automazione e dell’informatica; dall’altra, l’avanzamento sul fronte interno dei rapporti di forza del campo proletario intorno al progetto della lotta armata. Una situazione che andava completamente ribaltata se non si voleva finire nel novero dei paesi dipendenti.

Il passaggio dell’Italia al ruolo di media potenza imperialista esigeva, quindi, innanzitutto la sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria ed in secondo luogo la capacità di governo delle contraddizioni sociali di una formazione economico-sociale ristrutturata. È rispetto a questa necessità vitale che si è resa possibile l’assunzione, anche da parte di quelle forze politiche che avevano egemonizzato la gestione del potere politico ed economico fino ad allora, di una visione politica «moderna» ed «efficiente» e di una strategia di governo dei conflitti improntata a criteri «riformisti». E a questo scopo si è rivelata fondamentale la cooptazione, o la cogestione in mille forme, all’interno del sistema di governo della borghesia, delle forze storicamente riformiste e revisioniste, che, dulcis in fundo, ha dato il via ad una ridicola misurazione competitiva sul grado «riformista» di ogni partito. Intorno alla stessa soluzione politica si assiste ad una corsa scomposta delle forze borghesi, con il proposito di conquistarsi il primato e di affermarsi come forza politica «intelligente», in grado di fornire risposte sociali adeguate alla complessità della fase e, simultaneamente, a respiro strategico.

Va comunque detto che proprio la complessità di questo processo di riadeguamento e il suo dispiegamento in una situazione politica in cui ancora resistono in forma residuale elementi del precedente sistema di governo sociale, accentuano i caratteri di passaggio e di transizione di questa fase, senza assolutamente sottovalutarne la portata strategica, e in gran parte irreversibile, che assume a partire dalla sua base strutturale.

Nello stesso tempo è chiaro che alla gestione dei conflitti in senso «riformista» doveva corrispondere un progressivo rafforzamento dello stato, che se da una parte ha applicato una strategia ferocemente antiproletaria, attaccando la classe nelle sue condizioni di vita e nelle sue conquiste politiche e, in fin dei conti, nella qualità della vita, dall’altra, ha posto le basi per la definizione in senso autoritario della società. Una ridefinizione che ha interessato in particolar modo i paesi dell’occidente capitalistico, all’interno di una tendenza all’integrazione e al coordinamento delle politiche imperialiste, pur rispettando la specificità di ogni formazione economico-sociale.

Si tratta di una situazione alquanto problematica e complessa nella quale l’autoritarismo dello stato si affianca alla mediazione politica, e al ricorso a tutti gli strumenti che contribuiscono a rafforzare la figura dello stato, dalla ridefinizione in campo istituzionale, all’utilizzo spregiudicato dei mezzi di informazione, fino al loro uso scientifico e oculato, finalizzato alla creazione indotta del consenso e che dovrebbe puntare alla sua pianificazione preventiva, attraverso martellanti campagne di disinformazione tendenti ad influenzare la coscienza di massa. Si assiste ancora all’uso spettacolarizzato della nuova immagine efficientista agile e svecchiata dagli squilibri strutturali del sistema politico italiano, che tuttavia non riesce a raccogliere se non forme passive di consenso, non essendosi affatto realizzata l’identificazione nello stato, in senso socialdemocratico, da parte proletaria.

La stessa politica estera italiana viene avvolta e contrabbandata da un’immagine propagandistica di autonomia, umanità e spirito mediatorio, tutta funzionale alla creazione di consenso attorno al ruolo imperialista dell’Italia. Al contrario, dietro la mistificazione di una «politica di cooperazione e aiuto allo sviluppo» e intorno a quello che è stato comunque un indirizzo comune a tutta la politica estera dell’Italia da Mattei in avanti, si nasconde l’attuale obiettivo dell’imperialismo italiano. Se per quarant’anni gli squilibri del sistema politico e il debole profilo dell’Italia avevano maggiormente messo in luce gli aspetti mediatori della sua politica, con il suo salto a paese forte del sistema imperialista «finalmente» si rende possibile il pieno usufrutto di questo aspetto politico in un disegno di sfruttamento neocolonialista dei paesi della periferia con tutte le potenzialità di rapina che ne derivano.

Quest’ultimo elemento, nel salto operato dalla borghesia imperialista italiana, per quanto contraddittorio, contribuirà sensibilmente alla ridefinizione del panorama degli equilibri sociali interni. Se però da una parte questo processo inevitabilmente tenderà ad incrementare il solco tra i paesi della periferia del sistema imperialista e quelli del centro altamente industrializzato, dall’altra il proletariato delle metropoli dovrà misurarsi con contraddizioni vecchie e nuove che il sistema di dominio imperialista non cessa di produrre.

La ristrutturazione produttiva, che in questi anni ha informato le relazioni sociali, ha prodotto modificazioni radicali nell’assetto socio-economico, da una parte ribadendo ed accentuando la polarizzazione fra le classi e razionalizzando condizioni di sfruttamento sempre più pesanti per la forza-lavoro e, dall’altra, ampliando il campo della marginalità sociale attraverso una massiccia espulsione di f-l e un restringimento drastico della base occupazionale. Si è prodotta una ridefinizione profonda delle condizioni della produzione, automatizzando e segmentando il processo produttivo e la composizione stessa di classe, aumentando l’espropriazione e l’alienazione della f-l nel processo produttivo, ma ribaltando la centralità del profitto in una società fortemente industrializzata. Parallelamente a queste trasformazioni strutturali e proprio come manifestazione sociale di esse, la qualità complessiva della vita nelle metropoli ha subito una progressiva degenerazione, sia nelle condizioni materiali che nelle prospettive umane e sociali, sottoposte oltretutto ad un martellamento continuo dell’ideologia borghese dominante. Dall’altra parte, la tendenza alla guerra imperialista pur assumendo forme e tempi che apparentemente sembrano riassorbire le tensioni antagoniste che essa produce, tuttavia è in grado di condizionare direttamente lo sviluppo sociale, stabilendo da subito un innalzamento del livello delle contraddizioni sociali.

Di fronte all’imbarbarimento del sistema di relazioni sociali nelle metropoli imperialiste, che genera tendenze disgregative e implosive dell’antagonismo tutte riassorbibili e compatibilizzabili dall’apparato di dominio imperialista, l’alternativa rivoluzionaria si riafferma come l’unica possibilità in grado di dare reale prospettiva alla distruzione della società capitalistica. E’ ancora una volta la strategia della lotta armata, l’unica reale alternativa ai rapporti sociali capitalistici, l’unica prospettiva realmente in grado di disarticolare il progetto imperialista, di far avanzare il processo rivoluzionario nelle metropoli senza poter essere riassorbita nei meccanismi politici borghesi.

In Italia la guerriglia metropolitana, come forma storicamente determinata della strategia della lotta armata, si è affermata in un contesto caratterizzato da contraddizioni politiche, interne ed internazionali, favorevoli – per quanto non oggettivamente rivoluzionarie. È proprio questo elemento ad evidenziare e a legittimare l’originalità della guerriglia nelle metropoli imperialiste, in quanto unità dialettica del politico e militare, unica capace di dare impulso allo sviluppo rivoluzionario nel centro imperialista, rompendo con le politiche revisioniste che da sempre hanno privato il proletariato della prospettiva rivoluzionaria.

È questa scelta originale e strategica che ha permesso all’avanguardia combattente di sviluppare la sua attività in dialettica con le dinamiche più significative dell’antagonismo, collocandosi sempre al livello più alto dello scontro di classe, anche in condizioni di debolezza. Il significato di questa capacità di rottura radicale rappresenta l’elemento fondamentale di continuità del nostro processo rivoluzionario a partire dal quale è oggi possibile e necessario ridefinire i compiti della guerriglia ridando slancio alla sua progettualità su basi adeguate alle nuove condizioni dello scontro nella metropoli.

Solo lo sviluppo della guerriglia può trasformare la barbarie imperialista in un processo cosciente di guerra di classe di lunga durata in grado di ribaltare i rapporti di forza generali sul terreno internazionale dello scontro. È questo infatti il terreno che delinea le dimensioni e gli orientamenti della contrapposizione tra proletariato internazionale e borghesia imperialista, all’interno del più generale conflitto imperialismo/antimperialismo.

La configurazione stessa di questo conflitto, se da una parte tende a spostare le sue manifestazioni più acute verso la periferia del sistema – e sulla pelle del suo proletariato -, dall’altra implica direttamente conseguenze e contraddizioni nel centro imperialista; perché è qui, nel cuore del sistema, che si genera e riproduce l’apparato di dominio della borghesia imperialista, ed è qua che l’imperialismo impone le sue scelte ed obiettivi alla società in nome della stabilità e sicurezza, nella difesa ad oltranza dei valori occidentali.

In questo senso l’individuazione da parte delle forze della guerriglia della costruzione del Fronte Antimperialista Combattente nella sua configurazione strategica, rappresenta un passo in avanti e una conquista storica per le prospettive del proletariato rivoluzionario ed antimperialista. È proprio ed esclusivamente la capacità di riattualizzare i caratteri originali della rottura della guerriglia, salvaguardandone tutta la visione strategica, che renderà possibile il superamento delle inevitabili stasi e difficoltà che attraversano ogni processo rivoluzionario.

Operare diversamente, lungi dal dimostrare una capacità di riadeguamento da parte dell’avanguardia alle mutate condizioni dello scontro, apre oggettivamente spazi al radicamento di tendenze neo-revisioniste. L’abbandono della visione strategica della lotta armata, la trasformazione di quest’ultima in strumento da far pesare occasionalmente sulle politiche della borghesia, la scissione della dialettica fra politico e militare costitutiva della guerriglia o la prevalenza dell’attività politica a partire dal basso, oltre a snaturare e disperdere il senso dell’esperienza rivoluzionaria in Italia, finirebbe con l’ipotecare pesantemente una ripresa rivoluzionaria, indirizzando su un terreno riassorbibile nei meccanismi della politica borghese, potenziali energie antagoniste a questo sistema di relazioni sociali.

 

Alcune compagne

 

Carcere di Voghera, settembre 1987

Stammheim – Mogadiscio 1977: Il coraggio dell’internazionalismo. Documento dei militanti prigionieri per la costituzione del PC P-M Davide Bortolato, Alfredo Davanzo, Claudio Latino, Vincenzo Sisi

Se c’è un merito ampiamente riconosciuto alla RAF, questo è il grosso contributo dato alla riqualificazione e rilancio di un Internazionalismo Proletario autentico. È un merito riconosciuto in tutta Europa e in Medio Oriente, cioè nelle due aree tra cui la loro coraggiosa esperienza ha gettato un ponte.

La fattiva cooperazione con alcuni Movimenti di Liberazione Nazionale, quello palestinese in primis, ha contribuito enormemente a ricreare un rapporto di fiducia e stima da parte di quei Movimenti con Movimenti Rivoluzionari metropolitani troppo spesso vaganti tra opportunismi politici e “vita comoda”. Cooperazione che si è alimentata di varie attività e momenti di lotta, fra cui le azioni dell’ottobre ’77 restano un simbolo di eroismo militante.

Tant’è che, alla notizia dell’assassinio dei compagni/e prigionieri/e, la reazione solidale in Europa fu molto forte. In Italia, dove il movimento rivoluzionario era in piena ascesa, vi fu un’ondata di attacchi armati a interessi del capitale e dello Stato tedeschi, in molte città. Un compagno, Rocco Sardone, giovane operaio a Torino morì nell’esplosione accidentale della bomba che stava trasportando per una di queste azioni. Anche in Italia si sentiva l’importanza ed il coraggio dell’esperienza di lotta dei compagni/e tedeschi/e, ancora più rispetto ad una realtà come quella del Movimento Rivoluzionario italiano, molto forte sì, ma piuttosto auto-centrato sullo scontro interno.

Certo, questo aspetto positivo era il portato di un’impostazione non solo positiva.

Si sa che la giusta attenzione alla connessione internazionale (che non fa che approfondirsi con i tempi dell’imperialismo) può portare a degli eccessi, alla negligenza del processo rivoluzionario nel proprio paese. Nel caso della RAF avvenne un po’ questo. La pur giusta considerazione di limiti e contraddizioni che gravavano sul proletariato, sulla classe operaia tedesca (tanto da averne compromesso capacità di lotta e coscienza di classe per un lungo periodo), portò a sbrigative analisi e conclusioni marcate da una sfiducia di fondo sulle possibilità rivoluzionarie nella metropoli, e ad una costruzione rivoluzionaria come “quinta colonna” dei Movimenti Rivoluzionari dei popoli oppressi. Portò a staccarsi, a non più ricercare il rapporto organico con le istanze dell’autonomia di classe; portò a rinchiudersi in una dinamica organizzativa auto-centrata, in un certo senso “elitista”.

Altrettanto, la definizione ideologica divenne sempre più imprecisa, i termini marxisti-leninisti d’origine si appannarono in un’impostazione “estremistico-totalizzante”.

La fine degli anni Ottanta, con il dispiegarsi dell’ondata reazionaria internazionale e la sparizione delle vestigia del campo socialista (degenerato grazie all’opera distruttiva metodica, condotta internamente dai revisionisti al potere ed esternamente dall’incessante pressione imperialista), videro i rapporti di forza sbilanciarsi decisamente. Ciò che crollava ad Est erano la mistificazione e l’inganno revisionisti, a copertura di regimi che tutto avevano fatto per svuotare e degenerare il contenuto socialista, permettere il formarsi di una nuova borghesia e delle condizioni per la restaurazione del capitalismo. Ma quest’ultima, con i conseguenti drammi sociali per le popolazioni gettate nella fornace del mercato mondiale, ha permesso pure di far ricadere le loro macerie non sul revisionismo ma sul comunismo.

Certo, questo fa parte della battaglia di classe, ed ideologica in particolare, ma è un dato di fatto che questo terremoto di fine Ottanta ha significato uno squilibrarsi nei rapporti di forza internazionali, e una conseguente ondata reazionaria sul piano ideologico più forte che d’abitudine.

Insomma, per il Movimento Comunista Internazionale, per i Movimenti Rivoluzionari, gli anni Novanta sono stati duri. Molti si sono persi per strada. Purtroppo, è stato il caso della RAF.

E diciamo purtroppo, perché la sua capitolazione è stata netta e ha lasciato il vuoto dietro di sé.

Talvolta, la discontinuità nella lotta s’impone. Non bastano volontà e determinazione, se le condizioni oggettive della situazione e quelle soggettive di classe sono particolarmente sfavorevoli. In certi casi bisogna saper ripiegare.

È quello che successe in Italia, con la “Ritirata Strategica” negli anni Ottanta. Ritirata Strategica significa certo arretrare, attestarsi su posizioni sostenibili, o anche mettersi in “lunga marcia” – sfuggire il confronto frontale con il nemico, ma salvaguardando armi e bandiera!

In Italia, ciò permise di salvare la continuità politica. Come la nostra vicenda ha messo chiaramente in luce.

Ciò che è da salvaguardare a tutti i costi è il patrimonio di lotta ed esperienza, e questo si può e deve fare con il lavoro di memoria e difesa politica-ideologica. “La mémoire est un combat”, così i compagni/e di Action Directe hanno titolato un loro testo di ricostruzione storica. Formulazione esatta! Basti vedere le periodiche campagne che la borghesia scatena sulla Storia, sulla memoria nazionale, sulle categorie etimologiche persino… basti vedere l’accanimento, il terrorismo culturale, la macchina goebbelsiana che mette in moto, per rendersi conto dell’importanza di questo terreno di lotta.

In questi anni in Europa, da più parti si è cercato di mantenere il filo rosso della continuità, pur nelle necessarie rotture. È stato indispensabile superare le ristrettezze del proprio contesto e delle proprie vicende. È stato indispensabile ricordarsi che “la Rivoluzione è mondiale nel suo contenuto e nella sua dinamica, è nazionale nella sua forma specifica”. E quindi ancorarsi alla Rivoluzione laddove avanza: Perù, Colombia, Nepal-India, Medio Oriente… Ancorarsi alla dinamica internazionale, che è decisiva e prepara irresistibilmente l’ondata futura della Rivoluzione Mondiale.

Perché le nostre difficoltà si son dimostrate poca cosa rispetto all’esplosione delle contraddizioni di classe provocate dall’imperialismo, dalla sua crisi generale storica.

L’esponenziale divario ricchezza/miseria (tra classi e tra paesi); la formazione di nuove classi operaie super-sfruttate nel Tricontinente; la spirale internazionale all’intensificazione dello sfruttamento; la spirale concorrenziale con i conseguenti saccheggio delle risorse e consumismo devastante che stanno distruggendo le condizioni stesse d’esistenza sul pianeta; l’ondata reazionaria che cerca d’incanalare il malessere sociale sui peggiori retaggi del passato, fra cui razzismo e nazionalismo imperialista, di supporto alla guerra, ridiventata arma economica per eccellenza, forma concreta di esistenza dell’imperialismo, oggi.

La profondità, la gravità, l’assurdità anti-sociale di questa spirale, che è la forma propria dell’imperialismo, impongono la via rivoluzionaria. Una nuova ondata di Rivoluzione Mondiale crescerà inevitabilmente.

Perché come dice Mao:

“O la Rivoluzione impedisce la guerra O la guerra scatenerà la Rivoluzione”

A noi di scegliere da che parte stare: o perdersi dietro un ribellismo tanto folkloristico nelle forme quanto subalterno nella sostanza, o a pratiche economiciste, o peggio fare i critici ultrasinistri ma ben dentro il sistema. Oppure: riprendere il cammino delle esperienze rivoluzionarie autentiche, e anche dalle contraddizioni, dai problemi irrisolti, da raccogliere e risolvere. E così con l’eredità della RAF.

Nei nostri paesi, del centro imperialista, significa soprattutto porsi il problema di una strategia che rende concreta, possibile la via rivoluzionaria, in stretta dialettica con i movimenti rivoluzionari delle periferie. Ciò che richiede il contenuto – ideologia (marxismo-leninismo-maoismo), linea politica, programma – ed i mezzi – l’unità del politico-militare, come sintesi indispensabile  sin dai primi passi del processo se si vuole elevare lo scontro sul piano politico, strategico, programmatico.

Contenuto e mezzi che possono essere tenuti insieme e portati solo da un livello organizzato adeguato: il Partito Comunista Politico-Militare, della Classe Operaia.

