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La priorità dell’antimperialismo nella prassi rivoluzionaria della guerriglia. Quinta Corte d’Assise di Roma – Dichiarazione dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini allegata agli atti del processo per “banda armata”

Il processo che viene qui celebrato contro i militanti delle BR-PCC e i rivoluzionari è pienamente calato nel clima di questa nuova fase politica, una fase politica complessa e densa di contraddizioni la quale, in relazione al piano che investe questo processo, riflette da un lato le particolari condizioni provocate dalla politica antiguerriglia sui prigionieri, dall’altro è la misura politica delle modifiche profonde che stanno avvenendo negli assetti del potere della borghesia, nella sostanza stessa della mediazione politica tra classe e Stato. La proposta dello Stato di soluzione politica per la guerriglia fatta qualche anno fa ai prigionieri, allo scopo di chiudere il conflitto aperto dal terreno rivoluzionario, ha sostanzialmente fallito il suo obiettivo, in quanto si è risolta unicamente con un ulteriore arruolamento nelle file della controrivoluzione di alcuni ex militanti, mentre il tentativo di riversarla sul terreno dello scontro rivoluzionario si è scontrato con l’indisponibilità delle BR e dei rivoluzionari a deporre le armi.

Il risvolto alla soluzione politica ha dato luogo ad un incremento dell’attività antiguerriglia volta a liquidare militarmente le BR e per altro verso a ridefinire le condizioni dei prigionieri che non intendono mercanteggiare la loro identità rivoluzionaria e d’organizzazione col nemico di classe. La politica antiguerriglia, compresa la sua specifica accezione verso i prigionieri, deriva direttamente dalle condizioni politico-generali dello scontro di classe, ovvero il modo con cui essa viene definita è strettamente legato all’evoluzione dei rapporti politici tra classe e Stato; per questa ragione il fallimento della soluzione politica non è dipeso unicamente dalla netta intransigenza opposta dalle BR-PCC a questo tentativo controrivoluzionario, ma principalmente dalla vitalità del processo rivoluzionario, dalle condizioni oggettive e soggettive per espletarlo, dalla verifica attraverso la pratica della centralità della prospettiva rivoluzionaria nel contesto dello scontro fra classi esistente nel nostro paese, e dalla funzione che in ciò vi riveste l’avanguardia combattente.

Proprio per l’evidenza di questo dato politico il quale dipende dal carattere della dinamica generale dello scontro di classe in Italia i “golpisti istituzionali” che in questa fase gestiscono la politica dell’Esecutivo, non trovano altro modo di contenere le istanze antagoniste che si producono nel campo proletario, se non attraverso chiare e concrete intimidazioni all’interno di un attacco ampio e articolato che si avvale di metodi di controguerriglia contro gli aspetti qualificanti dello scontro e come “tattica” preventiva per smorzare il montare delle istanze di lotta. La difficoltà di tenere a bada entro limiti di “mediazione possibile” la crescente opposizione di classe porta l’Esecutivo ad operare forzature su forzature nelle relazioni politiche con la classe. La difficile gestione di tali pressioni viene mistificata dalla “campagna contro la criminalità”. Sì, esiste una campagna di criminalità, ma è quella che sta attuando l’Esecutivo contro l’ambito di classe: raid militari nei conflitti di lavoro e contro le espressioni del Movimento Rivoluzionario, interventi d’autorità sul diritto di sciopero, esecuzioni legalizzate, minacce di estendere i metodi antiguerriglia sul movimento di classe. Questa travagliata fase di scontro fa temere allo Stato la sola cosa che più di ogni altro può mettere in discussione il suo potere: ovvero l’attività rivoluzionaria delle Brigate Rosse, perché capace di legarsi dialetticamente alle istanze di lotta più mature, e di dirigerle e organizzarle sul terreno dello scontro rivoluzionario.

Questo spettro, la guerriglia, non fa dormire sonni tranquilli alla borghesia e al suo Stato, perché rappresenta l’alternativa strategica, concreta e praticabile alla crisi della Borghesia Imperialista. Ed ecco agitare questo spettro in termini preventivi nel chiaro intento di strumentalizzare la guerriglia per ritorcerla da un lato contro il movimento di classe, dall’altro contro le stesse Brigate Rosse. Una politica terroristica questa dagli evidenti limiti… e che dimostra le insormontabili difficoltà della Borghesia Imperialista, mentre per lo scontro rivoluzionario le prospettive non possono venir meno, al di là di inevitabili battute d’arresto, dato lo spessore politico che in questo ventennio si è sedimentato nel tessuto di classe e nelle sue avanguardie a partire dal ruolo che le BR hanno saputo svolgere nel dirigere questo complesso processo rivoluzionario.

In questo senso la nostra presenza qui è tesa ad esprimere l’attualità e la validità della linea politica e della proposta strategica della nostra Organizzazione malgrado la volontà, che si esprime anche in quest’aula, di soffocare la presenza politica dei militanti delle BR e dei rivoluzionari, di mistificare il senso stesso dei processi politici contro la guerriglia dentro formule e riti giuridici che per quanto sommari risultano inefficaci a nascondere la natura di classe di questi processi: quindi il nostro atteggiamento qui non può che riflettere il rapporto di guerra esistente tra la guerriglia e lo Stato, e in conseguenza di ciò, ribadiamo l’inconciliabilità delle nostre posizioni nei confronti dello Stato.

