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Contro la repressione, nuova determinazione. Documento dal carcere di Siano di Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi

La crisi è diventata il terreno su cui la borghesia sviluppa la sua vera e propria guerra di classe: l’estorsione di crescente sfruttamento ne è l’asse portante, repressione e militarizzazione ne sono le armi.

Degli effetti sul piano economico-sociale abbiamo già trattato in nostri precedenti contributi, cui rimandiamo.

Qui affrontiamo la questione repressiva e carceraria, stimolati dal dibattito e da alcune iniziative in questo senso.

L’ulteriore restringimento dei margini di mediazione porta alla definizione di nuove politiche di contenimento dei conflitti e conseguenti strategie repressive. La riscrittura del “diritto del lavoro” sotto dettatura padronale registra (e approfondisce ulteriormente) i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Attacco che è ormai frontale alla classe operaia, proprio per la sua centralità nel sistema capitalistico di produzione. Neutralizzare, paralizzare la classe operaia, diventa essenziale per intensificare sempre più l’estrazione di profitti. Essa è sempre un pericolo potenziale, latente, nonostante la vigile custodia delle centrali sindacali; perciò, in questi anni, si è giunti a privare i lavoratori delle pur minime condizioni legali per l’autorappresentazione ed organizzazione.

Il passaggio dalla concertazione ad accordi che ingabbiano e inibiscono il conflitto sui luoghi di lavoro, rappresenta una svolta pesante. Così come già succede in alcuni campi di lotta sociale, le tensioni dovrebbero essere incanalate in ambiti istituzionali, e pacificate. Mentre conflitti e pratiche di carattere antagonista, o peggio sovversivo, vengono criminalizzate. Una strategia di repressione, sempre più preventiva, colpisce sia le espressioni avanzate di autonomia, dentro le lotte, sia le organizzazioni che si dispongono in modo conseguente sul terreno dello scontro. Attraversiamo una fase difficile. Le difficoltà del “fronte di classe” sono evidenti nella frammentazione delle forze organizzate e nell’inadeguatezza globale dei livelli politici e organizzativi. Così, le resistenze, talvolta coraggiose e determinate, si ritrovano in difficoltà di fronte ad attacchi repressivi pesanti, ma anche articolati e selettivi, che mirano alla intimidazione, disgregazione e abbandono della lotta.

Nuove leggi vengono varate in tempo reale all’azione repressiva in corso, come l’attuale istituzione del reato di “violazione di sito d’interesse strategico nazionale”.

È chiaro che, in tale situazione chi non arretra viene a confrontarsi con un livello di scontro difficile da sostenere senza un’adeguata strategia. La stessa continuità di una lotta è legata, è condizionata dalla sua capacità di reagire alla repressione. Così come “nessuno deve restare indietro”, e “tutti insieme si parte, tutti insieme si ritorna!”, allo stesso modo è fondamentale il sostegno a chi viene colpito, perché anche in ciò si misurano la capacità di tenuta e le ragioni della lotta. Chi non sa difendersi non potrà nemmeno attaccare!

Ma come si articola, oggi, la lotta contro la repressione? C’è il primo aspetto, appena citato, politico e umano al tempo stesso, per cui non vanno mai lasciati soli i compagni colpiti. C’è pure un aspetto economico, che può pesare sulla sopravvivenza della lotta e dei militanti stessi: le multe, le spese legali e processuali, il sostegno ai prigionieri, le casse di resistenza contro i licenziamenti per rappresaglia. Infine l’aspetto politico fondamentale: continuare a sviluppare la lotta con rinnovata determinazione. Cioè, solo rispondendo con nuovi salti di qualità, approfondendo lo scontro, quindi non solo sul piano della lotta specifica ma maturando, via via, condizioni e termini per disporsi sul piano di lotta strategica, solo in questo modo si può evitare di avvitarsi nella difesa antirepressiva.

Come conseguenza dell’accentuarsi della repressione, si è andato sviluppando il dibattito e l’iniziativa anche sul fronte carcerario. In particolare, la legislazione che reprime l’immigrazione clandestina e la detenzione di piccole quantità di droga, e con l’aggravarsi della crisi e delle sue devastazioni sociali, si sono riempite le carceri eppure le strutture di detenzione temporanea. Le proteste e rivolte nei CIE hanno creato una rete di sostegno solidale. Gli arresti contro i movimenti e il NO TAV soprattutto, hanno dato impulso alla lotta anticarceraria. Carcere che resta lo strumento di massima neutralizzazione e deterrenza nei confronti dei soggetti sociali in rottura con il sistema.

Lo sviluppo di questo dibattito e dell’iniziativa è spesso contraddittorio. Per esempio ci sono aspetti nel modo di presentare la lotta al 41bis che finiscono per distorcerne la reale dimensione, e con conseguenze sul tipo di mobilitazione da costruire.

Ci riferiamo in particolare al dibattito attorno alla manifestazione del 25 maggio a Parma, il volantone (8 pagine) di “Uniti contro la repressione e altri”.

Il 41bis viene presentato, nella successione delle varie legislazioni e svolte repressive degli ultimi decenni, in evidente continuità con il grande “disegno controrivoluzionario”. Per esempio in continuità con l’articolo 90.

Mentre, fatto salvo il ricordare sbrigativamente che esso fu avviato e applicato in grande scala contro le organizzazioni di stampo mafioso, si rimuove proprio questa che fino ad oggi, è la sua vera essenza. Cioè, bisogna pur dire e affrontare la stridente contraddizione per cui su quasi 700 detenuti sottoposti al 41bis solo 3 sono militanti rivoluzionari mentre la gran parte degli altri sono addirittura lo strato superiore dirigente di una realtà illegale che fa parte dell’ordine capitalistico e con forti propensioni reazionarie. E solo una parte minoritaria fra loro è “manovalanza” suscettibile eventualmente a un richiamo di classe.

Come la mettiamo? Come concepire un intervento sapendo che la maggioranza degli interessati sono refrattari alla logica di conflitto collettivo (e, all’esterno ne sono pure nemici)? Come gestire questa contraddizione rispetto alla base sociale che sollecitiamo contro carcere e repressione? Non ci sembra proprio un buon servizio quello di occultare questa realtà, dietro un’altra oggi molto marginale e cioè la funzione controrivoluzionaria.

Anche su questo vanno rilevate differenze ben precise.

La quarantina, circa, di militanti rivoluzionari oggi incarcerati sono quasi tutti in regime AS-2, decisamente meno pesante; mentre una parte minoritaria, e soprattutto i nuovi arrestati nei movimenti di lotta sociale e di piazza, finiscono nel circuito normale. In realtà peggiore, causa il sovraffollamento. Ma dovendo scontare carcerazioni mediamente brevi, salvo le aberranti eccezioni delle condanne per il G8 di Genova e dei grandi scontri di Roma 2010/11.

Quindi la risposta repressiva è ben differenziata e calibrata sul livello di organizzazione rivoluzionaria effettiva e di pericolosità degli attacchi e pratiche realizzate (o meno). Anche questo è spesso sottaciuto o distorto.

E l’odierna composizione della prigionia politica rivela, purtroppo, la pochezza del movimento rivoluzionario di classe; la gran parte dei prigionieri/e essendo ancora parte dell’ondata anni ’80. Ciò che dovrebbe dar da riflettere evitando per altro quelle posture movimentiste fatte di indistinti amalgama di fronte alla repressione e di dubbie “prospettive rivoluzionarie” (accomunando percorsi conseguenti a opportunismi persistenti).

Colpisce così il legame-continuità artificioso stabilito tra l’art. 90 e il 41bis e il modo di spiegare il primo.

Cioè si fa una amalgama fra il ciclo di lotte carcerarie degli anni ’70, le sue espressioni organizzate (fino ai NAP), e il ciclo di lotte rivoluzionarie. Certo vi fu forte contiguità e dialettica fra quelle realtà, ma esse restavano anche diverse e distinte. Tant’è che l’applicazione dell’art. 90 fu esplicitamente indirizzata contro le OCC (BR e PL in particolare) nel vivo della fase di più acuto scontro; fu un atto di guerra da parte dello Stato, e altrettanto lo furono le risposte delle organizzazioni.

La rivolta di Trani, nell’80, e già prima dell’art. 90, quella dell’Asinara nel ’78 furono vere e proprie azioni dei militanti prigionieri in rapporto alle offensive politico-militari esterne (con obiettivi di programma in rapporto allo scontro generale, oltre che carcerari). Infatti, allora, vi era un rifiuto secco di un certo stile antirepressivo vittimista e paralegalista. Si rifiutava persino la denuncia delle torture subite per non dover ricorrere alla magistratura.

Infine con il dilagare della dissociazione dall’82 e la pesante sconfitta conseguitane lo Stato sospese l’art. 90 nell’84. Ormai aveva raggiunto l’essenziale del risultato.

Fu un caso da manuale controrivoluzionario: una data strategia e mezzi repressivi (fra cui la tortura) vennero impiegati e successivamente sospesi, in base ai risultati politico militari. Questa fu la dinamica, non un generico “movimento”, dei compagni “compagne” tutto compreso.

Così questo errore di amalgama, confuso si ripresenta anche evocando altre situazioni internazionali, passate e presenti; e sempre calcando la misura nel descrivere livelli repressivi. Si equiparano così come RAF/Germania e movimenti di liberazione armati in USA, con Turchia e Kurdistan. Quando è proprio evidente un’enorme differenza, qualitativa e quantitativa. E, anche in questo rapporto, differenza dovuta alla presenza-continuità di Organiz./Partiti rivoluzionari, oppure alla loro assenza (dopo una breve stagione storica come in USA e Germania appunto). In Turchia e Kurdistan i prigionieri politici sono diverse migliaia, e da decenni, ma questo perché esiste una lotta rivoluzionaria armata, sia di classe che di liberazione nazionale; e se la repressione è terribile, a livello di questo scontro, non è che li stanno a torturare tutto il tempo in carcere (così si capisce nel descrittivo delle carceri speciali di “tipo F”).

Nello stesso descrittivo dell’art. 90 si esagera, innanzitutto l’aspetto d’isolamento (“il totale isolamento comunicativo fra prigionieri” non è mai esistito); così come gli si associano pure “i braccetti della morte” (che furono invece una situazione ridottissima, per 50/60 detenuti, molto particolari, fra cui solo un paio di rivoluzionari); né esistettero mai tribunali speciali. Già all’epoca si rivelò come negativa la tendenza a esagerare… l’effetto era autoterrorizzante!

Così come è ben diversa, la storia del periodo dell’art. 90 da quella apertasi con l’applicazione massiva del 41 bis.

C’è la storia sociale di questi decenni, di mezzo, che hanno visto purtroppo, con la grande rivincita capitalista mondiale, anche il dilagare della sua branca di borghesia nera (che si può comprendere bene anche come uno degli effetti dell’epoca di finanziarizzazione e putrefazione imperialistica). E questo, ovviamente, si è riflesso dentro le aree sociali che vivono di extralegalità, e dentro le carceri. Certo si può sempre sperare (e lavorare affinché) si aprano le contraddizioni fra la massa di manovali e le organizzazioni mafiose. Sappiamo bene che, ancora più con la crisi in molte regioni e aree sociali la filiazione diventa spesso l’unica soluzione economica. E per la conoscenza che abbiamo di questi ambienti in carcere, sappiamo che parte di loro potranno essere influenzati dal riemergere di un movimento rivoluzionario. Ma per il momento, ne siamo lontani: il loro tessuto economico sociale (per di più ribadito dalla separazione delle sezioni AS1 e 3) li tiene sottomessi agli interessi economici di appartenenza e non certo al campo politico proletario.

E anche questa problematica rinvia al problema di fondo e cioè al fatto che la lotta contro carcere e repressione non può che essere secondaria e subalterna alla ricostruzione delle forze rivoluzionarie. Senza le quali non c’è veramente possibilità di incidere su tali realtà, non c’è soluzione al problema. Problemi assai complessi di cui anche noi non riusciamo a vedere degli approcci immediati e articolati, fintanto che si arrivi alla suddetta soluzione di carattere strategico.

E con la consapevolezza che la lotta al carcere e alla repressione è contraddittoria rispetto all’approfondimento della lotta rivoluzionaria. Perché se questa avanza (pur nelle sue forme attuali più diffuse, quelle dell’area anarcoinsurrezionalista), la risposta dello Stato sarà sempre (ed è già) maggior repressione. Cosa si fa, allora? Ci si ferma? O peggio, si arretra? Per poter ottenere l’attenuazione di condanne e rigidità carcerarie? Non sono domande astruse, provocatorie… basti pensare alla tragica storia di pentitismo e dissociazione degli anni ’80.

Guardiamo bene proprio il caso NO-TAV – con tutta la valenza “antagonista” assunta, e di portata generale – le ultime misure sono drastiche: militarizzazione aggravata con conseguenti minacce penali, e fino a quella (per ora solo agitata) di imputazione terroristico-eversiva. Ci si trova appunto stretti in quel bivio: compiere un altro salto in avanti, politico-organizzativo, assumendone anche le conseguenze, o arretrare. Perciò apprezziamo molto la generale tenuta militante in sede processuale e, particolarmente, l’atto di revoca degli avvocati di alcuni/e compagni/e. Ciò che crea simpatiche consonanze con la nostra dimensione di prigionieri rivoluzionari e dei nostri processi politici. In questi atti e nei processi di rottura in generale, c’è la fondamentale affermazione della contrapposizione di interessi e logiche (di classe) che perciò nega e fa saltare la presunta neutralità e pretesa di “giustizia” dell’istituzione giudiziaria. Riporta il conflitto e il soggetto politico-sociale pienamente anche in quella sede permettendo, paradossalmente, una risonanza sociale nazionale. La risonanza che sempre i processi politici, combattuti apertamente hanno avuto nella storia. Tant’è che ciò viene a pesare eccome, nel rapporto di forza generale-proprio perché quella lotta, quel movimento acquisisce riconoscimento e schieramento favorevole ampio-talvolta limitando pure la carica repressiva.

In memoria di Jacques Verges, morto in questi giorni ricordiamo come il “suo” processo di rottura salvò dalla ghigliottina decine di militanti algerini.

Sicuramente argina la tendenza più ovvia e diffusa, al difensivismo innocentista e legalista, che è proprio il terreno su cui la repressione cerca di farci arretrare. È curioso rilevare che sia i compagni NO-TAV che hanno fatto la revoca avvocati, che noi, abbiamo dovuto raccogliere le stesse critiche, e motivate proprio da questo tipo di tendenza. Tendenza con cui noi avemmo a battagliare parecchio durante le nostre vicende processuali, E nonostante le nostre ripetute riaffermazioni di linea – fra cui il documento “La miglior solidarietà con i rivoluzionari prigionieri sta nel continuare la lotta rivoluzionaria”, fatto nel 2010 come CCPA – dovemmo constatare la pervicacia di queste attitudini che, purtroppo, costituiscono una vera e propria tendenza trasversale all’interno dei movimenti e degli stessi circoli anti-repressivi.

Questa tendenza, nella sopravvalutazione del ruolo difensivo, ha creduto persino di assicurare il legame e l’internità dei rivoluzionari prigionieri al movimento, non capendo che questa internità passa innanzitutto per la forza storicamente espressa dalla progettualità e dai percorsi politico-militari. È la sua esistenza stessa, di questa forza, seppur discontinua, a crearsi lo spazio politico rivoluzionario interno alla classe. È questo il vero spazio politico che esiste grazie a quella forza e di cui beneficiano i movimenti stessi.

Questa non comprensione significa rovesciare l’ordine degli elementi e, talvolta, finire in specialismi anti-repressivi che sono dei surrogati e deviazioni dalla vera attività rivoluzionaria.

Parallelamente vediamo crescere una mobilitazione “di movimento” contro l’epidemia repressiva. Molti vi si muovono con le migliori intenzioni, ma non si può non vedere la piega che tale mobilitazione rischia di prendere: la piattaforma per l’“Amnistia sociale”, promossa da vari settori anche para-istituzionali. Certo, la realtà di diciassettemila denunce accumulate in questi anni (e destinate a crescere) richiede attenzione. Ed è comprensibile, in parte che sul piano dei movimenti di massa questa realtà venga affrontata in modo più elastico; però vi è anche commistione con espressioni antagoniste (come certi scontri di piazza ed altri episodi di resistenza organizzata), da cui ci si può aspettare maggiore coerenza. Per esempio, si può rilevare l’atteggiamento molto degno tenuto dai compagni/e definitivamente incarcerati per le giornate del G8 di Genova. Tanto più apprezzabile poiché da parte di coloro che ne stanno subendo le conseguenze più pesanti; e di contro alla lagnosa passerella delle “vittime della democrazia sospesa”, organizzata dalla sinistra istituzionale “di movimento”.

La contraddizione più stridente sta proprio nel fatto che l’amnistia, per quello che è e per come viene presentata, è sempre un atto di pacificazione; un atto volto a “sanare” gli effetti penali-repressivi di una situazione di conflitto, sociale e politico, ma pretendendone anche la sua soluzione. O, più realisticamente, la sua composizione entro i recinti istituzionali. Ciò cui, appunto, tendono alcune forze promotrici, ma soprattutto la logica interna di quel tipo di rivendicazione.

Rivendicazione puntualmente ricorrente e diffusa fra i carcerati. E che riviene anche nei dibattiti che si stanno sviluppando fra alcuni loro gruppi che hanno condotto iniziative nei mesi scorsi (come riportato in particolare dai bollettini di OLGA). Gruppi che, ci sembra, esprimono consapevolezza sulle attuali condizioni e possibilità di iniziativa, vedendone questi limiti. Riflettendo sul modo di organizzare il conflitto reale, e reale aggregazione, superando quelle virtuali e occasionali basate su aspettative verso le istituzioni.

Certo la realtà è difficile, ma non si può far altro che affrontarla senza mistificarla con forzature interpretative e soluzioni artificiose. Cerchiamo di capire i passaggi e le pratiche con cui riavviare delle dinamiche che, seppur modeste vadano nel giusto senso: contare sulle proprie forze sviluppandole nel senso dell’autonomia di classe, di antagonismo autentico al sistema. Affrontare la repressione come parte della guerra di classe, oggi condotta soprattutto da loro dall’alto e che noi come “forza proletaria” dobbiamo imparare a sviluppare nella direzione rivoluzionaria.

 

Carcere di Siano

 

Alfredo Davanzo

Vincenzo Sisi

5-6 luglio 2013. Giornate internazionali di solidarietà al compagno Georges I. Abdallah. Dichiarazione dei militanti per il PC P-M Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi

La campagna per la sua liberazione ha acquisito forza ed estensione, sopratutto nei mesi scorsi quando infine l’obiettivo sembrava realizzabile. Ma, Georges in testa, non si è mai sottovalutato il nemico e la portata di questa lotta.