 

ONORE AI COMPAGNI/E TEDESCHI/E E PALESTINESI CADUTI COMBATTENDO PER LA RIVOLUZIONE E L’INTERNAZIONALISMO

COSTITUIRE IL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE DELLA CLASSE OPERAIA

 

Davide Bortolato

Alfredo Davanzo

Claudio Latino

Vincenzo Sisi

Militanti per la costituzione del PC P-M

Ottobre 2007

Criticare non assolutizzare gli errori. Documento di un gruppo di prigionieri (Kamo)

Il primo compito che si presenta di fronte ad una sconfitta rilevante è senza dubbio la ricerca degli errori commessi. Il sopra/sotto valutarli è pericoloso quanto l’ignorarli. Il coraggio di cui si devono armare le forze rivoluzionarie in questi frangenti è quindi prima di tutto ammetterne l’esistenza, per poi misurarne il peso e la profondità. Senza la critica-autocritica dell’esperienza vissuta, si negano gli strumenti stessi d’intervento nella realtà concreta. È stato questo l’obiettivo alla base della ritirata strategica lanciata dalle BR nell’82; aprire un profondo dibattito che nella ricerca delle cause ed errori alla base della sconfitta registrata, ponesse rinnovate basi per il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria su fondamenta più solide. Un obiettivo carico di grosse responsabilità, che non basta coraggiosamente perseguire, ma che richiede anche la capacità di farlo. Se il merito è stato quello di assumersi la responsabilità di farlo, l’indubbio demerito consiste nella mancata capacità di indirizzarlo, stabilirne i limiti oltre i quali la critica-autocritica cambia forma, si trasforma. Ma questo è sintomo di maturità generale delle forze rivoluzionarie, non semplicemente di una singola organizzazione, vista la mancanza di proposte alternative concrete e/o indirizzi chiari di dibattito, ed è un rischio costantemente presente in momenti di disorientamento. Fatto sta, che tale debolezza ha aperto la porta alle più svariate (ma non certo nuove) analisi critiche, alcune stimolanti, altre troppo superficiali. Ma tra tutte, va decisamente respinta quella che fonda la sua tesi nell’assolutizzazione degli errori soggettivi rispetto alla condizioni oggettive. Secondo tale tesi, la causa dominante andrebbe ricercata principalmente negli errori commessi dall’avanguardia rivoluzionaria, nella completa inadeguatezza di un«impianto teorico-politico», in sintesi nella concezione politico-militare della lotta rivoluzionaria, cioè nella lotta armata per come è stata concepita e costruita. Un impianto teorico politico inadeguato, perché concepito al di fuori del carisma marxista-leninista, per giunta macchiato di maoismo terzomondista. Un errore che si scopre sarebbe partorito con la nascita delle BR stesse, prendendo la forma della guerra di lunga durata, della strategia della lotta armata come concezione politico-militare della lotta rivoluzionaria.

A questo punto, pur non essendo questo il luogo, nell’intento di questo semplice intervento, dove chiarire meglio e per l’ennesima volta il concetto della strategia della LA, urge ugualmente aprire una piccola parentesi per eliminare confusioni e/o identificazioni superficiali spesso presenti nel dibattito affrettato. Va distinta la LA come concezione politico-militare della lotta rivoluzionaria, come sintesi teorico pratica dell’agire rivoluzionario, in una parola, come strategia, dalla LA nel suo parziale aspetto di «forma di lotta».

Le BR hanno contribuito sensibilmente alla definizione del concetto di lotta politico-militare, sottolineando decisamente l’importanza strategica dell’unione simbiotica dei due aspetti. Presi separatamente, sfuggono da qualsivoglia carattere rivoluzionario, assumono aspetti di fenomeni più o meno consoni alla società odierna. Insieme diventano la condizione necessaria, senza la quale non ha senso parlare di lotta rivoluzionaria, ma non solo a questo ci si è limitati. E’ stata anche determinante una differenza qualitativa, in sintonia con l’esigenza di tutta una fase a tutt’oggi valida. «È la politica che guida il fucile», sintetizzando con questo semplice aforismo, il carattere di dominanza dell’aspetto politico su quello militare per tutta la fase precedente al dispiegamento delle forze rivoluzionarie. E questo è stato rispettato. A chi per esempio sostiene criticando e criticandosi, che l’azione militare ha preso il sopravvento in momenti come quello dell’attacco alla controrivoluzione, passato attraverso le iniziative contro magistratura, polizia e i suoi apparati, va ricordato cosa s’intende per attacco al cuore dello stato, perché o l’hanno dimenticato o non l’hanno mai completamente compreso. Il cuore dello stato è prima di tutto una politica che prende forma attraverso progetti (politico-economico-militari) ben precisi e non s’identifica nei soli soggetti politici intesi in senso proprio. Non s’identifica solo nel governo, nell’esecutivo, nei partiti politici ma anche e non solo in altri apparati statali, come è stato per gli apparati della controrivoluzione alla fine degli anni ’70, quando il cuore dello stato era rappresentato anche dal progetto di annientamento e ridimensionamento rispettivamente delle forze rivoluzionarie e delle lotte operaie e proletarie. Un progetto dispiegatosi nelle diverse sfere (economico-politico-militari); basta semplicemente rammentare lo spostamento di poteri a beneficio della magistratura di cui ancora oggi se ne smaltiscono gli squilibri.

Chiudendo qui la parentesi e ritornando al discorso iniziato, sentendo valutare così pesantemente gli errori soggettivi, sembra quasi che questi nascano nel nostro cervello, originino dentro di noi. Con maggior volontà, più impegno e qualche lettura in più, saremmo riusciti a piegare queste ostinate condizioni oggettive. Se avessimo spiccato il famoso «salto al partito», oggi voleremmo verso la rivoluzione, l’Italia non sarebbe al quinto posto (almeno secondo gli indici parziali degli economisti borghesi) nella graduatoria dei paesi più industrializzati e l’economia mondiale navigherebbe nella recessione incontrollata. No, non è certo questo lo scenario determinabile da un corretto intervento delle forze rivoluzionarie in Italia.

Senza trascendere in posizioni agnostiche tipo «sarebbe ugualmente andata così» o ricorrere al destino, bisogna riconoscere i limiti di sviluppo che ha ed avrebbe comunque incontrato l’iniziativa rivoluzionaria, per quanto possente, nel quadro nazionale e internazionale.

Una chiarezza e maturità superiore a quelle dimostrate, ci vedrebbe mantenere oggi una posizione difensiva in condizioni migliori, con maggiore forza e stabilità, non sarebbe poco, ma nulla di più, sempre una posizione difensiva delle forze rivoluzionarie registreremmo. E per un semplice motivo. La struttura del modo di produzione capitalistico (MPC), vive fisiologicamente in specifiche e bene determinate fasi cicliche e meccanismi strutturali (come le controtendenze); tra questi, i cicli di ristrutturazione e le guerre sono indispensabili al capitalismo per superare le proprie fasi di crisi. Pensare di eliminare, impedire che si risolvano le manifestazioni stesse del capitalismo, significa rivoluzione immediata. Impedire completamente lo sviluppo dei processi di ristrutturazione o la guerra imperialista, è possibile solo con la conquista del potere politico e la trasformazione socialista del modo di produzione; situazione tanto determinata e determinante, quanto rara. Ciò che più frequentemente si ripete è invece la lotta atavica e cruenta contro queste manifestazioni strutturali del MPC, dall’esito scontato, ma dal grado di realizzazione tutt’altro che determinato.

È appunto dal grado di resistenza che sviluppa la lotta di classe, dalla capacità di contrastarne la realizzazione, che si misura la consistenza dell’organizzazione di classe. Le forze rivoluzionarie possono e devono dirigere la fisiologica resistenza di classe che automaticamente si sviluppa contro queste piaghe capitaliste cercando di conquistare posizioni migliori. E’ questo che va misurato per comprendere il grado reale degli errori commessi. E’ in questi limiti che va analizzato l’operato delle forze rivoluzionarie, definendo in pratica lo spettro d’intervento possibile dentro le condizioni date. Confondendo i due aspetti e i limiti che li distinguono, si confondono i termini stessi dell’analisi critica di un’esperienza. Tutto e niente può essere causato dall’errore soggettivo, così come dalle condizioni oggettive, se si fa confusione. Nessuno vuole negare gli errori commessi e sono svariati. Vanno ricercati, analizzati, compresi e superati. Ma va altrettanto pesato il loro valore rispetto alle condizioni oggettive, pena la svendita, cosciente o meno, di un’esperienza, l’abbandono frettoloso proprio della materia che l’ha determinata e sostenuta. È abbastanza chiaro a tutti, che il momento dello sviluppo dell’attacco padronale attraverso i 61 licenziamenti e l’autunno caldo, si è verificato nel pieno dell’affermazione delle forze rivoluzionarie e delle stesse BR, segno evidente che, anche se non ottimali, le condizioni oggettive minimali per lo sviluppo del processo di ristrutturazione produttiva di questa portata, esistevano. I padroni (FIAT in testa), l’hanno compreso ed hanno giocato la loro carta risultata poi vincente. Non si può riduttivamente affermare che sono stati solo costretti dallo sviluppo internazionale del processo produttivo e dell’economia, e dalla conseguente necessità di raggiungere almeno livelli concorrenziali. Sono in parte stati costretti, ma hanno anche valutato la loro percentuale probabilità di successo, che si calcola analizzando condizioni oggettive non certo solo relative alle lotte di classe in Italia, dentro una valutazione complessiva di condizioni necessarie di carattere nazionale ed internazionale, di cui le lotte rappresentavano un aspetto importante ma non l’unico. Dimostrando così, quanto le condizioni oggettive erano complessivamente molto meno favorevoli di come le forze rivoluzionarie le descrivevano, influenzate dalla lettura superficiale e troppo localista dei pur promettenti avvenimenti. La dose di soggettivismo e meccanicismo dimostrati dalle forze rivoluzionarie e la loro analisi teorica sono dovute ad una incompleta ed imprecisa proprietà di applicazione dei principi del marxismo-leninismo e del materialismo dialettico, più che ad una loro esaltazione e/o teorizzazione. La positività oggettiva leggibile nello sviluppo della crisi e delle lotte di classe che allora emergevano, ha avvolto, nascondendola, l’esigenza di una lettura dialettica delle prospettive di sviluppo, delle possibili soluzioni della congiuntura. La lettura degli avvenimenti, per come si presentavano a prima vista, ha preso la mano all’analisi metodico-astratta, costringendola al ruolo di supporto degli sviluppi pratici, negandone di conseguenza la funzione dialettica che la lega ai fenomeni reali osservabili. Un po’ come la sola osservazione di un esperimento di laboratorio può ingannare il fisico che si attiene alla semplice analisi del fenomeno empirico. Ma di carenze inquadrabili nel processo di crescita e sviluppo delle forze rivoluzionarie si tratta, prova ne sono le continue battaglie politiche perseguite contro queste ed altre tipiche deviazioni (come l’estremismo) dell’82. Gli errori si commettono sempre, anche se non sempre si giustificano o si considerano inevitabili. Ma va decisamente operata una distinzione tra quelli perseguiti e trasformati in vera e propria dottrina politica e lo spettro di quelli possibili, stante tutta una serie di condizioni oggettive, tra cui quella della maturità delle forze rivoluzionarie non è indifferente; L’esperienza è maestra indispensabile e qualcuno, troppo frettolosamente caduto nel dimenticatoio, sottolineava l’importanza di essere rossi, ma anche la necessità di essere esperti. Le forze rivoluzionarie devono costantemente imparare a comprendere ed applicare le leggi ed i meccanismi che regolano il movimento della materia sociale per essere in grado di intervenire trasformandola nel senso dovuto. Tutto sommato, il movimento comunista è veramente ancora oggi nella fase della pubertà. Le sue malattie infantili vanno e possono essere curate ma non vanno confuse con deformazioni patologiche. C’è profonda differenza tra terapia e trapianto, tra cura e sostituzione. Guardando alla storia di questo paese, nessuno può negare, come spesso si è detto, che le forze rivoluzionarie sviluppatesi alla fine degli anni ’60 siano nate orfane. Intendendo così sottolineare il vuoto lasciato dalla sinistra italiana, che sulla spinta della rivoluzione d’Ottobre, aveva timidamente prospettato un percorso rivoluzionario bloccatosi alla fine della seconda guerra con l’abbandono anche formale della via rivoluzionaria. Loro sì che hanno visto le condizioni oggettive trasformarsi in concreta occasione rivoluzionaria quando, dopo l’attentato a Togliatti, mezza Italia era letteralmente in mano alla classe operaia ed al proletariato. Non siamo certo stati figli della lotta rivoluzionaria e/o partigiana. La memoria storica (di cui oggi si riesuma l’importanza) non è certo stata lo strumento lasciatoci in eredità, proprio perché questa non è data principalmente dalla lettura dei testi di storia o da memorie autobiografiche, ma vive e si riproduce nell’azione continua delle forze rivoluzionarie. È questa che è mancata, proprio perché, dopo la seconda guerra mondiale, le forze rivoluzionarie italiane sono scomparse praticamente dalla scena politica con tutta la loro seppur limitata esperienza. Tant’è che il nostro punto di riferimento s’è spostato identificandosi nella eroica lotta del popolo vietnamita, nella lunga marcia cinese alla conquista del potere politico, nelle esperienze guerrigliere dell’America Latina. Ma il vuoto rivoluzionario lasciato in eredità, la mancanza anche solo di tentativi di sistematizzare la politica rivoluzionaria, di sviluppare continuità attiva del processo rivoluzionario, ha sortito l’effetto di trasformare la memoria storica in ricordo nel senso più statico della parola.

La mancata continuità, anche in condizioni oggettive sfavorevoli, ha trasformato la memoria storica in caratteri immobili, ordinati per righe dentro altrettanti ben rilegati libri di storia invece che in pratica rivoluzionaria, ciò, che è ancor più valido oggi, alla luce dell’esperienza accumulata in questi ultimi abbondanti tre lustri. Insomma, è questo un vuoto che pesa e che va inserito nella valutazione dell’esperienza trascorsa, come un elemento concreto, fa parte dello stato oggettivo in cui le forze rivoluzionarie hanno rilanciato l’iniziativa agli inizi degli anni settanta. Un altro argomento che spesso viene esposto a sostegno della «incapacità soggettiva» delle forze rivoluzionarie e delle BR in particolare, è il cosiddetto mancato «salto al partito», ma non solo. È stato perentoriamente affermato che tale mancato passaggio ha rappresentato l’immagine del declino delle forze rivoluzionarie. Con maggior volontà e un pizzico di «decisionismo» in più, il partito oggi sarebbe realtà, ed a quanto sembra avrebbe risolto in positivo gli attuali problemi. Ma è davvero così semplice? Non è insensato nutrire seri dubbi. Prima di tutto, bisognerebbe ben stabilire come e quando si costruisce un partito, ma non uno qualsiasi, parlo di quello rivoluzionario. Non è certo per decreto che si «istituisce», non basta volere il partito perché «ce n’è bisogno». Di questi partiti se ne possono fondare un paio al giorno. Come l’organizzazione rivoluzionaria nasce dall’esigenza di proseguire e prospettare un processo rivoluzionario al di sopra dei flussi e riflussi dei movimenti di massa, così un partito rivoluzionario nasce dalla necessità di organizzare delle avanguardie rivoluzionarie, che nel dare soluzione alle aspirazioni di classe, indichino e seguano coscientemente un percorso rivoluzionario. Proprio per questo, allora si affermava che il processo di costruzione del partito passava attraverso la capacità di coagulare attorno a questo obiettivo le avanguardie rivoluzionarie e di organizzare interi settori di classe. Il partito si costruisce su questo banco di prova teorico-pratico. Non può essere frutto esclusivo della mente di alcune avanguardie illuminate che se ne fanno carico in uno slancio di volontarismo. Non è come andare al bagno quando scappa. Ma è la formalizzazione materiale del livello superiore d’organizzazione raggiunto dalla classe in generale. Un partito politico, come forma d’organizzazione, è la manifestazione statica materializzata dello sviluppo della coscienza, capacità e forza d’organizzazione di una o più classi. Le lotte di classe sono la materia in movimento, un partito ne è la loro misura concreta. Esse sono in continuo movimento, il partito è li fermo a rappresentarle nelle loro diverse fasi di sviluppo. Il partito rivoluzionario è a maggior ragione una fedele trasposizione del livello d’organizzazione e maturazione raggiunti dalle forze rivoluzionarie. Ora i soliti teorici della «perfezione soggettiva», sostengono che il compito inevaso è stato proprio quello di non dare risposta alla domanda di direzione proveniente dalla parte più avanzata del movimento rivoluzionario, le avanguardie più coscienti. Quindi se il partito deve essere specchio del grado di sviluppo delle forze rivoluzionarie dovremmo notare una marcata tendenza di queste ad organizzarsi in partito, partendo proprio dall’esigenza di unire le avanguardie rivoluzionarie nel compito di rappresentare gli interessi generali della classe. Ma se analizziamo le forze rivoluzionarie di allora, quasi tutte le avanguardie presenti nelle varie organizzazioni, tranne che in parte delle BR, da PL ai nuclei di MPRO ad altri gruppi armati, tutto richiedevano, fuorché direzione intesa come costruzione di un’istanza organizzata fatta partito, non solo come semplici parole d’ordine o indicazioni.

Si teorizzavano specie di partiti-massa, partiti-non partiti, organizzazioni orizzontali, evitando come la peste la stessa caratteristica fondamentale del partito rivoluzionario leninista che lo rende organizzazione concreta del processo rivoluzionario: il centralismo democratico. Le forze rivoluzionarie, fortemente ideologizzate nell’illusione di rendere più «comunista», più «paritetica» l’organizzazione di classe, in realtà ne perseguivano la negazione attraverso l’apologia dell’anarchismo, libertà e parità decisionali inesistenti quanto irreali. Come chiedere ad un bambino cosa farà da grande appellandosi alla libertà di scelta. Invece di comprendere i differenti livelli di coscienza, se ne teorizzava la parità inesistente e denigratoria. Come si può costruire un partito rivoluzionario quando le forze rivoluzionarie stesse ne negano nei fatti l’esistenza? Non è certo un nucleo di avanguardie, come quelle che rappresentavano il cuore delle BR, che avrebbe potuto e dovuto sostituirsi a queste condizioni oggettive, emanando decreti di fondazione metafisici. E neanche dando semplicemente risposta alla «richiesta di direzione» con le sole parole d’ordine «giuste» e indicazioni politiche, quando queste non sono sostantivate dalla forma d’organizzazione che può renderle concrete e realizzabili. L’invito, in conclusione, è quello di leggere questa e ogni altra esperienza politica valutando meglio le condizioni reali in cui si è determinata a suo tempo. E la strada non è certo quella che si percorre con gli occhi impressi dai fotogrammi degli avvenimenti susseguitisi (sarebbe fin troppo facile per chiunque) o con l’esigenza di sostanziare «nuove strategie» costruite sul cadavere dell’esperienza passata. L’obiettivo principale di un’analisi autocritica è la ricerca, comprensione ed appropriazione degli errori commessi, non è il sostegno ad una tesi o linea politica costruita precedentemente. Così la critica-autocritica diventa mezzo d’affermazione dei propri paradigmi, non strumento indispensabile di comprensione ed intervento nello scontro di classe. Stesso e identico metodo usato ultimamente da alcuni prigionieri politici nel lanciare quella che chiamano «battaglia per la libertà». Non si può certo affermare che l’esperienza rivoluzionaria vissuta in questi anni sia stata una «critica pratica» (come scritto nella prima lettera ad esempio) o che abbiamo contribuito all’attuale sviluppo della società italiana. Non eravamo certo dei riformisti radicali un po’ troppo violenti. Abbiamo lottato per costruire un percorso rivoluzionario tutt’ora in cammino, che portasse alla conquista del potere politico e all’abbattimento di questo stato e dei rapporti di produzione che rappresenta e sostiene, non certo per migliorarne i rapporti economico-sociali. Ed era obiettivo dichiarato a suon di proclami. Non ci siamo certo legittimati, e non è mai stato nelle intenzioni delle forze rivoluzionarie presenti, nell’opera di miglioramento della società italiana o nella lotta per il rispetto dei diritti del «cittadino». Ma nella lotta contro questo stato in qualità di rappresentanti/avanguardie di una classe ben precisa. È bene ricordarlo, vista la facilità con cui alcuni rimuovono i «ricordi». Non abbiamo certo lottato per salire sul podio e ricevere dallo stato la medaglia della corsa al contributo al progresso… capitalista! Tale lettura dell’esperienza è incomprensibile, a meno che l’obiettivo non sia quello di trasformare il nostro passato in nota di merito al nostro «cattivo comportamento».