Per meglio comprendere i caratteri della fase politica che si è aperta nel nostro paese è necessario delineare brevemente il quadro internazionale che si è maturato in quest’ultimo decennio data la stretta relazione che corre tra la situazione in Italia e nel resto del mondo capitalistico. Mai come adesso la contraddizione Est-Ovest manifesta la sua dominanza all’interno del contesto mondiale. Le demagogiche campagne dell’imperialismo sulla “dissoluzione dei blocchi” e sulla nuova “era di disarmo” a mala pena dissimulano gli interessi economici, politici e militari che sottostanno alle prese di posizione e al ruolo svolto dai paesi occidentali all’interno della frantumazione degli equilibri post-bellici. L’accumularsi delle contraddizioni prodotte dalla crisi economica e dagli elementi di approfondimento dell’imperialismo, nel loro interconnettersi, premono verso il piano delle relazioni politiche, e quindi anche militari, stabilite dal rapporto Est-Ovest, una dinamica questa che è alla base dell’attuale fase dell’imperialismo; quello che si sta verificando è un complesso processo, che ha maturato significativi passaggi della tendenza alla guerra, e che si manifesta con caratteristiche specifiche a questa fase dell’imperialismo. Il riflesso di questi passaggi sul piano politico e militare si misura giocoforza col quadro storico stabilito dalla divisione del mondo in due sfere d’influenza, in due campi di interesse contrapposto, e che nella fase attuale da origine a quelle peculiari relazioni tra l’imperialismo e i “paesi dell’Est” date anche dalla specifiche condizioni e contraddizioni di questi paesi. Così come la crisi che si produce dentro al modo di produzione capitalistico, la tendenza alla guerra e il portato oggettivo dell’accumularsi critico della crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali (e di mezzi di lavoro) che non possono operare come tali. Uno stato a cui il capitale, esaurite tutte le possibili controtendenze, ha risposto storicamente con la guerra, quale mezzo per distruggere il sovrappiù di capitale prodotto in tutti i suoi termini, dove lo stadio di accumulazione critica delle contraddizioni mette in discussione equilibri e rapporti di forza complessivi premendo per una loro ridefinizione. Il movimento economico che si è affermato in quest’ultimo decennio nel mondo capitalistico, a seguito delle ristrutturazioni e delle introduzioni di nuove tecnologie nella produzione, ha fatto sì che si formassero poderosi processi di accentramento e centralizzazioni monopolistiche. Un processo che nel suo insieme ha liberato enormi quote di capitale finanziario. Per il grado di interdipendenza già esistente tra le economie capitaliste, questo movimento ha provocato un salto in avanti nel livello di internazionalizzazione ed integrazione economica tra gli Stati della catena imperialista; ciò ha nel contempo evidenziato le modifiche sopravvenute nella collocazione dei paesi della catena rispetto alla divisione internazionale del mercato del lavoro uscita dal dopoguerra. Sono gli USA, quale paese più sviluppato della catena, che hanno fatto da battistrada rispetto alle tendenze economiche affermatesi nel resto del mondo capitalistico, e propria per questa ragione hanno consumato per primi tutte le tappe che conducono alla crisi. La velocità con cui si consuma il ciclo capitalistico negli USA ha fatto sì che si affermasse la tendenza ad usare la politica del riarmo (e in taluni casi sbocchi militari) come “stimolatore” dell’economia; basti pensare che fin dal 1948 il ciclo espansivo già iniziava ad incepparsi manifestando i primi segni di recessione. La guerra di Corea ha avuto in quel caso la funzione di ritrainare l’economia USA. Quando è avvenuto il salto di composizione organica nella produzione, con l’introduzione della microelettronica e della robotica nei mezzi di lavoro, la velocità del ciclo è ulteriormente aumentata, e per la maggior produttività derivata anche dall’intensificazione dei ritmi di lavoro, si è alzato vertiginosamente il tasso di plusvalore relativo dando luogo a questa dinamica capitalistica: da un lato processi di concentrazione monopolistica, dall’altro uno stimolo alla caduta tendenzionale del saggio medio di profitto. Ma la rapidità con cui si è consumato il ciclo ha provocato una strisciante e pervicace recessione; soprattutto verso la fine del periodo reaganiano la struttura produttiva si è significativamente indebolita anche per la tendenza dei capitalisti a chiudere o non rinnovare gli impianti produttivi investendo solo in particolari settori ad alta tecnologia. La dimensione di questa tendenza ha configurato un vero e proprio processo di destrutturazione produttiva, la cosiddetta deindustrializzazione. In una certa misura le stesse scelte di politica economica compiute durante la presidenza Reagan hanno contribuito all’indebolimento della struttura produttiva. Il neo-liberismo ha messo in atto una serie di misure per favorire la ripresa dell’accumulazione capitalista e l’incremento dei profitti, in tal senso ha agito su più piani: sia stimolando l’azione selettrice della concorrenza, sia con apposite politiche monetarie, sia comprimendo le spese sociali; se a ciò si aggiunge la drastica riduzione del costo del lavoro avvenuto con le ristrutturazioni, si comprende come il cosiddetto “boom economico più lungo del dopoguerra” sia solo riferito ai profitti, in quanto è avvenuto in un contesto recessivo, contesto che non ha prodotto un allargamento della base produttiva al livello dell’investimento capitalistico necessario. Il boom dei profitti è stato tale da causarne un’inflazione e ciò ha favorito quella particolare tendenza ad impegnarli in speculazioni finanziarie, le quali conseguentemente hanno rigonfiato i parametri economici rispetto alla ricchezza reale prodotta. I poderosi processi di fusione attuati dai grandi trust monopolistici in settori ad alta composizione organica hanno avuto come risvolto il ridimensionamento dei settori a bassa e media tecnologia e la rovina di gran parte dell’agricoltura, un processo che come rovescio ha inevitabilmente approfondito le differenze sociali.

Alcuni dati possono dare la misura di questa realtà. Nella produzione in questo decennio la produttività per addetto è aumentata del 14%, mentre la perdita di potere contrattuale della classe operaia e delle sue rappresentanze sindacali ha consentito che fossero stipulati contratti che per assurdo prevedevano una riduzione di salario in casi di perdita di competitività dell’azienda; la stessa rimodellazione del mercato del lavoro ha camuffato i dati concreti, facendo apparire come occupati anche quelli che hanno lavorato poche settimane l’anno, o poche ore per settimana, o tramite la possibilità di suddividere un salario tra più persone. La riduzione delle spese sociali (previdenza, casa, sanità, istruzione) ha inciso sul livello di reddito di quegli strati che in passato sono stati l’anima della classe media, comportandone un drastico impoverimento. Di fatto in questo decennio gli stessi parametri borghesi calcolano al 13% sull’intera popolazione il tasso di povertà. Al fine di intervenire sugli effetti della crisi in termini controtendenziali e favorirne il decorso sono stati sviluppati molti studi dagli economisti borghesi sul tipo e durata dei cicli, come ad esempio quelli elaborati dal “Centro internazionale per la ricerca sui cicli economici della Columbia University”, una maggiore conoscenza che è servita per intervenire preventivamente con politiche mirate. Queste politiche, soprattutto quelle monetarie, hanno funzionato da stimolo artificiale delle stasi, per questo è stato possibile convivere con la recessione per così tanto tempo. Gli effetti di questi palliativi (“economia drogata”) hanno dato spazio a tesi sulle capacità autogeneratrici del capitalismo e ad apologetiche “bontà” di questo sistema sociale. Ma poiché le controtendenze non possono incidere nella sfera della produzione, nella sede cioè dove si produce la crisi, queste finiscono solamente per spostare in avanti le contraddizioni approfondendole ulteriormente, tenendo anche conto della diminuzione del capitale messo in moto in un ciclo capitalistico a questo livello di sviluppo. Per queste ragioni le controtendenze messe in atto negli anni ’80 hanno esaurito il loro effetto “calmierante”, finendo con il produrre gravi scompensi nell’economia mondiale. Nonostante questi interventi, negli USA dall’82 la crescita del prodotto nazionale lordo non ha superato la soglia del 3%, indice per il quale gli stessi economisti borghesi non considerano vi possa essere crescita: in poche parole recessione.

La realtà è che a far da volano dell’economia statunitense è stato il più colossale riarmo prodotto dal dopoguerra, il principale intervento di politica economica operato dalla Casa Bianca e su cui ha fatto ruotare tutte le altre decisioni economiche. Gli alti tassi d’interesse hanno permesso di rastrellare capitali da ogni parte andando a finanziare i programmi del Pentagono, una politica monetaria che se è stata funzionale al riarmo, ha da un lato esportato inflazione in Europa, dall’altro ha contribuito ad ingigantire il deficit di bilancio sia federale che nel commercio. La scelta del riarmo ha permesso e permette di immobilizzare i capitali eccedenti all’interno delle tecnologie avanzate impiegate intorno al settore bellico, un settore che assorbe enormi quote di finanziamento solo per sviluppare la ricerca (parte di essa finalizzata su calcolatori superveloci). Le tecnologie avanzate applicate al militare hanno consentito di approntare sofisticati sistemi d’arma, applicabili tanto ai satelliti quanto alle nuove e moderne armi convenzionali; un dato questo che dimostra l’inconsistenza degli apologetici scenari di pace che la propaganda imperialista cerca di propinare, non fosse altro che per il volume astronomico degli investimenti “incorporati” all’interno del riarmo.