Il suo caso è diventato emblematico, simbolico, a più di un titolo. Si situa pienamente nella linea di scontro fra l’imperialismo e popoli oppressi, e in una fase di sua forte recrudescenza.

Ancor più, i percorsi e le battaglie di cui Georges è espressione si situano nel solco del più autentico antimperialismo, che può essere solo quello di classe, anticapitalista e internazionalista. Base su cui tutti i popoli oppressi ed il proletariato internazionale possono trovare il loro posto, la loro identità, la loro unità tendenziale e strategica.

Cosa ancor più vera con lo sprofondamento in questa crisi generale storica, che solleva ovunque movimenti di resistenza e rivolte contro un sistema che lega, indissolubilmente, lo sfruttamento capitalista alla sua dimensione mondiale, imperialista appunto.

Le attuali rivolte e movimenti dimostrano una nuova comprensione, e da parte di nuove generazioni, di questo nesso fondamentale: lo vediamo in particolare nel mondo arabo, dove finalmente ci si scrolla di dosso il patrocinio di forze reazionarie che ammantano di antimperialismo la loro concorrenza rispetto ai dominanti.

Cioè che, d’altronde, spesso le riporta a patti con loro e ad operare come vassalli locali (il caso eclatante degli sviluppi in Siria, Libia, Egitto…).

È invece proprio la strada dell’indipendenza autentica dei movimenti, e quindi la centralità dei contenuti di lotta contro sfruttamento e oppressione (di ogni colore), che può permettere loro di svilupparsi fin sul livello di una vera guerra di liberazione.

Perciò resta prezioso e vivo l’apporto storico di quelle Organizzazioni (come le FARL e l’FPLP) che hanno concretamente contribuito a questa prospettiva; apporto su cui si innestano le nuove insorgenze. E il loro Internazionalismo, coraggiosamente assunto, ha aperto e apre spazi e possibilità anche qui nei centri imperialisti, affinché il proletariato, travolto dalla crisi, ritrovi la propria via, la via rivoluzionaria.

Per questo sappiamo di dover essere molto riconoscenti ai Rivoluzionari/e del Tricontinente.

Con l’augurio che in un prossimo futuro il nostro contributo, il contributo del movimento di classe e rivoluzionario italiano (ancora oggi gravemente carente e inadeguato) possa essere all’altezza di una solidarietà militante con le punte avanzate internazionali e con i loro prigionieri/e.

Per ora, questo intervento è il nostro modo di aderire alle Giornate indette.

 

LIBERTÀ A GEORGES E A TUTTI/E PRIGIONIERI/E NEI CAMPI IMPERIALISTI!

LOTTARE INSIEME PER VINCERE INSIEME!

Carcere di Siano

giugno 2013

 

I militanti per il PC P-M Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi

Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe. Documento del militante delle BR-PCC Giuseppe Armante

Intendo ribadire che le armi per le BR per la costruzione del PCC non sono altro che strumenti che permettono di portare avanti l’attività politico-militare idonea ad attaccare lo Stato e conquistare il potere politico.

Un’attività che, da come si è evidenziato in 20 anni di prassi rivoluzionaria nel nostro paese, si è sviluppata e si sviluppa sul terreno strategico della Lotta Armata, cioè sull’unità indissolubile del piano politico e del piano militare; terreno questo che si è dimostrato l’unico adeguato (per le Forze Rivoluzionarie) per essere incisivi nello scontro contro lo Stato.

I mutamenti verificatisi sia sul piano economico-sociale che su quello storico-politico, provocati dallo sviluppo dell’imperialismo, sono la base oggettiva dell’affermarsi della guerriglia.

La nuova condizione entro cui sviluppare e collocare è data da una parte dalle nuove forme di dominio che con l’affermarsi della controrivoluzione preventiva rende ancora più complesso e mistificato il rapporto tra classe e stato, dall’altra da un elevato grado di integrazione politico-militare fra gli Stati della catena imperialista.

È evidente quindi che la strategia della Lotta Armata è l’unico terreno adeguato allo scontro con lo Stato.

A partire dal dato strategico della Lotta Armata le BR per la costruzione del PCC fanno dell’asse classe/Stato l’elemento di programma principale su cui costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sulla Lotta Armata.

In precedenza la visione schematica dello Stato, visto come una sommatoria di apparati (politici, burocratici, e militari) derivata da una visione semplificata del susseguirsi delle fasi rivoluzionarie che compongono lo scontro di classe, riducendolo a due sole fasi, quella di accumulo di capitale rivoluzionario, e quella del successivo dispiegamento di esse (delle forze accumulate) nella fase della guerra civile, si traduceva nell’attacco disarticolante dei centri (periferici e centrali) della macchina statale equiparandoli tutti sullo stesso piano.

L’esperienza acquisita dalle BR ha fatto sì che si ricentrasse da un lato lo sviluppo dell’altalenarsi delle fasi rivoluzionarie nel prosieguo discontinuo dello scontro, dall’altro ha altresì favorito la giusta collocazione della funzione dello Stato che necessariamente centralizza, nella sede politica, la funzionalità dei suoi apparati.

Per questi motivi l’attacco al cuore dello Stato va inteso nel giusto criterio che si è maturato nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento dell’attacco:

– per centralità si intende l’individuazione del progetto politico centrale della borghesia all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi;

– per selezione si intende l’individuazione del personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio delle forze che sostengono il progetto;

– per calibramento il senso è calibrare l’attacco tenendo conto il grado di approfondimento dello scontro allo Stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie e allo stato dei rapporti di forza generali sia interni al paese che negli equilibri internazionali tra imperialismo e antimperialismo.

Altro momento programmatico su cui si costruiscono i termini della guerra di classe è l’antimperialismo. L’antimperialismo per le BR si concretizza nel contributo alla costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista quale “organismo adeguato” a misurarsi contro le politiche centrali dell’imperialismo.

Stante l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico-militari, è necessario indebolire, ridimensionare l’imperialismo in questa area geopolitica per far avanzare il processo rivoluzionario.

Insomma per la guerriglia del centro imperialista si tratta di attualizzare l’internazionalismo proletario in una nuova strategia politica adeguata alle condizioni dello scontro nella metropoli imperialista.

Altresì ciò non va inteso come la semplificazione del quadro di scontro di internazionale subordinando il piano classe/Stato al piano dell’antimperialismo. Questo perché lo specifico percorso rivoluzionario necessariamente si sviluppa dentro ogni singolo stato ed è segnato dalle peculiarità storiche e politiche del contesto nazionale della lotta di classe.

Quindi farsi carico della politica di Fronte significa lavorare a concretizzare in successivi momenti di unità l’attacco all’imperialismo all’interno del criterio politico che l’attività di Fronte non deve essere impedita dalle specificità di analisi e di concezioni politiche delle diverse forze rivoluzionarie che vi lavorano. Nel quadro dell’attività di costruzione/rafforzamento del FCA in quanto militante delle BR per la costruzione del PCC rivendico l’iniziativa politico-militare fatta dalla RAF contro A. Herrhausen evidenziandone la sua centralità in rapporto alle politiche di coesione in Europa Occidentale che sono tutte interne al rafforzamento della catena imperialista.

Al livello dell’organizzazione di classe sulla Lotta Armata i termini che scaturiscono dalla fase di ricostruzione si esplicano sul duplice piano di lavoro, costruzione/formazione e sono tesi a ricostruire nel tessuto di classe i livelli di riorganizzazione delle forze proletarie e rivoluzionarie in modo da disporle adeguatamente dentro lo scontro con lo Stato. La fase di ricostruzione è termine prioritario nel mutamento dei rapporti di forza tra campo proletario e Stato e si pone come un tassello fondamentale per la ricostruzione dei livelli politico-militari che costruiscono i termini di avanzamento della guerra di classe di lunga durata.

– Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di rifunzionalizzazione dello Stato.

– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

– Attaccare le linee centrali della coesione dell’Europa Occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.

– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica.

– Onore ai rivoluzionari antimperialisti caduti.

 

Il militante delle BR per la costruzione del PCC – Giuseppe Armante

 

Napoli, 28 febbraio 1990

Documento allegato agli atti

Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente affermiamo che solo l’organizzazione ha legittimità storica e politica di prendere la parola sul carattere odierno dello scontro di classe sia politico che rivoluzionario, in quanto le BR, di questo scontro sono parte attiva e direzione rivoluzionaria.

Affermiamo inoltre sulla base dell’esperienza acquisita in 18 anni di prassi rivoluzionaria e, soprattutto, degli insegnamenti di questi anni di ritirata strategica, la necessità e praticabilità del terreno della guerra di classe, nonché l’attualità della questione del potere. Che non si tratta di autoproclamazione sono i fatti a dimostrarlo proprio a partire dai controversi anni ’80, gli anni della sconfitta tattica e della controrivoluzione, gli anni che hanno segnato il profondo mutamento delle condizioni dello scontro di classe, ma, lontano dal significare l’esaurimento delle condizioni del processo rivoluzionario, ne hanno contraddistinto il suo approfondimento.

All’interno di questo contesto la capacità delle BR di resistere e vivere politicamente come forza rivoluzionaria non dipende da “intrinseche irriducibilità” dei militanti né, come le interessate veline della controguerriglia propagandano, da fenomeno residuale, anche perché tali ragioni sono ininfluenti ai fini della tenuta rivoluzionaria. La determinazione e la coerenza delle BR nel ricostruire i termini politici e militari del complesso andamento della guerra di classe risiedono, in primo luogo, nelle ragioni storiche e politiche che presiedono e definiscono la lotta armata come avanzamento ed adeguamento della politica rivoluzionaria alle forme di dominio della borghesia imperialista; in secondo luogo, nel radicamento della proposta strategica della lotta armata nel tessuto proletario e nella conoscenza delle peculiarità assunte nello specifico contesto italiano.

Sono quindi gli anni della controrivoluzione ad essere decisivi per il corso stesso del processo rivoluzionario poiché hanno “costretto” le BR a misurarsi con le leggi dello scontro, ad uscire dalla giovinezza politica che aveva caratterizzato l’approssimazione nell’applicazione pratica dei principi della guerra di classe e l’ideologismo nell’impostazione politica; insufficienze ed errori che si sono riflessi in una schematizzazione nella conduzione dello scontro e nella definizione delle fasi rivoluzionarie.

Se la Ritirata Strategica ha consentito di ripiegare da posizioni inadeguate, il processo di riadeguamento ha vissuto un andamento non lineare a causa dell’impatto con la controffensiva. Ciò ha messo a nudo i limiti detti sopra i quali, tra l’altro, hanno caratterizzato la “generazione” di militanti formatasi nella fase precedente: questi hanno subito la sconfitta incapaci di comprendere le contraddizioni principali e secondarie che la dinamica controrivoluzionaria produceva nello scontro; contraddizioni che hanno attraversato in maniera differente le BR, il movimento rivoluzionario, il movimento di classe, poiché differente è la funzione ed il peso che ciascuno ricopre nello scontro.

 

Le BR

L’attività della guerriglia esplicita nell’attacco allo stato il rapporto di guerra che vige nello scontro di classe. Questa dimensione (rapporto di guerra) è il fulcro da cui si dipartono le dinamiche che caratterizzano lo scontro rivoluzionario per un verso o per l’altro; ovvero si manifestano le leggi della guerra che, nel caso della guerra di classe diretta dalla guerriglia, assumono connotazioni politiche peculiari poiché sono obbligate a riferirsi al livello definito della mediazione politica classe/stato; ad esempio basta pensare alla funzione di rottura/lacerazione che l’esecuzione di via Fracchia e le torture hanno avuto sui rapporti di forza stabiliti dal piano rivoluzionario nel campo proletario. Strappi operati a livello d’avanguardia perché, non potendo essere massificati né prolungati oltre una certa soglia, devono agire in termini di selezione per poi dispiegare gli effetti politici sulla classe. All’interno di queste considerazioni la scelta della Ritirata Strategica ha assunto una valenza politica determinante poiché la Ritirata Strategica, legge dinamica della guerriglia, ha la funzione di consentire il ripiegamento, senza cadere nell’avventurismo e nel dissanguamento delle forze stante l’impossibilità, per la guerriglia, di misurarsi alla pari con il nemico di classe. Ma nell’impatto con la controffensiva è stata in parte persa di vista la funzione della Ritirata Strategica non riuscendo realmente a capire il livello di scontro che si era prodotto e quindi a collocare correttamente un rovescio tattico, riducendo la Ritirata Strategica ad atto difensivo. Una contraddizione che ha portato a subire l’iniziativa dello stato e al logoramento delle forze; una dinamica che ha prodotto la logica difensivistica incapace di misurarsi con ciò che è necessario al livello di scontro impantanandosi nel possibile, riferito alle condizioni materiali del momento. Dentro questa dinamica possono comprendersi le iniziali spinte liquidatorie incarnatesi poi nelle posizioni dell’“Unione”, vero e proprio difensivismo che ha preteso di sottrarsi al livello raggiunto dallo scontro.

 

Il movimento rivoluzionario

Il movimento rivoluzionario, per sua natura soggetto ad oscillare tra offensiva rivoluzionaria e controffensiva dello stato, nel contesto della controrivoluzione per gran parte ha assunto posizioni difensivistiche, che quando non sono scivolate nell’opportunismo e nel liquidazionismo si sono avvitate in posizioni immateriali di eterna “rifondazione della sinistra di classe” o in riproposizioni antistoriche di alleanze interne “progressiste”, come se l’esperienza storica del ’48 non avesse insegnato nulla.

È d’altra parte una costante storica che in periodi di controrivoluzione emergano in gran numero defezioni, riflussi e pornografia politica varia, né devono “impressionare” le proporzioni assunte dalla non tenuta di tanti militanti rivoluzionari, poiché ciò va relazionato alla adesione di massa alla lotta armata; tenendo conto anche della composizione variegata di questa adesione comprendente non solo forti componenti operaie di base, ma anche strati di piccola borghesia o di recente proletarizzazione, quindi con tutto il loro portato materiale ed ideologico.

Questa caratteristica di sviluppo di massa prodotta dalla corretta impostazione data dalle BR alla fase della propaganda armata non ha costituito in sé un limite, ovvero non è nel fiorire di nuclei che va ricercato l’errore, ma nello sbocco politico dato alla disposizione di massa sulla lotta armata mortificata nella questione dei programmi immediati e del comunismo dietro l’angolo. La giusta intuizione che lo scontro di classe rivoluzionario nei centri imperialisti non può che assumere carattere di guerra di classe di lunga durata veniva meno insieme alla necessità imposta dalle leggi dello scontro di assestare le forze in campo al livello necessario di disposizione/organizzazione richiesta dalla fase rivoluzionaria per rilanciarle all’adeguato sviluppo dello scontro che già si profilava nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione. Queste le ragioni di massima della “selezione” che l’approfondimento dello scontro ha determinato, senza nulla concedere a chi di questa non tenuta fa un alibi per il proprio opportunismo, mentre la borghesia ha ben capito il portato politico e strategico dello scontro rivoluzionario che si è affermato nella realtà del paese e su questo dato ha basato i termini della controrivoluzione.

Solo la comprensione, attraverso la verifica pratica, del carattere dello scontro rivoluzionario e della natura delle sue contraddizioni ha permesso alle BR di intraprendere il processo di riadeguamento complessivo misurandosi con i mutamenti avvenuti, mantenendo nel contempo la fermezza sulle discriminanti di fondo (unità del politico e del militare, clandestinità, ecc.) del proprio impianto strategico.

Se l’andamento discontinuo dello scontro è un dato generale, questo è reso maggiormente problematico nella realtà degli stati a capitalismo maturo stante i caratteri della “mediazione politica” esistente fra le classi, ovvero del modo con cui si governa il conflitto di classe, riassumibile nell’uso degli strumenti e degli organismi della “democrazia rappresentativa”, al cui interno è racchiusa l’essenza della controrivoluzione preventiva storicamente prodottasi nel rapporto di scontro fra le classi. Questo dato politico generale influenza fortemente lo sviluppo della guerra di classe e lo stesso modo con cui vive politicamente la guerriglia, e nello stesso tempo questo dato è a sua volta rideterminato dalla attività della guerriglia, in quanto la sua prassi interviene sui rapporti di forza generali. Ecco perché le tappe sostanziali dello scontro politico e sociale nel nostro paese, lo sviluppo stesso dei caratteri dell’autonomia di classe sono tali per l’attività della guerriglia, ed è per questa dinamica che la controrivoluzione degli anni ’80, oltre a scompaginare il tessuto di lotte proletarie, le sue istanze autonome, ha portato necessariamente con sé il corollario di restauro/ripristino delle precedenti condizioni favorevoli alla borghesia imperialista, generando il clima ed il terreno favorevole alle forzature nei rapporti politici fra le classi. Infatti parliamo di controrivoluzione non perché gli anni ’80 hanno conosciuto e conoscano un progressivo intaccamento delle “garanzie costituzionali”, ma soprattutto perché, attraverso atti e normative repressive generalizzate, lo stato ha imposto un clima politico ed ha modificato i caratteri stessi della mediazione politica, gli istituti e le forze preposte istituzionalmente a tale funzione; da qui il ridimensionamento (reale) e la crisi, senza soluzione di continuità, che attraversa le forze di opposizione istituzionali PCI e CGIL. Per questo, i patti neo-corporativi, l’accentramento di poteri nell’esecutivo e il più generale processo di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello stato, nascono dalle condizioni create dalla controrivoluzione e sono al tempo stesso elementi del suo assestamento.

In sintesi, affermare che in Italia si è sviluppata una controrivoluzione significa collocare correttamente il rapporto esistente tra processo rivoluzionario diretto dalla guerriglia e la controrivoluzione dello stato, ovvero la controrivoluzione degli anni ’80 come portato ed approfondimento del processo rivoluzionario nonché delle condizioni generali dei rapporti politici fra le classi (per le proporzioni, modi e tempi con cui si è attuata). La controrivoluzione degli anni ’80 va perciò distinta dal piano di controrivoluzione preventiva, poiché questo piano è una costante nel rapporto classe/stato in tutti gli stati a capitalismo maturo senza che necessariamente sia presente qualche processo rivoluzionario. Al tempo stesso però i riflessi sui rapporti di forza determinati dalla dinamica controrivoluzionaria, proprio per le conseguenze sui rapporti politici generali fra le classi, rideterminano il carattere della controrivoluzione preventiva avendone incorporato il costo di assestamento. Questa la condizione politica nel paese che modificherà e approfondirà maggiormente, in ultima istanza, il modo di governare il conflitto di classe, la sua mediazione politica. Per questo affermiamo che la natura del “progetto demitiano” è antiproletaria e antirivoluzionaria, non un’involuzione reazionaria, ma un processo teso ad allinearsi ai modelli europei di “democrazia matura”; questo il senso che va dato alla rifunzionalizzazione degli apparati statali borghesi, poiché funzionali allo sviluppo attuale dell’imperialismo, dei suoi livelli di concentrazione monopolistica e di sviluppo integrato fra gli stati della catena e nel contempo funzionali ai livelli dello scontro politico e sociale e alla maturazione del piano rivoluzionario; c’è unità, cioè, tra l’approfondirsi della crisi del modo di produzione capitalistico, in questa fase dell’imperialismo, e le risposte della borghesia imperialista sul piano interno ed internazionale.