Le forze rivoluzionarie, la legittimità, la valorizzazione del loro passato, se la sono conquistata nella lotta contro le forze reazionarie dei borghesi, e non è una novità storica il tentativo di chiudere in «gabbie giuridiche», in articoli del codice penale, le lotte rivoluzionarie e proletarie con l’intento palese di occultarne il carattere politico. Non siamo né i primi né gli ultimi soggetti politici ad essere rinchiusi nella categoria dei criminali. Non è una novità. La novità, o meglio la curiosità, sta nel presentare un tentativo di eliminazione (dello stato) come un’azione di salvataggio. Va bene, la dialettica può molto, ma per cortesia!

L’unica spiegazione credibile per comprendere una tale operazione, sta evidentemente nell’obiettivo di conquistare il pubblico (che non è certo rappresentato dal proletariato) nell’operazione «battaglia per la libertà». Ma prima di continuare, va preposta una piccola precisazione sul concetto di battaglia politica, visto che anche questo, quando fa comodo, diventa un «ricordo». Una battaglia, da che mondo è mondo, implica un rapporto di scontro, fisico o verbale che sia, e non certo per il significato letterale rintracciabile in un comune vocabolario, ma per come se lo è conquistato nella lotta di classe stessa. Qui lo scontro non sembra apparire come l’azione determinante e determinata, a meno che non si voglia confondere con le pur ovvie e storiche differenze tra i soggetti in questione. Due parti possono arrivare al confronto, trattativa, tregua o qualunque altra forma di dialogo o mediazione pur essendo radicalmente diverse, senza che ciò assuma il carattere di scontro politico. È per questo, che il carattere della citata iniziativa più che di battaglia assume l’aspetto di una richiesta di libertà. Dignitosa, questo sì, ma di richiesta si tratta.

Certamente molte miglia la divide dalla dissociazione e dal pentimento, ma non può essere spacciata per ciò che non rappresenta. Sarebbe opera di scarsa chiarezza e manifestatrice d’intenti differenti da quelli dichiarati. Che un gruppo o un’area di prigionieri avanzi tale richiesta manifestando l’indisponibilità a rinnegare il proprio passato e se stessi, non presenta particolari problemi o «scandali» politici. Quello che la rende inaccettabile politicamente, anche per chi sostiene analisi e scopi differenti da quelli degli estensori, è il tentativo maldestro di nasconderne la vera natura dietro una tinta politica, composta da presunti contributi del movimento rivoluzionario allo sviluppo della società attuale dietro inesistenti movimenti, che oggi all’esterno lottano per la liberazione dei prigionieri (a meno che non si voglia identificarli con qualche comitatino di amici, parenti e conoscenti sparsi), dietro, per l’appunto, sedicenti battaglie politiche.

Tutto questo stona quanto meno con i propositi dichiarati di correttezza e limpidezza della proposta; prima ancora che nel merito il confronto diventa impraticabile per vizio di metodo.

Kamo (1)

Settembre 1987

 

(1) Lo pseudonimo scelto da un gruppo di prigionieri non ha, evidentemente, nulla a che vedere con il nome del «Kamo-Laboratorio di comunicazione antagonista» di Bologna.

L’unico processo di liberazione possibile: rivoluzione sociale. Carcere di Voghera – Documento delle prigioniere comuniste per la guerriglia metropolitana Aurora Betti, Ada Negroni, Teresa Romeo, Marina Sarnelli

Che il progetto di soluzione politica sancisca una ormai raggiunta confluenza di interessi tra stato imperialista e quel ceto politico che, generatosi dentro il processo di rivoluzione sociale di questi anni, si prepara ora a farsi esso stesso stato, dovrebbe chiarire da sé che si tratta di un progetto controrivoluzionario. Creare il deserto politico della mediazione senza fine intorno alla radicalità delle trasformazioni poste alla base della rivoluzione sociale nella metropoli imperialista, stabilizzare la sua impossibilità imponendo in tutto lo spazio/tempo della produzione di vita quale unico punto di vista quello alienante del capitale imperialista è compito dello stato.

L’obiettivo della borghesia imperialista e del suo stato è «risolvere» le contraddizioni portate a maturazione dal processo rivoluzionario negli ultimi vent’anni e liquidare la guerriglia quale unica possibilità di orientamento e prospettiva reale perché rottura senza appello di questo sistema.

Trasformare il processo vitale di questa rottura in morte storiografica, in normazione e governo dei conflitti e quindi in nuovo prodotto per l’alienazione sociale è il compito che si sono assunti in questa fase di consolidamento della penetrazione del sistema imperialista in questo paese tutti quelli che promuovono e dialogano intorno alla «soluzione politica».

Il nostro intervento, che pure ha come obiettivo il contribuire a smascherare fino in fondo la natura controrivoluzionaria di un progetto, di chiarire quali interessi reali ne sono la causa profonda, di valutare le componenti in gioco, di tracciare una netta linea di demarcazione tra comunicazione rivoluzionaria e mediazione senza fine, nasce dalla consapevolezza che è improrogabile per noi, indipendentemente dai progetti controrivoluzionari, l’apertura di un confronto al nostro interno. Un confronto che riesca cioè a strutturare gli elementi di forza conquistati in questi anni dalla guerriglia e li ponga come base di un nuovo salto di maturazione in grado di affermare e orientare la rivoluzione nel centro imperialista.

È evidente che la posta in gioco è il futuro del processo rivoluzionario, parlare al passato ha poco senso ormai. Chi in questi anni si è prodigato negli attacchi alla guerriglia, sostenendo che invece di accelerare o favorire il processo rivoluzionario lo arrestasse, si è sbagliato. La risposta è nel vuoto che si è creato intorno ai movimenti di opposizione che pure hanno tentato di organizzarsi: in assenza di un orientamento strategico nulla si può muovere!

Ora è tempo di concentrare le nostre forze e di camminare il più in fretta possibile, di aprire nuove strade. Sappiamo che è un cammino che non faremo «soli» perché nuovi movimenti, nuove forze, si stanno liberando dall’oscurantismo della cappa imperialista. Scegliamo la strada più difficile, quella della ricerca della verità fuori dai codici, perchè sarà la più semplice per farci capire, per ristabilire un campo di comunicazione dei rivoluzionari.

Occorre però ricollocare dialetticamente la guerriglia nello sviluppo delle condizioni oggettive e soggettive maturate. Un riadeguamento del quadro di riferimento, del nostro sistema concettuale, di impianto e orientamento strategico della guerriglia in questo paese, che non può limitarsi ad un «riaggiornamento» delle condizioni in cui «oggettivamente» si esprime lo scontro di classe, lasciando ad una sorta di automatismo il modellarsi della forma della soggettività rivoluzionaria.

Solo una forte determinazione soggettiva è in grado oggi di costruirsi gli strumenti adeguati di lettura della realtà, oscurata dalla cappa dell’alienazione che sta diventando l’unico momento unificante dei rapporti generati dal capitale. Solo costruendo valori radicalmente opposti è possibile un processo di liberazione sociale.

 

La rivoluzione sociale: processo di ricomposizione e di liberazione del proletariato internazionale

Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico (MPC) in sistema imperialista globale, la crisi epocale che questo sviluppo genera e riproduce in modo allargato per intensità ed estensione, la contraddizione insanabile insita nel rapporto sociale capitalistico che crea la guerra più «strutturalmente condizionante» quella tra borghesia imperialista e proletariato internazionale, per noi si riassume nella tendenza alla rivoluzione.

È la tendenza alla rivoluzione che noi intendiamo costruire, rafforzare, orientare, accelerare.

E intendiamo affrontare, per quanto ci riguarda, i passaggi centrali della costruzione del processo rivoluzionario qui nel centro imperialista, nel cuore del dominio reale che irradia nell’intero globo terrestre, insieme al rapporto sociale capitalistico, le contraddizioni generate dalla sua crisi interna e la controtendenza a questa crisi che si traducono in nuove forme del dominio estese su tutto il globo.

In questo senso il primo passaggio indispensabile è ricollocare la realtà italiana non più come il «risultato» della divisione generale del mondo dominato dall’imperialismo dopo la II guerra mondiale, ma la «risultante» della scalata della borghesia imperialista di questo paese all’interno delle leggi universalizzanti del capitale imperialista, fino a farla diventare un tutt’uno nel sistema imperialista.

Per sistema imperialista globale intendiamo la struttura dei rapporti di produzione e la divisione del lavoro a livello globale, nonché il governo delle condizioni della loro riproduzione. Tali rapporti comandati e modellati dal capitale multinazionale definiscono il carattere sempre più unitario della formazione economico sociale e sono il risultato, e nello stesso tempo il presupposto, della continuità dello sviluppo capitalistico.

Rappresentano la specificità dello sviluppo del capitale in quelle aree del mondo in cui storicamente si sono condensate le condizioni migliori di concentrazione della produzione e dei capitali e quindi di socializzazione e massimo sviluppo delle forze produttive: le aree metropolitane del centro.

In queste aree è stato quindi storicamente possibile creare le massime condizioni di valorizzazione e quindi di accumulazione del capitale, fino allo sfruttamento di ogni attività umana per velocificare l’intero ciclo di rotazione del capitale, ristrutturando ogni sfera della formazione sociale, intensificando il processo di sottomissione e sussunzione del lavoro al capitale, in altre parole fino all’approfondimento del rapporto di sfruttamento e alienazione. Ma sono anche il livello di massima esplicitazione della crisi profonda che attanaglia il capitale nel suo sviluppo. Ed è in queste aree del mondo che si è condensato lo scontro di classe, come critica al rapporto sociale capitalistico di produzione caratterizzando il processo di liberazione del proletariato come rivoluzione sociale.

Intendiamo dire che un processo di liberazione di energia trasformatrice è alla portata delle condizioni di scontro di classe maturate. Uno scontro che, per le caratteristiche stesse del processo di penetrazione capitalistico, ha investito tutte le regioni e tutte le ragioni della vita sociale.

Un processo rivoluzionario che è quindi, letteralmente, una guerra senza quartiere tra borghesia imperialista e proletariato mondiale, il quale spinge a farsi classe rivoluzionaria mettendo in discussione le ragioni di un dominio in ogni dove, tendendo al rovesciamento del modo di produrre stesso, attualmente segno della completa disumanizzazione della natura e snaturalizzazione dell’uomo.

Questa evidenza da sola non basta. Deve farsi consapevolezza che il procedere della rivoluzione non può costituire il fattore di ulteriore sviluppo delle forze produttive considerate così come si presentano (neutrali), in quanto in esse è inscritto il codice del capitale.

Se di modelli si può parlare, quello della rivoluzione sociale non prevede automatismo tra rovesciamento dei rapporti di produzione e rimodellazione delle forze produttive, bensì costituisce la critica radicale dell’imperativo dello sfruttamento che ha alienato tanto i rapporti sociali quanto la dialettica tra essi e le forze produttive.

La rivoluzione sociale è quindi l’affermazione di un processo di lunga durata che nel suo sviluppo esprime e fa vivere i caratteri della transizione al comunismo senza mediazioni o pause di sorta.

 

Processi di integrazione e ridefinizione degli stati

Sono le condizioni di sviluppo del sistema imperialista globale, improntate dai rapporti capitalistici generatisi e allargatisi poi dentro le aree metropolitane, a rompere i confini degli Stati Nazione e ad imporre nuove forme dello stato.

Stato la cui sovranità e universalità è stata messa in discussione proprio da quelle forze imperialiste che l’hanno prodotto e sostenuto. È lo sviluppo delle forze produttive ad aver contribuito a far saltare le frontiere nazionali, prima di tutto all’interno delle aree metropolitane (che ora si presentano come poli omogenei per l’intensità del rapporto di capitale e per la qualità di contraddizioni che esprimono Europa, USA, Giappone) e poi in tutte le aree del globo. Le nuove forme dello stato sono emerse in tutta la loro evidenza nella crisi di valorizzazione che ha investito le aree metropolitane negli anni ’60-’70 e che ha imposto (anche a fronte della massificazione dei processi produttivi e dello scontro di classe che vi si era generato), insieme a nuovi rapporti di produzione (informatizzazione, automazione, frammentazione dei processi) un nuovo rapporto tra produzione e riproduzione del capitale.

Ed è in quegli anni di crisi di ristrutturazione che l’evoluzione degli stati in Stati Imperialisti delle Multinazionali agli ordini dei capitali più forti (USA in testa), ha guidato il processo di integrazione delle aree metropolitane in un unico sistema di produzione, governando la ristrutturazione selvaggia che ha investito tutto il modo di produrre dell’Occidente capitalistico innanzitutto e imposto a livello globale nuovi rapporti tra periferia e centro. Lo stato imperialista ha, per così dire, pianificato la rottura dei confini dello stato nazione rimodellandosi nei processi di transnazionalizzazione del capitale multinazionale, cioè nei processi in cui si produce, riproduce e circola il capitale.

Oggi lo stato imperialista, che continua a mantenere la sua funzione principale, cioè quella di garantire le condizioni di riproduzione del capitale o, in altri termini, di «mediare» lo scontro di classe, è interno alla contraddizione principale di questo scontro: borghesia imperialista/proletariato internazionale. Contraddizione che assume assoluta priorità rispetto agli antagonismi interimperialisti.

L’attivazione degli stati imperialisti sul fronte della «guerra al terrorismo internazionale» intesa come guerra alla rivoluzione del proletariato mondiale, rappresenta la strategia integrata degli stati imperialisti in guerra. Inutile ricordare quanto lo stato italiano ne sia protagonista.

Non è tutto. Come abbiamo visto l’aggiungere il termine imperialista allo stato non significa esclusivamente qualificare e definire la sua «politica estera» in campo economico, politico e militare. Significa innanzitutto rimodellare al proprio interno il rapporto tra produzione e riproduzione dei rapporti sociali, si ridefinisce cioè il ruolo della politica e delle istituzioni tradizionali del controllo e della riproduzione sociale che da sempre erano state concepite come «sovrastruttura». Alla militarizzazione più imponente mai concepita e prodotta a difesa di un modo di produzione (NATO, armi nucleari di tutti i tipi, eserciti supertecnologicizzati e corpi speciali antiguerriglia, ecc.), il cui interesse strategico per la continuità del sistema imperialista è centrale, si affianca un apparato politico/coercitivo sofisticatissimo, teso al controllo e governo di ogni forma di autonomia della classe, la cui apparente «leggerezza» e «democraticità» mascherano il mutamento profondo che è in atto nei paesi capitalisti occidentali. Lo stato nella metropoli va oltre il ruolo sovrastrutturale di regolatore dello scontro di classe, strutturandosi nel movimento del capitale, della sua riproduzione. Le sue istituzioni divengono veicoli di strategie articolate e flessibili, in grado di dare «risposte» ad ogni domanda sociale organizzata, e nello stesso tempo si pongono come contenitori del sapere sociale complessivo da trasformare e trasferire in quella che ora è forse una delle condizioni principe del processo di valorizzazione del capitale: il monopolio della scienza, che è scienza «disponibile» per il capitale, per la borghesia imperialista, il cui uso contro l’uomo e la natura, è evidente a tutti.

Stato e scienza, tradizionalmente luoghi neutrali da «occupare» per avviare il processo di transizione ad un nuovo modo di produrre (quello rivoluzionario), divengono strutturali (e quindi non neutrali) al capitale multinazionale nella misura in cui gli sono indispensabili per procedere nel suo processo di sottomissione e sussunzione delle forze produttive.

Solo cogliendo fino in fondo la non neutralità assoluta che ormai permea tutti i rapporti sociali, è possibile comprendere la vera natura dello stato oggi e il fatto che non è possibile azzerare nella «mediazione politica» lo scontro di classe.

Ed è in questo contesto che lo stato imperialista è oggi in grado di neutralizzare quei movimenti rivoluzionari che si fondano e tendono alla presa del «potere», assolutizzando solo alcuni dei suoi aspetti (politiche repressive, asservimento economico, coinvolgimento nelle «politiche» di guerra dell’imperialismo) e non cogliendo l’essenza del rapporto sociale che vuole riprodurre. Di più, nella misura in cui la politica rivoluzionaria, non riuscendo a svelare le reali condizioni dello scontro tra le classi, non riesce nemmeno più a capire qual è il suo referente, la sua estraneità alla classe diviene assoluta e tende a farsi in qualche modo stato essa stessa. Progressivamente assume il punto di vista del capitale: l’imperialismo e per esso lo stato imperialista se ne serve per far tacere il proletariato mondiale e le sue avanguardie.

 

Un «ceto politico» si fa stato!

Abbiamo ritenuto necessarie queste premesse per collocare questo progetto nelle strategie controrivoluzionarie dell’imperialismo oggi, per riuscire anche a cogliere la dialettica di questo scontro che non è mai determinata, in ultima istanza, dalla volontà unilaterale di una delle parti e, nel caso specifico, dello stato imperialista.

Per progetto di soluzione politica ci riferiamo all’operazione messa in moto dal «ceto politico» che si è generato all’interno delle BR in questi anni e che ha coscientemente guidato la propria estraneazione dal processo rivoluzionario e dalla classe a piccoli passi, coltivandosi uno spazio «privilegiato» in nome di un sapere/potere succhiato e scorporato dalla militanza rivoluzionaria, fino a farsi esso stesso stato.

Parliamo di ceto politico per identificare quel gruppo di ex militanti che, sfruttando il ruolo avuto all’interno di un’organizzazione combattente, si sentono in qualche modo legittimati ad aprire il «negoziato» con lo stato. Una sorta di autolegittimazione che vorrebbe rovesciare contro tutti i prigionieri comunisti, le forze guerrigliere e il movimento rivoluzionario, il ruolo avuto nella storia delle BR, scegliendo sulla testa di tutti la resa di alcuni.

Un’operazione che ha aperto un terreno di mediazione a largo raggio con lo stato, il cui obiettivo dichiarato è: chiudere il ciclo storico che ha generato le lotte e la guerriglia, liberazione dei soggetti che se ne sono fatti carico, dichiarare la fine della «guerra». Un’operazione che nel momento stesso in cui è stata «pensata» è divenuta terreno specifico dello stato imperialista.

Non è difficile cogliere la confluenza di interessi tra lo stato e il farsi stato di un ceto politico. L’approfondimento del dominio da un lato e l’incapacità di assumere, dentro la politica rivoluzionaria, le nuove condizioni dello scontro dall’altro, si traducono in una caduta verticale di identità rivoluzionaria: deporre la critica delle armi, la lotta armata, ai piedi dell’impero del dominio reale; assumere il punto di vista del capitale, nel momento stesso in cui si legittima il suo stato come «mediatore» dello scontro di classe e quindi deporre anche le armi della critica, la lotta di classe.