Data l’interconnessione delle economie, è subito chiaro come l’andamento dell’economia statunitense condizioni quelle degli altri paesi. In questo senso le principali controtendenze tendono ad affermarsi in tutto l’ambito capitalistico, rafforzando l’interdipendenza e complementarietà, nonché il loro rapporto gerarchico; così è stato per le politiche keynesiane, come per quelle neo-liberiste, così lo è tendenzialmente per il riarmo. L’Europa Occidentale fino ad ora, pur nelle sostanziali differenze di posizioni, ha usufruito di maggiori margini economici. La stratificazione risultata dallo sviluppo ineguale ha permesso di ammortizzare gli effetti della crisi in tempi più lunghi, ciò ha consentito di adottare misure controtendenziali, che tra l’altro non hanno soffocato le produzioni a bassa e media tecnologia, anzi sono state favorite da appositi aiuti statali. Ciò nonostante in questi ultimi anni la tendenza ad adottare la scelta della particolare politica economica del riarmo, come traino dell’economia, è proceduta in modo consistente anche in Europa Occidentale a partire dall’Inghilterra che per prima vi ha ricorso anche a causa delle sue strette relazione con gli USA. Ma la politica di riarmo, necessitando di ingenti masse di capitale finanziario per potersi legare alle tecnologie avanzate, richiede giocoforza uno sforzo comune dei paesi europei, per questo attualmente sia la ricerca che le commesse vere e proprie sono centralizzate da organismi che fanno riferimento alla NATO. Questa cooperazione, in parte forzata, favorisce l’ulteriore interconnessione delle economie e su un altro piano si riflette nei livelli di integrazione politico-militare. Per questa ragione la filosofia dell’Alleanza Atlantica, rispecchiando questa situazione, ha promosso significative esperienze interforce che integrano i rispettivi ammodernamenti degli eserciti e per altro verso approfondiscono i livelli di collaborazione multilaterale e bilaterale tra paesi europei in campo militare. Le differenze che si sono accentuate nella collocazione dei paesi della catena vedono spostarsi il peso economico verso il cuore dell’Europa Occidentale, senza che questo significhi perdita della leadership degli USA, sia perché rimane il paese più sviluppato capitalisticamente, per quanto indebolito dalla strisciante recessione, sia per il ruolo politico-militare che a tutt’oggi rende gli USA in grado di forzare e pilotare verso le sue scelte politiche i partners della catena, pur tra stridenti contraddizioni, senza dimenticare la capillare penetrazione economica che il gigante statunitense ha perpetrato sull’intero continente, con conseguente influenza politico-militare. Tutto ciò all’interno della dimensione internazionalizzata dell’imperialismo che costringe ad una stretta interrelazione economica tutti i paesi della catena, con il risultato di poter scaricare parte degli effetti della crisi sugli altri partners. Questo quadro però non si presta a facili schematizzazioni come quelle che vedono tre principali antagonisti in campo, Giappone-USA-Europa Occidentale; ciò è infondato per il fatto che da un lato l’economia giapponese è cresciuta in modo totalmente dipendente dagli USA, e quindi con un certo grado di complementarietà, mentre dall’altro l’Europa Occidentale, pur nelle differenze di movimento della dinamica capitalistica, è assai integrata al livello di composizione dei colossi monopolistici col capitale finanziario USA, anche se gli ultimi anni hanno visto un’inversione di tendenza degli investimenti, accentuandosi quelli europei verso gli USA. Questi dati acuiscono maggiormente i livelli di concorrenzialità sui mercati capitalistici sottoponendoli a spinte contrastanti, e questo anche perché l’ultimo decennio è stato decisivo per una modifica qualitativa dell’ambiente capitalistico nello specifico europeo a causa del formarsi di significative aggregazioni monopolistiche intereuropee (e per la maggior tenuta del tessuto produttivo). Questa situazione ha in un certo senso rivoluzionato i termini della concorrenza interimperialista dato il definirsi delle nuove concentrazioni le quali richiedono, per formarsi, un ulteriore avanzamento del grado di internazionalizzazione; inoltre per le spregiudicate politiche commerciali che ogni paese adotta ciò provoca inevitabili resistenze e spinte protezionistiche di tutti i paesi capitalistici, nonostante gli accordi commerciali che vengono periodicamente fatti e puntualmente disattesi per il forzare della concorrenza. Di fatto il protezionismo scarica i suoi effetti più negativi nel commercio mondiale con i paesi in via di sviluppo. Il quadro europeo è, in questa congiuntura economica, il centro del movimento dei capitali. La liberalizzazione del mercato europeo e gli accordi politici raggiunti ratificheranno una realtà sostanzialmente operante: gli ulteriori passaggi politici a livello comunitario sanciranno le regole tese a formare l’ambiente più favorevole alle aggregazioni monopolistiche, diventando esse stesse veicolo per il processo di coesione politica europea. Ma l’Europa Occidentale non è un territorio economicamente e politicamente omogeneo; le differenze stratificate di peso economico delineano una gerarchizzazione marcata al centro della quale si situa la Repubblica Federale Tedesca. La RFT è andata assumendo un ruolo economico preponderante soprattutto all’interno di questa fase, a partire dalle caratteristiche della sua situazione economica, che in termini capitalistici è una delle più avanzate. Nella RFT si esprime emblematicamente l’aspetto dominante dell’imperialismo, dato dalla fusione tra capitale finanziario e capitale industriale e, per la sua specifica storia economica, ciò è favorito dalla sostanziale mancanza di vincoli nel ruolo delle banche come accentratrici di capitale finanziario. Questo ha fatto sì che pochi grandi gruppi bancari detengano quasi di fatto il controllo dei settori industriali più importanti del paese attraverso formule di partecipazione che ne garantiscono la maggioranza assoluta (la Deutsche Bank, la Dresdener Bank, la Commerzbank hanno partecipazioni, e quindi controllo, in proporzioni simili, nella Daimler nella Benz, nella Metallghesellshaft, nella Westfallen, Holzmann, Volkswagen, Basf, Hoechst, Siemens, Mbb, ecc…); per questa ragione il capitale finanziario e la funzione delle banche nella RFT hanno un ruolo cruciale nel controllo dell’andamento dei mercati, nelle fusioni tra grandi trust, sia dentro al paese che di tipo multinazionale e, cosa fondamentale, sulla direzione dei flussi finanziari. Questa realtà spiega da sola la centralità dell’attacco sferrato dalla Rote Armee Fraktion al presidente della Deutsche Bank, A. Herrhausen, tenendo conto dell’influenza che un tale ruolo esercitava nelle decisioni politiche principali prese a diversi livelli nella RFT. Anche nella RFT (così come nel resto dell’ambito capitalistico) gli altissimi profitti che le concentrazioni monopolistiche raggiungono avvengono in un contesto di recessione strisciante, in concomitanza dell’utilizzo degli impianti attivi vicino al 90% della loro capacità, mentre sul piano della circolazione c’è troppa liquidità, un valore del marco troppo alto, un’inflazione troppo instabile e, per altro verso, uno sbilancio degli investimenti sempre più massicci verso l’estero; in poche parole, gli effetti più vistosi della sovrapproduzione assoluta di capitali. Risalta agli occhi l’analogia storica con il precedente periodo prebellico nelle caratteristiche della situazione economica della RFT (così come nel resto dell’Europa Occidentale) e ciò è ancora più evidente se si confronta il suo riflesso sul piano politico. Oggi come allora la RFT è il nodo cruciale delle svolte politiche che si prefigurano in questa delicata fase internazionale. Ma le analogie non possono rendere la complessità dei fattori in gioco subentrati nella situazione, proprio a partire dal rapporto Est-Ovest nonché per l’evoluzione maturatasi in questi 45 anni a partire dalle relazioni che l’imperialismo ha stabilito con i paesi in via di sviluppo. La principale novità storica è appunto la realtà dei paesi che hanno operato le prime rotture rivoluzionarie, un fattore che per la sua importanza ha reso la contraddizione Est-Ovest dominante su tutte le questioni internazionali e che ha scandito dal dopoguerra le tappe sostanziali degli equilibri mondiali. Un fattore che ha il suo cuore proprio nella Germania (divisa in due dopo il conflitto) dove si riflettono tutti i mutamenti di sostanza del rapporto tra i blocchi (anche perché geograficamente interessata dallo spostamento di tali equilibri). I mutamenti di sostanza in quest’ultimo decennio, nascono proprio dalla RFT (e dall’insieme dell’Europa Occidentale) a partire dalla capillare penetrazione economica verso i paesi dell’Est. La forte complementarietà tra le economie dell’Europa Occidentale – e della RFT in particolare – e quelle dei paesi dell’Est – URSS in testa – è alla base del sostenuto flusso di investimenti destinato ad aumentare nel prossimo futuro. Già l’interscambio commerciale con i paesi del blocco orientale per la sola RFT è di circa 24 miliardi di marchi di esportazione e di circa 20 miliardi di marchi di importazione, con un saldo attivo di oltre 4 miliardi di marchi per la RFT; se si paragona l’interscambio fra la RFT e gli USA (esportazioni verso gli USA per più di 45 miliardi, importazioni per circa 29 miliardi, con un attivo di oltre 16 miliardi di marchi per la RFT) si può comprendere l’importanza di questo dato (fonti Bundesbank). Una penetrazione economica che non è alternativa al riarmo, anzi i due aspetti si autoalimentano, per la natura del capitale, anche per l’elemento qualitativo di questa penetrazione dato da massicci flussi di capitale finanziario e che assumono pure la forma di “aiuti” economici all’Est europeo; è la crisi economica dell’imperialismo che spinge verso questa direzione poiché i paesi dell’Est europeo sono sufficientemente strutturati da consentire quella complementarietà necessaria a rilanciare la produzione con una diversa divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Così come per la seconda guerra mondiale furono gli USA che di fatto finanziarono il conflitto attraverso gli enormi investimenti in Europa, e principalmente in Germania quale paese più ricettivo, nella fase storica attuale è possibile che si ripresenti una dinamica simile, dove però il ruolo che fu degli USA non è svolto da un singolo paese, ma vi concorre la catena imperialista nel suo insieme, pur con posizioni differenziate che favoriscono l’Europa Occidentale e, all’interno di essa, la RFT per la forza che vi esercita il capitale finanziario. Se dal breve al medio periodo questa dinamica economica consentirà una stasi nell’accavallarsi del processo di crisi economica, dal medio al lungo periodo gli effetti economici, che si matureranno dall’uso del riarmo come principale immobilizzo di capitali eccedenti, avvicineranno come non mai lo sbocco militare date le caratteristiche peculiari “dell’investimento bellico”, il quale non consente un rientro nel circuito produttivo, anzi il loro non uso porta al collasso economico (beninteso il riarmo è altra cosa dalla normale produzione bellica che funziona dentro alle leggi della produzione in generale, dato che il “riarmo” è un intervento di politica economica che porta ad armare per sé lo Stato che se ne fa carico e non per il normale commercio). Se questa è la particolarità del riarmo dentro lo stadio economico che materializza la tendenza alla guerra in presenza di altre circostanze (crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali con lungo ristagno produttivo e recessivo, mercati capitalistici saturi, equilibri nella divisione internazionale del lavoro e dei mercati che necessitano di essere ridefiniti) ciò non significa attuazione immediata della tendenza poiché l’interazione con i fattori politici e militari abbisogna della rottura di molti equilibri politici e la maturazione di altri che si avvicinano a questa realtà (necessità) economica; processo per niente spontaneo e oggettivo, ma dato dal concreto scontro fra i diversi soggetti politici in campo.