È indubbiamente il progetto demitiano il perno su cui si sono coagulati i passaggi dell’attuale maggioranza di governo che sostanzialmente comporta la funzionalità di un esecutivo forte e stabile le cui scelte devono applicarsi in tempo reale alle necessità della frazione dominante di borghesia imperialista. Per questo le modifiche dei regolamenti parlamentari sono necessarie affinché “armonizzino” gli accordi di maggioranza all’approvazione delle due camere; in sintesi queste ultime tendono a ratificare le decisioni dell’esecutivo marginalizzando gli effetti del ruolo finora svolto dalle opposizioni istituzionali; queste dovranno conformarsi in una dialettica puramente formale che, in questa fase, è quella dei grandi accordi… “sulla costituente”: quindi un approccio costruttivo garante del rinnovamento delle istituzioni borghesi. Un quadro che prelude, attraverso il passaggio della legge elettorale, all’alternanza quale modello cui funzionalizzare l’opposizione istituzionale, svincolando l’esecutivo dalle spinte antagonistiche che si producono nel paese, nel massimo della democrazia formale al di fuori e contro il contesto di classe nel paese. Beninteso un “modello” di alternanza che non tende affatto al superamento della cosiddetta “anomalia della democrazia italiana” (preclusione al PCI), bensì prelude ad una serie di “staffette” al fine di consolidare il regime instaurato nel paese, con buona pace di Occhetto e del suo “riformismo forte”, il quale comunque ne sarà il garante democratico. Il dato politico che emerge nel campo proletario va relazionato a come è stato attraversato dalla controrivoluzione. Dopo un primo periodo di difesa delle condizioni politiche e materiali precedenti, approcciato con modi e strumenti inadeguati sul piano aperto dai patti neo-corporativi (democrazia consiliare), è maturata, pur dentro all’arretramento subito, una costante resistenza alle conseguenze delle condizioni politico/generali che si possono dividere su due livelli.

Da un lato l’ampia resistenza, anche con forme di lotta violente, alle ristrutturazioni, ai licenziamenti, lotte che proprio nella resistenza trovano il loro limite potendo essere inglobate dalla demagogia sindacale. Dall’altro lato emergono, dal quotidiano confronto nei luoghi di lavoro con i nuovi termini delle relazioni industriali, lotte che tendono a rompere le gabbie e i filtri di queste relazioni, per esprimere istanze di lotte autonome, le quali trovano la forza di sfondamento (alle gabbie delle relazioni industriali) solo dentro una forte e compatta organizzazione della lotta stessa. Stante il dato generale assumono, giocoforza, una connotazione politica, anche perché devono misurarsi immediatamente con l’intervento e le scelte dell’esecutivo nella contrattazione. Queste lotte, per quanto frammentate possano apparire, sono il nuovo che emerge e rappresentano la continuità con il filone dell’autonomia di classe storicamente determinatasi in Italia; ciò, d’altra parte, non significa la possibilità che si verifichino automaticamente, almeno nel medio periodo, grossi cicli di lotta, dato il peggioramento delle condizioni politiche e materiali per la classe, poiché anche le forme, i tempi e i modi dell’opposizione dell’autonomia di classe sono influenzati più in generale dal carattere e dal livello della mediazione politica tra classe e stato. E’ questo perciò il dato su cui l’avanguardia armata del proletariato interviene per ribaltare i rapporti di forza a favore della classe, “liberando“ così, anche se momentaneamente, energia proletaria, una forza politica che deve trovare il suo corrispettivo sul piano rivoluzionario nella costruzione di organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, calibrata nelle forme e nei modi, alla fase di scontro e ai rapporti di forza generali.

La necessità di sterilizzare il tessuto di lotta operaio e proletario dalla dinamica riproducente autonomia di classe, è il terreno su cui è maturato il primo approccio alla revisione del diritto di sciopero e su cui si sta sviluppando la proposta di revisione della rappresentatività sindacale proprio per costruire barriere all’aggregazione operaia e nuovi filtri istituzionali alle istanze di lotta più mature. È la Fiat che apre ancora una volta il contenzioso con le elezioni “riformate” del consiglio di fabbrica e gli accordi separati, un fatto che rende palese l’approfondimento, nella funzione sindacale, della dinamica corporativa in relazione contraddittoria con il dover usufruire della reale forza della rappresentatività. È all’interno di questo contesto politico, e a partire da un’indagine nel vivo delle fabbriche e dei posti di lavoro, che si possono esaminare le ristrutturazioni produttive e non certo attraverso i dati apologetici forniti dalla borghesia e dagli specialisti sindacali che, nella migliore delle ipotesi, riflettono la crisi del sindacato la quale non ha certo origini strutturali. In termini generali si può affermare che la “nuova” realtà della fabbrica non è il regno della robotica e dei tecnici asettici che la gestiscono, anche perché ciò contraddirebbe la legge stessa del capitale e del suo necessario sviluppo ineguale. La realtà determinata dalle ristrutturazioni è prodotta dal complementarsi di due fattori: da un lato, una certa introduzione di nuove tecnologie, dall’altro lato la flessibilità e la produttività venutasi a determinare con la rottura della rigidità operaia e con la riforma sostanziale del mercato del lavoro. Due piani di cui l’ultimo è funzionalizzato al primo e che caratterizzano i termini della nuova organizzazione del lavoro. Quello che va ribadito è che la sostituzione del macchinario è stata ed è relativa alla sua convenienza sul costo del lavoro, ma sempre nella proporzione fisiologica di mantenere la parte di lavoro vivo necessario. La realtà è quella di un’organizzazione del lavoro in cui convivono segmenti vecchi e nuovi (catena, isole, reparti semiautomatizzati, ecc.) dove la condizione operaia è la piena dequalificazione delle mansioni, in cui tutti devono fare tutto, ovvero chiunque può essere spostato da una mansione all’altra, da un reparto all’altro (e con la mobilità interaziendale, anche di sede) nei tempi e nei modi stabiliti dalle esigenze di mercato. La sola costante è il massacrante aumento dei ritmi di lavoro, la presenza opprimente della gerarchia di fabbrica e sindacale, della sbirraglia addetta alla sorveglianza. Per quanto riguarda il turnover è principalmente dato dai contratti di formazione lavoro tristemente noti per la loro filosofia concorrenziale. Per le piccole e medie fabbriche la realtà è ancora più cruda, poiché da sempre vige la concorrenza allo stato puro, non a caso sono spesso terreno di sperimentazione della tenuta di “nuovi” tipi di contratto, dati i rapporti di forza esistenti. La filosofia della nuova organizzazione del lavoro non è relegata solo all’industria ma, poiché è il frutto delle relazioni industriali centralizzate, riguarda tutti i lavoratori, compresi quelli dei servizi. Su questa realtà si basa il secondo “miracolo economico” italiano, ovvero il boom dei profitti, dato il contesto recessivo dell’economia; un contesto in cui vengono smantellati interi comparti produttivi (es. siderurgico) i quali gonfiano le cifre dei disoccupati, la cui quota cronica è già ampiamente ritoccata rispetto alla parte fluttuante. Una realtà quindi di vecchie e nuove povertà che solo i parametri antropologici di De Rita possono definire “economia sommersa”. In sintesi, lo spaccato della realtà è quello di un paese niente affatto pacificato, di un aspro scontro politico e sociale che esprime una vasta resistenza operaia e proletaria ai costi della crisi e ai progetti borghesi di “modernizzazione” dello stato. Per queste ragioni la realizzazione delle svolte profonde che in questa fase aprono ad un periodo che non è errato definire di “seconda repubblica”, sono gravide di pressioni atte a lacerare gli equilibri nello scontro di classe: in questo senso si inserisce il crescendo di manovre provocatorie, direttamente elaborate nei covi del ministero degli Interni, allo scopo di agitare revanscismi stragisti contro il campo proletario. Che non si tratti di rigurgiti reazionari lo dimostra il fatto che, questa riaggiornata riedizione della strategia della tensione, è relazionata alla funzione svolta dalla guerriglia nel contesto dello scontro di classe e della sua evoluzione rivoluzionaria (in quest’ottica l’autobomba di Milano, la resuscitazione di bande fasciste e i diversi oscuri episodi che vi stanno intorno).

Prendere atto della realtà significa non cadere nello schematismo: peggioramento delle condizioni di vita uguale antagonismo contro lo stato; oppure ricondurre le dinamiche dello scontro al succedersi meccanico di flussi e riflussi come se lo sviluppo della società capitalistica fosse fermo al periodo di formazione monopolistica relativa allo stato-nazione; un filtro, questo, che non permetterebbe di leggere correttamente lo stato dei rapporti politici fra le classi, né le prospettive dello svolgimento del conflitto sia sul piano politico-generale, che rivoluzionario. In sintesi lo scontro politico tra le classi e soprattutto il piano rivoluzionario avanzano nella misura in cui si rompono gli steccati e i filtri stabiliti dalle relazioni classe/stato, la sua mediazione politica. Un dato che si riferisce sempre alla contraddizione dominante in antagonismo fra classe e stato e che può esistere e affermarsi dentro ad equilibri politici generali che si formano nel paese tra classe e stato, solo secondariamente questi equilibri si riferiscono all’ambito interborghese. Anzi possiamo dire che gli equilibri interborghesi si formano di riflesso e accanto agli equilibri di forza e politici fra classe e stato. Per queste ragioni l’iniziativa della guerriglia è tesa a rompere questo piano e a costruire le condizioni materiali per un equilibrio politico e di forza favorevole al campo proletario che può partire solo intervenendo (con l’attacco) al punto più alto dello scontro. Questo poi si ripercuote come effetto su tutto l’arco dei rapporti fra le classi fino al piano capitale/lavoro.

È necessario considerare il dato politico sviluppatosi e sedimentatosi storicamente nel rapporto fra le classi, il quale ha definito un patrimonio, un terreno, su cui si riproduce la sostanza ed il grado odierno dello scontro e del suo stretto legame con la proposta rivoluzionaria: un filo organico che nemmeno questi anni di controrivoluzione sono riusciti a spezzare e che lega le BR al tessuto proletario perché da questo tessuto sono originate, in questo si riproducono e di questo sono l’avanguardia armata. Un’avanguardia che ha potuto e saputo definire il terreno dell’alternativa proletaria alla crisi della borghesia imperialista nella praticabilità della proposta strategica della lotta armata alla classe.

La corretta impostazione del metodo del materialismo dialettico nell’analisi, insieme all’esperienza che fa acquisire la verifica pratica, ha permesso il superamento di un certo ideologismo analitico inadeguato a collocare la natura dei fatti storici e il loro piano di contraddittorietà.

La rimessa al centro dell’attacco allo stato ha significato anche analizzare concretamente la funzione degli stati in questo stadio di sviluppo dell’imperialismo, a partire dalla giusta definizione leninista che lo stato è l’organo della dittatura borghese e contemporaneamente manifestazione dell’antagonismo inconciliabile fra le classi; per questo la sua evoluzione è il riflesso, sul piano della sovrastruttura, delle diverse fasi dello sviluppo capitalistico.

È nel contesto della crisi degli anni ’30 che la funzione degli stati fa un salto di qualità, ciò avviene per la necessità di intervenire, con politiche economiche di sostegno, sugli effetti disastrosi della “grande depressione”. L’intervento dello stato fu generale e concorse a creare l’ambito favorevole alla formazione monopolistica a base nazionale. Ma è nel rapporto con il proletariato che lo stato intervenne in termini complessivi, sia regolamentando la compravendita della forza-lavoro che contenendo il conflitto di classe, ovvero sviluppando il termine controrivoluzionario. Questo livello di intervento fu nel suo complesso simile in tutto il mondo capitalistico, dall’America roosveltiana ai regimi nazisti dell’Europa. Il successivo salto di qualità avviene nel contesto della fine dell’ultimo conflitto, all’interno dei mutamenti che prefigureranno l’attuale fase dell’imperialismo, dal piano storico/politico a quello economico/sociale. L’insieme di questi mutamenti influiranno sulle forme di dominio della borghesia nel trapasso, non certo indolore, dallo stato autarchico (ad esempio, il fascismo) allo stato parlamentare moderno, riflesso sovrastrutturale del formarsi di frazioni di borghesia imperialista e del proletariato metropolitano. Il dato principale che qui interessa sottolineare è in che cosa le democrazie rappresentative uscite dal dopoguerra si caratterizzano. Dal punto di vista economico, si affina la loro funzione di supporto ai cicli economici, relativa sempre e solo alla sfera della circolazione, ma che ha, come nel caso delle politiche di bilancio, un’importanza fondamentale nel favorire l’andamento del ciclo, soprattutto per la possibilità di intervenire, data la conoscenza acquisita, in funzione controtendenziale sui prevedibili effetti negativi della crisi. Un dato che non elimina certo le cause della crisi ma che, stante il piano internazionalizzato ed integrato dell’economia capitalistica, sposta e approfondisce le contraddizioni. Contemporaneamente lo stato assume la funzione di capitalista reale che solo nel rapporto con il singolo capitalista è concorrenziale, ma nel complesso è funzionale all’andamento del ciclo economico. Ma è nel rapporto con la classe subalterna che la funzione politica degli stati viene esaltata. Esso non agisce più come semplice repressore del conflitto, bensì esplica questo rapporto attraverso l’uso ed il perfezionamento della democrazia rappresentativa, la sola a legittimare, per la borghesia, le istanze della classe. In altri termini, le espressioni di conflittualità e di antagonismo devono essere compatibilizzate e convogliate all’interno degli alvei istituzionalmente preposti: dal piano capitale/lavoro al piano politico/generale, sindacati, partiti, organismi politici vari sono delegati a rappresentare la classe nella piena funzionalità della democrazia rappresentativa allo scopo di istituzionalizzare il conflitto di classe. Un dato non schematizzabile nell’altalena mediazione/annientamento, ma che trova di volta in volta, e in relazione ai rapporti di forza e al peso politico della classe, il ruolo e la funzione adeguata a mantenere l’antagonismo all’interno di questo reticolo per non farlo collimare con il piano rivoluzionario. È sostanzialmente questa l’anima che ha assunto la controrivoluzione preventiva dopo le rotture operate dalla controrivoluzione imperialista nell’ultimo conflitto. In sintesi lo stato è la sede dei rapporti politici fra le classi, quindi per i comunisti il suo abbattimento è una questione imprescindibile. All’interno di questo principio le BR fanno dell’asse classe/stato il principale elemento programmatico su cui costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata. Non si tratta come nel passato di disarticolare, mettendoli sullo stesso piano, tutti i centri della macchina statale (periferici e centrali) anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello stato visto in una separatezza fra i suoi apparati (politici, burocratici, militari), a sua volta derivata da una visione semplificata e un po’ manualistica delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe ricondotte a due sole fasi principali: quella dell’accumulo di capitale rivoluzionario e il suo dispiegamento nella guerra civile. L’esperienza acquisita dalle BR ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nell’andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni l’attacco allo stato, al suo cuore congiunturale, va inteso nel giusto criterio, affermatosi nella pratica, come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento dell’attacco. Centralità: si può affermare che, date le condizioni politiche dello scontro, il suo approfondimento, la capacità dell’attacco di disarticolare (inteso in termini relativi e non assoluti) risiede, in primo luogo, nella capacità, tutta politica, di individuare all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi, il progetto politico centrale della borghesia imperialista. Selezione: sta nella capacità di individuare il personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio delle forze che tale progetto sostengono. Calibramento: sta nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado di approfondimento dello scontro (ad esempio anche in caso di arretramenti il livello d’intervento non può ricominciare da capo), allo stato di aggregazione/assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie, allo stato dei rapporti di forza generali sia interni al paese che nell’equilibrio internazionale tra imperialismo/antimperialismo. Questi i criteri centrali che guidano l’attacco e le scelte dell’obiettivo e che permettono alla guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo del vantaggio politico e materiale. In ultima analisi possiamo affermare che questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro, poiché solo la fase di guerra civile dispiegata consente di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.

È sempre a partire dal dato strutturale che possono essere analizzati e collocati sul loro piano reale i mutamenti avvenuti e quelli che stanno avvenendo sul piano delle politiche della borghesia imperialista. Ciò significa partire dal dato della crisi del modo di produzione capitalistico, che analizzata con metodo materialista, presenta il duplice aspetto di essere sia momento di debolezza che momento necessario al capitale per il suo ulteriore sviluppo. In altri termini la crisi capitalistica ha in sé gli elementi potenziali per il suo superamento, superamento che non avviene mai in termini “pacifici”. Un movimento contraddittorio che mette in moto controtendenze, soprattutto se il carattere della crisi è generale, siano esse spontanee (ad esempio la riduzione della capacità produttiva) che invece determinate da politiche economiche. L’approfondirsi della crisi produce oggettivamente la tendenza alla guerra quale portato dell’accumularsi critico di tutte le contraddizioni capitalistiche e si esplica nella necessità di distruggere la sovrapproduzione di capitali e merci di lavoro, di ridefinizione dei mercati capitalistici e degli equilibri precedenti. Questo è il carattere generale della tendenza alla guerra. Un piano tendenziale che, come marxisti, possiamo analizzare nei suoi passaggi concreti e che si materializza, come dato soggettivo, solo quando le altre controtendenze esauriscono la loro efficacia, approfondendo e accumulando le contraddizioni capitalistiche. Al tempo stesso la crisi, acutizzando le contraddizioni fra le classi e tra sviluppo e sottosviluppo, fa emergere il necessario risvolto proletario ad essa, genera la sua possibile risoluzione nella rivoluzione proletaria e nel socialismo.

L’analisi della crisi all’interno dell’arco storico che va dalla fine della grande guerra alla situazione attuale, permette di affermare che l’andamento della crisi riproduce, in una similitudine di movimento, i suoi caratteri generali. Passaggi salienti che si ripresentano nella situazione odierna, velocizzati e più interconnessi fra loro e inseriti in un quadro storico-politico derivato dai mutamenti di sostanza sanciti dall’ultimo conflitto, quali il bipolarismo e l’internazionalizzazione, l’interdipendenza dell’economia capitalistica, la quale ha dato luogo al livello di integrazione politico-militare del blocco occidentale a dominanza USA.