Non solo, lo stato imperialista diviene l’attore principale, il fattore attivo ed attivizzante di questa operazione. Se ne fa proprio terreno specifico all’interno delle ormai ben consolidate strategie controrivoluzionarie che in Italia, a fronte dell’avanzamento del processo rivoluzionario, hanno trovato strade originali sia negli anni precedenti privilegiando il piano dell’attacco politico-militare (arresti di massa, repressione generalizzata, pentitismo, dissociazione), sia negli anni recenti di consolidamento e ulteriore penetrazione nel tessuto sociale: rifondazione delle strategie del controllo sociale, nel senso di una loro progressiva integrazione, strutturalità alle condizioni di riproduzione del ciclo capitalistico. Strategie che sono penetrate in ogni ambito (integrazione nelle metropoli, scuole, salute, carcere…) al loro apparente «efficientismo», all’alleggerimento fa da contraltare il sempre più evidente segno antiproletario di approfondimento del controllo sociale.

In questo senso il progetto di soluzione politica per sua natura e per la natura delle parti in gioco oltrepassa immediatamente il terreno specifico della negoziazione tra ex rivoluzionari e stato e va in cerca di interlocutori possibili nei movimenti di classe «strangolati» dentro la velocificazione delle trasformazioni in atto nella società italiana. Diviene «produzione ideologica», qualcosa di più di «mediazione politica». È produzione qualificata, visto che a farsene carico è proprio quel ceto politico che ancora gode di spazi di legittimità nel movimento in cerca di una propria identità.

Il problema dello stato non è certo chiudere un ciclo, visto che le profonde ristrutturazioni che ha operato a tutti i livelli hanno già nei fatti chiuso le contraddizioni specifiche degli anni ’70.

Il problema è usare un’esperienza che si è fatta scienza del controllo nel modo più efficace contro il riprodursi dell’opposizione ad ogni livello di espressione della classe. In questo senso lo stato ha immediatamente iscritto un’operazione come questa dentro il suo progetto più complessivo di rifondazione della politica (riforma istituzionale, nuovo codice, ecc.), dando il via libera e riesumando per l’occasione vecchi cadaveri della politica di stato, mass media e staff di esperti, politologi, giuristi, ecc., attivando un dibattito teso al rafforzamento del suo volto «democratico»:

  1. Riconoscimento dell’autorità dello stato imperialista «mediatore» dello scontro di classe.
  1. Attacco alla soggettività rivoluzionaria: cancellare cioè la possibilità, l’idea stessa della rottura rivoluzionaria, senza appelli distruggendone l’identità.
  1. Creare un terreno di assorbimento per quei movimenti che esprimono contenuti politici in cerca di una propria identità rivoluzionaria e dei possibili punti critici di rottura. Identità e contenuti di rottura che vivono già in embrione cercando di impedire così che essi individuino le possibilità reali e il loro terreno di comunicazione rivoluzionaria, offuscando la critica con l’ideologia della sconfitta e con l’unicità del messaggio che esprime in maniera martellante l’impossibilità del cambiamento rivoluzionario.
  1. Giocare immediatamente a livello internazionale, quindi nella reale dimensione dello scontro, la capacità di governare le contraddizioni anche al livello più alto, quello imposto dalla guerriglia.
  1. Prevenire l’estendersi di contraddizioni i cui effetti, proprio per la natura dello scontro immediatamente internazionale, vedrebbero il progressivo integrarsi dell’esperienza rivoluzionaria italiana nell’esperienza europea e mondiale – quindi molto meno governabile.

Abbiamo parlato di operazione a «largo raggio» perché in quest’anno abbiamo verificato come intorno alla proposta iniziale si sia attivato il successivo adeguamento, in forme diverse, di più componenti del composito mondo dei prigionieri politici: trattativa/amnistia/rifondazione della sinistra.

Non vogliamo entrare nel merito di un dibattito che non ci appartiene e che riteniamo, nel migliore dei casi (rifondazione della sinistra) fuorviante per il movimento rivoluzionario italiano. Ci preme soprattutto rilevare come lo stato non si accontenti mai di una sola vittoria ma che voglia andare fino in fondo: fare arretrare complessivamente il dibattito rivoluzionario, distogliendo l’attenzione dai problemi reali dello scontro oggi e ricacciandoli indietro di trent’anni… altro che «liberazione degli anni ’70»!

Riteniamo che, se mai sono esistiti in fasi precedenti, oggi più che mai non esistono spazi politici, momenti neutrali nello scontro in cui azzerare il rapporto di guerra che genera tutti i rapporti sociali. Riteniamo che questa operazione nel suo complesso e le articolazioni che vuole esprimere siano di natura profondamente controrivoluzionaria e che vadano svelate in ogni ambito nel dibattito rivoluzionario in cui vengono «infiltrate» idee infami mascherate per «buon senso» o, peggio ancora, «senso della realtà».

 

Nella tendenza alla rivoluzione costruire i fronti rivoluzionari

Affermare il nostro punto di vista non basta. Con la guerriglia deve affermarsi il punto di vista della rivoluzione qui nel centro imperialista. E’ qui che, affondando le sue radici nella lotta di classe del proletariato metropolitano, sta prendendo forza la consapevolezza che l’unica possibilità di squarciare la realtà alienata della metropoli è quella di rifiutarla nella sua totalità, senza tappe intermedie in cui è possibile stabilizzare le conquiste della classe, ma andando sempre più a fondo; attaccando e smascherando tutti i volti dell’imperialismo che per i proletari della metropoli significa la realtà dell’alienazione in tutte le sue articolazioni.

La nostra esperienza rivoluzionaria e la nostra identità guerrigliera sono parte integrante di questa consapevolezza, ma lo abbiamo anche imparato da tutte quelle esperienze rivoluzionarie del mondo dominato dall’imperialismo che pur essendo riuscite a mettere in discussione uno degli aspetti del dominio, il potere politico-militare, ora continuano a subirne gli aspetti più devastanti, fino ad essere costretti a rivedere il contenuto stesso di liberazione che li aveva animati. Questa è forse la crisi di maturazione più grossa che la rivoluzione a livello globale sta attraversando.

Siamo consapevoli che solo mettendo all’ordine del giorno la necessità/possibilità di trasformazione radicale di tutti i rapporti sociali nel centro dell’imperialismo si possa dare avvio ad un processo dialettico di confluenza delle più diverse pratiche rivoluzionarie, anche dei paesi del sud del mondo, cioé la possibilità di superare le strettoie imposte dall’accerchiamento imperialista e di sconfiggere l’imposizione della parzialità delle trasformazioni sociali o il loro arretramento. Confluire verso un’unica direttrice: liberare energia trasformatrice dell’uomo a livello mondiale premessa di uno scambio tra eguali tra uomini liberi ed integri.

Lo sviluppo in Europa del fronte rivoluzionario ha individuato il terreno possibile di avanzamento per tutti: la consapevolezza cioè che, nella tendenza alla rivoluzione del proletariato mondiale, guerriglia e lotte di liberazione si muovono all’interno di un unico fronte e sono la base di partenza per lo sviluppo di una strategia che abbia come obiettivo ultimo la distruzione del sistema imperialista globale.

 

Avanzamento per tutti perché:

– orientando strategicamente il processo rivoluzionario nella distruzione dell’imperialismo, individua possibilità reali per la costruzione di un processo unitario in cui ognuno, partendo dalla propria posizione specifica, con la propria identità soggettiva e storica, abbia come prospettiva il cambiamento rivoluzionario, il superamento di questo modo di produzione avviando concretamente la transizione al comunismo. Un grande processo unitario che si muove e si sviluppa nei «poli omogenei» per qualità di contraddizioni che esprimono: sia «oggettivamente» per l’integrazione raggiunta dal capitale nel suo complesso (politico-economico-militare, di eleborazione di strategia di controllo sociale…) nell’area europea occidentale e per l’unitarietà di condizioni di esistenza e di scontro vissute dal proletariato e dai suoi movimenti; sia «soggettivamente» per il salto di qualità e consapevolezza espresso dalle esperienze guerrigliere che hanno assunto e imposto questa dimensione dello scontro.

– Concentrando nel contenuto unificante dell’antimperialismo la critica rivoluzionaria si apre la possibilità di affrontare l’imperialismo nella sua complessità, superando il ruolo che gli si è affidato riduttivamente finora quale « politica generale di tendenza alla guerra» separata dalle contraddizioni reali sulle quali si sviluppa la lotta di classe.

L’imperialismo è lo sviluppo del capitalismo in questa epoca e la lotta antimperialista è critica globale a questo sviluppo.

– Definendo l’imperialismo come salto del dominio reale, come struttura dei rapporti sociali capitalistici che lottano per la loro stessa riproduzione in modo contraddittorio per definizione, perché strutturati sul rapporto di guerra che vive al loro interno, si individua il processo di costruzione di un fronte di classe (coscienza rivoluzionaria della classe per sé) come processo di unità nella lotta, all’interno della metropoli imperialista. Un fronte delle lotte che pur muovendosi con forme, tempi e gradi di consapevolezza diversi hanno una base comune di partenza e un comune punto d’arrivo: rovesciare questa struttura di rapporti sociali, favorendo così lo sviluppo di un campo della comunicazione rivoluzionaria tra le diverse esperienze, legate ed unificate dalla qualità della critica sociale liberando una scienza della trasformazione che ricompone la classe e rimodella il rapporto tra uomo e natura.

– Dando vita ad un processo rivoluzionario che nel momento stesso in cui si anima e si esprime, lega le ragioni sociali del proletariato metropolitano alle condizioni di oppressione e di sfruttamento del proletariato internazionale: un processo in cui la coscienza di classe è coscienza immediatamente internazionalista.

Il quadro delle contraddizioni è oggettivamente maturo anche in Italia per dare vita ad un processo rivoluzionario fondato sulla dimensione immediatamente internazionale dello scontro, ma non ancora si è reso «soggettivamente» esplicito per la guerriglia e i movimenti rivoluzionari italiani.

 

Consapevolezza critica e unità devono colmare i ritardi

La nostra debolezza non è misurabile negli avanzamenti dello stato, nelle sue vittorie politico-militari che hanno fortemente ridimensionato la guerriglia, non è misurabile nell’indubbia capacità di intervento a più livelli nella complessità sociale che sta dimostrando di saper mettere in campo muovendosi per linee interne alla classe, governando e prevenendo le contraddizioni.

L’indebolimento e il disorientamento vanno ricercati innanzitutto guardando al nostro interno.

Negli anni ’80 sono venute meno tutte le condizioni su cui credevamo fosse ancora possibile costruire la strategia del processo rivoluzionario «in questo paese» (staccare l’anello debole, presa del potere politico, centralità della classe operaia). Nella dimensione assolutizzante della «politica rivoluzionaria» a fronte delle prime battaglie perse, la guerriglia italiana non ha voluto o saputo guardarsi dentro per trovare la forza di rompere i propri orizzonti, i propri confini ideologici e organizzativi. Ha quasi sempre scelto la strada dell’autoconservazione, trascinando nei propri limiti anche quei movimenti che lungo tutto il corso degli anni ’80 hanno tentato di riorganizzarsi a partire dalle nuove condizioni di scontro, caratterizzandosi sia come movimenti di lotta antimperialista che come movimenti di resistenza alla ristrutturazione della metropoli integrata. Inevitabilmente si è approfondita la divaricazione tra avanguardia e classe, evidenziando una crisi di progettualità così profonda da non riuscire più ad individuare il proprio referente di classe, il soggetto della rivoluzione nella metropoli.

Una caduta verticale di identità che anche all’interno dei prigionieri comunisti ha aperto lacerazioni profonde. Anche qui l’assolutizzazione della «politica rivoluzionaria» come coscienza esterna, linea di costruzione del partito, ha prodotto una costante delega dei soggetti imprigionati (ostaggi dello stato) alla soggettività che pensava, agiva, viveva fuori dal carcere, separando ulteriormente la lotta dalla linea politica, indebolendo l’autonomia e la consapevolezza dei militanti prigionieri. Il rifiuto del carcere imperialista, la lotta contro le strategie della differenziazione e della disarticolazione messe in atto in questi anni dallo stato, si è ridotta a resistenza individuale nel migliore dei casi. D’altra parte si è invece assolutizzato il carcere imperialista come terreno specifico di lotta di un settore di classe (il proletariato prigioniero) di cui i prigionieri comunisti costituivano l’avanguardia. Anche in questo caso, a fronte delle strategie di normalizzazione e controllo avviate, la lotta finalizzata e settorializzata è ridotta a resistenza.

Diversi modi di concepire il carcere imperialista che sono determinanti per il permanere del settarismo, della divisione ideologica, dello scontro su concezioni e impianto che rischiano di far perdere il senso, il cuore della militanza rivoluzionaria. Per noi prigionieri comunisti più che mai la parola d’ordine deve essere unità nella lotta e nella chiarezza degli obiettivi, in altre parole dobbiamo guidare la ricomposizione della nostra identità nell’assunzione del livello di scontro che si sta aprendo a tutti i livelli. Obiettivo comune all’intero movimento rivoluzionario.

Costruiamo il fronte di lotta guerriglia /movimento rivoluzionario/prigionieri comunisti. Abbiamo parlato di ritardi che non nascondiamo perché già contengono il segno del superamento.

Anche per noi ha assunto assoluta priorità la contraddizione borghesia imperialista/proletariato internazionale, rimodellando complessivamente la concezione della guerriglia. Una priorità che vive ancora in modo contraddittorio perché esprime la profondità e la radicalità del salto di maturazione in atto, e non solo perché si è trattato di rivoluzionare il nostro impianto, ma perché deve riuscire ad affondare le sue radici dentro un sapere rivoluzionario costruito da contenuti viventi del proletariato in lotta.

Dobbiamo trasformare l’assunzione di questa priorità in progetto rivoluzionario in grado di orientare e rafforzare lo scontro di classe, individuando i passaggi necessari e valorizzando il patrimonio di esperienze che già esistono. Queste le coordinate:

– la guerriglia è una conquista irrinunciabile all’interno delle lotte rivoluzionarie in Italia, non ha bisogno di rilegittimarsi rincorrendo la realtà contraddittoria dei movimenti in questa fase. Ha il compito invece di aprire all’intero movimento rivoluzionario italiano la prospettiva di un processo rivoluzionario interno alla strategia di fronte rivoluzionario.

– Un orientamento strategico che nella realtà dello scontro oggi individua la necessità di costruire un fronte di lotta in cui guerriglia/movimenti rivoluzionari/prigionieri comunisti, trovano i possibili momenti di unità nella critica all’ imperialismo, alle sue articolazioni nella nostra realtà. Momenti che non devono significare l’appiattimento dei contenuti, men che meno delle forme di espressione.

– L’apertura di un confronto serrato all’interno del movimento rivoluzionario italiano con l’obiettivo di rompere l’accerchiamento politico e ideologico cui è sottoposto da anni, espropriato di finalità proprie e contenuti di rottura da un sistema sofisticato di assorbimento. Conquistare cioè il senso rivoluzionario delle lotte che faticosamente sta esprimendo. In altre parole si tratta di rompere il limite di compatibilità che le vorrebbe tutte riconducibili all’interno di un antagonismo «pilotato», controllabile.

Ci sembra che il limite più grosso sia l’incapacità di trovare il filo conduttore che lega la critica rivoluzionaria a tutti gli aspetti dell’alienazione e dello sfruttamento nelle metropoli.

La critica alla scienza, al lavoro, alla produzione nociva, al ruolo dei centri di ricerca, alle università integrate nei processi di valorizzazione capitalistico, al nucleare, allo squilibrio uomo-natura, che pure sono passaggi concreti di presa di coscienza, deve riuscire a fare emergere la complessità anche nella particolarità della lotta ad un aspetto del dominio (settoriale).

Non si tratta solo della forma d’espressione, ma della qualità e della profondità della critica che sorregge la pratica.

Legare dunque in un’unica direttrice la critica: quella all’imperialismo come massima espressione del dominio del capitale in questa fase, nella lunga marcia dello sviluppo della coscienza e della pratica del movimento rivoluzionario italiano.

Sviluppare la coscienza critica antimperialista nel processo rivoluzionario mondiale.

 

Prigioniere comuniste per la guerriglia metropolitana

Aurora Betti, Ada Negroni, Teresa Romeo, Marina Sarnelli

 

Voghera, settembre 1987

Quale «liberazione degli anni ’70». Carcere di Novara – Documento di Prigionieri Comunisti per la Guerriglia Metropolitana

Siamo compagni della guerriglia, prigionieri nel «Blocco B» del carcere speciale di Novara.

Prendiamo la parola in quanto parte attiva del movimento rivoluzionario, intorno ad alcune questioni oggi decisive nel suo dibattito.

Già da alcuni mesi il movimento si trova di fronte ad un’operazione politica centrata sulla parola d’ordine «liberiamo gli anni ’70». A farsene portavoce sono alcuni prigionieri che hanno militato nelle Brigate Rosse. Attorno ad essi si è messo in moto il solito collaudato meccanismo: incontri con esponenti politici democristiani, socialisti, radicali, lettere aperte, interviste, tabelline di sconto pena preparate dai centri giuridici dei partiti, la mobilitazione del ceto politico da anni parassita sul movimento, promozione di assemblee, preparazione di fumose campagne per la cosiddetta «battaglia per la libertà»…

Ma qual è il senso di tutto ciò? E soprattutto quali gli obiettivi e quale la regia?

Cosa si intende per «liberazione degli anni ’70» è detto a chiare lettere: «si tratta di chiudere un ciclo, di esplicitare che la guerra è finita».

L’obiettivo dichiarato attorno a cui Curcio e Moretti hanno aggregato una discreta area di prigionieri è quello di sfruttare la disponibilità di stato e partiti a prendere in considerazione i destini di tutti quei prigionieri che si distaccano dalla militanza rivoluzionaria e si fanno portatori di un messaggio pacificatorio.

Curcio, Moretti e soci si sono convinti che lo stato starebbe rifondando i suoi dispositivi e le sue politiche di controllo sociale in senso «riformista» e che questo aprirebbe le porte ad una trattativa. La soluzione politica sarebbe realizzabile perché funzionale al rafforzamento di questa rifondazione del controllo sociale oggi in Italia.

È chiaro che Curcio, Moretti e tutti i loro soci, dal primo all’ultimo, sanno benissimo che sul tavolo di questa trattativa loro possono far valere solo la presunzione di riuscire a veicolare e ad imporre questo terreno all’interno del dibattito rivoluzionario: tra i prigionieri, nel movimento antagonista e nelle stesse forze guerrigliere.

Un’operazione che produrrebbe inevitabilmente un ennesimo stravolgimento del tessuto di solidarietà e di comunicazione, delle discriminanti di classe, dei contenuti di lotta che costituiscono l’esistere concreto del movimento rivoluzionario.

Lo sanno benissimo, e sono disposti a tutto ciò pur di guadagnarsi uno spiraglio di scarcerazione e uno spazio nello scenario politico borghese.