L’Europa Occidentale in questo contesto generale, per i processi di coesione politica che sta promuovendo, acquista un peso sempre più rilevante nel processo di modifica degli equilibri del vecchio assetto postbellico, non solo lungo la direttrice Est/Ovest, ma anche nelle aree di crisi della periferia. È indubbio che la RFT in questo quadro tende ad imprimere i suoi interessi nelle scelte e nelle posizioni che assumono i paesi europei; questo per la forza del suo ruolo economico, che si impone nonostante scontri e differenze. Il grosso interesse della RFT ad impossessarsi degli spazi economici che i vicini paesi del’Est – Repubblica Democratica Tedesca in testa – offrono, è rivestito da plateali quanto revanscistici richiami nazionalistici “all’autodeterminazione dei popoli”, un cinismo politico che non manca alla Borghesia Imperialista tedesca e che consentirà un ulteriore rafforzamento della sua posizione economica.

Per questo la RFT assume un peso centrale all’interno della ridefinizione degli equilibri Est/Ovest. L’Europa comunitaria, nonostante i propositi di “unificazione politica” enunciati in primo luogo da Francia, Italia, RFT, è nella realtà un processo molto contraddittorio, perché se da un lato la dinamica stessa di questa fase dell’imperialismo necessita dello svincolo delle “barriere normative e commerciali nazionali”, dall’altro l’aspra concorrenza per occupare le posizioni più appetibili sul mercato capitalistico comporta una accentuata conflittualità in riferimento agli specifici interessi, come nel caso appunto della RFT. Infatti essa intende far pesare a suo favore lo sgretolamento degli equilibri con l’Est europeo poiché più favorita nell’accaparramento di questi mercati e quindi intenzionata a condizionarli ed inglobarli anche politicamente approfittando della loro attuale “instabilità politica”. Questo ha un riflesso proprio sul procedere di questi accordi politici che dovrebbero promuovere una “formale giurisdizione europea”. Tale discontinuità non impedisce all’Europa Occidentale di procedere nella coesione politica attraverso intese che di volta in volta si formano per il concomitare di reciproci interessi, come nel caso dell’opera di sfondamento ad Est attraverso pressioni di ogni tipo ed entità miranti a creare le condizioni favorevoli alla penetrazione del capitale finanziario, con il dispiegamento di vaste pressioni politiche; un terreno questo che coinvolge tutti i paesi della catena imperialista. Per questa ragione pare delinearsi un’informale divisione dei mercati futuri (vedi il tentativo dell’Italia di costituire un polo alternativo di aggregazione, alternativo a quello che nella regione settentrionale dell’Europa Occidentale ruota attorno alla RFT). Il dinamismo politico europeo per quanto persegua interessi specifici non è in antagonismo con gli interessi USA (almeno all’interno di questa fase) nonostante le diverse modalità con cui si relazionano alla contraddizione Est/Ovest; essi in modo diverso concorrono ad avvicinare il medesimo obiettivo: la rottura dei vecchi equilibri. Ciò non significa affatto fine del bipolarismo, si è chiusa solo una fase dello scontro Est/Ovest per l’apertura di un’altra e in relazione all’aggressività raggiunta dal capitale monopolistico in questa fase di crisi-recessione. È nel contesto della tendenza alla guerra, fatta di visibili e concreti processi di riarmo e compattamento all’interno dell’alleanza imperialista, pur nella diversità di ruolo e ai diversi gradi in cui si manifesta la crisi generale, che si colloca la coesione economica, politica e militare dell’Europa Occidentale. Un processo che perciò investe tutte le sue strutture sovranazionali (NATO, UEO, Consiglio d’Europa) a dimostrazione che i cosiddetti processi di pace sono solo un velo mistificatorio per nascondere le pressanti contraddizioni politiche ed economiche in cui si dibatte l’imperialismo. Sono gli USA, incalzati dalla crisi, a prendere l’iniziativa; essi adottano una strategia globale tesa ad intervenire in ogni zona di crisi, sia cercando di impedire la perdita di posizioni sia operando per il loro rafforzamento, interventi che sono principalmente di origine militare fino a palesare vere e proprie invasioni (dirette) come i recenti fatti in centro-America stanno a dimostrare. Intorno a questa strategia globale gli USA cercano di compattare tutta l’alleanza imperialista. L’attivismo USA è principalmente coadiuvato dall’Europa Occidentale tramite l’intensa attività “politico-diplomatica” consentitagli dai maggiori margini di manovra; questa si esprime principalmente nell’area di crisi mediterranea-mediorientale per ricucire in avanti gli strappi operati dalle precedenti forzature militari USA. Un’area che per la sua importanza (confine non definito nel dopoguerra, rotte strategiche) ha necessitato di un intervento di ordine complessivo; esso ha operato verso i conflitti nel senso di un loro contenimento e normalizzazione permettendo sostanziali modifiche nelle posizioni dei paesi arabi in senso filo-occidentale. Ma la normalizzazione è lontana dall’essere raggiunta per la resistenza opposta dai popoli libanese e palestinese, resistenza tale da far naufragare i vari tentativi d’intervento diretto, come ad esempio quello francese in Libano oppure, per altro verso, le pressioni cosiddette diplomatiche condotte dall’Italia in primo luogo per contenere, all’interno di una soluzione mediata, la rivolta del popolo palestinese data la sua indisponibilità a farsi normalizzare dalla pace imperialista. È un fatto che la resistenza del popolo palestinese non, ha permesso l’attuazione del piano Shultz-Shamir sull’autonomia amministrativa dei territori, facendo fallire tutti gli “accordi” che non si misurano con le questioni che la lotta ha posto all’ordine del giorno. La determinazione rivoluzionaria del popolo palestinese nel perseguire l’obiettivo della propria autodeterminazione sta minando ed erodendo la capacità di contenimento militare d’Israele per i riflessi che questo conflitto produce sul piano politico, sia interno all’area che a livello generale. La regione mediorientale-mediterranea è il luogo ove si riflettono e si intrecciano sia la direttrice Est-Ovest quale zona non definita nel dopoguerra e in cui l’alleanza occidentale ha premuto e preme (già nel ’48 con l’installazione dell’entità sionista a gendarme degli interessi imperialisti) al fine di modificare l’equilibrio di questi confini a suo favore, sia la direttrice Nord-Sud la quale coinvolge direttamente l’Europa Occidentale perché sua naturale zona d’influenza, e dunque per i conflitti che si producono tendenti a rompere la “cappa normalizzatrice” dell’imperialismo. Per questi due aspetti centrali questa regione va considerata l’area di massima crisi rispetto alle altre aree di crisi periferica. Ma è tutta la periferia ad essere sottoposta all’intervento dell’imperialismo, a partire dall’attivismo militare USA; esso, laddove non è direttamente praticato, è ugualmente presente attraverso i finti governi e le forze controrivoluzionarie che gli USA organizzano. Questo è il tipo di relazioni internazionali che intendono instaurare laddove le armi della diplomazia e lo strangolamento economico non sono sufficienti a ricondurre alla “ragione” i paesi che non si sottomettono alla logica dell’imperialismo o che non contrastano efficacemente i processi rivoluzionari interni (Panama, Nicaragua, Salvador, Filippine sono gli esempi più rilevanti). Gli USA ancora una volta si identificano col volto feroce della controrivoluzione imperialista, ma tanto è sanguinaria tanto essa manifesta la debolezza strategica del potere, dell’imperialismo, il quale a causa delle profonde diseguaglianze e dell’immiserimento che provoca non fa altro che suscitare la legittima resistenza dei popoli per la loro autodeterminazione e la necessaria opposizione di classe nelle metropoli del centro. Alla base di questa condizione non c’è una pura volontà di dominio perché l’imperialismo non è una politica, esso è uno stadio economico del capitalismo in cui domina il capitale finanziario. Il rapporto di sfruttamento che l’imperialismo stabilisce con i paesi della periferia solo apparentemente è simile al rapporto coloniale, se non per l’assoggettamento politico che in entrambi i casi ne è derivato. Se il colonialismo è consistito sostanzialmente nella rapina delle materie prime e delle risorse, l’imperialismo basa il suo dominio sul privilegio e monopolio dello sfruttamento industriale, al livello di sviluppo ineguale necessario a questo stadio economico; in questo senso la qualità dello sfruttamento è superiore e il dominio politico non si esprime più nei protettorati, ma per i vincoli che questi paesi sono costretti ad avere col mercato capitalistico, il quale ne condiziona pesantemente lo sviluppo economico e sociale. Basti pensare all’imposizione dei prezzi sulle materie prime o delle monoculture e monoproduzioni, o al potere esercitato dagli organismi finanziari internazionali (FMI, BM, ecc.) che condizionano l’erogazione dei prestiti alle concrete pressioni politiche. L’imperialismo impedendo il libero sviluppo dei paesi terzi (così come nel suo centro il libero sviluppo delle forze produttive “incatenate” dai rapporti di produzione) rappresenta storicamente la forza del regresso nel mondo. Un bilancio di questi ultimi 40 anni mette in risalto come l’imperialismo abbia subito nel suo insieme un’erosione costante della sua forza d’influenza e della sua estensione (pur in presenza di un approfondimento dello stesso modo di produzione). Se nella periferia i processi di decolonizzazione prima e di emancipazione dei popoli nelle “nuove democrazie” poi, hanno permesso di sottrarre molti paesi al dominio imperialista, all’interno del sistema si è affermata la prassi rivoluzionaria storicamente adeguata al suo superamento: la Guerriglia.