L’affacciarsi della crisi generale (di valorizzazione) verso la fine degli anni ’60 ha avuto le sue risposte controtendenziali agli effetti della crisi (alta inflazione, stagnazione, ecc.) da un lato in un processo spontaneo di restrizione della base produttiva, dall’altro in quel complesso d’interventi di politica economica volti a ridare fiato alle spinte selettive della concorrenza, meglio conosciute come neo-liberismo, comprensive delle misure tese ad abbassare tutti i costi di produzione a partire dalla forza-lavoro. Accanto a questo movimento controtendenziale si è affermato, sul piano della produzione, un processo di introduzione di nuove tecnologie allargatosi a tutti i settori produttivi (la microelettronica e la computeristica nei mezzi di lavoro). Un dato questo relativo allo sviluppo dell’imperialismo e che ha ridisegnato i termini della concorrenza e del necessario movimento di concentrazione dei capitali: da qui i processi di fusione/accentramento dei grossi colossi monopolistici (transnazionali e con più settori produttivi, ecc.) intorno alle nuove tecnologie in cui è sempre presente la quota di capitale USA. Se gli interventi neo-liberisti hanno favorito l’ambito per la ricostituzione dei margini di profitto (portandoli però sull’orlo di un’inflazione da profitti), hanno anche contribuito, insieme al cambio tecnologico nella produzione, all’eccessivo restringimento della base produttiva fino a veri e propri processi di destrutturazione economica nei paesi più sviluppati economicamente (vedi USA e Gran Bretagna), sintomo dello stabilizzarsi della recessione e dell’indebolimento della struttura economica. In altri termini, laddove questo processo ha significato la chiusura di interi comparti produttivi o di produzioni ridotte al punto che è economicamente oneroso riattivarle, è una concausa al fatto che il plusvalore sociale prodotto è troppo ridotto per valorizzare l’intero capitale sociale. All’interno di ciò vanno letti gli attuali orientamenti di politica economica sia sul piano della concentrazione internazionale (accordi sui tassi d’interesse e sulla circolazione di merci), sia sul piano delle politiche nazionali (rilancio parziale della domanda di beni di consumo relativa alle produzioni di bassa e media tecnologia), in altre parole misure tese a controbilanciare gli effetti negativi del neo-liberismo. Un contesto che favorisce le tendenze protezionistiche in contrasto con la tendenza dominante della libera circolazione di capitali, elemento della futura configurazione dell’ulteriore sviluppo dell’internazionalizzazione della produzione e dei capitali. Ma il principale piano controtendenziale che si afferma nel contesto della recessione generalizzata, in presenza di mercati capitalistici saturi, è, ad un certo stadio della crisi, quello del ricorso allo speciale stimolo del riarmo. Storicamente questo intervento generale di politica economica si è presentato nel periodo fra le due guerre dettato dalla necessità di immobilizzare i capitali finanziari investendoli nelle tecnologie avanzate di quel periodo; ma il ricorso al riarmo come speciale stimolo dell’economia, proprio perché necessario e possibile in determinate circostanze economiche e storiche di crisi generale, per non tradursi nella bancarotta dello stato che vi ha fatto ricorso, si configura come lo stadio economico più vicino allo sbocco bellico. Sono gli USA, stante il maggiore sviluppo e velocità della dinamica capitalistica, che hanno imboccato la scelta del riarmo come volano dell’economia. E’ dalla presidenza Reagan che, con la politica degli alti tassi d’interesse, vengono inglobate grandi masse di capitali per finanziare la ricerca sulle tecnologie avanzate connesse al militare, una scelta di politica economica che ha condizionato l’economia statunitense e penalizzato settori tradizionali come l’agricoltura e le produzioni di media tecnologia.

Data la stretta interrelazione economica dei paesi della catena, ogni movimento economico di rilievo si ripercuote e condiziona le scelte nei paesi della catena, soprattutto se derivati dal polo economicamente dominante. Per questo le scelte degli USA tendono a configurarsi come il piano controtendenziale della catena imperialista. Il riarmo in Europa occidentale non è ancora una politica economica affermata a causa delle differenze di sviluppo, il diverso grado di profondità della crisi e di conseguenza per l’esistenza di margini diversi di manovra. Ciò nonostante le spinte al riarmo marciano in modo consistente e, stante il livello finanziario necessario, è un terreno che comporta un piano concertato fra i paesi europei i cui fondi e modi di applicazione sono centralizzati nella NATO. Un processo che favorisce ancor più l’internazionalizzazione dei capitali sulle tecnologie avanzate. Il riarmo avvenuto prima del secondo conflitto mondiale ebbe l’effetto temporaneo di rilanciare la produzione nei settori pesanti dell’industria e di riassorbire una parte di disoccupati in eccesso. In questa fase, stante la concomitanza dei livelli di interventi economici, tenendo conto che provocano un rigonfiamento artificioso dell’economia, e poiché il riarmo trova applicazione con tecnologie che riducono al minimo l’assorbimento di manodopera, la sua efficacia temporanea è relativa al solo immobilizzo delle ingenti quote di capitale finanziario eccedenti. Queste trovano impiego appunto nella ricerca sulle nuove tecnologie da applicare al campo militare. La ricerca dei computer di quinta generazione (calcolatori super veloci), dei laser, ecc., non è relativa solo ai satelliti e allo “scudo spaziale”, ma trova applicazione pratica e immediata nel riarmo convenzionale negli “scenari di guerra da attivare in tempo reale” (vedi strategia Rogers della NATO, cosiddetta di difesa anticipata). In questo senso lo smantellamento del vecchio arsenale missilistico post-guerra fredda ha poco a che vedere con le demagogiche propagande imperialiste sul disarmo, anzi questa scelta si inquadra in un’ulteriore pressione sull’Europa al fine di un maggiore sforzo finanziario verso il riarmo. Infatti lo smantellamento può essere attuato in presenza del massiccio e reale riarmo sul convenzionale e dei processi d’integrazione degli eserciti europei che, a diversi livelli, si stanno sviluppando sia in termini bilaterali che multilaterali; non si tratta certo di un terzaforzismo europeista, ma della responsabilizzazione dei partners atlantici alla “difesa” integrata della catena imperialista.

L’evoluzione della crisi economica, il suo acutizzarsi, è il fattore di fondo che in ultima analisi sottointende ed influenza le scelte politiche del blocco imperialista; non un rapporto meccanico, ma il maturarsi sui diversi piani delle contraddizioni e del loro obbligato interrelazionarsi: dal piano dominante est/ovest, al piano nord/sud, al piano principale proletariato/borghesia. L’insieme di questi fattori formano un quadro politico contraddittorio, ma, nella misura in cui tendono a polarizzarsi gli interessi e i campi contrapposti, si profilano le linee principali di questa fase politica internazionale. Una fase che comporta il maggior grado di compattamento e di responsabilizzazione dei vari paesi della catena imperialista, ovvero, il delinearsi della strategia imperialista non è l’affermarsi lineare degli interessi del polo dominante, ma il prodotto di successive forzature e del collimare del reciproco interesse generale della catena imperialista.

Il dato principale di questa fase è costituito dal ruolo centrale dell’Europa occidentale all’interno dello schieramento imperialista, un ruolo che esalta le “capacità politiche” del vecchio continente e che si basa sulla maturazione dei processi di coesione politica e militare dell’Europa occidentale quale perno su cui si definiscono le linee di tendenza delle politiche imperialiste. Un processo, quello della coesione politica, che va avanti non senza contraddizioni perché comporta l’adeguamento attivo agli interessi generali della catena e che esprime, da una parte, anche il grado di avanzamento della contraddizione est/ovest. In sintesi, stante il tipo e grado di contraddizioni che a diverso livello attraversano tutti i paesi della catena imperialista, ogni paese è tenuto, in relazione alla funzione e al peso che riveste, ad adeguare i suoi interventi all’interesse dominante.

L’avanzare dei processi di coesione politica e militare dell’Europa occidentale dà la misura della svolta di questa fase politica e del suo legame con il maturarsi della crisi economica. La scadenza della liberalizzazione del mercato europeo e il suo riflesso sul piano politico e normativo è solo l’apice di un processo teso a creare l’ambito idoneo per favorire la formazione di monopoli intereuropei. Un processo in cui le sedi comunitarie hanno assunto un peso politico rilevante nel ricondurre gli interessi specifici al piano di coesione generale, dall’inserimento dei paesi europei della fascia sud (sempre in funzione complementare e subordinata al peso dei paesi più forti), all’elaborazione dei più disparati piani “Marshall” comunitari per ammortizzare le contraddizioni del sottosviluppo dei paesi della fascia mediterranea e del Medio Oriente, paesi che costituiscono la sua naturale zona d’influenza e che oggi rivestono una importanza strategica. Il piano dominante della coesione politica europea è costituito dall’insieme degli interventi politico/diplomatici differenziati su più piani. La “diplomazia europea” ha un ruolo determinante nel rapporto tra i due blocchi, poiché l’Europa occidentale è fisicamente il suo confine “intoccabile”, la sua funzione perciò è tesa a “mediare” la contrapposizione fra i blocchi calibrandola e funzionalizzandola alle diverse esigenze esistenti tra gli USA e l’Europa occidentale. Un piano che riflette, in termini politici, sia le ineliminabili contraddizioni interimperialiste che l’attuale posizione di stallo negli equilibri generali tra i blocchi; non per questo può essere degno di rilievo lo spazio “economico” che il mercato sovietico offre ai capitali europei dato che rientra nel normale processo di penetrazione economica e non interferisce con le ragioni della tendenza alla guerra. Ma è l’area di crisi mediorientale-mediterranea l’ambito principale su cui verte l’attività politico/diplomatica dell’Europa occidentale. In questa fase essa ha la funzione di ricucire/sancire gli strappi militari praticati dagli USA nella fase precedente; che questi strappi avessero anche lo scopo di spingere gli alleati ad assumere posizioni compatte, lo dimostra la diversità di atteggiamento dei paesi europei tra il bombardamento della Libia e l’intervento nel Golfo Persico; un lasso di tempo in cui l’Europa occidentale, coadiuvando gli USA, ha operato le “pressioni“ necessarie tra i paesi arabi per un loro schieramento apertamente filo occidentale anche nell’intento di tenere sotto controllo il “fattore islamico” in quanto collante politico delle masse arabe. Ma la funzione più delicata svolta dai diversi piani della diplomazia europea è senza dubbio rivolta a “normalizzare” la situazione mediorientale, ovvero la questione posta dalla mai sopita resistenza del popolo palestinese e libanese. In sintesi, iniziative volte a supportare la sostanza del piano Schultz riferito (in sintesi) all’autonomia amministrativa dei “territori occupati”. Un piano che, nella sostanza, ribadisce la funzione di sentinella degli interessi occidentali nell’area, svolta da Israele, pur cercando di fargli assumere quel riconoscimento politico e diplomatico più funzionale al processo di “normalizzazione”. È certamente riduttivo, per quanto principale, ricondurre il ruolo d’Israele alla sola funzione di gendarme imperialista, dato che ha sviluppato un regime d’apartheid che gli consente di sfruttare anche economicamente i territori occupati, inoltre il suo ruolo fa d’Israele un esportatore più che di pompelmi, di metodi di controguerriglia (consiglieri militari in Sud Africa e in America Latina). Un complesso di interventi tesi, in ultima istanza, a rideterminare posizioni di vantaggio e di forza per l’imperialismo all’interno degli equilibri est/ovest.

L’Europa occidentale stringe anche, sul piano della “sicurezza” interna, vincoli politici per contrastare l’attività antimperialista del Fronte e delle altre forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo, riflesso soggettivo delle contraddizioni di classe che, seppure a diversi livelli, attraversano il cuore dell’Europa occidentale. L’attività della guerriglia, sia essa classista o “nazionalista”, caratterizza in sintesi i diversi livelli di scontro rivoluzionario esistenti nei paesi europei tra cui si possono individuare, per il grado di sviluppo delle contraddizioni tra le classi, i potenziali “anelli deboli” nei paesi europei della fascia sud. Ne sono un esempio le pressioni CEE sulla Grecia al fine di contenere/reprimere l’attività rivoluzionaria della “17 novembre” in cambio delle agevolazioni nel mercato comune. Oppure, su un altro piano, i diversi progetti di “soluzione politica” per la guerriglia che, seppure con sfumature diverse, sono stati adottati da Italia, Germania e Spagna. Insomma misure coordinate sul piano politico che influiscono sulla connotazione del rapporto imperialismo/antimperialismo, rivoluzione/controrivoluzione nell’Europa occidentale, di cui le forze rivoluzionarie e soprattutto il Fronte combattente antimperialista devono tenere adeguatamente conto, poiché segnano l’approfondimento delle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario.

La definizione più precisa, in questa fase, della strategia imperialista riflette in ultima istanza la dinamica generale tesa a preparare le condizioni negli equilibri delle forze, sia politiche che militari, per impattare il blocco sovietico e ridefinire a favore dell’imperialismo gli accordi sanciti a Yalta. Le modifiche del quadro storico/politico avvenute nella seconda guerra mondiale non consentono il ripetersi delle condizioni per un conflitto interimperialista. Pur permanendo le contraddizioni prodotte dalla concorrenza intermonopolistica, queste non si riflettono sul piano politico in termini antagonistici all’interno del blocco imperialista. Il blocco sovietico è, per l’imperialismo, un ambito sufficientemente sviluppato dal punto di vista industriale e delle infrastrutture quindi recettivo e complementare al livello di sviluppo tecnologico e produttivo dell’imperialismo. Per l’imperialismo ridisegnare le aree di influenza significa anche recuperare il controllo sui paesi terzi che, attraverso processi di liberazione nazionale, si sono sottratti al suo dominio e che si caratterizzano, sul piano dell’evoluzione storica, come paesi di nuova democrazia, i quali all’interno dell’assetto del bipolarismo si collocano, oggettivamente, nello schieramento del blocco orientale. Per questo affermiamo che la contraddizione est/ovest è la contraddizione dominante nel mondo, che attraversa ed influenza i conflitti internazionali, compresi quelli che si producono nella direttrice nord/sud. Tale contraddizione si esprime in tutte le aree di crisi presenti nel mondo, come palesemente chiariscono le trattative sui “conflitti regionali” tra USA e URSS (dal centro America, al Sud Africa, all’area orientale, ecc.), ma si rende critica soprattutto nell’area geopolitica mediterranea, mediorientale, per vari ordini di motivi: sia perché è un’area strategica in quanto confine non definito dagli accordi di Yalta, sia per i transiti e le rotte che la attraversano, sia come area politicamente instabile percorsa da forti tensioni tendenti a “sganciarsi” dal dominio imperialista. È questa, cioè, l’area geografica destinata ad essere il possibile detonatore dello scontro bellico, perché è l’area in cui oltre ad esprimersi il piano dello scontro est/ovest si focalizzano le contraddizioni tra sviluppo e sottosviluppo con la loro forte connotazione antimperialista e rivoluzionaria. Nel contempo i paesi soggetti all’imperialismo costituiscono il retroterra logistico da cui partire per modificare gli equilibri generali nei confronti del blocco avverso; accanto a questo piano va inquadrata l’attività controrivoluzionaria dell’imperialismo, specificatamente USA, contro i movimenti di liberazione e la guerriglia del terzo mondo, nonché i tentativi d’aggressione palese e mascherata nei confronti delle nuove democrazie. Un piano di scontro che fa di questi conflitti la parte più consistente dell’antimperialismo.

Un quadro storico dunque che comporta l’assunzione, sul terreno rivoluzionario, dell’antimperialismo come dovere prioritario di ogni forza rivoluzionaria conseguente, a maggior ragione per le guerriglie dell’Europa occidentale poiché operano all’interno del cuore dell’imperialismo, sapendone però collocare il piano e la portata rispetto all’antimperialismo praticato dalle forze rivoluzionarie nella periferia. Per la guerriglia del centro imperialista si tratta di attualizzare l’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni dello scontro nella metropoli imperialista. Deve essere però chiaro che ciò non può e non deve significare la semplificazione del quadro di scontro nel solo piano internazionale sottomettendo il piano classe/stato al piano antimperialismo/imperialismo. In altri termini l’internazionalizzazione nella formazione monopolistica, lo sviluppo integrato fra gli stati e l’interdipendenza economica che ne deriva, muovono verso un processo tendenziale di formazione omogenea sia dei caratteri della frazione dominante di borghesia imperialista che del proletariato metropolitano; un processo appunto tendenziale che non dissolve la funzione degli stati, anzi, li esalta all’interno degli organismi sovranazionali, né fa dell’Europa occidentale un territorio politicamente omogeneo. Perché lo specifico percorso rivoluzionario necessariamente si sviluppa all’interno di ogni singolo stato ed è caratterizzato dalle peculiarità storiche e politiche del contesto nazionale della lotta di classe. Non tenere conto di ciò equivarrebbe ad appiattire due livelli differenti che, sebbene reciprocamente influenzantisi, devono essere collocati sul loro distinto piano.

L’antimperialismo per le BR vive in unità programmatica con l’attacco al cuore dello stato costituendo entrambi i perni su cui si ricostruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata. L’antimperialismo per le BR si materializza nel contributo alla costruzione/consolidamento del Fronte combattente antimperialista, quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo. Si è reso, cioè, evidente che, stante l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico/militare, è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo in quest’area geopolitica per realizzare il processo rivoluzionario, sia che si tratti di rivoluzione socialista, sia che si tratti di liberazione nazionale. In questo senso, cioè, il consolidamento della politica di Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria. Per le BR la tematica dell’antimperialismo deve imperniarsi intorno allo sviluppo di politiche d’alleanza con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo in quest’area geopolitica (europea, mediorientale, mediterranea) al fine di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo. Più precisamente, si tratta di lavorare a concretizzare, in successivi momenti di unità, l’attacco all’imperialismo all’interno del criterio politico che l’attività di Fronte non deve essere impedita dalle peculiarità d’analisi e di concezione politica delle diverse forze rivoluzionarie che vi lavorano, né tanto meno, discriminare l’attività del Fronte come unica attività rivoluzionaria, ma essa deve stringere l’unità realizzabile nell’attacco pratico. Per questo affermiamo, insieme alla RAF, che non si tratta di fondere ciascuna organizzazione in una unica organizzazione, ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo. Il contributo della RAF e delle BR al Fronte dimostra come le differenze storiche e di percorso non possono e non devono costituire un ostacolo al praticare una effettiva politica di alleanza, un contributo questo che costituisce al tempo stesso un salto in avanti nella costruzione del Fronte, perché si inserisce nella necessità di superare il primo periodo sostanzialmente di propaganda della necessità del Fronte stesso, misurandosi, invece, con la definizione più precisa della sua proposta politica, uscendo così dalle secche del genericismo.