Per questo la loro iniziativa è una scelta di collaborazione, per quanto in guanti bianchi, con lo stato.

Che la regia che muove tutta questa operazione non sia loro, ma saldamente in mano allo stato, è fuori da ogni dubbio.

È lo stato infatti che non solo possiede le chiavi che sono l’ambìto premio dei nuovi soluzionisti, ma che, inoltre, avendoli agganciati al suo carro, può determinare ogni piega del contesto entro cui questa gente si muove.

E per stato intendiamo esattamente quel personale, quelle istituzioni e quelle politiche che concretizzano l’«interesse generale» del sistema sociale capitalistico.

Le posizioni di Curcio e Moretti erano chiare da tempo, erano da anni fuori da ogni dibattito. I loro traffici e i loro contatti con personaggi delle cricche democristiane duravano da tempo. Ma solo quando lo stato ha deciso di fare di questi loschi e un po’ miserabili maneggi una vera e propria operazione controrivoluzionaria, la loro «battaglia di libertà» ha preso slancio politico.

Da anni all’interno delle strategie di annientamento delle forze rivoluzionarie è divenuta stabile la ricerca e la pressione per condurre singole persone e interi gruppi di prigionieri a farsi «interlocutori dello stato» in una varietà di posizioni, dalla delazione alla disponibilità a propagandare il punto di vista e gli interessi della «pacificazione imperialista».

Una strategia di questo tipo può espandere i suoi effetti unicamente sfruttando le contraddizioni e i limiti presenti nel movimento rivoluzionario per inserirvisi e renderli laceranti.

In questo senso la natura generale della cosiddetta «battaglia di libertà» va ricercata nel quadro di quelle operazioni di infiltrazione ideologica funzionali all’attacco per linee interne al movimento rivoluzionario.

L’attacco per linee interne non nasce oggi. È una dinamica permanente che cerca di volta in volta una traduzione congiunturale rispetto agli specifici caratteri dello scontro. È componente stabile delle strategie controrivoluzionarie.

È nell’attuazione di queste dinamiche che lo stato ha determinato e imposto il terreno e i termini politici di questa operazione. Ne ha costruito le condizioni manovrando la composizione dei prigionieri nelle carceri, l’organizzazione di incontri e interviste, l’attivazione dei media, promuovendo l’integrazione delle iniziative e degli «interessi particolari» delle varie frazioni borghesi.

Ma prima di proseguire nell’analisi dell’iniziativa controrivoluzionaria in questa fase dello scontro di classe in Italia, è importante fare un sintetico riferimento ad un contesto più ampio in cui essa trova origine.

L’intero sistema imperialista è attraversato da processi di ristrutturazione globale: sul terreno economico per la rideterminazione di una nuova divisione tecnica e sociale del lavoro, sul terreno politico per la rifondazione del sistema degli stati imperialisti, sul terreno delle strategie e pratiche di guerra per l’imposizione di un «nuovo ordine imperialista».

Processi generati dal tentativo di uscire dalla crisi di valorizzazione del capitale con l’approfondimento ed estensione del rapporto di sfruttamento capitalistico. Si ridisegna così su scala sovranazionale – e anche in Italia – il quadro dello scontro di classe, producendo nuove e più profonde contraddizioni.

Attorno a questi nuovi processi infatti si sono sviluppati significativi movimenti di lotta dai caratteri internazionalisti e antimperialisti che stanno toccando ogni angolo del pianeta – dal Centroamerica al Sud-Est Asiatico, dal Medio Oriente all’Africa Australe… all’Europa Occidentale.

In particolare nell’area mediterranea e nel polo europeo si è sviluppata l’esperienza delle campagne antimperialiste della guerriglia e dei movimenti di lotta in Europa Ovest e della guerriglia e dei movimenti di liberazione del proletariato rivoluzionario e delle componenti nazionali arabe.

La realtà italiana è attraversata direttamente dalle nuove dinamiche e contraddizioni del sistema imperialista. Sono i processi di stretta integrazione del capitale e dello stato italiano nel sistema imperialista, i nuovi ruoli che essi svolgono all’interno dell’area europea e mediterranea che impongono nuovi livelli di controllo e gestione delle contraddizioni di classe.

In questo contesto diventa fondamentale per lo stato sviluppare un’azione preventiva tesa a spezzare ed impedire il processo di rifondazione del movimento rivoluzionario in Italia attorno a questa nuova dimensione internazionale ed antimperialista dello scontro.

È così che nasce una rinnovata iniziativa di controrivoluzione preventiva che si è dispiegata in particolare quest’anno articolandosi, come è caratteristica ormai stabile di questo tipo di operazione, su due piani: uno di repressione e annientamento diretto, l’altro di infiltrazione ideologica finalizzata alla reintegrazione dei contenuti e delle esperienze più avanzate del movimento rivoluzionario.

L’aspetto repressivo si è sviluppato in più direttrici: contro le organizzazioni guerrigliere, contro il movimento, contro i prigionieri.

L’iniziativa antiguerriglia ha segnato un salto di qualità nel nuovo livello di integrazione e coordinamento sovranazionale fra gli stati imperialisti contro il «terrorismo internazionale» in cui l’Italia ha assunto un ruolo di capofila. Le principali operazioni sono state attuate così – per la prima volta – da unità operative e di intelligence congiunte tra Italia e Francia senza problemi di confini e di legislazioni differenti.

Intanto da mesi carabinieri, UCIGOS e magistratura sono impegnati a colpire ogni area e centro di comunicazione di movimento che non accetti la «pacificazione di stato». Il carattere politicamente mirato e contemporaneamente il suo raggio d’azione nazionale segnano un nuovo livello stabile delle strategie di controllo e «desertificazione» del movimento.

Contro i prigionieri, infine, un nuovo livello di pressione e di controllo si è aperto e sviluppato in crescendo nell’arco di un anno attraverso la legge Gozzini, la reimposizione della censura generalizzata, il taglio e la selezione dei colloqui e dei rapporti con l’esterno, con la integrazione delle misure e del trattamento all’interno delle direttive del Comitato Interministeriale per la Sicurezza.

L’altra faccia di questa iniziativa a largo raggio è costituita da quella vera e propria operazione di infiltrazione ideologica che è la cosiddetta «liberazione degli anni ’70».

Prima di entrare nel merito del contenuto specifico di questa «battaglia di libertà» è utile completare il quadro dei riferimenti guardando sinteticamente alle esperienze di soluzione politica della guerriglia attuate da altri stati imperialisti.

È un terreno di connessione che ci mette in grado di analizzare compiutamente la collocazione di questa ennesima iniziativa soluzionista nella complessità delle pratiche controinsurrezionali degli stati imperialisti.

È bene ricordare che le prime esperienze significative nell’affiancare alla pura repressione dispositivi di soluzione politica in funzione preventiva furono attuate negli USA nella prima metà degli anni ’70 contro le organizzazioni rivoluzionarie e guerrigliere delle Black Panthers e dei Weatherman.

In RFT a più riprese l’iniziativa antiguerriglia negli anni ’70 si è incentrata anche sull’utilizzo di singole figure di ex guerriglieri tipo Mahler, Baumann o Klein che si prestavano a lanciare messaggi di rifiuto della lotta armata. Nell’84 invece attorno a Schneider e Wackernagel ci fu il tentativo più grosso di costruire un’area di prigionieri disponibili ad una trattativa con lo stato mascherata da amnistia.

In Spagna la trattativa per la resa e deposizione delle armi di un’ala dell’ETA politico-militare in cambio di una amnistia è durata all’incirca dall’80 all’84 e portò alla distruzione e dispersione politica delle aree investite da questa iniziativa.

Dovunque insomma il terreno della trattativa per la soluzione politica costruita e giustificata nel ricatto sui prigionieri si è rivelato per quello che è: controrivoluzione preventiva per la distruzione e dispersione del patrimonio e delle aggregazioni rivoluzionarie. Dovunque le componenti rivoluzionarie più consapevoli hanno lottato contro di essa.

a torniamo ai contenuti e alle caratteristiche specifiche di questa «battaglia di libertà». Per coglierli nella loro pienezza bisognerà necessariamente distinguere i diversi ambiti in cui essi si riflettono: verso la guerriglia, verso il movimento rivoluzionario e verso lo scontro sociale in generale.

Questo progetto nasce dopo l’esaurimento delle operazioni di dissociazione avviate dal ’79 in poi (gruppo «7 Aprile», Prima Linea, Franceschiniani).

Rispetto ad esse stabilisce un nesso di continuità e di superamento.

Come i dissociati anche i neo-soluzionisti blaterano di «esaurimento delle ragioni sociali» che hanno permesso la nascita e lo sviluppo della guerriglia in Italia.

A differenza di Negri, Bignami e Franceschini, Curcio e soci si affannano a dire che rifiutano il terreno formale dell’abiura per attestarsi su quello della difesa della loro storia ormai conclusa.

Ancora, i neo-soluzionisti a differenza dei dissociati non vogliono rimanere intrappolati nella dimensione di risocializzazione carceraria come terreno principale di lealizzazione.

Il loro tentativo è quello di agganciare segmenti di movimento proletario e di guerriglia alla politica soluzionista. Ed è su questo terreno che sono da subito chiamati a dimostrare la loro affidabilità.

Pretendendo di parlare direttamente al movimento rivoluzionario e all’area della guerriglia devono necessariamente darsi contenuti e linguaggi meno rozzi del «rifiuto della politica» che caratterizzava l’altra infornata di porci collaboratori.

Rispetto alla guerriglia questo progetto, facendo leva sul ricatto delle condizioni dei prigionieri e sulle contraddizioni e limiti esistenti, deve riuscire a veicolare i punti di vista del disfattismo e della resa. Curcio, Moretti e l’accozzaglia che li circonda e li protegge vogliono porsi come depositari esclusivi dell’esperienza storica delle Brigate Rosse per rappresentarne la resa.

Una rappresentazione sintetizzata nel messaggio «prendere atto che la Lotta Armata è stata una manifestazione reale delle contraddizioni di classe in questo paese, accettare un criterio di responsabilizzazione collettiva e infine ammettere che quello scontro è finito», e che dovrebbe trovare legittimazione nell’agitare la parola d’ordine «libertà per i prigionieri degli anni ’70».

La valenza politica di «delegittimazione» delle aree di guerriglia esistenti è perfettamente sintetizzata dal Manifesto, il portavoce privilegiato di tutte le campagne di dissociazione e soluzione politica, che così commentava i vari interventi che hanno fatto eco a quello di Curcio e Moretti: «depongono e fanno deporre le armi, delegittimano senza urli e condanne ma con un giudizio politico impietoso i residui frammenti esterni».

È evidente pure come nel contesto attuale dello scontro rivoluzionario in Europa Occidentale la rappresentazione della resa delle Brigate Rosse pretenda di proiettare il suo messaggio delegittimante verso le attuali esperienze guerrigliere di quest’area; non a caso è continuo il riferimento dei neo-soluzionisti alle «mutate condizioni internazionali».

Riguardo al movimento di lotta e comunicazione antagonista che sta lentamente crescendo in questi ultimi anni, essi premono affinché l’attenzione si concentri sul contenuto mistificante della loro iniziativa. Agitano la «bandiera degli anni ’70» svuotando quella esperienza del contenuto strategico che può rafforzare la lotta rivoluzionaria oggi. Così in realtà essi propongono solo un terreno alienante di introiezione perpetua di errori e sconfitte ostacolando il consolidamento e l’avanzamento del confronto attorno alle questioni fondamentali che seguono le nuove determinazioni dello scontro rivoluzionario. In ciò danno spazio a quel ceto politico che della endemizzazione delle pratiche di movimento e della loro gestione come rappresentanza ufficiale ha fatto la sua strategia ed il suo ruolo parassitario, e che oggi, non a caso, ha immediatamente assunto e fatto proprio questo dibattito.

Infine è chiaro anche come, verso lo scontro sociale in generale, questa ennesima soluzione politica si presti a farsi gestire dai più svariati operatori politici e culturali come esempio lampante della validità di quei contenuti di «lealismo», di «trattamento differenziato», di «individualizzazione», di «premi-punizioni» che sono il cuore delle strategie di controllo e dello stesso codice capitalistico nelle fabbriche, nei quartieri, nelle carceri delle metropoli.

Come abbiamo visto, l’obiettivo di questa operazione è il presente, non il passato. È il ciclo rivoluzionario che si sta aprendo, non quello che si dice si sia chiuso.

Questa operazione è una trappola tesa ad un movimento rivoluzionario che si sta rifondando, in una fase in cui cerca di superare limiti e contraddizioni del passato e inizia a maturare, anche se con difficoltà, una nuova consapevolezza e una nuova pratica.

Per questa ragione, con questa operazione e i suoi protagonisti non è possibile alcuna complicità, nessuna ambiguità, nessuna tolleranza, l’unico terreno concepibile è quello della lotta.

Affrontare questa questione per noi è tutt’altro che dialettizzarsi con essa, non esistono spazi per una sua «riconversione di sinistra». In questa ottica si può solo rimanere imbottigliati in una subalternità suicida.

Lotta significa in primo luogo contribuire a chiarire nel movimento rivoluzionario il senso, gli obiettivi e la natura di classe di questo attacco ed il ruolo dei suoi protagonisti. Per espellere quindi questa operazione ed i soggetti che se ne fanno portatori da ogni ambito del movimento rivoluzionario.

In secondo luogo significa contribuire a rafforzare quegli elementi di nuova acquisizione che in questo ultimo periodo sono emersi sia a causa dell’impatto delle nuove determinazioni dello scontro rivoluzionario sia per il riferimento che hanno costituito l’iniziativa e le proposte della guerriglia e dei movimenti più significativi espressisi in Europa.

In questi ultimi anni hanno cominciato a condensarsi nell’area della guerriglia elementi di riflessione e di dibattito intorno alla messa in discussione dei limiti di impianto della pratica passata per una ridefinizione della strategia guerrigliera nelle nuove condizioni dello scontro rivoluzionario.

In questo periodo è anche sensibilmente cresciuta la mobilitazione e le iniziative di lotta antagonista attorno alle contraddizioni strategiche che caratterizzano questa fase dello scontro: i processi di guerra, il ruolo giocato dall’innovazione tecnologica e dalla produzione di ricerca scientifica nei processi di ristrutturazione ed intensificazione dello sfruttamento, il complesso militare-industriale, il nucleare, ecc.

E, ancora, è vissuta nella più recente esperienza del movimento rivoluzionario una tensione sempre più forte a ricercare supporti, nuovi livelli di comunicazione, terreni di lotta comune a livello internazionale: a collocare cioè la propria lotta all’interno del quadro di scontro dell’intera area europea e mediterranea.

Dai primi momenti di pratica offensiva e di mobilitazione nelle nuove condizioni dello scontro che hanno avuto significativo sviluppo dall’inizio di quest’anno, in particolare attorno al «Vertice dei 7», in diversi poli metropolitani, si avverte sempre più la possibilità di dare una nuova dimensione progettuale rivoluzionaria a queste iniziative.

Rafforzare gli elementi nuovi emergenti nel processo rivoluzionario significa da qui in poi sviluppare confronto e dibattito unitario intorno a questi nodi così da costruire una più organica consapevolezza collettiva adeguata a sostenere l’ulteriore avanzamento del concreto processo e pratica rivoluzionaria che abbiamo di fronte.

Un dibattito ed una pratica di lotta in primo luogo intorno alla necessità di superare un’analisi dell’imperialismo come «politica generale», separata dal concreto quadro di contraddizioni su cui si sviluppa la lotta di classe.

La critica all’imperialismo deve essere la critica al capitalismo di quest’epoca: i processi di integrazione su scala internazionale di tutte le determinazioni fondamentali della produzione capitalistica, i processi di concentrazione capitalistica su scala planetaria, il ruolo investito dalla innovazione tecnologica e dalla informatizzazione nei processi produttivi, la sussunzione totale della produzione scientifica alle ragioni del capitale, l’aver funzionalizzato alle proprie leggi e alle proprie esigenze ogni ambito e struttura sociale… Tutto ciò esprime una nuova dimensione qualitativa dell’imperialismo moderno ed esige quindi un adeguamento della critica rivoluzionaria ad esso.

Ne deriva che le dinamiche della crisi e i processi di ristrutturazione della produzione capitalistica, le loro strategie di regolazione, le determinazioni politiche e i processi di guerra, i rapporti di forza e i terreni su cui si condensano acquistano una dimensione di carattere globale.

Il quadro delle contraddizioni di classe è fortemente segnato da questa dimensione internazionale: in parte sono già direttamente espressione di questa dinamica sovranazionale o ne sono comunque fortemente influenzate.

Ciò significa che una prospettiva rivoluzionaria deve riuscire a comprendere e definire termini e contenuto di un percorso di emancipazione dal dominio-sfruttamento capitalistico di ogni attività umana; deve misurarsi concretamente come orizzonte strategico e come direzione e carattere internazionale della lotta. Deve cioè riuscire a concretizzare una strategia capace di porsi come referente di classe, come obiettivi di lotta, come prospettiva a queste condizioni dello scontro.

Alla comprensione del quadro e caratteri dell’imperialismo con cui siamo costretti a misurarci si dovrà affiancare nel dibattito rivoluzionario e nella prassi una comprensione dei passaggi che abbiamo di fronte come premessa di concreto avanzamento dell’iniziativa rivoluzionaria.

Passaggi che potremmo sintetizzare con una «parola d’ordine» nata all’interno e nel vivo della ricca esperienza del movimento rivoluzionario tedesco di questi ultimi anni e che vogliamo raccogliere: lottare uniti!

Pensiamo che «lottare uniti» in questa fase delicata del movimento rivoluzionario italiano voglia dire misurarsi su alcuni nodi che ci permettono di fare un salto in avanti.

– Il primo è quello di riuscire ad individuare i terreni di lotta attorno ai quali concentrare come consapevolezza collettiva la mobilitazione e l’iniziativa rivoluzionaria in un processo organico che superi i livelli di frammentarietà. E questi terreni non possono che essere quegli obiettivi di lotta che condensano i rapporti di forza su scala internazionale e globale che scaturiscono dalle dinamiche di integrazione capitalistica: la guerra imperialista, la ristrutturazione dei processi produttivi e dell’insieme della formazione sociale, il ruolo dell’informatizzazione e dell’innovazione tecnologica in entrambi.

– In secondo luogo nel costruire le nostre lotte e le nostre iniziative nel quadro dei movimenti di lotta, della guerriglia europea e della lotta antimperialista nell’area mediterranea. Si tratta di ricostruire l’iniziativa rivoluzionaria e il movimento stesso all’interno del confronto, della comunicazione e del coordinamento resi possibili dalla qualità omogenea presente nei processi rivoluzionari nel polo europeo, nell’area mediterranea e nel quadro complessivo dello scontro mondiale.

– E ancora, questa nuova qualità dello scontro pone immediatamente ogni processo di lotta, ogni sua determinazione di fronte alla contraddizione globale prodotta dal dominio imperialista ed è costretta a prenderne consapevolezza, se non vuole essere distrutta come identità antagonista dai meccanismi di integrazione e annientamento che tale rapporto produce. Questa è la base che permette di costruire e sviluppare una nuova dialettica tra i diversi livelli di espressione dell’iniziativa rivoluzionaria (guerriglia, lotta antagonista e mobilitazione di massa) in un processo unitario che non appiattisca i diversi gradi di consapevolezza e progettualità, ma li riconnetta in un quadro unitario di lotta.