Per questa ragione l’antimperialismo è la questione politica prioritaria che attraversa tanto i popoli in lotta nella periferia quanto lo scontro di classe e rivoluzionario nel centro imperialista, e in diversi momenti le rotture rivoluzionarie avvenute nella periferia hanno riversato il loro potenziale all’interno del Movimento Rivoluzionario del centro, influenzando anche tendenze politiche terzomondiste. L’evolvere della situazione internazionale e la marcata integrazione politica e militare della catena ha posto le condizioni per il superamento della concezione solidaristica dell’antimperialismo. Il mutato atteggiamento riguardo la necessità di opporsi e combattere l’imperialismo è partito dall’evidenza che lo stesso procedere del processo rivoluzionario nei paesi del centro necessitava di un indebolimento e ridimensionamento dell’imperialismo. Ciò ha posto con sempre maggior chiarezza che il dovere delle forze rivoluzionarie di sviluppare il processo rivoluzionario nel proprio paese doveva unirsi alla possibilità di praticare una politica antimperialista in grado di provocare nel cuore del sistema questo indebolimento; in sintesi, un compito politico che l’avanguardia rivoluzionaria combattente, la Guerriglia, si è posta e che ogni Forza Rivoluzionaria ha affrontato e affronta con l’approccio specifico; ciò però non ha impedito che si sviluppasse un processo di confronto sulla necessità di un’unità politica tra le diverse Forze Rivoluzionarie per combattere l’imperialismo. Questa acquisizione importante sul terreno dell’antimperialismo non è sfuggita alla Borghesia Imperialista; tant’è che un punto qualificante, che sta tutto interno ai processi di coesione politica della catena imperialista, e in particolare nello specifico europeo, è quello delle politiche antiguerriglia, che passa attraverso una più stretta centralizzazione e coordinamento degli apparati repressivi, con l’omogeneizzazione degli strumenti legislativi quali ad esempio lo “spazio giuridico europeo” ed anche la definizione di iniziative politiche comuni quali la soluzione politica per la guerriglia (RFT, Francia, Italia, Spagna). E’ un punto qualificante da un lato perché caratterizza l’esperienza che la Borghesia Imperialista ha acquisito in relazione all’importanza politica e strategica della guerriglia, tanto nel centro imperialista quanto nell’area limitrofa mediterranea-mediorientale, dall’altro perché su questo piano minori sono le contraddizioni interborghesi e interimperialiste, dato che si tratta di difendere in tal senso gli interessi della catena imperialista nel suo complesso. Ovvero tali politiche partono dalla consapevolezza che esiste un fronte oggettivo dato dall’interesse comune delle varie Forze Rivoluzionarie che combattono l’imperialismo. Questa oggettività spinge alla costruzione-consolidamento del fronte antimperialista a livello soggettivo, di cui il Fronte Combattente Antimperialista (FCA) è punto di partenza e momento qualificante della politica di alleanze. Ma già precedentemente, in base alle contraddizioni che presenta l’agire della varie frazioni della Borghesia Imperialista nei diversi paesi, si erano poste le condizioni per una serie di contatti e accordi che vedono in particolare l’Italia al centro di questo complesso meccanismo.

Il nostro paese si è mostrato all’avanguardia in questo campo (grazie all’esperienza accumulata in vent’anni di scontro rivoluzionario al suo interno e all’essere geograficamente vicino all’area di massima crisi) ed è riuscito a porsi al centro delle politiche antiguerriglia in Europa Occidentale e nell’area, stipulando ben 17 trattati con altrettanti paesi europei, arabi e del Nord-Africa, trattati che prevedono prevalentemente l’attivizzazione di centri di “intelligence” separati da quelli già esistenti (esempio Interpol) finalizzati all’acquisizione di notizie a carattere preventivo sullo stato delle Forze Rivoluzionarie operanti e sui movimenti rivoluzionari in genere (non esclusi naturalmente quelli a carattere politico-religioso quali i gruppi islamici). Essendo bilaterali e non prevedendo l’esclusività delle informazioni raccolte e trasmesse, questi accordi pongono l’Italia nella posizione di “centrale di acquisizione e smistamento” dell’attività antiguerriglia facendone, tra l’altro, un punto qualificante della sua politica estera. Questa attività controrivoluzionaria è tutta interna alla dinamica dell’imperialismo che tende alla gestione offensiva delle contraddizioni sociali e politiche che si producono nei diversi paesi, in funzione di deterrenza, sia quando acquista forma militare sia quando si mantiene sul piano politico, in quanto questi due piani interagiscono fra loro, con delle ricadute uno sull’altro, trattandosi in definitiva di misure coordinate sul piano politico che influiscono sulla connotazione del rapporto imperialismo/antimperialismo e rivoluzione/controrivoluzione in tutta l’area europea-mediterranea-mediorientale.

La condotta della guerra rivoluzionaria nelle dinamiche dello scontro rivoluzione/controrivoluzione