L’approdo al testo comune RAF-BR e soprattutto l’attività che lo sostanzia sancisce questo salto di qualità e determina il primo passaggio dell’offensiva comune contro le politiche di coesione dell’Europa occidentale all’interno dell’interesse generale della catena imperialista, concretizzatosi con l’attacco ad Hans Tietmeyer, sottosegretario alle Finanze e uomo chiave delle decisioni politiche e degli indirizzi economici concertati; un’offensiva destinata a toccare i punti chiave delle politiche di coesione che si esprimono sul piano economico/politico/diplomatico controrivoluzionario.

La chiarezza degli obiettivi, il realismo politico nell’impostazione della politica di Fronte ne determinano la valenza che va oltre l’unità immediata raggiunta, perché apre la prospettiva politica dello sviluppo del Fronte sull’attacco all’imperialismo, non solo tra le forze rivoluzionarie europee, ma con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area, avviando concretamente l’unità che già esiste oggettivamente tra le lotte nel centro imperialista e i movimenti di liberazione nella periferia.

La Ritirata Strategica ha consentito alle BR di approfondire alcuni termini dell’andamento della guerra di classe. In primo luogo ha verificato le implicazioni che vivono operando nell’unità del politico e del militare. Questo principio, caratterizzante la guerriglia, consiste principalmente nel fatto che la conduzione dello scontro rivoluzionario avviene globalmente, senza separazione cioè tra i diversi piani, stante l’impossibilità di accumulare forza politica da riversare in un secondo tempo sul piano militare, data l’impossibilità di mantenere zone liberate. La guerriglia quindi attacca militarmente lo stato nei suoi aspetti politici centrali, il vantaggio momentaneo che ne consegue, per non essere disperso, deve tradursi in organizzazione di classe sul terreno della lotta armata adeguatamente calibrata alla fase di scontro. Questo chiarisce, ancora una volta, la validità dell’impostazione che, al loro esordio, le BR hanno dato alla questione della lotta armata, ovvero di una strategia che dall’inizio alla fine caratterizza il processo rivoluzionario come proposta a tutta la classe. In altri termini, la strategia della lotta armata è il solo modo in cui si rende praticabile il processo rivoluzionario e si materializza lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata contro lo stato. In questo processo l’avanguardia armata dirige e organizza tutte le avanguardie, i settori, gli spezzoni di autonomia di classe che si dialettizzano e si dispongono nella lotta armata. In questo percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe, della sua più precisa definizione e progettualità, le BR si costruiscono come Partito. Questo concetto chiarisce il portato dell’unità del politico e del militare nel processo rivoluzionario e secondariamente anche cosa intendono le BR per “linea di massa“, questa altro non è che il termine di costruzione/organizzazione degli spezzoni più maturi dell’autonomia di classe sul terreno della lotta armata, ovvero il lavoro di massa è parte integrante della linea politica nonché intrinsecamente aderente al suo asse strategico e persegue sempre e solamente la costruzione degli organismi armati e clandestini della classe, nelle forme e nei modi calibrati alle diverse fasi rivoluzionarie, nonché ai caratteri dello scontro, per essere idonei a sostenere lo scontro prolungato contro lo stato. Per queste ragioni possiamo dire che l’unità del politico e del militare agisce come una matrice su tutto l’arco del processo rivoluzionario a partire dai termini di costruzione/fabbricazione del Partito, ovvero, del funzionamento stesso dell’Organizzazione che, pur essendo il nucleo fondante il Partito, è una forza rivoluzionaria che esplica il suo agire come un “esercito rivoluzionario”. La pratica ha dimostrato che la guerriglia deve necessariamente funzionare con il modulo politico/organizzativo definitosi storicamente come il più adeguato, ovvero la strutturazione delle forze rivoluzionarie deve rispondere ad un criterio che permetta la praticabilità del “modulo guerrigliero” all’interno dei principi strategici di clandestinità e compartimentazione, in quanto principi che permettono di esplicare il carattere offensivo della guerriglia e limitare le perdite (comunque e sempre alte nella guerriglia). Le BR hanno verificato la validità del proprio modulo politico/organizzativo e di come, venendone meno, si rifletta in negativo sulla capacità di condurre le forze al livello politico necessario. Il modulo politico/organizzativo delle BR risponde alla necessità di strutturare i diversi livelli in istanze inferiori e istanze superiori (vedi D.S. n.°2) regolate dal centralismo democratico. L’unità di base costituita dalla cellula è la struttura fondamentale dell’organizzazione: al suo interno si riproduce sia il funzionamento del modulo che il patrimonio politico dell’organizzazione; questo permette la riproduzione complessiva. La strutturazione delle forze, in ultima istanza, permette di far vivere la capacità dei singoli nel collettivo. I criteri generali, qui descritti, che permettono il funzionamento del modulo politico/organizzativo sono validi sempre, cambia invece la disposizione delle strutture e più in generale delle forze in campo, poiché quest’ultima riflette i mutamenti di linea politica che subentrano con il mutare delle fasi di scontro. All’interno del principio dell’unità del politico e del militare, la Ritirata Strategica non è risolvibile semplicemente nella ricollocazione di un corpo di tesi, ma investe non solo l’adeguamento dell’impianto organizzativo, ma soprattutto il modo con cui si costruiscono i termini politico/militari della guerra di classe; quindi la Ritirata Strategica assume un carattere di fase generale influendo sulla disposizione tattica delle forze in campo. La disposizione tattica, pur assumendo all’interno delle peculiarità politiche dello scontro, carattere dinamico, è condizionata sia dal piano strategico di disposizione generale delle forze nella lotta armata, sia dalle finalità della fase rivoluzionaria di scontro.

Si tratta di analizzare i fattori che definiscono l’attuale fase di ricostruzione tenendo conto che essa prende forma e consistenza all’interno della Ritirata Strategica. Per modi, sostanza e tempi politici a cui deve essere finalizzata l’attività rivoluzionaria complessiva, si può e si deve parlare della ricostruzione come fase rivoluzionaria e non come semplice momento congiunturale. Questa, sebbene sia influenzata dal senso generale che ha la Ritirata Strategica, costituisce al tempo stesso la base, le fondamenta, su cui investire la condizione attuale dei rapporti di forza. Ovvero la fase di ricostruzione, che già vive nell’attività rivoluzionaria, muove per creare le condizioni politiche e materiali atte a modificare e spostare in avanti il piano rivoluzionario, e di conseguenza le posizioni del campo proletario. In sintesi una fase rivoluzionaria che condiziona fortemente l’atteggiamento tattico relativo a come organizzare/disporre le forze in campo, stante la fase di scontro politico fra le classi a fronte del contesto prodotto dalla controrivoluzione e dall’approfondimento del piano rivoluzionario che ne deriva. Sono tre i fattori a cui vanno riferiti i caratteri della ricostruzione:

  1. a) contesto della controrivoluzione, suo riflesso nella mediazione politica;
  2. b) evoluzione dello stato, necessità e progetti borghesi;
  3. c) stato del campo proletario, condizioni politiche e materiali del movimento di classe e rivoluzionario.

 

  1. a) Il riflesso degli effetti della controrivoluzione sul carattere della mediazione politica fra le classi all’interno del contesto politico/generale che la genera, mette in risalto come questo rapporto politico sia connotato da un maggior intervento diretto dell’esecutivo nelle principali questioni che riguardano il governo del conflitto di classe, a partire dalle vertenze “calde” (accordi pilota) gli interventi costituzionali (diritto di sciopero e libertà sindacali). Un dato che chiarifica la natura politica dello scontro di classe e il suo grado di approfondimento. Evidenzia, inoltre, come in questo quadro siano mutate le funzioni delle opposizioni istituzionali, siano esse politiche che sindacali, nella relazione esistente tra neocorporativismo e accentramento dei poteri nell’esecutivo, un fatto che, seppure contraddittoriamente, le porta a ruotare, nella sostanza, intorno alle scelte dell’esecutivo; a farsi carico di spinte localiste e demagogiche come nell’uso spregiudicato dei referendum sia nella contrattazione, col fine di contenere le istanze di lotta, sia sul piano politico/generale in senso filogovernativo. In sintesi, il carattere della mediazione, il modo con cui si esprime il rapporto politico è dunque riferimento obbligato nel definire il tipo di intervento rivoluzionario adeguato a inciderlo e che giocoforza va riferito alla contraddizione dominante che matura nel rapporto politico generale fra le classi.

 

  1. b) Le peculiarità dello stato in Italia, date sia da come si è formato storicamente (la Resistenza) che dall’esistenza del terreno rivoluzionario, hanno condizionato, per molti versi, la stessa formazione delle forze politiche che rappresentano l’interesse della frazione dominante di borghesia imperialista; ma l’elemento di sostanza della sua evoluzione sta proprio nei processi attuali di riformulazione dei poteri, perché evidenzia una rinnovata capacità, da parte delle forze politiche, di ridefinire un progetto complessivo, non solo riferito alle esigenze della borghesia imperialista nostrana, ma, e conseguentemente, all’altezza delle posizioni che l’Italia ha e deve assumere nel contesto imperialista soprattutto nello specifico europeo. Una capacità a tutt’oggi riconquistata dalla Democrazia Cristiana che si qualifica come forza politica complessa e matura, anello maggiormente in grado di imprimere le svolte necessarie agli interessi della borghesia imperialista. Questo sintetico quadro fa comprendere che l’attacco allo stato, l’incisività necessaria a disarticolarne i progetti, non può eludere dall’evoluzione generale dello sviluppo del Paese nel contesto della catena, di conseguenza dal tipo di progetti politici che vengono definiti e di come questi si collocano, di volta in volta, in termini dominanti in relazione ai rapporti di forza e agli equilibri politici fra le classi. Ciò comporta la ferma assunzione, nel definire l’attacco, dei criteri di centralità e selezione, la cui valenza vi è esaltata proprio dal quadro di scontro, e che danno all’attacco la necessaria portata per incidere al punto più alto di esso.

 

  1. c) Lo stato del campo proletario riflette il modo con cui si materializza la controrivoluzione, avendo essa attraversato orizzontalmente l’intero corpo di classe a partire dalle espressioni più avanzate dell’autonomia di classe che si sono dialettizzate con la guerriglia. Una dinamica che ha scompaginato il tessuto di lotte proletarie, ridimensionato, in ultima istanza, il peso politico della classe, un dato che paradossalmente ha influito sul ridimensionamento delle sue rappresentanze istituzionali. Quello che va tenuto presente è il quadro determinato dalla dialettica rivoluzione/controrivoluzione nel nostro paese; un processo che si ripercuote nel modo con cui lo stato si relaziona al campo proletario; in altri termini, lo stato ha ben presente che se non può eliminare la componente rivoluzionaria, deve obbligatoriamente contrastarne gli effetti e la valenza della sua proposta politica: in questo senso ha definito un apparato antiguerriglia con un raggio d’intervento politico complessivo, ovvero finalizzato a tenere sotto pressione le componenti proletarie e rivoluzionarie che esprimono antagonismo contro lo stato, un aspetto, questo, che si compenetra con la mediazione politica facendo di quest’ultima un reticolo di atti politici e materiali che contrastano l’ambito stesso di formazione delle avanguardie nel tentativo di impedire all’autonomia di classe di esprimersi. In sintesi, misurarsi con le condizioni politiche del rapporto classe/stato per pesare sugli equilibri dello scontro stesso, mette in luce i termini della necessaria dialettica guerriglia/autonomia di classe a partire dalla direttrice dell’attacco allo stato all’interno dei criteri sopraddetti. Una dialettica che a livello dell’organizzazione di classe nella lotta armata, tenendo conto della materialità, concretezza e carattere dello scontro, deve agire sul binario ricostruzione/formazione; ovvero ricostruzione nell’ambito operaio e proletario delle condizioni politiche e materiali danneggiate e disperse dalla controrivoluzione: formazione delle forze che si dispongono in modo da renderle adeguatamente organizzate a sostenere il livello di scontro contro lo stato. Un termine di lavoro che attraversa orizzontalmente e verticalmente le forze in campo (seppure con le dovute differenze), a partire in primo luogo dalla formazione dei rivoluzionari (forze rivoluzionarie) i quali devono esprimere la direzione adeguata a questo piano di disposizione. In ultima analisi questo duplice intervento recupera il patrimonio di 18 anni di attività rivoluzionaria delle BR per rilanciarlo nella maturità e progettualità attuali.

Riassumendo, la fase di ricostruzione è un passaggio delicato e complesso ed investe il tipo di riadeguamento intrapreso dalle BR nel senso più generale, cioè riferito alla capacità, non solo di riqualificare l’impianto e il tipo di caratterizzazione del quadro militante, ma questo in relazione alla necessità di determinare una direzione/organizzazione delle forze in grado di muovere sul duplice binario di ricostruzione/formazione, al fine di disporle adeguatamente nello scontro. Quindi la disposizione tattica rispetto alla fase rivoluzionaria di ricostruzione ruota intorno al salto di qualità operato dalla centralizzazione, nell’attività generale dell’organizzazione, delle forze in campo. Questo ha significato misurarsi con l’approfondimento dello scontro, la necessità della centralizzazione sul piano di disposizione delle forze nell’attività generale dell’organizzazione per meglio renderle funzionali all’attacco, disponendole come un sol cuneo intorno all’attacco in modo da incidere ed assestarsi adeguatamente nello scontro. La centralizzazione delle forze nell’attività generale dell’organizzazione è un avanzamento nel processo di costruzione del Partito, della sua funzione di direzione/organizzazione dello scontro; questo implica che le istanze di compagni rivoluzionari, la stessa costruzione di reti proletarie, siano centralizzate nell’attività generale dell’organizzazione, poiché la semplice disposizione spontanea delle forze sul terreno della lotta armata non è sufficiente a farsi carico dei termini dello scontro. La disposizione di queste forze nell’attività dell’organizzazione implica il necessario calibramento delle funzioni e dei ruoli rispetto al quadro di coscienza espresso, ma ugualmente funzionalizzate al piano di lavoro generale. Quello che si è verificato è la necessità di formare le forze che si dispongono, all’interno del criterio organizzato del lavoro rivoluzionario a partire dai compagni rivoluzionari, date le caratteristiche del processo rivoluzionario. Se la Ritirata Strategica è una fase a carattere generale, al suo interno già vive la fase di ricostruzione delle forze proletarie e rivoluzionarie e degli strumenti politico/organizzativi per attrezzare il campo proletario nello scontro prolungato contro lo stato. Un elemento di programma, questo, che vive dialetticamente connesso alle linee di attacco sia al progetto di riformulazione dei poteri dello stato che ai progetti centrali dell’imperialismo costituiti dalle politiche di coesione dell’Europa occidentale.

Su questi termini programmatici le BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente lavorano a concretizzare la parola d’ordine dell’unità dei comunisti.

 

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario demitiano di “riforma” dello stato.

– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

– Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.

– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte combattente antimperialista. Per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’ area geopolitica.

– Onore ai rivoluzionari antimperialisti caduti.

 

I militanti delle BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Maria Cappello, Fabio Ravalli

 

Firenze, 25 novembre 1988

Un esempio di collaborazione poliziesca. Dichiarazione di Alessandra Di Pace, Gianfranca Lupi, Francesco Tolino al processo di estradizione della “Audiencia National” spagnola

Siamo tre militanti comunisti italiani, arrestati a Parigi il 15/6/87 a causa di un mandato di cattura internazionale, emesso dal giudice italiano Rosario Priore, per appartenenza alle BR e/o alla UdCC. Nonostante cinque mesi di detenzione in Francia, Priore non ha mai formulato una richiesta ufficiale di estradizione, in flagrante contraddizione con il mandato di cattura da lui stesso emesso. La stranezza di questa procedura, solo apparente, è dovuta a precisi accordi presi nel segreto delle cancellerie dei ministeri degli interni dei due paesi, al fine di evitare il rischio che le nostre estradizioni potessero essere rifiutate se sottoposte ad un procedimento legale, date le contraddizioni esistenti nella legislazione francese in materia dei cosiddetti “delitti politici”.

La soluzione per aggirare quello che poteva rivelarsi uno scoglio, venne trovata, deportandoci (tramite un procedimento amministrativo, l’espulsione con procedura d’urgenza assoluta, che esclude qualsiasi intervento della magistratura e lascia ogni decisione nelle mani dell’esecutivo) qui in Spagna, dove al contrario le estradizioni non incontrano il minimo ostacolo legale.

In Spagna, infatti, i “reati politici” sono esaminati da una magistratura e un tribunale speciale: la Audiencia Nacional, docile strumento repressivo nelle mani del governo e del suo apparato “antiterrorista”, la Secreteria para la Seguridad del Estado.

Ed è a questo punto che Priore si è rifatto vivo, rivolgendosi immediatamente a questo tribunale, ricordandosi questa volta di formulare le richieste ufficiali di estradizione, sapendo perfettamente che sarebbero state accolte, trattandosi ormai di una semplice formalità burocratica. È sufficiente esaminare la mancanza dei più elementari diritti legali borghesi che hanno caratterizzato i processi contro i compagni Francesco Tolino e Gianfranca Lupi, per rendersi conto che assistiamo alla semplice formalizzazione di una decisione politica già prestabilita; all’applicazione di consegne impartite a questo tribunale dal segretario di stato per la sicurezza: Rafael Vera, in conformità con gli accordi stipulati con i suoi colleghi europei.

Prendiamo la parola, in occasione di questa ennesima farsa processuale che vi accingete a celebrare oggi, 18/7/1988, contro la compagna Alessandra Di Pace, per denunciare il ruolo di autentico braccio operativo-giuridico dell’Europa delle polizie, che questo tribunale ha assunto. Questo processo, come i due precedenti, serve solo per ratificare decisioni politiche, già prese nei ministeri degli interni francese, spa-gnolo, italiano. È per questo motivo che, nel processo precedente e in quello di oggi, Alessandra Di Pace rifiuta la difesa del suo avvocato, in quanto perfettamente inutile in questo contesto. Non riconosciamo nessuna legittimità a questo tribunale.

La novità di questa collaborazione “antiterrorista”, che ha visto impegnati gli apparati statali di mezza Europa, è la sua natura squisitamente politica. Osservando le forme ed il contenuto di questa procedura, si può ridurre l’intera questione alla sfacciata chiarezza con cui gli esecutivi dello Spazio Giuridico Europeo perseguono il loro indirizzo anticomunista, nel completo disprezzo delle minime garanzie giuridiche.