– All’interno di questo quadro infine l’esperienza italiana potrà portare avanti quel processo di riqualificazione della prospettiva e dell’iniziativa rivoluzionaria e, al suo interno, della guerriglia come progetto strategico; individuando sempre più anche i processi pratici di rifondazione sulla base delle nuove condizioni dello scontro rivoluzionario oggi.

Ci sembra siano questi alcuni attuali passaggi di un dibattito possibile nel movimento italiano oggi, per una ripresa rivoluzionaria che segni un avanzamento nella lotta, nella coscienza e nell’organizzazione. Per contribuire attivamente alla definizione di una strategia rivoluzionaria internazionale, per essere frazione dello scontro mondiale.

Questo è il senso, questo vuol dire secondo noi imparare a lottare uniti oggi.

Questo è anche il senso in cui si muovono le esperienze rivoluzionarie più significative in Europa occidentale, e la proposta di costruzione del fronte rivoluzionario come unità del processo rivoluzionario in questa area, come unità – nel differente spessore che esprimono – della guerriglia, del movimento e dei prigionieri, come unità sui terreni strategici della lotta rivoluzionaria.

Noi, come prigionieri della guerriglia, come parte viva del movimento rivoluzionario, intendiamo dare il nostro contributo all’avanzamento del processo rivoluzionario e al confronto unitario che si sta sviluppando e si svilupperà nei prossimi mesi tra le forze rivoluzionarie per costruire assieme il nostro futuro.

Concretamente per noi significa:

– affrontare il terreno di lotta del carcere imperialista che in questa fase si sviluppa attorno alla lotta alla legge Gozzini, perno della strategia di differenziazione attuata contro i prigionieri.

– Lottare contro l’operazione controrivoluzionaria della «soluzione politica della lotta armata».

– Contribuire alla costruzione di questo dibattito unitario tra tutti i rivoluzionari e all’approfondimento dei temi strategici che esso ha di fronte.

Questi tre terreni si saldano in un unico contenuto costituendo il senso attorno a cui è possibile oggi sviluppare la militanza e identità rivoluzionaria dei prigionieri fuori da ogni logica riduttiva e settaria.

In questo nostro contributo si esprime già una precisa tensione in questa direzione condensando punti di vista ed esperienze anche diverse che in questa nuova qualità dello scontro riescono a realizzare un significativo momento unitario senza peraltro cadere in inutili appiattimenti.

 

Prigionieri Comunisti per la Guerriglia Metropolitana

 

Novara, agosto 1987

Il confronto deve partire dalla realtà. Carcere di Cuneo – Documento di alcuni comunisti prigionieri

Gli undici interventi sulla «battaglia di libertà» pubblicati sul Bollettino 28 rappresentano un primo giro d’interventi che avranno ripercussioni sul futuro del movimento rivoluzionario. Sgombriamo però il campo dai falsi problemi. Se i partiti decidessero un’amnistia riguardante i fatti di lotta armata degli anni ’70-’80 senza chiedere contropartite, non ci opporremmo in alcun modo alla decisione. Ci spiegheremmo la decisione anche guardando ai precedenti: amnistia del 1932 (1) e quella concessa a Castro (2). E come i comunisti italiani nel ’32 e come Fidel Castro ci attiveremmo nel ridare forza al processo rivoluzionario tenendo conto naturalmente delle contraddizioni oggi presenti e delle difficoltà in cui versa il movimento rivoluzionario. Ma tra il «non rifiutare» l’amnistia e sostenere la «battaglia di libertà» ci sembra passi una notevole differenza. L’operazione di Curcio chiamata «battaglia di libertà» va attaccata e ne spiegheremo i motivi. Prima di tutto le tesi politiche. È dall’83 che Curcio attacca non solo il patrimonio politico di questi anni ma l’intero patrimonio politico dei comunisti. Con i documenti dell’83 Curcio si è guadagnato l’attenzione e l’apprezzamento dell’Avanti ma anche la dura critica dei comunisti (3). Curcio è la classica figura di rivoluzionario che giunge a posizioni compatibili con l’organizzazione borghese e aggiunge il suo nome al lungo elenco di rivoluzionari assorbiti dalla classe dirigente, rinnovando quel fenomeno che va sotto il nome di trasformismo (4).

 

La «battaglia di libertà»

Con la prima lettera di aprile si è aperta in parte del movimento la discussione sulla liberazione dei prigionieri politici. Questa è stata anche l’occasione per riparlare pubblicamente degli anni ’70-’80 e del ruolo svolto dalla lotta armata.

È una discussione interessante che non a caso ha fatto emergere precise critiche a Curcio. Va anche detto però che questa area non ha la forza per far decollare una battaglia politica per la liberazione dei prigionieri.

Non abbiamo nemmeno visto alcun movimento di massa muoversi a sostegno della «battaglia di libertà». Tantomeno abbiamo visto scendere in campo intellettuali pronti a sostenere le ragioni di uno scontro che potrebbero ritenere esaurito…niente di tutto questo. Eppure la questione è montata rimbalzando da un mass media all’altro e sull’onestà intellettuale e sull’indipendenza dei mass media non c’è nessuno disposto a scommettere una lira. Su quali forze conta allora la «battaglia di libertà»? È ovvio che queste forze vengono direttamente dai partiti interessati ad una soluzione del problema dei prigionieri politici. Non abbiamo quindi nessuna intenzione di essere parte attiva in questa falsificazione. Preferiamo chiamare le cose con il loro vero nome e questa «battaglia di libertà» non è altro che una contropartita alla liberazione. Contropartita data con le teorie anticomuniste di Curcio e con l’offerta di delegittimare le iniziative rivoluzionarie che dovessero verificarsi dopo la liberazione dei prigionieri. C’è molta presunzione nelle dichiarazioni dei liquidazionisti, non tanto nel pensare che lo stato possa concedere la libertà quanto nel ritenere delegittimabile un’iniziativa rivoluzionaria che si muove su contraddizioni reali. In realtà i liquidazionisti sono pronti a tracciare un solco tra il passato e il futuro del movimento rivoluzionario. Questa frattura rischia oggi di essere avvertibile da alcuni per le difficoltà in cui versa il movimento rivoluzionario, ma diventerà inesistente una volta che il processo rivoluzionario riprenderà vigore.

Data la demagogia che vela il reale rapporto tra la «battaglia di libertà» e gli interessi borghesi, è facile che Curcio esca conservando agli occhi delle masse le sembianze del rivoluzionario capace di ingaggiare una «battaglia» usando le sole forze della ragione. Questa «battaglia» si pone quindi anche come ricostruzione di una «figura rivoluzionaria» prodotta e distribuita dai mass media ad uso e consumo di massa. Dobbiamo quindi fare tutto il possibile per squarciare il velo di questa mistificazione.

 

Ci troviamo di fronte anche altri diversi problemi. Molti compagni sottovalutano la pericolosità dell’operazione condotta da Curcio e credono che basti decretarne l’espulsione dal movimento rivoluzionario per sventare ogni pericolo. In realtà non è così semplice. Curcio ha ricompattato intorno a sé ex compagni provenienti da diversi spezzoni dell’esperienza BR. La maggioranza dei prigionieri ex BR-PCC con in testa la Balzerani, oltre a fornire ridicole argomentazioni sull’impossibilità della ripresa del processo rivoluzionario, continuano ad ergersi spavaldamente a difesa dell’esperienza BR. Questi individui si sentivano di difenderla tanto quando attaccavano Curcio e gli altri compagni, quanto ora che sono saliti sul carrozzone di Curcio e continuano ad attaccare gli altri compagni. Ma al di là di questi fatti che sembrano tratti da una farsa, ci preoccupa la confusione che determineranno in molti compagni. Dovremmo tenerne conto e soprattutto dovrebbero tenerne conto quei compagni che continuano a conferire alla lotta armata proprietà taumaturgiche, esentandosi dal fare i conti con la realtà e dal ricercare i necessari passaggi per uscire da questa situazione di crisi. Alcuni di questi compagni che si guardano bene dal fare i conti con la realtà, ripropongono pari pari, se non in forma più grave, le concezioni errate del passato. L’ultima trovata è l’immissione nel dibattito della teoria della destabilizzazione mai circolata nell’organizzazione BR. Le BR infatti hanno teorizzato e praticato la «disarticolazione» delle strutture e dei progetti nemici, in funzione di uno sviluppo del processo rivoluzionario nel nostro paese. La «destabilizzazione» (non viene affermato esplicitamente ma è sottinteso) ha alla sua base la completa sfiducia nelle possibilità del proletariato del nostro paese di svolgere una funzione nel processo rivoluzionario. Questi compagni pensano come se fossero un gruppo di rivoluzionari in un paese ad economia forte e senza forti contraddizioni sociali e, impossibilitati a fare la rivoluzione nel proprio paese si candidano al servizio delle rivoluzioni in altri, proponendosi l’unica pratica possibile: la «destabilizzazione». Non ci sembra però che in Italia ci siano le condizioni sopraddette. Accusare i compagni di liquidazionismo non significa avere una posizione politica pratica. Non esaurisce i nostri compiti. La proposta di Curcio ha ingenerato confusione. La liberazione dei prigionieri politici è un problema sentito nel movimento. La «battaglia di libertà» fa misurare i compagni con la debolezza del movimento di fronte al problema, ma dall’altra parte dimostra che l’alternativa è la rinuncia. Se non prevale una corretta posizione che si misuri con la discussione in ballo, il rischio è che una parte del movimento cada nelle mani di Curcio e che i comunisti non partecipino con la propria posizione, utilizzando tutti gli strumenti, alla discussione sui prigionieri politici e sugli anni settanta, lasciandola così ai mass-media.

Occorre inoltre distinguere tra la critica alla «battaglia di libertà» e la posizione da tenere nei confronti di una amnistia emanata dallo stato. Posizione che nel movimento non potrebbe essere che quella di sostenere un’amnistia senza contropartite e senza discriminazioni verso i compagni. Solo così si danno contorni netti ed inequivocabili alla questione. Dobbiamo anche tenere conto che una maggiore confusione ingenererà nella classe l’immagine di Curcio irradiata dai mass-media, anche perché crediamo che i proletari non conoscano i termini della battaglia politica svolta in passato contro il capo liquidatore. Ma cosa può sostenere un compagno all’interno di una situazione di classe di fronte alla campagna martellante dei mass-media sull’amnistia? Che è contrario a che escano i prigionieri? O denunciare Curcio e presentare le cose come sono: un’operazione per discriminare i compagni? Ci sembra che non ci sia altro da fare che tenere quest’ultima posizione e sostenere la liberazione senza contropartite e senza discriminazioni. Non crediamo che lo stato sia disposto a liberare i compagni che attaccheranno la «battaglia di libertà», ma così facendo, se avremo lavorato tenacemente nel movimento e nelle situazioni di classe, apparirà evidente a tutti la differenza tra le posizioni liquidazioniste e quelle dei compagni. Solo così si può pensare di rovesciare contro Curcio e i suoi sostenitori l’operazione che hanno montato. Solo così gli si potrà impedire di usufruire dell’immagine del «capo rivoluzionario sconfitto ma indomito» comunicata dai mass-media.

Questa ennesima ondata di transfughi dal movimento rivoluzionario impone sempre più l’esigenza di trovare una unità tra compagni, di riprendere la discussione. Se a nessuno sfugge la gravità della situazione nazionale e internazionale, c’è ancora il buio sui passaggi necessari per uscire dalla crisi del movimento rivoluzionario. Le organizzazioni sono drammaticamente ridotte dal punto di vista della loro forza politica. Il movimento rivoluzionario è in generale ridotto a poco. Il problema lotta armata/riproduzione dei quadri sembra un serpente che si morde la coda. In alcuni si è affermata l’errata convinzione che senza la lotta armata non ci sia riproduzione di quadri e che la lotta armata possa svilupparsi indipendentemente dal corso della lotta di classe. Questo criterio secondo noi non ha validità. Se non si consolida il radicamento nel proletariato, se non si rispetta il principio dello sviluppo per linee interne alla classe, regolando ritmi e livelli di iniziativa alle proprie forze e a quanto esprime la lotta di classe, non ci sarà mai un rafforzamento, non si uscirà dalle secche. Quando si parla di analisi concreta della realtà concreta, non ci si riferisce solo all’analisi della crisi del modo di produzione capitalista, che è condizione fondamentale, ma anche allo stato della soggettività. Una adeguata rete di compagni, un partito rivoluzionario che goda di prestigio e in particolare una radicale lotta di classe: nelle attuali condizioni questo è tutto da costruire e crediamo debbano essere gli obiettivi al centro del nostro lavoro in questa fase. Oggi non c’è una organizzazione, una struttura che possa assumersi il compito di aggregare attorno a sé le varie esperienze e contribuire alla formazione della necessaria forza soggettiva. Ricercare l’unità dei compagni è allora il primo passo da fare. Sappiamo bene quanto sia lunga la strada per giungervi. Esistono differenti e radicate impostazioni che nell’immediato non è possibile accordare. Si potrebbero però muovere i primi passi se il confronto partisse dai problemi concreti che ci troviamo di fronte. Ricercare allora parole d’ordine e posizioni concrete comuni contro le posizioni curciane è una prima occasione per verificare quanto questo sia possibile oggi.

 

Alcuni comunisti prigionieri

 

Cuneo, ottobre 1987

(1) L’amnistia fu concessa nel decennale del regime fascista. Anche se la situazione economica nazionale era alquanto critica, il regime intendeva dimostrare di sentirsi sicuro. Inoltre la polizia politica aveva raggiunto una elevata capacità di vigilanza e repressione da non temere la liberazione di un centinaio di comunisti. Secchia usufruì dell’amnistia anche se, arrivato a casa, fu arrestato di nuovo e inviato al confino.

(2) Il regime di Batista decise di sbarazzarsi di Castro e degli altri per impedire collegamenti tra rivoluzionari e popolazione. Fidel Castro fu amnistiato dopo due anni dall’assalto al Moncada, dove morirono un centinaio di persone.

(3) Oltre alle prese di posizione delle OCC, uscì il libro “Politica e Rivoluzione” che spiega i caratteri antimarxisti delle tesi di Curcio.

(4) Al riguardo vale la pena di citare Gramsci “… dal 1815 in poi un piccolo gruppo dirigente è riuscito metodicamente ad assorbire tutto il personale politico che i movimenti di massa di origine sovversiva esprimevano … assume una portata imponente nel dopoguerra quando pare che il gruppo dirigente tradizionale non sia in grado di assimilare e dirigere le nuove forze espresse dagli avvenimenti”.

La nostra memoria storica: la scelta di rottura radicale con lo Stato. Carcere di Voghera – Documento di Laura Braghetti, Fernanda Ferrari, Caterina Francioli, Inge Kitzler, Patrizia Sotgiu