La dinamica di fondo che è alla base di questa complessa fase internazionale attraversa tutti i paesi della catena imperialista, in questo senso condiziona ed incide nei contesti di ogni Stato, a tutti i livelli della loro politica a causa delle similitudini politico-sociali che si sono determinate con lo sviluppo dell’imperialismo. Il nostro paese riflette questa dinamica generale pur all’interno delle sue specificità e le spinte che essa produce, interagendo con i termini delle specificità nazionali, inaspriscono le contraddizioni del quadro politico interno rendendolo quanto mai instabile e problematico. L’esecutivo che si è formato si caratterizza per l’aspetto restauratore insito nel suo programma. Un aspetto conseguente alle sostanziali forzature (autentici colpi di mano) avvenute nel quadro istituzionale a tutti i livelli del potere statale e all’interno dei rapporti politici fra le classi, delineando chiaramente il procedere di un vero e proprio “golpe istituzionale”. Nei fatti sono state consumate rotture e modifiche nel modo di effettuare il “governo” del paese tali da aprire concretamente alla “seconda repubblica”. Non si tratta di un ritorno reazionario ai vecchi tempi, benché la compagine dell’esecutivo si avvale dei più oscuri personaggi espressi dalla classe dominante in questi ultimi quarant’anni, al contrario questa rappresenta al meglio quella frazione dominante della Borghesia Imperialista che intende prevalere su tutte le altre. Le “sbavature conservatrici” non sono eccezioni nostrane che mal si addicono alla “gestione democratica” dell’attuale stadio dell’economia capitalistica, ma esse contraddistinguono l’intero ambito dei paesi imperialisti. Se si analizzano le tendenze politiche affermatesi nei paesi occidentali, soprattutto dopo gli anni ’70, si può osservare come i governi delle cosiddette “democrazie rappresentative” tendono a concentrare il potere in “esecutivi forti” con un marcato dirigismo nei metodi di governo e conseguente restringimento degli spazi di mediazione politica; laddove tali tendenze sono state ratificate in normative e leggi di stampo restrittivo hanno comportato la modifica strisciante delle legislature. Questo tipo di esecutivi hanno gestito i pesanti costi sociali della crisi economica e delle ristrutturazioni produttive; per questo il loro operato si contraddistingue per il suo carattere antiproletario e controrivoluzionario (laddove è presente il processo rivoluzionario), ciò anche quando tali esecutivi sono stati guidati dai socialisti (ad esempio Francia, Italia, Spagna). In ultima analisi il taglio degli esecutivi che sono stati espressi nell’ambito dei paesi capitalistici configura l’attuale forma storica di dittatura borghese che meglio rappresenta la tendenza dominante dell’imperialismo, a maggior ragione nella fase politica che si è aperta in cui premono spinte verso soluzioni per regimi forti tout-court. Nella situazione del nostro paese questa tendenza si compenetra con le peculiarità storiche e politiche relative alla natura dello scontro di classe e al livello di sviluppo economico, nonché con i caratteri specifici assunti dalla classe dominante; ciò rende l’Italia ben inserita nel contesto generale della realtà politica dei paesi occidentali, con tutto il portato restauratore che essa esprime. Per questi motivi non esiste, se non nella gestione demagogica delle “opposizioni istituzionali”, uno sviluppo democratico dell’imperialismo; i riflessi delle “guerre concorrenziali” tra i grandi gruppi monopolistici, non sono lotte tra una versione più democratica e un’altra conservatrice del capitalismo, al contrario lo scontro vitale per aggiudicarsi le migliori posizioni fa sì che le frazioni di Borghesia Imperialista premano senza mezzi termini per pesare sul terreno della rappresentanza politica allo scopo di essere meglio favorite da quest’ultimo. Ma al di là di questo dato di fondo, sono estremamente complessi i fattori che intervengono nello scontro politico del paese per la natura di classe dello stesso. La fase politica che si è aperta in Italia rappresenta in tutta chiarezza, e in particolare nell’operato del governo Andreotti, le pressanti contraddizioni in cui è costretta a muoversi la frazione dominante della Borghesia Imperialista. In primo luogo ciò è testimoniato dal ruolo svolto dalla Presidenza della Repubblica nella nascita di questo governo e dal peso assunto nelle coalizioni dalla figura del Presidente del Consiglio, un peso preponderante all’interno dell’esecutivo per la dinamica impressa alla ridefinizione dei poteri e delle funzioni dello Stato che trova ormai attuazione verso una forma di governo caratterizzata dal progressivo accentramento dei poteri nell’esecutivo e in esso la sempre più manifesta funzione “coesiva” e “vincolante” del Presidente del Consiglio nel dirigere l’azione di governo. In definitiva la modifica e l’affinamento del modo di governare (suoi strumenti e metodi). Dal tipo di contraddizioni che sono venute a maturazione per tutto il corso dell’ultimo decennio, sintetizzabile nella necessità per uno Stato a capitalismo maturo d’intervenire nel movimento dell’economia in crisi (un intervento complesso data la sua dimensione internazionale) e di far fronte al governo del conflitto di classe, conflitto che ha conosciuto espressioni di uno spessore e con un grado di autonomia senza eguali nelle altre formazioni economico-sociali occidentali, e l’esistenza di un processo rivoluzionario diretto e organizzato dalla Guerriglia, ne è scaturito un processo di riadeguamento dello Stato che ha investito nel suo complesso forme e meccanismi del potere. Un processo non solo di carattere meccanico-oggettivo (ovvero scaturente solo sul piano di relazione crisi/rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato, che pure esiste), ma che trova le sue radici e i suoi punti di squilibrio proprio nella specificità della democrazia rappresentativa italiana che, sorta dalla guerra e dalla Resistenza, ne ha ereditato una precisa configurazione degli equilibri generali politici e di forza fra classe e Stato. Un processo di riadeguamento non certo lineare, che è relativo alle stesse forme di dominio della Borghesia Imperialista nel loro interrelazionarsi dialettico con la struttura economica (evoluzione dell’imperialismo) e con la classe (maturità del movimento di classe ed esistenza del processo rivoluzionario). In tal senso la democrazia rappresentativa è l’involucro sovrastrutturale adeguato alla fase dell’imperialismo, proprio in quanto ha dimostrato di possedere quell’elasticità necessaria a far fronte alla crisi, nella misura in cui questa ha prodotto non solo dei gravi scompensi economici e sociali, ma anche politici. Infatti, alla fine degli anni ’70, la DC – cioè la forza politica attorno a cui si era formato ed aveva ruotato il sistema politico italiano – entrò in una grave crisi politica dopo il fallimento della politica di “unità nazionale”; la complessa articolazione delle forze politiche borghesi ha in quell’occasione mostrato di poter garantire la “governabilità” del paese, segnando anche delle importanti tappe politiche nella definizione del più generale processo di rifunzionalizzazione dello Stato. La stabilità politica dell’Italia nelle scelte politiche fondamentali, quali il rapporto con l’alleanza atlantica, col grande capitale monopolistico e con la classe nelle politiche adottate, portanti come unico tratto distintivo un chiaro carattere antiproletario e controrivoluzionario, in tal senso ha trovato attuazione proprio nella complessità della democrazia rappresentativa, segnatamente al rifunzionalizzarsi dei partiti alle nuove condizioni generate dalla crisi, espresso dal formarsi di nuovi equilibri politici (le presidenze del consiglio “laiche”) che hanno gestito non solo i passaggi necessari alla frazione dominante della Borghesia Imperialista per sostenere la concorrenza e modificare e ricondurre in un nuovo ambito istituzionale i termini del conflitto di classe, attraverso il ripristino di condizioni favorevoli nei rapporti di forza generali fra classe e Stato, ma anche nelle modifiche apportate dal piano istituzionale nella funzione e nei poteri stessi dello Stato.