Del resto la democrazia mai è andata d’accordo con il capitalismo, e questo disaccordo strutturale tende, nell’epoca attuale, a far scomparire anche la parvenza di democrazia formale nei paesi a capitalismo avanzato, sostituendola con la formazione di esecutivi forti ed autoritari, trasferendo in ristretti e chiusi gruppi di funzionari politici tutte le principali funzioni decisionali, instaurando di fatto un monopolio oligarchico che conduce autoritariamente gli affari dello stato. Una tendenza autoritaria visibilmente chiara qui in Spagna, dove la cricca di Felipe Gonzalez ha di fatto occupato lo stato, riducendo i deputati ad un ruolo insignificante e il sistema giuridico a semplice appendice del potere esecutivo (con la riforma del 1985 il “Consejo General del poder judicial” è nominato direttamente dalla camera parlamentare, cioè dai gonzalisti, che ne detengono il controllo). Del resto la pretesa separazione dei poteri dello stato – esecutivo, legislativo, giudiziario – è sempre stata formale, o meglio, sempre si è trattato di divisioni di funzioni centrate verso un unico obiettivo: controllare e reprimere il proletariato e le sue avanguardie politiche. La coesistenza di diversi centri del potere statale, autonomi e rigidamente isolati, è una vuota astrazione, certamente utile per rafforzare a livello ideologico il dominio della classe al potere, ma in sé è una pura illusione del liberalismo borghese che non ha mai avuto un riscontro reale. Il regime parlamentare non è, come credono i democratici borghesi, il prodotto di una teoria a priori ma uno strumento nella lotta che ha opposto la borghesia rivoluzionaria all’assolutismo feudale e come tale il risultato di una lunga evoluzione storica. Corrispondeva in un primo tempo alla necessità della borghesia di svilupparsi in Europa, all’interno di un sistema feudale; attraverso il parlamento quest’ultima deteneva il potere legislativo, esercitando così un contropotere, un contropeso reale all’aristocrazia feudale.

La separazione dei poteri era allora una realtà effettiva, concepita dalla borghesia come limitazione del potere dell’aristocrazia. In questo modo, come diceva Montesquieu, «il potere limita il potere». Lo sviluppo del regime parlamentare corrisponde dunque all’ascesa della borghesia e al declino dell’aristocrazia sotto l’influenza determinante dello sviluppo delle forze produttive. Attraverso il parlamento, la borghesia limitava la libertà d’azione del governo aristocratico; il potere giuridico “fungeva da arbitro” e in qualche modo controllava, limitandolo, sia il governo che il parlamento. Questa separazione dei poteri, che per i liberali costituisce l’essenza stessa della libertà, esprimeva in realtà gli interessi della borghesia, la sua necessità di produrre e comunicare liberamente, una libertà che riposava sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e che pertanto escludeva i lavoratori salariati, ai quali era proibito scioperare e organizzarsi in sindacato, ecc.

Tutte queste categorie – parlamento, democrazia, ecc. – si comprendono solo se si esaminano dal punto di vista della lotta di classe, solo così smettono di essere vuote astrazioni ed assumono una dimensione reale storica. Allo sviluppo delle varie fasi del capitalismo ha corrisposto uno sviluppo degli istituti rappresentativi delle sue forme politiche, avendo un ruolo ed un’importanza, naturalmente considerato e valutato all’interno di un quadro storico, politico e sociale preciso.

Finché il capitalismo si basava sulla piccola impresa e il proletariato non era ancora sufficientemente sviluppato, il parlamento ha esercitato una reale funzione di potere, riflettendo al suo interno lo scontro tra le diverse frazioni della borghesia, che si fronteggiavano sul mercato. Con le grandi imprese, i colossali monopoli che si ripartiscono il mercato mondiale, il parlamento ed in generale il modello democratico liberale, servono solo come paravento ideologico, come giustificazione verbale; nella pratica hanno smesso di funzionare. Nella fase dell’imperialismo, quando la lotta di classe si è intensificata particolarmente, la borghesia non può affidarsi ad istituti rappresentativi per garantire il suo dominio. Tende pertanto a rivolgersi verso l’esecutivo. Democrazia liberale e capitalismo monopolista si oppongono punto per punto. Il sistema parlamentare continua però a restare, come osserva Lenin, il migliore involucro politico che può rivestire il capitalismo in quanto mistifica alle masse e legittima in una certa misura la dittatura di classe della borghesia.

La tendenza in atto da diversi anni, nei principali paesi europei, che mira a ridefinire le funzioni tra gli istituti statali, spostando maggiormente il centro di gravità della vita politica, giuridica e sociale verso l’esecutivo, per una maggiore espansione e centralizzazione dell’apparato burocratico statale, per un maggior rafforzamento dei suoi mezzi repressivi, va vista come una necessità del “sistema parlamentare” nella sua lotta contro la rivoluzione proletaria. Va vista come la risposta funzionale dello stato capitalista alla lotta di classe che accompagna il suo sviluppo. Nel nostro paese, questa tendenza all’autoritarismo e alla centralizzazione statale ha conosciuto negli ultimi anni un rafforzamento straordinario, uno sviluppo molto grande, al punto che la borghesia si appresta a varare una riforma istituzionale.

Una riforma reazionaria, voluta e diretta da un ristretto club di capitalisti che si apprestano a ridefinire gli assetti costituzionali del paese. In questa ottica è nato l’ultimo governo in Italia, per assicurare l’apertura politica di un processo costituente che conduca i grandi signori della finanza, le grandi famiglie capitaliste ben conosciute qui in Spagna – gli Agnelli, De Benedetti, Gardini, ecc. – alla conquista dell’egemonia politica dello stato. Con la riforma istituzionale la grande borghesia mantiene l’iniziativa politica che dai 24.000 licenziamenti FIAT agli inizi degli anni ’80, dall’attacco alle conquiste generali della classe operaia, all’impri-gionamento di più di 4.000 oppositori politici, alle torture contro i rivoluzionari, all’invio della flotta nel Golfo Persico, ecc., investe ora gli assetti costituzionali al fine di centralizzare e irrobustire ulteriormente l’organo centrale e principale del suo dominio di classe: l’apparato statale.

Questa riforma, con il suo obiettivo scopertamente reazionario, diventa realizzabile per la borghesia italiana per due ragioni fondamentali: per il riflusso del ciclo di lotte che, nella classe operaia e nella sua avanguardia politico-militare, trovarono coagulo e prospettive politiche lungo tutto il corso degli anni ’70; e, altra faccia della medaglia, per la crisi totale che attraversa il PCI che, impossibilitato materialmente a mantenere il compromesso tra lavoro e capitale, poiché la crisi economica ha ridotto verticalmente il margine delle disponibilità economiche per un miglioramento delle condizioni di vita delle masse, si vede costretto a scelte obbligate, appiattendosi sempre più sugli “interessi nazionali”. Su un tema centrale come quello della riforma istituzionale, le scelte politiche di Occhetto e De Mita coincidono, si è aperto un “dialogo” che condurrà l’ex partito comunista ad assumersi sempre più in prima persona scelte chiaramente antiproletarie.

La riforma istituzionale, insomma, è lo specchio fedele che riflette e approfondisce un rapporto di forza profondamente mutato a vantaggio della grande borghesia, postasi come asse centrale della vita nazionale. Tutto ciò ha spinto una parte di ex rivoluzionari all’accettazione del “nuovo ordine” capitalista, svendendo la loro identità politica e dignità personale. I loro poveri argomenti, a giustificazione del loro tradimento, sono stati ampiamente propagandati anche qui in Spagna, dai mezzi di informazione del regime. “El Pais”, “D16”, ecc., hanno ampiamente amplificato le voci di questi individui che parlano di sconfitta definitiva della lotta armata, di chiusura delle possibilità della rivoluzione proletaria in Italia, ecc.

Evidentemente, in Italia, una lunga fase politica si è chiusa e il varo della riforma istituzionale rivela proprio questo cambiamento. Dopo il ciclo di lotte degli anni ’70, per la borghesia e il suo governo è diventato impossibile continuare a governare come prima ed essa è costretta a ricercare nuovi equilibri istituzionali perché la dinamica della lotta di classe ha rotto, rendendoli inadeguati, quelli precedenti, costruiti sul compromesso del dopoguerra tra lavoro e capitale, tra classe operaia diretta dal PCI e democrazia borghese. Non è forse vero che lo stato è il risultato della lotta tra le classi e che le forme del dominio della borghesia sono in relazione con le intensità e le forme della lotta proletaria? E allora, se la borghesia si pone con tutta decisione e precipitazione la questione istituzionale non è forse perché la lotta di classe ha aperto una profonda crisi politica? Tutte le principali forze politiche dell’arco costituzionale convergono nel dichiarare che il problema della riforma istituzionale è ormai indifferibile, ma perché? Quale forza materiale spinge De Mita, Occhetto, Craxi, a fare discorsi complementari sulla necessità della riforma dello stato? E che rapporti ha questa riforma con il ciclo di lotte degli anni ’70?

La fotografia della congiuntura con i suoi nuovi rapporti di forza offre solo risposte parziali e limitate; se l’analisi concreta della situazione concreta è obbligatoria per i marxisti, in nessun caso si limita a fotografare il presente, fissandone i contorni politici, i rapporti di forza, in un quadro metafisico immutabile. Essa ricerca invece le linee di tendenza, individua il movimento che, nonostante l’apparente quiete, si cela nelle contraddizioni capitaliste. Da questo punto di vista che esclude ogni interpretazione immediata e sociologica della realtà e della lotta politica rivoluzionaria, la nuova fase capitalista apertasi in Italia, e la riforma istituzionale in particolare, va vista anche in relazione all’andamento del movimento operaio e comunista, all’emergere sulla scena nazionale di una forza rivoluzionaria che, tramite la lotta armata, ha imposto praticamente il divorzio tra classe operaia e democrazia borghese, prolungando la rottura già operata alla fine degli anni ’60 dai settori di classe più avanzati.

Finché l’ipotesi revisionista di una via pacifica al socialismo ha potuto indirizzare le aspirazioni proletarie e fintanto che le spinte rivoluzionarie non sono andate al di là di un parziale lavoro tra le masse, lasciando la questione del potere politico nell’ambito teorico-ideologico, la “democrazia bloccata” ha funzionato in Italia, garantendo per quarant’anni una relativa stabilità al sistema. Dopo il ciclo di lotte degli anni ’70 e con la nascita delle Brigate Rosse, divenute con il sequestro di Aldo Moro forza politica di primo piano, che tendeva a diventare partito politico-militare, in grado di assumersi l’organizzazione e la direzione del movimento proletario, trasportando sul terreno dello scontro politico generale tra le classi le spinte e il malessere sociale che scaturivano dalla società italiana; con la nascita di questa nuova forza storica, niente è più come prima; né per il riformismo revisionista né per la borghesia ed i suoi partiti politici.

La politica rivoluzionaria si è affermata per mezzo della lotta armata, rompendo consuetudini radicate, “impasse” storiche, pratiche fallimentari, e ridando una identità autonoma al proletariato. Un elemento politico nuovo che non può essere marginalizzato o inserito, come variante, all’interno delle istituzioni statali. Non è un caso che, mentre nel ’78 le tematiche istituzionali erano principalmente protese verso il compromesso storico, verso l’integrazione cioè della classe operaia nello stato borghese, oggi si rivolgono direttamente all’esecutivo, all’accrescimento della buro-crazia e della centralizzazione dello stato, quale misura principale contro la classe operaia. Perché, per dirla con Marx: «la repubblica parlamentare, nella sua lotta contro la rivoluzione proletaria, si vede obbligata a rafforzare insieme ai mezzi repressivi, i mezzi e la centralizzazione del potere del governo».

La riforma istituzionale, insomma, riflette il cambiamento qualitativo intervenuto a livello politico generale tra le classi nella società italiana, il suo ruolo e le sue finalità in relazione alle tappe della lotta di classe, quale nuova regola dello scontro che la classe dominante detta a se stessa, nella sua lotta contro il proletariato.

La lotta della classe operaia contro la borghesia e il suo stato è entrata infatti in una nuova fase, qualunque siano i risultati immediati di questa lotta, si è conquistata un nuovo punto di partenza storico.

Questa ridefinizione in senso reazionario degli istituti statali non è però prerogativa del governo italiano, ma una vasta tendenza che comprende gli stati capitalisti europei. Il restringimento degli spazi democratici e dei luoghi decisionali è un riflesso necessario della struttura capitalista. E’ l’imperialismo stesso che genera in qualche misura una sorta di monopolio in politica.

Il processo di verticalizzazione decisionale, che ha escluso, lungo tutto il corso di questa procedura, qualsiasi intervento autonomo della magistratura, la sbrigatività sommaria che ha caratterizzato l’intero procedimento non è il frutto di una procedura che occasionalmente ha rivestito un carattere di eccezionalità ma il risultato “necessario” e prevedibile che riflette, nella sfera giuridica, i contrasti inconciliabili tra le classi, che mostra, con straordinaria chiarezza, l’insofferenza crescente degli esecutivi dello Spazio Giuridico Europeo verso le forme garantiste, il carattere autoritario degli esecutivi che sempre meno sopportano la loro stessa legalità. In sostanza è la spinta accentratrice del capitale finanziario, la marca del danaro, che “colora” le forme politiche, sociali, istituzionali dello Spazio Giuridico Europeo, esasperando le condizioni per cui per l’alta burocrazia statale, civile e militare, il decisionismo antiproletario, l’autoritarismo, il militarismo, ecc., rappresentano l’unica via di successo e di sicura carriera politica, militare, diplomatica, ecc.

Noi, militanti comunisti, sequestrati dello Spazio Giuridico Europeo, cogliamo l’occasione per denunciare la realtà reazionaria della società a capitalismo avanzato, per ribadire il nostro impegno politico e militante, la nostra solidarietà attiva alla classe operaia e al movimento sociale che si batte contro l’attuale indirizzo reazionario e contro l’oppressione e lo sfruttamento in Spagna, in Italia, ecc.

Riaffermiamo il nostro posto all’interno del movimento comunista, nelle esperienze e nel patrimonio di lotta espresso in questi anni, nello sviluppo della politica rivoluzionaria: l’attività cosciente e determinata che organizza e dirige il proletariato nel cammino verso la sua liberazione, verso il socialismo.

 

Alessandra Di Pace, Gianfranca Lupi, Francesco Tolino

 

Madrid, 18 luglio 1988

Sono maturati i tempi. Carcere di Latina – Documento delle prigioniere comuniste per la Guerriglia Metropolitana – Susanna Berardi, Anna Cotone, Natalia Ligas, Rosa Mura, Teresa Romeo, Marina Sarnelli, Caterina Spano, Pia Vianale

Sono maturati i tempi per prendere delle decisioni politiche. La nostra decisione scaturisce dalla consapevolezza che la battaglia per la rivoluzione va continuata. Il tempo trascorso dall’apertura del dibattito contro la “soluzione politica” ha prodotto elementi a sufficienza per introdurre delle svolte.

Noi partiamo sempre dagli antagonismi tra le classi, dallo scontro rivoluzione/controrivoluzione, con la coscienza di chi sa che la lotta che stiamo combattendo guarda al futuro della rivoluzione.

È questa la coscienza che ci fa porre all’attacco, conducendo ad ulteriore maturazione gli esiti di questa battaglia, che dipende sostanzialmente dalla capacità di riconoscere il momento in cui si può e si deve intervenire, nonostante le condizioni difficili.

E già si è visto, nel recente passato, quanto è possibile orientarsi in questa direzione. Lo si è visto nel dibattito contro la “soluzione politica” che, davvero, si è consumato in tutti i sensi.

La nostra decisione è forte dell’averlo consumato produttivamente perché abbiamo lavorato in questo dibattito partendo da terreni solidi già esistenti, che riguardano complessivamente la militanza rivoluzionaria e che non si esauriscono con esso.

Nulla di più, nulla di diverso.

Tutto questo permette non solo di demarcare la linea (di classe) che separa noi dai nemici vecchi e nuovi, ma di farlo affermando la decisività del terreno su cui costruire. L’obiettivo è il consolidamento dell’agire collettivo nel consolidamento più generale: lavorare su quei terreni unitari che permettono una presenza più incisiva nello scontro in atto.

A partire da questo abbiamo deciso di non lasciare spazio ai due soggetti attivamente collocati nel progetto di “soluzione politica”, presenza decisa dal Ministero. La nostra scelta non ha lasciato indifferente nessuno, tant’è che al nostro attacco si è contrapposto non solo la prevedibile difesa delle persone in questione ma, accanto a queste, si sono – a tutti gli effetti – schierate altre, col chiaro obiettivo di impedire che questa presenza venisse messa in discussione.

L’arrivo di Petrella M. e Massara C. dalla pausa del Moro-ter corrisponde ad un nuovo passaggio del progetto di “soluzione politica”: il tentativo è quello di trovare uno sbocco alla loro proposta di “battaglia di libertà” adoperando strumentalmente la ripresa di dibattito nel carcere e nel movimento, a livello nazionale ed europeo. Così, chi lavora alla proposta di amnistia ha trovato possibilità concreta di dare corpo a quella disponibilità, sempre manifestata ed ora operante, a lavorare alle stesse finalità.

Anche a prescindere da questi ultimi, Curcio e Moretti, è dentro quest’onda che stanno provando ad aprire uno spazio per la loro “battaglia di libertà”.

Quest’obiettivo, ora, coincide relativamente con gli obiettivi generali della borghesia imperialista.

Comunque, che la “soluzione politica” sia un obiettivo di tutte le forze istituzionali e non, a livello europeo ed internazionale, è cosa chiara. Nella rifondazione della “democrazia occidentale” vogliono trovare posto tutti, comprese quelle forze sociali che lavorano per un’opzione politica in autonomia ai progetti propriamente imperialisti e in alternativa alla rivoluzione.

Anche quest’opzione può solo passare sul cadavere politico della guerriglia, a cui tutte queste forze, ciascuna con il suo apporto e dal suo punto di vista, da molto tempo stanno cercando di preparare il funerale.

Ma la realtà dice altro.

C’è un mutamento degli equilibri strategici. Decisive sono le spinte che provengono dal grande sommovimento di soggettività che si sta sviluppando a livello internazionale:

– la Palestina occupata in fiamme per la continuità della lotta in una strategia di lunga durata, sta ponendo a tutti la questione concreta dell’internazionalismo;

– lo sviluppo di dibattito, confronto e pratica tra soggettività diverse attorno al vertice del FMI di settembre ’88 è il banco di prova su cui si sta misurando l’espressione concreta di un grande potenziale di lotta proletaria e rivoluzionaria che ha già fatto sentire la sua voce anche nel Centro e Sud America.

Tutto questo costituisce terreno concreto su cui può trovare un suo nuovo sviluppo la proposta del fronte rivoluzionario, che si è costituita a partire dalle condizioni imposte dallo scontro tra imperialismo e rivoluzione. E parliamo di noi, prigionieri rivoluzionari. Partiamo dunque dallo scontro di classe; partiamo da quest’altezza dello scontro tra imperialismo e rivoluzione. E partiamo anche dalla nostra militanza per riuscire ad essere identità e collettività dentro gli orientamenti generali.