Questo contributo, traendo spunto dalla radicale contrapposizione al progetto di soluzione politica, è il frutto di un primo reale confronto fra compagne provenienti da diverse componenti politiche e inevitabilmente risente di tutti i limiti che ciò comporta.
Questo intervento vuole però essere un effettivo momento di confronto, dentro e fuori dal carcere, con tutte le esperienze rivoluzionarie e con tutti quei compagni che, al di fuori di ogni logica settaria e riduttiva, intendono portare avanti un processo rivoluzionario.
E così, in Italia esistono prigionieri politici.
Riconoscimento un po’ tardivo di un conflitto di classe – che si vorrebbe seppellire – la cui frattura radicale deve essere necessariamente riassorbita prima che qualche nuovo evento dalle sfumature incontrollabili ne ricucisca una continuità, anche solo ideale.
Magnanimo gesto, dallo stile vagamente militare, con cui si usa – fra galantuomini – offrire una dignità agli eserciti aggiogati e sconfitti. O meglio, ai loro capi.
Peccato che chi, come noi, ha sempre pensato all’organizzazione rivoluzionaria come ad un processo collettivo – senza personalismi né primedonne – non riuscirà mai a scambiare il carcere imperialista con la piazza di un mercato: non vuole svendere né essere venduto.
Liberazione degli anni ’70 in cambio di un ritorno alla «normalità democratica» di una società pacificata. Rientro – per «ambedue» le parti – nelle regole del gioco; accidentalmente accantonate per un duro ma indispensabile lasso di tempo.
Tra il combattente e il disertore, l’incorruttibile e il rinnegato, esiste quindi una terza via?
Sembra la fine di un’epoca. Un’epoca di speranze e di sogni di chi voleva «fare la rivoluzione». Ora siamo diventati grandi e con molto realismo politico dovremmo constatare che un’altra società è impossibile: il capitalismo è l’unica forma di società pensabile.
Altro che pura e semplice delegittimazione della guerriglia, quello che ci chiedono è di sostenere che il comunismo è impossibile!
Tricolore italiano e bandiera a stelle e strisce si allineano armonicamente – nell’ambito del più generale quadro di cooperazione e integrazione europea – nel sostituire l’accusa di terrorismo alla vecchia accusa di comunismo; terroristi sono coloro che combattono gli interessi strategici e i «valori» delle democrazie occidentali.
Originariamente nata per contenere e annientare la spinta dei popoli in lotta per la loro liberazione e autodeterminazione, la strategia imperialista della controguerriglia classica ha dovuto sottilmente evolversi per combattere chi, dall’interno dei paesi del suo centro, minava le fondamenta del suo dominio indiscusso. Combinare azioni militari ad operazioni politiche, economiche e psicologiche tese a costruire ogni possibile scenario di legittimazione del potere esistente. Prima la sconfitta militare, poi un’operazione politica che – intervenendo direttamente nel campo delle idee – frantumi ogni ricostruzione di progettualità radicale e convinca anche i più dubbiosi a servirsi tutt’al più delle armi della critica nell’ambito della più civile convivenza.
Non essendoci montagnards, come in Vietnam, si usa – con intelligenza – la crema, ben disponibile, dei prigionieri politici. Chi meglio di loro? L’altra faccia della medaglia di una strategia controrivoluzionaria ben conosciuta.
Annientamento, accerchiamento, isolamento dei rivoluzionari in tutti i continenti e cooptazione di tutte le possibili forze, da quelle socialdemocratiche a quelle – perché no? – ex-combattenti, in un progetto che crei presupposti per impedire a qualsiasi livello ogni possibile rottura politica a favore delle forze rivoluzionarie e spezzi sul nascere ogni tentativo di unificazione di una strategia politico-militare per la liberazione proletaria.
Proprio adesso che si cominciavano a riconoscere positivamente le prime forme di unità del processo rivoluzionario in Europa occidentale e le tematiche internazionaliste e antimperialiste recuperavano anche da noi una posizione centrale nella strategia rivoluzionaria!
Combinando i frutti della nostrana controrivoluzione preventiva – dispiegata dalla metà degli anni ’70 in poi – con la ricca esperienza controrivoluzionaria internazionale, gli ultimi esperti di un personale politico imperialista italiano hanno finemente elaborato questo splendido gioiello che porta il nome di soluzione politica. Progetto che sarà senz’altro oggetto di un rinnovato plauso da parte delle democrazie occidentali e frutterà notevoli vantaggi interni a chi se ne è fatto promotore.
Esempio di futura solida stabilità, basata sul sapiente dosaggio delle controparti e sull’oculata prevenzioni delle prossime contraddizioni.
Se non è possibile un pieno consenso che almeno si incanali il dissenso in binari ben definiti oltre i quali non è lecito andare. E si tolga definitivamente di mezzo ogni intralcio che potrebbe frapporsi al nuovo ciclo espansivo e di guerra degli anni ’90.
Come è naturale, pare persino stupido ricordarlo, questo ambizioso progetto rischierebbe di risultare scarsamente efficiente se non trovasse la piena e opportunistica partecipazione di tutti quei prigionieri, capi e gregari, che abbiano qualcosa da mercanteggiare.
Resisi inermi, i grandi cervelli della «passata e improponibile» rivoluzione usano ora la loro intelligenza per cercare di rendere plausibili – senza le armi – i loro passati progetti di trasformazione della società.
Da «biechi assassini terroristi» a soggetti politici della trasformazione «democratica». E se no, perché mai uno Stato che non è indietreggiato – non ha trattato – di fronte al dispiegarsi della giusta violenza comunista avrebbe ora la presunzione di arrivare alla conciliazione?
A che cosa servono questi incanutiti ex-combattenti?
Non certo a riempire la mancanza di una certa retorica resistenziale nelle osterie, né a trasferire alle nuove generazioni eroiche epopee ricche di abnegazione e di alti ideali. Più semplicemente, questa controparte deve assolvere a una funzione che le è specifica.
E quale sarebbe questa funzione se non quella di convincere le nuove generazioni che non hanno il diritto di battere la strada della lotta armata per il comunismo, se non quella di usare la testimonianza del proprio reinserimento sociale come garanzia che di più non si può tentare!
Ma oggi, svolgere una funzione di ammortizzatore delle prossime conflittualità sociali è compito estremamente oneroso, è da veri intelligenti riformisti! È avere la presunzione di riuscire là dove ha fatto buca il PCI con la sua politica disinvolta nel non tutelare neanche i restanti e risicati interessi di classe.
Ben gravoso compito e ben magro spazio si è ricavato chi aveva in mente la presa del potere!
Vista l’autorevolezza dei nomi, si potrebbe pensare ad un’improvvisa epidemia di demenza. Specie per alcuni, è sintomo di ben scarsa serietà dire una cosa oggi e il contrario l’indomani, di punto in bianco!
Purtroppo invece questa faccenda – che si vorrebbe a lieto fine – altro non è che una vecchia tara che ogni movimento rivoluzionario può trovarsi tra i piedi ogni qual volta la realtà mostra sensibilmente di scostarsi da vecchi schemini ormai incapaci di comprenderla per intero.
È lo sclerotismo di chi «per valorizzare» un’esperienza, la svende. L’arroganza di chi nega che una grossa esperienza rivoluzionaria per andare avanti deve rinnovarsi continuamente. La rinuncia a superare quei limiti di un impianto teorico-politico che ci permettano di ridefinire un’ipotesi di guerriglia in un paese del centro imperialista come il nostro.
Ecco quindi improvvisi voltafaccia, ecco spuntare noiose e stanche vie pacifiche al socialismo costrette a logoranti logiche di opposizione senza nessuna possibilità di sbocco reale se non il completo asservimento alle politiche imperialiste. Degenerazione di un vecchio modo di fare politica, non più riproponibile per una guerriglia in un paese del centro europeo.
Ma poiché questa ci sembra la tendenza ed è un progetto, serio, che ha delle buone gambe su cui marciare – al di là che avvenga o meno la liberazione fisica dei prigionieri – è bene giudicarlo in tutte le sue conseguenze, immediate e future.
Del resto, se vogliamo guardare la soluzione politica sotto un altro aspetto possiamo senz’altro rifarci alla storia. Può succedere infatti che in particolari momenti – carichi di forti tensioni internazionali e di pericolosi segnali che possono preludere ad improvvise trasformazioni sulla scena politica o a incontrollabili evoluzioni guerrafondaie – la confusione ideologica si faccia più intensa ed esiste la seria possibilità che forze fino a ieri rivoluzionarie decidano di archiviare la lotta armata e imbocchino la strada dell’opposizione politica legale, alleandosi con forze i cui programmi immediati convergano.
L’intento è solitamente quello di dividere il fronte borghese in nome della salvaguardia della pace, della democrazia e della tutela degli interessi di classe. La conseguenza più diretta è ovviamente l’abbandono di ogni linea politica rivoluzionaria – tattico o definitivo che sia – e la cancellazione più totale di ogni seria prospettiva antimperialista, fatto salvo il mantenimento di parole d’ordine del tutto ideologiche ed ininfluenti.
Il tutto, in passato, si è inserito in un clima fortemente nazionalista, sciovinista, quando non addirittura razzista – bianco, diremmo oggi -.
Può anche succedere che – in periodi di grosse trasformazioni gravide di incognite per il futuro ma rigonfie di compromessi e mistificanti mediazioni – scaturiscano tesi assurde ed utopistiche secondo le quali i caratteri stessi dell’imperialismo sono talmente mutati che i rapporti e gli scambi internazionali sarebbero improntati ad uno sviluppo economico e sociale equamente distribuito, in barba ad ogni legge dell’accumulazione capitalistica. Tesi che, come si è già verificato storicamente, giudicando il compromesso tra socialismo e capitalismo un accordo molto serio e affidabile, hanno portato niente altro che a un pacifismo radicale e a una totale rinuncia dell’ideologia rivoluzionaria.
Come è ovvio, l’improvvisa amnesia della sostanza stessa dell’imperialismo, di ogni legge fondamentale del modo di produzione capitalistico non può che fare equivalere lo sviluppo dell’economia e del progresso scientifico ad uno sviluppo sociale e quindi ad una rinnovata democrazia.
Alla democrazia si richiamano, a quanto pare -seppur sotto una moderna veste «riformista»- anche i nostri ex-compagni. Democrazia che, beninteso, sarà tale solo dopo la loro liberazione. Punto questo essenziale, per cui si prendono addirittura la briga di chiudere un ciclo storico; chiusura, sia ben chiaro, che non può che corrispondere alla loro personale liquidazione della strategia della lotta armata.
L’astrazione dall’effettivo andamento del capitale multinazionale e dalle diverse contraddizioni che esso produce è evidente. E opportunistiche e mirate sono le loro letture della realtà, furbescamente mutilate delle grosse contraddizioni internazionali che vanno via via emergendo. Letture della realtà che prescindono completamente dalla sopravvivenza di interi popoli – ridotti ad «aree di mercato» – e dal loro diritto a vivere in una società autodeterminata.
Bisognerebbe magari chiedersi il perché di questa eurocentrica – o meglio italiota – dimenticanza e a chi, caso mai, potrebbe giovare. Quindi, per questi ex-rivoluzionari, il MPC si sarebbe rinnovato in modo così sostanziale da riuscire a coniugare efficacemente le richieste degli strati sociali più sfruttati e marginalizzati dalla riduzione della base produttiva con le contraddittorie ma ferree leggi dell’accumulazione capitalista, le esigenze della guerra imperialista, con quelle del proletariato internazionale. Superati a sinistra, in questa ottimistica visione, dalla stessa sinistra non socialdemocratica che hanno sempre snobbato; la quale, oltre ad essersi mobilitata per le navi nel Golfo Persico, si sta chiedendo quale democrazia possa mai vivere, quale equilibrio possa mai avere una società in cui un terzo dei suoi membri è escluso da ogni promozione sociale, marginalizzato e privato di un realistico futuro; quale governabilità possa garantire uno stato che è costretto a «sganciarsi» da una così grossa fetta di popolazione -con cui tuttavia deve «convivere» – facendone un soggetto da controllare, poiché gli si pone oggettivamente contro.
In realtà, non di chiusura di un ciclo storico si deve parlare ma di una grossa svolta avvenuta tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80; un passaggio che, nel tentativo di superare la crisi, apre una nuova fase di sviluppo capitalistico a cui si vorrebbe ora necessariamente coniugare un nuovo concetto di stato «efficiente». Una svolta alla luce della quale le laceranti contraddizioni emerse non appaiono come semplici intralci congiunturali, bensì come preoccupanti sintomi di una situazione fondamentalmente inedita e gravida di incontrollabili conseguenze. E quanto forte sia stato considerato l’urto delle lotte degli anni ’70, e quanto sia passato in eredità come fonte di preoccupazione costante da evitare in futuro, lo abbiamo ben potuto vedere negli ultimi anni di emergenza.
Fossimo davvero già in una società totalmente «trasformata», non ci sarebbero tutti questi problemi.
In realtà siamo ancora in un periodo di transizione, in cui operano vecchie forme all’interno di altre totalmente nuove, la cui evoluzione è peraltro tutt’altro che scontata. Bisognerebbe quindi ragionare su quali forme il capitale vada assumendo, quali mutamenti – anche istituzionali – debbano ancora intervenire e finalmente quali ostacoli gli si frappongono e quali siano in generale le contraddizioni che caratterizzano questa trasformazione. Discussione, questa, aperta a tutti i compagni, a cui vogliamo indicare solo i fenomeni più evidenti; pienamente convinte che l’attacco alla soluzione politica passa attraverso la ripresa di un confronto collettivo che sappia misurarsi con le attuali condizioni oggettive inscrivendole nella dimensione internazionale dello scontro di classe e nella riproposizione della strategia della lotta armata in continuità con i cardini fondamentali delle BR, ma su basi più mature e interne all’evolversi della guerriglia in Europa occidentale.
Tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 nel panorama socio-economico italiano – così come a livello internazionale – sono avvenuti profondi mutamenti, dovuti ai passaggi della crisi che ha investito tutto il mondo occidentale. Il tentativo di risolvere tale crisi ha imposto – sulla base della necessità dei capitali multinazionali più forti, USA in testa – la ridefinizione di tutti i fattori economici-politici e sociali indispensabili alla riproduzione del sistema capitalista stesso. Ridefinizione che è avvenuta attraverso un movimento di ristrutturazioni senza precedenti che doveva necessariamente coinvolgere e rendere interdipendente l’economia nel suo complesso, là dove all’esportazione di capitali si unisce direttamente l’esportazione e la necessaria riproduzione del MPC stesso. Imporre questa ristrutturazione significava per l’Italia rimanere nel novero dei paesi industrializzati. Una grossa posta in gioco a cui non si poteva certo rinunciare.
Questo comportava innanzitutto dispiegare una forte controrivoluzione preventiva con cui cercare di distruggere – con tutti i mezzi, anche con la tortura – le BR, allora all’offensiva, decapitando il movimento rivoluzionario. E contemporaneamente innescare una repressione generalizzata che è passata attraverso l’espulsione delle avanguardie più significative – cardine dell’organizzazione proletaria – nei poli industriali, con gli arresti di massa, fino alla militarizzazione dei territori metropolitani.
Con un clima di deterrenza generale si intendeva disorientare e isolare le avanguardie più combattive minando il tessuto sociale di tradizionale solidarietà proletaria e incrinando la stessa identità di classe, con l’intento di far passare – con o senza il consenso – il progetto della borghesia imperialista che prevedeva, insieme a migliaia di licenziamenti, la completa sconfitta politica della classe.
La rottura della solidarietà rivoluzionaria è passata anche attraverso il fenomeno degli infami e dei dissociati in un’ottica di divisione dei prigionieri comunisti e di delegittimazione della guerriglia, con il reinserimento nell’ambito borghese degli ex-rivoluzionari. Progetto che raggiunge ora il suo apice con la proposta di soluzione politica. Da allora la controrivoluzione preventiva non solo non ha mai cessato di funzionare, ma l’intero apparato politico-militare è diventato molto più raffinato: non colpisce più nel mucchio, ma tende ad individuare, isolare e annientare quelle forze rivoluzionarie che possono fungere da polo intorno a cui si riorganizza il movimento antagonista. Nello stesso tempo ha operato una ridefinizione di tutti gli apparati che servono ora anche come controllo politico e prevenzione sul movimento. Da una parte repressione e annientamento e dall’altra infiltrazione ideologica finalizzata alla reintegrazione nell’ambito borghese dei contenuti e delle esperienze più avanzate del movimento rivoluzionario.
L’inizio del processo di ristrutturazione in Italia ha anche indirizzato la politica revisionista e sindacale sfociata poi nel patto sociale. Tale politica ha di fatto investito una parte della classe in un rapporto di delega al PCI e ai sindacati che si facevano direttamente garanti di un’«equa» contrattazione. Questa contrattazione – propagandata alla classe come necessario «riformismo» con cui limitare gli eccessi più direttamente antiproletari della ristrutturazione – poneva le basi per una sconfitta ideologica, oltre che politica, delle pratiche di lotta proletaria e di fatto sanciva la definitiva accettazione delle norme capestro su cui si reggeva la ristrutturazione: espulsione di forza lavoro, mobilità, flessibilità, premialità agganciata alla produzione, ecc. Venivano colpite, quindi, le conquiste di classe ottenute con le lotte del decennio precedente e si tentava di inglobare lo scontro con il proletariato all’interno di mediazioni politiche/istituzionali; in tal modo le lotte portate avanti dall’autonomia di classe perdevano a poco a poco non solo la storica combattività organizzata, ma scivolando di fatto su un terreno «sovversivo», venivano ricacciate sulla difensiva.
Segmentando e parcellizzando il ciclo produttivo -attraverso l’introduzione di alte e sofisticate tecnologie – si è segmentata e frammentata anche quella composizione del proletariato tipica della grande fabbrica tayloristica. Questo mutamento della composizione di classe ha portato l’avanguardia rivoluzionaria alla ricerca di un riadeguamento dell’impostazione politico-militare, essendo cambiato il referente di classe e più esteso lo scontro.
Nel frattempo la politica revisionista e il patto sociale si qualificavano come solido banco di prova per arrivare ad un possibile coinvolgimento della classe nella partecipazione alla ripresa economica e nello stesso tempo – là dove questo non risultava possibile – funzionavano come ammortizzatore sociale per dilazionare nel tempo il temuto inasprirsi dello scontro. Una gestione politica dello scontro di classe che si dimostrerà tanto più essenziale con la crisi del welfare state e con l’estendersi della ristrutturazione al terziario. La stessa DC, il PSI e lo Stato nel suo insieme sono infatti chiamati oggi ad intervenire sotto una moderna veste «efficientista» in relazione alle richieste e al malcontento di quei settori – non immediatamente legati al ciclo produttivo – che erano fino a ieri al riparo dai costi della ristrutturazione, cercando di mantenere il carattere corporativo di tali lotte come elemento di costante divisione della classe.
Alcuni effetti della ristrutturazione sono stati contenuti grazie al risorgere dell’imprenditoria del lavoro sommerso e precario che, scavalcando a piè pari lo statuto dei lavoratori, riassorbiva una parte di f-l espulsa dal ciclo produttivo; in questo modo non si è stabilito un notevole scompenso nella redistribuzione della ricchezza, ma si è però affermato un vuoto di tutela e di garanzia nell’occupazione.
L’effetto più devastante della ristrutturazione è però la massiccia disoccupazione che si è ormai affermata come carattere strutturale, decisamente non riassorbibile. Questione questa a cui, al di là delle belle parole, nessuno sa porre rimedio.
In quegli stessi anni, la politica estera italiana – nel suo classico indirizzo di mediazione improntato alla «cooperazione e allo sviluppo» – assumeva un protagonismo davvero insolito e riusciva ad agganciare, soprattutto con l’esportazione di media tecnologia, quei paesi alla ricerca di una via di sviluppo nazionale. Questo contribuiva a riportare i profitti a livelli competitivi e di conseguenza permetteva di ridefinire gli equilibri interni, tamponando le contraddizioni più laceranti che andavano via via emergendo. Praticamente, l’utilizzo del neo-colonialismo sui paesi della periferia per assorbire i conflitti interni in funzione di un maggior consenso e stabilità sociale.
Le esigenze del capitale multinazionale vengono fatte pagare sia ai paesi dipendenti sia al proletariato del centro. Questa è anche la funzione dello Stato imperialista italiano come «mediatore sociale». Infatti all’intensificazione del potenziale produttivo e all’innegabile progresso scientifico che se ne può prospettare non corrisponde – nelle finalità capitaliste – un conseguente sviluppo sociale e una migliore qualità della vita. Al contrario, uno dei motivi che determinerà gli eventi futuri sarà il tentativo a lungo termine da parte dei paesi a capitalismo avanzato, di mantenere la loro preminenza – proprio sulla base del possesso dell’alta tecnologia – nella produzione e nei mercati mondiali e questo non potrà che avvenire a spese dei paesi dominati e del proletariato.