In questo decennio sono venuti a maturazione una serie di passaggi concreti nel processo di “riforma dello Stato” (i processi di esecutivizzazione in particolare) e di volta in volta si sono costruiti equilibri politici che hanno espresso nelle diverse fasi il punto di risoluzione (relativo) per le contraddizioni che nascevano dalle necessità di governo del paese. Dentro questo processo complesso e contraddittorio la DC ha maturato una nuova centralità che oggi la rende il perno di equilibri politici facenti capo alla frazione dominante di Borghesia Imperialista. Il processo contraddittorio aperto dalla “fase costituente” che tende ad evolvere verso una “seconda repubblica”, modificando funzione e peso dei partiti e gli strumenti con cui si opera la mediazione politica fra classe e Stato, si è ripercosso sugli equilibri politici che si instaurano a livello di governo spostando, nella sostanza, in avanti le stesse contraddizioni interborghesi e di conseguenza il loro punto di sutura. Se il passaggio dalla presidenza Goria al governo De Mita ha rappresentato una sterzata definitiva in questo processo con la ripresa del possesso in senso complessivo delle leve del comando sulla base di un progetto politico organico, seguita poi da una vera e propria escalation di colpi di mano e forzature, l’ulteriore passaggio in questa direzione operato con il governo Andreotti mostra in tutta evidenza gli effetti dell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, così come la necessità impellente di operare forzature nei rapporti di forza complessivi laddove si credeva di potervi far fronte con il processo di sviluppo della “democrazia formale” e con la costruzione di false “alternanze di governo” (le staffette). In realtà l’unica “alternanza” che si è realizzata è appunto quella all’interno della DC, tutta relativa alle contraddizioni che sono maturate in questo processo e che hanno reso più stretti i margini di manovra nel “governo possibile” in presenza della crisi generale e del mutamento dei rapporti di forza a livello internazionale. L’attuale esecutivo, avvalendosi dei passaggi già operati verso l’esecutivizzazione e la rifunzionalizzazione dello Stato, in particolar modo la riforma della presidenza del Consiglio, la modifica del voto segreto, si è mosso su questa falsariga spingendo però l’acceleratore in seguito all’aggravarsi del quadro politico ed economico interno ed internazionale, caratterizzando l’azione di governo secondo schemi che non è errato chiamare di “golpismo istituzionale”, relativamente ai problemi posti dalla fase attuale dell’imperialismo, ovvero l’approfondimento della contraddizione Est/Ovest e la necessità di adeguare il capitale monopolistico ai nuovi livelli di concorrenza, mentre sul piano interno principalmente verso la vasta conflittualità politica e sociale che si esprime con le forme di lotta e di organizzazione a “macchia di leopardo”, che investe cioè molteplici settori di classe; lotte che avendo sperimentato a fondo la sostanza del neocorporativismo nelle relazioni industriali come corrispettivo dell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, sono di fatto già parzialmente fuori controllo nel momento stesso in cui si esprimono, essendo caratterizzate a priori da una forte critica al sindacalismo di regime. Entro questo quadro in parte oggettivo, ma soprattutto soggettivo, cioè di lucida persecuzione di obiettivi prefissati nell’ambito dell’esecutivo, vediamo dispiegare l’azione di governo che spazia contemporaneamente su più piani, caratterizzandosi nel suo complesso come movimento di vera e propria restaurazione (nel senso di una tendenza all’azzeramento delle precedenti conquiste politiche e sociali della classe e non nel senso di un’involuzione reazionaria nelle forme di dominio della Borghesia Imperialista). Così è nei rapporti intergovernativi, con politiche di selezione nel rapporto fra ministeri e Presidenza del Consiglio passate da un lato attraverso il filtro del Consiglio di Gabinetto, che inoltre rappresenta una sorta di “comitato di crisi” riunito in permanenza per impattare le varie “emergenze” e per ricondurre entro interessi generali le inevitabili sfasature che si producono, e dall’altro con i vincoli cui sono sottoposti i singoli ministeri in materia di spesa sottoposta al vaglio del Capo del Governo e della triade bilancio-tesoro-finanze per verificarne la compatibilità con i rigidi indirizzi di politica economica. Analogamente nel rapporto tra esecutivo e parlamento si tende alla funzionalizzazione delle camere al governo (proposta di modifica del “bicameralismo perfetto”) per farle tendere ad una funzione di pura e semplice ratifica delle decisioni governative, per adesso attuate con il ricorso al voto di fiducia. Gli ultimi episodi in materia chiariscono il vizio per i colpi di mano che esprime però uno stato di necessità relativo al fatto che l’esecutivo deve muoversi contemporaneamente su più piani e con la medesima impronta decisionista perché ne risulti la possibilità di contenimento delle contraddizioni che si frappongono fra stato reale dei rapporti di forza e indirizzo politico programmatico, contraddizioni a loro volta alimentate proprio da questo modo di operare a suon di forzature. Inoltre nel rapporto con la Magistratura risulta chiarissima la ormai consolidata funzione assegnatagli di repressione-contenimento delle contraddizioni sociali e in più il tentativo di compattamento alle esigenze dell’esecutivo passanti attraverso la proposta di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), tendente ad azzerare il peso delle rappresentanze dell’opposizione “istituzionale”, così come per la Corte dei Conti che ha una funzione chiave per ciò che riguarda l’intervento dello Stato nell’economia, chiamata così a ratificare le scelte dei ministeri economici che favoriscono i monopoli, tutte squilibrate verso i finanziamenti diretti e indiretti al grande capitale in relazione ai processi di concentrazione monopolistica in atto, e ancora per la Corte Costituzionale chiamata a compatibilizzare con equilibrismi giuridici gli strappi operati nel quadro istituzionale. Altro piano è quello del rapporto tra potere centrale e poteri locali, dove a fianco della legge Gava, che sancisce la non autonomia politica in termini di indirizzo e di funzione degli organi del governo locale e la “responsabilizzazione” in materia di spesa sul piano amministrativo, si realizza la centralizzazione dei modelli di governo, imponendo coalizioni siamesi di pentapartito. Inoltre, un’attenzione particolare merita la recente proposta di Andreotti di riunificare i vari apparati dei Servizi Segreti, che palesemente tende a rafforzare il potere “golpistico” compattando l’azione dell’apparato più filogovernativo per antonomasia, che da sempre opera un ruolo controrivoluzionario tristemente noto.