Perché crediamo che, nella chiarezza delle nostre convinzioni politiche, nella forza che ci dà la coscienza che ci stiamo formando in questi anni di battaglia da trincea, possiamo fare un passo autenticamente collettivo che è più valido di ogni discorso “sulla politica”.

Se abbiamo capito che nella “soluzione politica” la posta in gioco è il futuro della guerriglia, allora non dobbiamo far passare il progetto nemmeno nella sua forma di “riconversione della lotta armata in lotta politica”. Lo stato vuole andare fino in fondo anche nei nostri confronti: far arretrare complessivamente il dibattito rivoluzionario. Per noi lottare significa impedire questo. Un obiettivo non solo nostro, ma di tutti quelli che, ponendoselo, stanno aprendo ed approfondendo, da diversi punti di vista, la lotta rivoluzionaria.

La lotta è questione di coscienza della battaglia che stiamo combattendo ed è innanzitutto lotta per la nostra identità. È lotta contro la divisione della nostra coscienza collettiva provocata dalla “politica delle opportunità”.

Tra la logica del “divide et impera” della politica di stato e la coesione dell’identità rivoluzionaria noi scegliamo senza timore quest’ultima, nelle condizioni imposte qui, oggi.

 

Latina, luglio 1988

 

Prigioniere comuniste per la Guerriglia Metropolitana – Susanna Berardi, Anna Cotone, Natalia Ligas, Rosa Mura, Teresa Romeo, Marina Sarnelli, Caterina Spano, Pia Vianale

Contro l’isolamento di Abdullah El Mansouri. Carcere di Cuneo, documento del Collettivo prigionieri antimperialisti “La linea di demarcazione”

È dal giorno della sua cattura che il compagno Abdullah Al Mansouri, militante rivoluzionario arabo, antimperialista e antisionista, viene detenuto in una condizione di massimo isolamento.

È dal 6 agosto 1984 che Al Mansouri – a parte qualche breve periodo in cui è stato tenuto assieme ad altri pochi prigionieri italiani – viene sottoposto ad un trattamento troppo particolare dal ministero di Grazia e Giustizia.

È da troppo tempo! È da troppo tempo che il governo imperialista italiano cerca di annientare Al Mansouri!

Dopo essere stato tenuto in condizioni al limite della sopravvivenza nel carcere di Trieste, viste le sue gravi condizioni di salute, viene trasferito prima a Torino, poi a Belluno, a Livorno ed infine a Novara (dopo una breve permanenza a Roma per il processo che l’ha visto imputato assieme a Josephine Abdo). Nel carcere di Novara viene tuttora tenuto in uno stato di massimo controllo ed isolamento, impedendogli ogni contatto con gli altri compagni prigionieri. Le particolari caratteristiche della detenzione di Al Mansouri in Italia non dipendono da motivi giudiziari o strettamente “carcerari”, ma rispondono a direttive di cui è responsabile l’esecutivo, per il tramite dei servizi segreti che su questo compagno hanno appuntato la loro particolare attenzione.

Questa situazione deve finire! L’iniziativa che abbiamo contribuito a promuovere nel carcere speciale di Cuneo sottolinea la gravità di questo problema specifico, ma vuole anche focalizzare l’attenzione sulla realtà complessiva che lo ha prodotto.

Più in generale, il trattamento riservato ai combattenti prigionieri arabo-palestinesi, che si inserisce in quello che l’imperialismo infligge a livello internazionale ai prigionieri rivoluzionari e antimperialisti, viene applicato dallo stato italiano attraverso la dispersione di questi militanti in braccetti periferici (Trani, Spoleto, Voghera) o in sezioni di isolamento come per Al Mansouri, dove al massimo isolamento fisico e politico viene aggiunta una serie di misure volte all’annientamento culturale della propria identità rivoluzionaria e di popolo, oltre all’annientamento psico-fisico.

Questa situazione è perfettamente in linea con il ruolo imperialista che l’Italia svolge nell’area mediterranea, un ruolo che storicamente l’ha sempre vista schierata dalla parte della barbarie, con il colonialismo prima e con l’imperialismo e il sionismo poi. Ripercorrendo brevemente la storia dal dopoguerra ad oggi, vediamo l’Italia dare il suo pieno sostegno politico e materiale alla nascita dell’entità sionista in Palestina, fornire consenso e appoggio logistico all’imperialismo anglo-francese nell’aggressione contro l’Egitto nel ’56 e l’appoggio alla guerra scatenata dal sionismo nel ’67. E’ ben nota l’impunità garantita ai killer del Mossad che scorazzano in Italia a caccia di dirigenti della rivoluzione palestinese. Sono poi di epoca recente l’attiva adesione agli infami accordi di Camp David, le operazioni di sminamento nel mar Rosso, l’invasione di Beirouth a fianco delle altre potenze imperialiste, la provocatoria spedizione, tuttora in corso, nel Golfo Persico. e – ultimo episodio di un’infinita serie – la disponibilità dello spazio aereo italiano concessa ai sionisti nel compiere l’ennesimo assassinio di un dirigente palestinese come Abu Jihad.

Coerentemente con questo marcato ruolo aggressivo – adeguato alla nuova posizione assunta nella NATO (vedi l’accettazione degli F16) e l’integrazione nel complesso del sistema imperialista – vanno visti anche i vecchi e recenti tentativi di condurre una politica di mediazione/pacificazione delle principali contraddizioni presenti nell’area, in primo luogo quella palestinese. La politica estera italiana è da sempre rivolta a depotenziare le spinte antimperialiste e antisioniste della Rivoluzione palestinese, cooptando alle ragioni strategiche di stabilità dell’imperialismo quei settori e quelle forze che, per interessi specifici e matrice di classe, sono più inclini a tradire e snaturare le aspirazioni rivoluzionarie delle masse in lotta. Vanno interpretati in questo senso i ponti che – se pur contraddittoriamente – vengono lanciati verso l’OLP, la cui dirigenza soluzionista e capitolazionista diventa un interlocutore privilegiato, appetibile e “recettivo”… al punto che più di una volta – anche di recente – abbiamo sentito dichiarazioni che dipingono l’Italia come “primo paese arabo”, perpetuando così una mistificazione che dai tempi di Moro in poi maschera la vera natura dei rapporti italiani con il Medio Oriente e il mondo arabo in generale. Sia chiaro che le forze presenti all’interno dell’OLP disponibili a fornire attestati di amicizia a uno stato occidentale che (in piena rivolta delle masse palestinesi!) manda a Gerusalemme il suo capo di stato e il suo ministro degli esteri, sono parte di quello schieramento soluzionista e conciliatore che nulla ha a che vedere con lo sviluppo della lotta in senso conseguentemente rivoluzionario e antimperialista. Allo stesso modo tutte le forze politiche che in Europa e in Italia pur professandosi, da “sinistra” filo-palestinesi, in realtà legittimano e riconoscono l’entità sionista e si candidano alla gestione di strategie di pacificazione, si schierano di fatto a fianco dell’imperialismo e del sionismo.

È solo nella chiarezza della natura dei reali nemici interni ed esterni del popolo palestinese e del movimento di liberazione arabo che è possibile sostenere fino in fondo la guerra rivoluzionaria antimperialista e antisionista. I polveroni solidaristici e “democratici”, il generico e demagogico umanitarismo altro non fanno che annacquare il punto di vista rivoluzionario, disarmando l’internazionalismo e trasformandolo in opportunismo.

Queste posizioni ambigue sono del tutto compatibili con quella opposizione convenzionale che accredita l’esistenza di una “dialettica democratica” a garanzia del massimo consenso attorno alla politica di pacificazione imperialista, “autonomamente” promossa dallo stato italiano.

È solo all’interno delle forze che combattono radicalmente l’imperialismo e il sionismo e le loro politiche pacificatorie e mortifere, è nell’alleanza antimperialista con queste forze – anche se alcune di esse possono essere caratterizzate da criteri e finalità diverse da quelli dell’instaurazione della dittatura del proletariato – che è possibile destabilizzare l’imperialismo nell’area, nella prospettiva di aprire gli spazi e costruire le condizioni per una reale avanzata dei processi rivoluzionari, della liberazione dei popoli oppressi, del rafforzamento in senso socialista dei paesi progressisti della periferia.

Come combattenti comunisti che sostengono la guerriglia e la costruzione del fronte antimperialista combattente, non solo ci sentiamo a fianco dei prigionieri arabo-palestinesi verso i quali va il nostro pieno sostegno internazionalista, ma ci impegniamo a fondo nella ricerca di un rapporto attivo e reciprocamente costruttivo con questi militanti, nella prospettiva di continuare a combattere il nemico comune: l’imperialismo e il sionismo!

 

Sostenere la guerra rivoluzionaria del popolo palestinese e libanese contro l’oppressione imperialista e sionista!

Costruire alleanze antimperialiste per rafforzare e consolidare il fronte antimperialista combattente nell’area!

 

Collettivo prigionieri antimperialisti

“La linea di demarcazione“

 

Cuneo, 16 giugno 1988

A proposito della rifunzionalizzazione dello Stato. Carcere di Rebibbia – Documento di alcuni militanti prigionieri delle BR/PCC

I recenti e grandi mutamenti determinatisi nel capitalismo a livello nazionale e internazionale costituiscono il motivo di fondo per cui – dal punto di vista della borghesia italiana – è necessario superare i limiti di un sistema politico divenuto farraginoso, modificare le «regole del gioco» finora operanti, rifunzionalizzare i poteri e gli apparati dello stato.

In questo senso il progetto demitiano di riforme istituzionali rappresenta il progetto politico più importante e più organico rispetto alle esigenze capitalistiche nella concreta situazione italiana in questa congiuntura.

La Confindustria è favorevole a tale progetto e alle sue implicazioni; ritiene opportuno che la crisi del sistema politico-istituzionale venga affrontata attraverso l’allargamento della democrazia apparente e del neocorporativismo in parallelo ad una maggiore centralizzazione del potere politico nelle mani dell’esecutivo; dulcis in fundo accetta le sue implicazioni, quindi la prospettiva di costruire le condizioni per la possibile alternanza di governo fra diversi schieramenti politici.

In questa legislatura, che dovrebbe terminare nel 1992, è pressoché impossibile si realizzi l’“alternanza”. Emerge però una situazione politica in cui la grande borghesia si sente legittimata a chiedere esplicitamente alla sinistra istituzionale di abbandonare quelle che Gianni Agnelli definisce «suggestioni ideologiche dell’economia di stato».

Non a caso viene stimolato il processo di socialdemocratizzazione del PCI e, più in generale, l’approfondimento della cultura della lealizzazione.

Matura così, anche grazie all’attività quotidiana dei mass-media, un clima politico suscettibile di essere utilizzato per limitare il diritto di autorganizzazione dei lavoratori e dei movimenti di massa, come dimostra inequivocabilmente l’attacco al diritto di sciopero.

Modificando le “regole del gioco” la partecipazione dei lavoratori e delle masse alle decisioni sui temi della vita collettiva e quotidiana dovrebbe essere ancora più formale, apparente, priva di incisività nella sostanza. Il bisogno di democrazia diretta e sostanziale che viene espresso dai movimenti di lotta dovrebbe perciò essere adeguatamente addomesticato, “civilizzato”, ricondotto nell’ambito della democrazia apparente e represso quando risulta irriducibile.

In questo modo si vuole giungere ad un meccanismo politico-istituzionale caratterizzato da una combinazione fra decisionismo e neocorporativismo, in particolare fra un aumentato potere governativo ed un più stabile rapporto del governo con i vertici sindacali ed il padronato.

Numerosi sono gli elementi specifici che dovrebbero costituire il mosaico delle trasformazioni istituzionali; alcuni elementi potrebbero essere modificati ma sostanzialmente le riforme istituzionali sono nel loro complesso utili e necessarie al blocco sociale dominante, egemonizzato dalla grande borghesia.

Le trasformazioni nei metodi di produzione, lo sviluppo dell’internazionalizzazione capitalistica, la crescita del capitale oligopolistico-finanziario multinazionale e l’integrazione nell’area CEE che dovrebbe essere realizzata per il 1992, accentuano la competizione capitalistica internazionale e condizionano in gran parte le modificazioni della forma-stato. La rifunzionalizzazione del sistema politico e dello stato diventa perciò una necessità impellente per dare un supporto idoneo al capitalismo italiano ed in particolare alle sue imprese e banche che operano a livello multinazionale.

È un fatto incontestabile che in questa fase la maggiore velocità delle dinamiche capitalistiche, la maggiore interdipendenza fra i paesi della catena capitalistica internazionale e la necessità del blocco occidentale di avere un orientamento il più possibile comune nei confronti dei paesi dell’Est e del Terzo Mondo, rendano estremamente importante la rifunzionalizzazione dei singoli stati dei paesi a capitalismo avanzato.

Questi stati debbono prendere decisioni sui più diversi problemi, di ordine interno ed internazionale, nel più breve tempo possibile ed in maniera compatibile rispetto alle priorità del capitale oligopolistico-finanziario multinazionale ed alle decisioni di fondo degli organismi politico-economici e politico-militari sovranazionali di cui fanno parte (NATO, FMI, Banca Mondiale, CEE, Gruppo dei 7, ecc.).

In ogni singolo stato dei paesi capitalisticamente avanzati si viene a sviluppare la tendenza all’aumento della centralizzazione del potere politico nelle mani dell’esecutivo. Al tempo stesso, poiché lo “stato-nazione” perde gran parte del controllo di quelle sfere (economiche, politiche e militari) su cui era basata la sua sovranità, risulta che ogni esecutivo punta a rafforzare il proprio ruolo negli organismi sovranazionali.

In questa situazione, l’imperialismo delle multinazionali e delle grandi banche private, l’importanza assunta dagli organismi sovranazionali e la crescita del potere esecutivo-governativo nei singoli paesi dimostrano che, nel quadro delle compatibilità economiche, politiche e militari del blocco occidentale, non c’è alcuna possibilità di democratizzazione sostanziale nei processi decisionali interni e sovranazionali.

Questa realtà, estremamente articolata e complessa, può essere rovesciata soltanto attraverso un’adeguata rivoluzione sociale e politica.

In Italia, ma il discorso può essere allargato all’Europa occidentale, una prospettiva rivoluzionaria, per essere credibile, non può prescindere dalla strategia della lotta armata di lunga durata, cioè da una lotta prolungata contraddistinta dalla lotta armata nella forma storicamente determinata della guerriglia metropolitana, dallo sviluppo di un fronte antimperialista combattente nell’area euro-occidentale ed in quella mediterraneo-mediorientale e da un lungo percorso di indebolimento internazionale dell’imperialismo e di logoramento degli apparati burocratici e militari sovranazionali, egemonizzati dai paesi a capitalismo avanzato.

Il percorso rivoluzionario si fa strada sull’asse strategico dell’attacco al “cuore dello stato”, cioè grazie alla lotta contro i progetti politici sostenuti dalla grande borghesia e dominanti nelle diverse congiunture; si radica in rapporto allo sviluppo dell’autonomia proletaria e dei movimenti di lotta; si rafforza con la crescita della lotta contro le politiche dei suddetti organismi sovranazionali.

In questa direzione, rapportandosi concretamente allo scontro di classe, si ridefinisce e rinnova la progettualità delle BR.

Chi, invece, dopo aver fatto parte del movimento rivoluzionario, si è aggrappato come un corvo al trespolo teorico secondo cui non esisterebbero più le ragioni sociali e politiche per condurre la lotta armata, ha inevitabilmente abbandonato il materialismo storico-dialettico ed abbracciato una concezione idealista dei processi storici.

In verità certi discorsi opportunisti ed idealisti sono emersi non solo per responsabilità politica di coloro che li hanno portati avanti, ma anche per una serie di errori commessi dal movimento rivoluzionario.

Con la sconfitta politica subita nei primi anni ’80 sono usciti allo scoperto i limiti di un movimento rivoluzionario che non ha saputo ridefinire il proprio ruolo in maniera idonea a condurre la lotta rivoluzionaria in una società a capitalismo avanzato attraversata da continue e rapide trasformazioni. La stessa “ritirata strategica” da noi decisa nel 1982, la quale rimetteva in discussione una progettualità rivoluzionaria rivelatasi alla prova dei fatti inadeguata, ha sicuramente creato un argine contro le teorie propagandate nel 1982-83 dagli allora “ultrarivoluzionari” Curcio e Franceschini, contro le teorie idiotesche secondo cui sarebbe stata già operante una “inimicizia assoluta tra proletariato e borghesia” e già praticabile la “guerra sociale totale”. Nel concreto, però, il percorso di ridefinizione del ruolo dei rivoluzionari si è sviluppato in modo contraddittorio e la “ritirata strategica” spesso è stata intesa come arroccamento su posizioni politiche, culturali e militari arretrate, portando il movimento rivoluzionario ad assumere una logica difensivistica che, essendo in aperto contrasto rispetto al carattere fondamentale della guerriglia metropolitana, non ha permesso di tracciare dei reali passaggi per la ripresa e lo sviluppo della lotta rivoluzionaria.

Soltanto la riaffermazione della valenza strategica della lotta armata, suffragata dall’attività di questi ultimi anni, ha permesso alle BR di avviare un processo si critica-autocritica-trasformazione, una dinamica di riadeguamento generale per superare l’arretratezza politica, culturale e militare che ha messo in crisi il movimento rivoluzionario e che in buona misura lo colpisce ancora oggi.

Per iniziare concretamente questo percorso le BR hanno dovuto ridare centralità alla concezione materialistica e dialettica del rapporto prassi-teoria-prassi ed hanno dovuto comprendere che ogni processo rivoluzionario si sviluppa in maniera non lineare, con l’alternarsi di avanzamenti e di ritirate riferite al concreto procedere della lotta di classe.

L’essere rivoluzionari si misura all’interno della lotta di classe, incidendo dentro i rapporti di forza per aprire spazi di agibilità politica e sociale all’autonomia proletaria, di un’autonomia proletaria che anche oggi, nonostante la forte controffensiva borghese dell’ultimo decennio, continua ad esprimersi in mille modi.

La nostra esperienza e l’intera storia del movimento rivoluzionario internazionale dimostrano che l’attività dei rivoluzionari gioca un ruolo fondamentale anche quando le forme che assumono i vari movimenti di lotta sembrano o sono meno avanzati di quelli precedenti.

Il livello di autonomia proletaria e di autorganizzazione dei movimenti di lotta oggi esistenti in Italia è il “grado” possibile di antagonismo di fronte ad una controffensiva borghese che attualmente caratterizza le condizioni dei rapporti di forza tra le classi.