Con la ridefinizione dei rapporti di forza nettamente a favore della borghesia imperialista, il ruolo di media potenza imperialista dell’Italia esige ora da una parte, la completa sconfitta di ogni ipotesi rivoluzionaria, dall’altra, una gestione politica del governo delle contraddizioni sociali improntata al contenimento delle spinte più antagoniste e al loro riassorbimento all’interno di un quadro di mediazioni politiche teso ad ottenere il massimo di pace sociale conseguibile e il massimo di divisione del fronte proletario. Mediazioni politiche che sono sostanzialmente operazioni di controllo politico e di cooptazione all’interno del sistema borghese. Di fatto, si fa in modo di rendere latente e frammentaria ogni opposizione antagonista mascherando con una nuova e moderna veste «riformista» quello che è ormai uno stabile e rafforzato neo-autoritarismo in senso nettamente antiproletario.
Fa certamente parte di tale gestione politica anche il progetto di soluzione politica. Progetto che può dare allo Stato imperialista italiano le possibilità di apparire ufficialmente «democratico» – in quanto dimostra di essere riuscito ad «armonizzare» anche le più laceranti contraddizioni di classe – e talmente «forte» da potersi permettere di liberare coloro che gli avevano dichiarato guerra.
La liberazione degli anni ’70 passa quindi attraverso la dichiarazione di sconfitta delle BR, la totale distruzione di ogni identità rivoluzionaria, l’annientamento di ogni possibile ipotesi di radicale trasformazione della società! Sia ben chiaro che la posta in gioco non è solo il passato, ma il presente e il futuro: mettendo un’ipoteca su una futura ipotesi rivoluzionaria che non potrà che essere collegata alla guerriglia in Europa occidentale.
A questo si prestano gli ex-rivoluzionari che propagandano qualsiasi tipo di soluzione politica: a creare le basi perché chiunque, d’ora in poi, prenda un’arma in mano in nome di una possibilità di liberazione proletaria venga crivellato di piombo con il loro legittimo consenso! Un innalzamento dello scontro di classe che coinvolgerà non solo le avanguardie combattenti ma tutto il movimento rivoluzionario, tutto il proletariato! Cosa del resto già riscontrabile ora: mentre si propaganda la soluzione politica avvengono decine di arresti nel movimento rivoluzionario!
L’attuale gestione dei rapporti di forza va infatti letta nel quadro più generale dell’evolversi della crisi – in cui già si preannuncia un’ondata recessiva – e delle tensioni internazionali che ne possono conseguire. Fattori, questi, che fanno presagire che in futuro sarà sempre meno possibile qualsiasi negoziazione, con il rischio di un inasprimento delle attuali conflittualità di classe e di una polarizzazione sempre maggiore tra stato e società.
La crisi iniziata nel ’73 era infatti crisi del modo di accumulazione, cioè crisi del fordismo. Fordismo inteso anche come modello di regolazione politico-economico-sociale, a cui corrispondeva lo stato sociale. Modello a cui faceva riscontro una visione di apparente emancipazione evolutiva del proletariato: otto ore di lavoro, aumento di un relativo benessere, servizi sanitari, scuola ed educazione ecc. Ma oggi, con l’imposizione della ristrutturazione, tale modello è andato in crisi lasciando il posto ad una concezione improntata alla flessibilità e all’individualizzazione. Caratteri, questi, che non riescono a fornire una visione promettente e convincente dell’attuale sistema di vita e che stridono fortemente con la passata identità collettiva improntata alla tradizionale solidarietà di classe. La particolarità italiana consiste tra l’altro nel fatto che il patto sociale è avvenuto quando il fordismo era già in piena crisi. Quindi la cooptazione del sindacato e del PCI si è verificata in un momento in cui lo Stato mirava già ad un forte ridimensionamento del peso politico di queste organizzazioni operaie. Questo è accaduto in tempi ravvicinati così che si sono sovrapposte due differenti concezioni, due modi di vita diversi, frutto dell’accavallarsi di contraddizioni vecchie e contraddizioni nuove, sovrapposizione che può avere tutti gli elementi per spingere alla ricerca di una nuova identità sociale. Una ricerca che potrebbe alimentare il rifiuto dell’oppressione e del nuovo tipo di sfruttamento e alienazione che questo sistema impone. E potrebbe anche raggiungere la piena coscienza dell’imposizione ideologica e culturale che si ripercuote sull’intera società e che ha svuotato di ogni significato il concetto di autodeterminazione del destino collettivo e quello di riappropriazione della ricchezza e del sapere.
Da una parte infatti la ridefinizione in senso imperialista della società è il carattere portante delle «democrazie occidentali» che si reggono sulla proprietà privata, sul carrierismo, il managerialismo e sull’individualismo rampante degli yuppies; dall’altra, avendo questo sistema ormai raggiunto l’apice della decadenza e della putrefazione, da questo periodo di transizione potrebbe scaturire la possibilità di una critica radicale alla società capitalistica che si regge sulla violenza di questo modo di produzione e funzionalizza alle leggi e alle esigenze capitaliste ogni struttura sociale. Critica radicale che porta con sé, come necessaria conseguenza, lo sviluppo di una coscienza organizzata per una totale liberazione dei vincoli imposti.
Le condizioni oggettive dunque esistono, sono le condizioni soggettive che stentano a maturare!
Ed è proprio approfittando di questo che lo Stato ha deciso di recidere profondamente – per mano dei suoi ex militanti – la memoria storica delle BR per sancirne definitivamente l’illegittimità e passare all’effettivo consolidamento dei rapporti di forza ottenuti. Si sta preparando infatti anche il riadeguamento istituzionale del nuovo ruolo assunto dallo Stato imperialista italiano all’interno del contesto internazionale. Tra breve giungerà il tempo di dare corpo al progetto della grande riforma: una vera e propria «democrazia» occidentale con un’agile e snella procedura decisionista che faccia velocemente passare le politiche antiproletarie e guerrafondaie che sono d’obbligo per uno Stato che intende pienamente assumersi le strategie di guerra nella direzione dell’imposizione di un nuovo ordine economico mondiale.
E quale migliore presentazione per la «rifondazione» di tale Stato che mandare la sua marina militare nel Golfo Persico?
Un passo avanti in concreto con il vecchio continente che si prepara necessariamente per il 2000, fermamente deciso a salvaguardare la sua ripresa economica, assumendosi un ruolo di punta all’interno del sistema imperialista occidentale.
L’incertezza e l’indecisione di un anno fa, quando gli USA bombardarono Tripoli e Bengasi, hanno lasciato il passo alla necessità, anche per l’Italia, di prendere parte insieme a tutto il «mondo libero» occidentale alla gestione diretta del controllo politico-militare di un’area in cui si giocano interessi vitali per l’imperialismo.
Scavalcato l’ONU – organismo ormai inadeguato alle attuali mire aggressive imperialiste – non poteva che essere ridimensionata anche quella diplomatica politica estera italiana, troppo spesso accusata di essere filo-araba, mediterranea, «terzomondista».
Una politica finora essenziale per l’Italia, ben vista anche dagli USA, in quanto era stata usata per arrivare là dove la Casa Bianca non poteva spingersi senza compromettere con la sua ingerenza il delicato equilibrio tra il sostegno agli immediati interessi di Israele e la formazione di blocchi regionali filo-imperialisti che avevano il compito di scardinare la Lega Araba.
Una politica di mediazione che, per quanto ben disposta alla trattativa, non aveva mai vantato grandi successi nelle ipotesi negoziali di pace: sono più di 40 anni che il popolo palestinese chiede una patria ed ha avuto in cambio solo infami massacri!
E dove erano i nostri abili diplomatici quando – nell’82 – l’imperialismo sionista faceva 25000 morti in Libano? Oggi si dimostra quanto la «nostra volontà di pace» debba passare attraverso la pressione e il ricatto delle armi per arrivare a definire «nuove ipotesi negoziali» che collimino con gli interessi dell’Occidente imperialista!
E su quest’ultimo punto – è ormai fuori dubbio – tutti convergono, lasciando intravedere nel gran polverone sollevato fra falchi e colombe governative, soltanto interessi funzionali alla logica di partito.
E da Taranto e da Augusta la flotta è partita, il maggiore dispiegamento operativo di forze della Marina dalla II Guerra Mondiale.
Nel mentre si sancisce il principio di un coinvolgimento attivo dell’Italia in una situazione bellica, si prende sempre più il largo dai tradizionali confini della NATO, contribuendo a ridisegnare nel Mediterraneo una grande via di comunicazione fra la base di Norfolk, nell’Atlantico e quella di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano. E intanto si modifica l’attuale assetto del Mediterraneo facendo emergere la qualità di pilastro europeo della NATO nell’assumersi in pieno una politica strategica militare che è necessaria al sistema imperialista. Strategia che fu nettamente accelerata e potenziata – dagli USA – dopo la caduta dell’amico Scià e la vittoria della rivoluzione iraniana e che ha dovuto subire un altro veloce e brusco riadeguamento quando, con l’assalto alla caserma dei marines di Beirut, gli americani presero doppiamente coscienza di quanto forte e dilagante fosse la determinazione a combatterli.
Da allora in poi il «terrorismo» venne considerato vera e propria minaccia militare rivolta innanzitutto contro gli USA – depositari dei «valori» delle «democrazie» occidentali – e, come tale, da combattere innanzitutto con la forza della distruzione militare. Da qui, i primi attacchi ai cosiddetti «santuari del terrorismo» e l’indiretto e minaccioso avvertimento a chi non li perseguita in quanto tali. In pratica: dar fiato alla ripresa economica occidentale imponendo ovunque il modello di sviluppo capitalistico con una politica di pressioni e ricatti a quei paesi che non si sottomettono e nel contempo cercare di ridimensionare l’URSS in una regione chiave per gli interessi imperialistici.
O meglio, per dirla con le parole di Reagan: «recuperare l’Iran – ad ogni costo – al campo occidentale» con il dispiegamento militare di ben 90 unità navali! E con il rischio – concreto – di innescare un’escalation le cui dinamiche incontrollabili potrebbero essere risolte in termini di rapporti di forza a livello mondiale. Ma sono dinamiche, queste, che sembrano non interessare i nostri politici: celebrato in fretta e furia l’ultimo anniversario della morte di Filippo Montesi – mandato a morire in Libano – hanno subito arruolato nuovi giovani eroi con cui tenere alte le bandiere del nostro mondo occidentale.
Mille dollari al mese possono forse rimediare al 70% del malcontento fra i marinai, ma come spiegare – a livello pubblico – questo irrazionale scontro fra le grandi potenze tecnologiche marittime occidentali e i barchini urlanti di «fanatici infedeli»?
Interrogativo questo, a cui nessuno – volendo cercare nella direzione giusta – sembra trovare una ragionevole risposta: non certo la DC, che schiacciata fra due poli, sembra obbedire a una volontà superiore. Non certo il PSI che, dall’alto del suo neo-nazionalismo-laico, allude chiaramente ad una politica militare europea, del resto… è in perfetta linea con Sigonella: le navi italiane nel Golfo… sono lì per controllare le due super-potenze!
E in quanto al PCI, sembra un po’ confuso dall’incorreggibile enfasi ecclesiastica che gli ha rubato le piazze riempiendo le sagrestie. Cavour e la Crimea, nazionalismo garibaldino e insane nostalgie tripoline; anche l’interventista stampa borghese – goffamente intrappolata fra una mina Valsella e un elmetto Zanone – non sa più cosa tirar fuori ad agguerrita difesa di un sistema bianco, ricco, capitalista e violento!
Tutta la «nuova Italia» irrefrenabilmente invasata da una folle sindrome occidentale sputa un razzismo così astioso e uno sciovinismo così viscerale che sembra davvero aver paura di quella forza – la Rivoluzione iraniana – per niente affievolita in 7 anni di guerra e il cui rischio più immediato non sta nell’alta tecnologia militare bensì nel dilagante contagio che può sprigionare. Spinta propulsiva che potrebbe trascinare popoli interi, rischiosa – per gli occidentali – perché dall’interno di una lontana ideologia – non etichettabile né comprensibile secondo i canoni della nostra «civiltà» – fa esplodere quei caratteri rivoluzionari che immediatamente si trasformano in una rivolta contro l’Occidente e il suo sistema di aggressione e di dominio.
Rivolta verso la quale il segno di un benché minimo cedimento da parte occidentale può diventare una vittoria che può dar fuoco a tutta la regione, nella speranza di una possibile e totale liberazione dall’ipoteca imposta da un sistema incivile, basato sullo sfruttamento, sulla violenza e sull’espropriazione di ogni carattere di cultura e civiltà tradizionali.
Una lotta, che se dovesse risultare vincente, ribalterebbe i cardini di una ripresa dell’economia occidentale, facendo paurosamente barcollare quei rapporti di forza che l’imperialismo si è faticosamente consolidato in quest’ultimo decennio. Una vittoria che si rifletterebbe immediatamente sul proletariato – e sulle forze rivoluzionarie – dei paesi del centro europeo accelerando l’esplosione delle contraddizioni di classe e rivitalizzando la speranza di una possibile liberazione proletaria. Una vittoria che l’imperialismo occidentale non intende certo permettere e i cui tentativi indomiti devono essere prontamente ridimensionati tramite questo dispiegamento delle forze navali militari nel Golfo Persico e attraverso l’attivo e ormai dichiaratamente aggressivo ruolo delle potenze europee a fianco degli USA.
E i soluzionisti, nel loro individualismo opportunista, ci vorrebbero far credere che lo Stato italiano si è trasformato e, in un naturale adattamento evolutivo «riformista», ha risolto ogni contraddizione in maniera signorilmente illuminata! Sì, lo Stato italiano si è trasformato – in quest’ultimo decennio – ma in senso attivamente imperialista! Ma senz’altro non se ne possono opportunisticamente accorgere coloro che – in cambio della loro liberazione dalla patrie galere – si offrono alla Stato come nuova classe politica che sostituisca l’ormai screditata sinistra socialdemocratica.
È vero che la lotta armata ha visto la sua nascita e il suo sviluppo in condizioni molto diverse, ma oggi che – a differenza di due decenni fa – siamo saliti di grado nella gerarchia imperialista, il nostro compito è proprio quello di ricollocare la strategia della lotta armata all’interno delle condizioni oggettive e soggettive che in questo momento stanno maturando. Questo significa anche saper dare il giusto peso a quelle tensioni che, vivendo ancora nella loro potenzialità, travalicano i classici confini tra capitale e lavoro – così come venivano intesi negli anni ’70 – e si manifestano con larghi gruppi interclassisti, a grossa componente proletaria, le cui richieste mettono definitivamente in discussione le scelte che la borghesia imperialista deve mettere in atto per sostenere il suo assetto.
Tensioni che esprimono contenuti che si oppongono alla guerra imperialista, al riarmo, al nucleare, alla politica di riadeguamento sociale, per una nuova e diversa qualità della vita. Contro l’urbanizzazione selvaggia per la ricerca di nuovi spazi sociali, contro un confuso senso di alienazione capitalista per un’identificazione collettiva che sconfigga l’«individualismo di massa», contro le potenze militari nel Golfo Persico a fianco degli USA, per un più significativo e reale internazionalismo proletario. Sul proletariato e sulle avanguardie europee pesa l’impegno rispetto a quale esistenza si vogliono far portatori nei confronti dei restanti tre quarti del mondo: scelta che non può avvenire se non nella ricerca di una nuova identità rivoluzionaria organizzata.
Al di là di questo esiste solo la realtà già vissuta per oltre due secoli: essere il braccio aggressore verso altri proletari e carne da cannone nella difesa della «pace» della borghesia imperialista! Il movimento «per la pace» ha già verificato la sua impotenza ad incidere concretamente nelle scelte riarmiste: non solo la vendita di armi è uno dei più grossi affari su cui si regge la borghesia imperialista ma i progetti Eureka e SDI sono in piena fase operativa.
L’irrompere della guerriglia europea in questo quadro ha impresso una nuova svolta ad una situazione che sembrava destinata ad esaurirsi e ad un movimento che sembrava potesse essere condizionato alle esigenze dei partiti socialdemocratici: orientando correttamente l’asse strategico dell’intervento rivoluzionario non verso la «lotta per la pace» ma contro la guerra imperialista, contro l’aggressività del blocco occidentale e i suoi effettivi preparativi bellici! È da questi contenuti e dalla loro possibilità di aggregazione intorno ad una lotta che sia critica radicale alla società capitalista, che ci sembra possibile uno sviluppo ed una crescita di un’identità rivoluzionaria che sia in grado di forgiare il suo futuro.
Sono queste, ci sembra, le più grosse diversità con gli anni ’70, diversità che non possono essere appiattite solo perché non vivono ancora caratteri dirompenti, né liquidate in nome di una presunta e presuntuosa mancanza di ricezione della nostra «memoria storica» che dovremmo far acquisire noi, una volta fuori di galera…
La nostra memoria storica non è fossilizzabile nelle condizioni oggettive e soggettive degli anni ’70, ma passa attraverso la presa di coscienza di una rottura radicale con lo Stato: la guerriglia. Il nostro patrimonio storico, per essere acquisito, deve maturare all’interno di lotte diverse che diventano un’unica lotta grazie al loro fine comune. Lotte che possono e devono essere organizzate politicamente e ricollegate a quelle che si esprimono negli altri paesi del centro europeo.
La riproponibilità delle linee fondamentali della nostra esperienza passa attraverso la ricostruzione di un processo rivoluzionario che nel quadro di un reale internazionalismo proletario diventi pratica unificante e concreta e combatta in un fronte antimperialista contro il nemico comune del proletariato del centro e della periferia: l’imperialismo occidentale!
Diversamente, pensare di rinchiudere e di isolare la lotta di classe all’interno dei confini nazionali, significa non capire – tanto più in un clima di tendenza alla guerra – che un’identità nazionale nella metropoli è possibile solo in quanto sciovinista, bianca, razzista. È possibile solo in quanto identificazione con l’imperialismo! La caratteristica della guerriglia nella metropoli è stata proprio quella di connotarsi fin da subito come scontro diretto tra forze rivoluzionarie e Stato.
E non è possibile – oggi – affrontare la questione dello Stato senza affrontare – nella pratica! – i livelli di integrazione politica, economica e militare sovranazionali e le istituzioni in cui si sedimentano. Quegli organismi cioè in cui vengono decise e coordinate le politiche economiche antiproletarie, le strategie controrivoluzionarie e gli apparati politico-militari di guerra che hanno la loro massima sintesi nella NATO!
Tanto meno oggi, con l’arrogante ed aggressiva esibizione intimidatoria delle potenze navali europee a fianco degli USA nel Golfo Persico.
Ed è questa la dimostrazione tangibile di come qualsiasi conflitto di interessi – in materia monetaria, economica o in politica estera – venga direttamente superato, al livello militare più alto, quando sono in gioco interessi ben più grossi, vitali per la sopravvivenza e la riproduzione stessa del sistema imperialista. Condizione, questa, che pone sotto ben diversa luce la possibilità di staccare un anello dalla catena imperialista, per quanto «debole» esso sia e per quanto il massimo di condizioni oggettive si coniughi con il massimo di capacità soggettive dei combattenti comunisti che dirigono un forte scontro di classe.
Data la forte integrazione e interdipendenza politica, economica e militare, pare infatti inverosimile che possa essere tollerata qualsiasi tendenza centrifuga dal sistema di interessi e di divisione internazionale del lavoro dettato dall’imperialismo senza che essa venga contrastata o recuperata con ogni possibile pressione politica o con la forza militare. È chiaro quindi che – secondo noi – affrontare correttamente e concretamente i nodi di fondo di una strategia politico-militare che possa risultare vincente nel nostro paese, significa affrontare correttamente e concretamente la crescita e lo sviluppo di un fronte antimperialista. Fronte antimperialista inteso non come momento tattico o mera affermazione di solidarietà del tutto ideologica, ma come condizione strategica, unica prospettiva di vittoria contro il nemico comune: l’imperialismo occidentale.
Solo così le forze rivoluzionarie e il proletariato nelle metropoli – pur nella specificità di ciascun paese e nel rispetto delle caratteristiche peculiari di ciascun processo rivoluzionario – possono portare avanti la loro lotta.
Solo così si può arrivare ad un definitivo ribaltamento dei rapporti di forza a favore del proletariato per una radicale trasformazione della società.
L’Europa infatti in quanto centro imperialista, non solo concentra le contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico che oppongono il proletariato alla borghesia, lo Stato alla società, ma è un punto nodale in cui si intersecano le linee di demarcazione Nord/Sud – Est/Ovest.
È da qui che deve venire la forza politica, economica e militare per risolvere i conflitti interni ed esercitare pressioni, ricatti e aggressioni contro quei paesi che non si sottomettono al modello di sviluppo capitalistico. Dipende quindi in modo decisivo dalle forze rivoluzionarie dell’ Europa Occidentale, da un’effettiva guerra di lunga durata nel nostro paese, se l’imperialismo non potrà trovare un entroterra pacificato da cui far partire i suoi progetti di guerra e di rapina, i suoi attacchi alle condizioni di esistenza, di lavoro, di vita, contro tutto il proletariato.
Con questo si deve misurare la ripresa della guerriglia nel nostro paese!
Con questo si deve misurare ogni comunista, ogni sincero rivoluzionario che intenda contribuire ad una radicale trasformazione della società.

Laura Braghetti, Fernanda Ferrari, Caterina Francioli, Inge Kitzler, Patrizia Sotgiu

Carcere di Voghera, settembre 1987