Agire da un punto di vista rivoluzionario, prendendo in considerazione queste condizioni ed incidendo sui rapporti di forza, significa assumere gli interessi generali del proletariato e delineare i passaggi perseguibili affinché tale autonomia riesca ad ampliare i propri spazi sociali e politici e venga rilanciata la lotta rivoluzionaria. Essere rivoluzionari significa perciò dotarsi di strumenti politico-organizzativi in grado di attrezzare il campo proletario alla lotta prolungata contro la borghesia e lo stato.

Ed è proprio in questo senso che si sta svolgendo l’attività della nostra Organizzazione, delle Brigate Rosse.

 

Alcuni militanti prigionieri delle BR/PCC

 

Rebibbia, giugno 1988

Contro il nemico sionista. Carcere di Rebibbia, documento di Ahmad Sereya e Birawi Tamer

Senza dubbio il sionismo è un movimento coloniale ed espansionista ed è un regime razzista (risoluzione ONU) che ha in «Israele» l’espressione più chiara ed esplicita.

Non è possibile definire scientificamente «Israele» come uno stato o una società, è soltanto una stazione di raccolta di diversi gruppi etnici, di coloni ed avventurieri. Ecco perché non esiste e non esisterà mai una omogeneità culturale, ideologica e sociale. Questa entità soffre di varie contraddizioni interne, di razzismo fra i diversi gruppi di Ebrei provenienti da tutto il mondo. Come è possibile allora chiamare questa miscela una società? Le contraddizioni si estendono perfino in campo religioso – basta pensare ai «Falashà» che sono emarginati e disconosciuti dai circoli religiosi ortodossi, cosa che provocò molti casi di suicidio fra gli Ebrei etiopici, come espressione di disperazione e come via d’uscita dalla condizione punitiva in cui si sono trovati dopo essere stati sradicati dalla loro patria per contribuire alla politica colonialista dell’entità sionista in Palestina. I sionisti sono riusciti per molto tempo ad ingannare l’opinione pubblica internazionale ed hanno potuto nascondere per diverso tempo i loro piani e la loro politica razzista.

L’ideologia sionista è totalmente falsa perché è basata sulla pretesa che gli Ebrei sparsi per il mondo formino uno stato, mentre la religione, qualsiasi religione, non forma una nazione.

L’entità sionista è di tipo confessionale, basata sulla bibbia attuale, che non ha niente a che fare con la bibbia di Mosè e gli Ebrei attuali non sono, per nessuna ragione, i discendenti di Abramo e di Giacobbe e nemmeno di Mosè. Tutti questi elementi hanno spinto il sionismo a mettere in campo tutta la sua forza ed energia, aiutato dalle sue alleanze con le potenze coloniali prima e con quelle imperialiste ora, per mettere in piedi quell’entità falsa che è «Israele».

La creazione d’Israele è stata voluta dalle potenze coloniali ed imperialiste, per svolgere la funzione di cane da guardia nell’area mediorientale e funzionare come lunga manus per proteggere gli interessi occidentali in questa zona. È una spina nel cuore del mondo arabo ed è un cancro nel corpo della Nazione araba, che mira a tenerla divisa e debole.

Per sopravvivere, l’entità sionista ha messo in atto lo scenario seguente: fare apparire l’entità sionista come uno «stato» democratico, dove convivono diverse linee politiche e perciò hanno creato diversi partiti e filoni ideologici che si battono tutti quanti per proteggere il sionismo e la sua creatura mostruosa: «Israele».

Si parla tanto del cosiddetto Partito Comunista Israeliano «Rakah», che è una rete di spionaggio al servizio del Mossad e che lavora per assorbire la rabbia e la ribellione della classe operaia palestinese. L’esistenza del «Rakah» serve anche per mascherare l’odio e l’inimicizia del movimento sionista verso il comunismo. Dopo tutto, il sionismo è abile ad assegnare i ruolo previsti ad ogni partito o filone politico. Al riguardo gli esempi sono tanti; ne citiamo alcuni:

  1. A) Il cosiddetto partito laburista,che viene presentato come un partito disponibile e morbido che accetta l’idea di una soluzione pacifica del conflitto mentre ci si scorda che questo partito è il primo responsabile di tutte le politiche sioniste dal 1948 al 1977.
  2. B) La cosiddetta linea dura, che nega l’esistenza del popolo palestinese e rifiuta nettamente qualsiasi trattativa con l’OLP.
  3. C) La linea oltranzista, che è la faccia mascherata del sionismo e che predica la «soluzione finale» con la liquidazione fisica del popolo palestinese ed è rappresentata dal rabbino Meir Kahane.

Il nemico sionista ha sempre adottato la logica dell’offensiva basandosi sullo slogan: «l’offensiva è la miglior difesa» e ciò indica la paura dei sionisti che l’iniziativa passi agli arabi per capovolgere la formula e sconfiggere il sionismo. Perciò l’aggressività e l’espansionismo sono caratteri originari e permanenti dell’entità sionista. A questo proposito i sionisti, aiutati dal loro alleato organico, l’imperialismo internazionale e quello americano in modo speciale, hanno lavorato per la supremazia militare e tecnologica di «Israele» ed hanno messo in atto una politica di liquidazione e sterminio nei confronti dell’avanguardia della Rivoluzione e del Movimento di liberazione arabo: il popolo palestinese. Così gli atti di aggressione hanno toccato i popoli arabi come quello palestinese, quello libanese con le invasioni del Sud del Libano del 1978 e quella più estesa del 1982, con il bombardamento del reattore nucleare iracheno nel 1982 (l’entità sionista ha da 100 a 200 bombe atomiche e non ha firmato l’accordo di non proliferazione nucleare) e con l’aggressione del 1985 contro la sede OLP a Tunisi e con l’uccisione, che non sarà l’ultima, di Abu Jihad.

Tutto ciò indica senza equivoci la vera natura del sionismo. L’aiuto americano e degli stati europei occidentali all’entità sionista è storico ed essenziale. E questo aiuto si estende a tutti i campi, da quello militare-economico fino a quelli informativo e di sostegno morale. L’Italia, come paese membro della NATO e alleato dell’imperialismo, ha dato e continua a dare un suo contributo al sionismo. Contributo che cominciò negli anni ’40 mettendo a disposizione dei sionisti mezzi e porti italiani per facilitare l’emigrazione di migliaia di Ebrei provenienti da tutta Europa verso la Palestina. Con la fondazione dell’entità sionista le relazioni italo-sioniste si sono rafforzate ed ufficializzate con il riconoscimento italiano dell’entità sionista, mentre a tutt’oggi l’Italia non riconosce l’OLP.

Con la complicità italiana, i servizi segreti sionisti hanno liquidato molti quadri politici e personalità palestinesi che vivevano in Italia e la polizia e la magistratura italiane non si sono mai impegnate a fondo per arrestare e condannare i killer sionisti; anzi, le autorità italiane rifiutarono di collaborare con i Palestinesi nel corso delle indagini sull’uccisione di Palestinesi: il caso più scandaloso fu l’indagine per l’uccisione di Mayed Abu Sharar, membro del Comitato Centrale di Al Fatàh e responsabile del dipartimento stampa, avvenuta a Roma nel 1981. Nel 1973 fu ucciso a Roma lo scrittore palestine Wail Zwaiter. Nel 1982, sempre a Roma, furono uccisi due esponenti dell’OLP Nel 1985 agenti del Mossad spararono 70 colpi ed uccisero molti cittadini stranieri nel corso della sparatoria avvenuta all’aeroporto di Fiumicino. Mentre il palestinese che faceva parte del commando fu arrestato, processato e condannato a 30 anni, gli agenti sionisti non si sono presentati al processo a l’ambasciata sionista negò perfino l’esistenza di questi agenti. Non ultimo, il caso del tecnico nucleare sionista Vanunu, che fu rapito a Roma da agenti del Mossad e portato in «Israele» per subire un processo, perché aveva rivelato i segreti nucleari sionisti. Questi sono solo alcuni esempi della complicità italiana con i sionisti, per non parlare del ruolo dell’Italia nella NATO, dei missili puntati sul Nord-Africa ed il Medio Oriente e della partecipazione italiana alla forza ONU nel Sinai e nel Sud del Libano, che ha il compito di proteggere l’entità sionista. Lo stato imperialista italiano è consapevole della sua complicità e per questo lavora per mascherare il suo ruolo e fa dichiarazioni che non valgono nemmeno l’inchiostro con le quali sono scritte.

Durante la rivolta, il Presidente della Repubblica Cossiga, accompagnato dal ministro degli Esteri, è andato a legittimare l’operato dei sionisti contro i palestinesi nella Palestina occupata, lanciando parole che non possono né potranno coprire l’appoggio e la complicità italiane alla politica repressiva dei sionisti. A cosa serve condannare a parole l’uccisione di Abu Jihad, quando ai sionisti è stato concesso di utilizzare lo spazio aereo italiano proprio per compiere quella missione? A cosa servono le condanne italiane (se ci sono state) quando l’Italia rifiuta di riconoscere l’OLP, l’unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese? In questo quadro vanno capite ed analizzate le ultime mosse artificiose del governo De Mita, che vuol sollevare una cortina di fumo per coprire la complicità italiana nel dramma palestinese ed assorbire la rabbia e lo sdegno del popolo palestinese e della nazione Araba contro l’Italia.

Per quanto riguarda i regimi arabi, essi sono in maggioranza dei regimi fantoccio al servizio dell’imperialismo, la loro esistenza e sopravvivenza si basa essenzialmente sull’aiuto americano e sionista. L’esistenza di questi regimi dittatoriali è legata all’esistenza dell’entità sionista, perciò la battaglia per la liberazione della Palestina passa attraverso la liberazione della nazione Araba e la Rivoluzione palestinese è l’avanguardia del Movimento di liberazione pan-arabo, come la Palestina è parte integrante del mondo arabo. Questi regimi sono falliti , a livello interno, nel processo di sviluppo, come hanno fallito e falliranno nel processo esterno: difendere la loro falsa indipendenza e liberare la Palestina.

In fondo, sono pochi i regimi progressisti arabi che vogliono lavorare e lavorano per liberare la Palestina, affrontando tutte le conseguenze di tale scelta: scontrarsi con l’imperialismo e il sionismo.

I regimi arabi si possono dividere in tre categorie, rispetto al loro atteggiamento verso la causa palestinese:

1) I regimi sconfitti e traditori, filo-americani e filo-sionisti, che hanno scelto apertamente l’alleanza con il sionismo, come l’Egitto, il Marocco e la Giordania.

2) I regimi che non hanno il peso politico-militare per giocare un ruolo attivo nella zona, perciò fanno da spettatori.

3) I regimi che lavorano per il cosiddetto bilancio strategico (1) con i sionisti come la Siria, la Libia, l’Algeria.

In generale, la maggioranza dei regimi arabi non vuole affrontare i sionisti e cerca di seppellire la causa palestinese, una posizione che ha avuto una chiara conferma nell’ultimo vertice dei regimi arabi di Amman, quando la causa palestinese viene messa in secondo piano e viene posta al primo posto la minaccia del presunto pericolo rappresentato dalla Rivoluzione iraniana, in concordanza con gli americani e gli europei.

Il movimento delle masse armate palestinesi e libanesi, appoggiato dal movimento progressista arabo, ha dato prova delle capacità delle masse di affrontare e sconfiggere sia i sionisti che gli imperialisti europei e americani. E le battaglie in Libano lo dimostrano ogni giorno, dove l’aggressione sionista paga un contributo di sangue di continuo; come lo dimostra il fallimento di tutti i piani politico-militari del sionismo, e non ultima la campagna battezzata «Pace in Galilea» del 1982, che ha provocato disastri economici, militari e morali all’entità sionista.

Per la Palestina occupata, la rivolta in corso da 5 mesi non è altro che la dimostrazione netta del rifiuto dell’occupazione e della decisione delle masse palestinesi a passare all’azione per ottenere la libertà. La rivolta è un ciclo, una fase inevitabile e normale nella lunga guerra contro il sionismo. Uno degli aspetti più importanti di questa rivolta, è che le masse arabe palestinesi sono passate all’iniziativa ed hanno messo in ginocchio l’apparato militare e amministrativo dell’occupante, una prova che le masse sono più forti di qualsiasi esercito, una prova che quando l’iniziativa passa in campo arabo, ai sionisti non rimane che commettere crimini simili a quelli dei nazi-fascisti. La rivolta attuale passerà come un evento storico, nel processo di liberazione della Palestina.

Per quanto siamo convinti della vittoria finale del popolo palestinese, ci poniano alcune domande legittime:

1) Non è andata in frantumi la logica del bilancio strategico per affrontare i sionisti?

2) Perché e quando le masse arabe faranno sentire la loro voce e inizieranno la loro lotta contro l’imperialismo?

3) Ci sarà un fronte arabo unito in funzione anti-sionista e quale sarà il ruolo dell’organizzazione militare palestinese? Con questo fronte si potrà attuare un boicottaggio economico arabo antimperialista e quando?

4) Che fine faranno i conti correnti arabi nelle banche americane ed europee?

Pur ponendoci queste domande, continuiamo a mantenere la nostra inalterabile alleanza con le masse arabe e la fiducia che queste vinceranno la loro battaglia e romperanno le loro catene!

 

GLORIA AI MARTIRI

GLORIA ALLA RIVOLUZIONE PALESTINESE

RIVOLUZIONE FINO ALLA VITTORIA

Ahmad Sereya, Birawi Tamer

Carcere di Rebibbia, giugno 1988

NOTE:

1) Il termine «bilancio strategico» va inteso nel senso di una ricerca di bilanciamento o equilibrio delle forze su un piano generale: economico, politico e militare. Questo equilibrio in una logica da stato, viene visto come unica possibilità per competere con il sionismo e sul lungo periodo sconfiggerlo.

Il processo per insurrezione armata contro i poteri dello Stato come dichiarazione di morte presunta della guerriglia in Italia. Corte d’Assise di Roma, Comunicato dei militanti delle BR-PCC Sandro Padula e Francesco Sincich consegnato durante il processo

Ancora una volta lo Stato vuole processare la lotta armata e imbastisce, a tale scopo, un processo che è naturalmente reso possibile dai rapporti di forza a favore della borghesia. Lo fa con imputazioni che, nella loro forma giuridica borghese, esprimono l’esistenza di uno scontro rivoluzionario in atto in questo paese ed in quanto tali non le respingiamo. Sono semplicemente ininfluenti su questo scontro e indicano l’incomprensione, da parte della borghesia, del carattere storico, oggettivo ed inarrestabile del processo rivoluzionario.

Ancora una volta i militanti delle BR si trovano in un’aula giudiziaria per riaffermare semplicemente la realtà dei fatti e la continuazione di un processo rivoluzionario iniziato, in questo paese, nel 1970 con la nascita dell’organizzazione BR e snodatosi per 19 anni attraverso un percorso politico strettamente connesso allo sviluppo del movimento di classe in Italia e della contraddizione fra imperialismo e rivoluzione nel mondo. Un percorso certo non lineare perché non è stato e non può essere lineare lo sviluppo della guerra di classe e perché la nostra organizzazione ha saputo adeguarsi a tutte le situazioni, anche le più difficili, che si sono presentate in questi anni, ponendosi sempre al punto più alto dello scontro.

Anche oggi, con l’individuazione e l’attacco al progetto demitiano di riforme istituzionali, un progetto indispensabile per l’adeguamento dello Stato ai nuovi assetti interni ed internazionali determinatisi nell’ultimo decennio, e con l’unità d’azione con la RAF all’interno del Fronte combattente antimperialista, le BR per la costruzione del PCC si pongono al livello politico e militare che lo sviluppo dello scontro rivoluzionario richiede, in continuità con i presupposti strategici su cui si fondano fin dalla loro costituzione. Si tratta di presupposti strategici che hanno portato all’affermazione della guerriglia in questo paese, a renderla non solo forza politica rivoluzionaria ma anche processo rivoluzionario in atto, concretizzazione della guerra di classe di lunga durata in uno dei paesi del centro imperialista. Un centro imperialista in cui la guerriglia continua a vivere non solo come punto di riferimento obbligato per qualsiasi progetto rivoluzionario, ma anche come guerra di classe in atto qua, come nella RFT ed in altri paesi.

Oggi i militanti prigionieri della RAF e della resistenza stanno lottando per il raggruppamento e la difesa dell’identità rivoluzionaria che lo Stato tedesco-occidentale ha cercato di annientare con anni di isolamento, deprivazione sensoriale, torture ed assassinii. Per noi, qui, sostenere la loro lotta significa innanzitutto riaffermare con forza l’importanza fondamentale dell’unità d’azione RAF-BR all’interno del Fronte combattente antimperialista. Significa quindi sostenere la pratica politico-militare del Fronte ed i suoi contenuti programmatici destinati a dare nuovo impulso alla lotta rivoluzionaria nell’area (Europa occidentale – Mediterraneo – Medio Oriente). La guerriglia da questo altissimo livello raggiunto non tornerà indietro e la continuità dell’esperienza delle BR, come quella della RAF, sta a dimostrarlo.

Con buona pace di chi vorrebbe affidare al “processo di insurrezione” la dichiarazione di morte presunta della guerriglia in Italia, le BR/PCC sono fuori da quest’aula, nello scontro sociale in atto, nella lotta incessante tra rivoluzione ed imperialismo, e continuano a portare avanti il processo rivoluzionario iniziato 19 anni fa. Come militanti prigionieri di questa organizzazione ci limitiamo ad indicare la realtà dei fatti, che non può trovare posto in quest’aula di tribunale, dove si celebra l’ennesima e spettacolare farsa.

Poco importa che un certo numero di ex-militanti delle BR si adatti al terreno proposto dallo Stato e si affanni con diverse sfumature a dare per morta, moribonda, inattuale, sbagliata, “oltrepassata” la lotta armata in questo paese: non sono le parole che contano nei processi storici, ma i fatti. Ed i fatti stanno a dimostrare che non esiste “soluzione politica” allo scontro di classe, non esiste soluzione pacifica alla contraddizione tra rivoluzione ed imperialismo. In entrambi vive un rapporto di guerra che separa e contrappone la rivoluzione alla barbarie imperialista: la rivoluzione socialista per lo sviluppo dell’uomo e delle sue possibilità materiali ed intellettuali in contrapposizione al militarismo imperialista, al razzismo, all’individualismo, al sessismo, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, alla minaccia che il sistema capitalistico porta alle stesse condizioni concrete dell’esistenza umana. La nostra organizzazione e noi stessi siamo parte attiva di questo rapporto, siamo nemici di questo Stato, siamo contro il sistema capitalistico, siamo per il comunismo.

Il “processo di insurrezione”, come ogni altro in cui siamo stati e saremo coinvolti, è per noi solo un’occasione, una delle tante, per sostenere la linea politica e la pratica politico-militare dell’organizzazione in cui militiamo. Per noi, per i militanti prigionieri, parla e parlerà la guerriglia.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Sandro Padula, Francesco Sincich

 

Roma, 1 marzo 1989