Contemporaneamente a tutta questa serie di cambiamenti nel modo di governare, più o meno sanciti dalle modifiche legislative e istituzionali, è mutato in questa ultima fase anche l’approccio ai passaggi già operati o da operare sul piano della “riforma dello Stato”. Se da un lato l’esecutivo si è avvalso della riforma della Presidenza del Consiglio e della modifica del voto segreto come validi puntelli per i suoi colpi di mano, la stessa riforma della Farnesina ha subito nel suo iter alcune modifiche in relazione, in primo luogo, alle necessità derivanti dalla collocazione dell’Italia nella catena imperialista e all’interno del processo di coesione politica europea e, conseguentemente, rispetto al piano della rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato. Infatti, per far fronte alle esigenze sul piano dell’evoluzione dei rapporti Est/Ovest, con tutto il suo portato politico-strategico, oltre che economico, nella riforma della Farnesina è previsto che il Ministro degli Esteri coordini tutte le attività che riguardano la politica internazionale, anche se svolte da altri ministeri o Enti Locali (ad esempio le Regioni) con un’organizzazione delle Direzioni Generali per aree geografiche (Europa e Nord America, Sud America, Africa mediterranea e mediorientale, Africa sub-sahariana, Sud-Est asiatico e Oceania). La “supervisione” del Ministero degli Esteri che ne deriva è chiaramente attinente all’aumentato peso dell’Italia soprattutto sul piano diplomatico e politico, in primo luogo in relazione all’inserimento dei paesi della fascia sud europea nel processo di coesione-integrazione, e poi rispetto ai conflitti che si producono nell’area mediterranea-mediorientale, ma ha un riflesso diretto anche nei processi di esecutivizzazione poiché la gestione centralizzata della politica estera tende ad evitare le sfasature che normalmente si producono quando ad operare sono più soggetti istituzionali in una materia complessa qual è appunto la politica estera che evidentemente comprende più piani d’intervento. Si fanno sempre più evidenti entro questo processo, da un lato, l’enorme importanza assunta dal piano internazionale nello svolgersi delle relazioni tra i diversi istituti dello Stato e, dall’altro, le sue implicazioni complessive in termini politico-diplomatico-militari rispetto allo stretto legame tra crisi/compattamento dell’alleanza imperialista/rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato: l’attivismo dell’Esecutivo in politica estera risponde anch’esso ad uno stato di necessità con il suo tratto restaurativo pur negli “affinamenti” legislativi e istituzionali. Rispetto al rapporto capitale-lavoro l’azione dell’attuale Esecutivo ha reso ancor più evidente il suo intervento diretto nelle principali questioni che riguardano la contrattazione della forza-lavoro e nel merito delle relazioni industriali; è recente l’ennesimo accordo capestro sul costo del lavoro spalleggiato dall’Esecutivo che ha spinto affinché esso prevedesse a fianco di tale questione anche un capitolo sulle nuove regole di composizione dei conflitti, così da rafforzare ulteriormente le posizioni del capitale, al contempo indebolendo quelle del sindacato, approfondendo la sua già grave crisi di rappresentatività che è divenuta materia da tutelare per legge! Inoltre, l’uso massiccio e spregiudicato della precettazione è divenuta la soluzione decisionista come anticipazione della legge antisciopero, un intervento questo sul piano istituzionale che per la forte opposizione incontrata nel campo proletario non ha ancora trovato attuazione per le contraddizioni interborghesi che ne sono derivate; per aggirare l’ostacolo, allora, si è posta mano agli stessi meccanismi della precettazione, rendendone più facile il ricorso. Il piano politico del rapporto classe/Stato si è andato a modificare a partire dalle forzature operate con la controrivoluzione degli anni ’80. Le tappe sostanziali dello scontro politico e sociale nel nostro paese, lo sviluppo stesso dei caratteri dell’autonomia di classe, sono tali per l’attività della Guerriglia, in quanto la sua prassi interviene sui rapporti di forza generali tra le classi, ed è per questa dinamica che la controrivoluzione degli anni ’80, oltre a scompaginare il tessuto di lotte proletarie, ha portato necessariamente con sé il corollario di restauro-ripristino delle precedenti condizioni favorevoli alla Borghesia Imperialista, in sostanza andando a modificare le stesse forme di dominio della borghesia adeguandole alla fase dell’imperialismo, nonché adeguandole ai livelli di scontro politico e sociale e all’esistenza del processo rivoluzionario. Partendo da questo dato generale, questo Esecutivo ha spinto al massimo la tendenza alla restaurazione, facendo delle pressioni e intimidazioni di chiara marca controrivoluzionaria, una pratica costante e quotidiana: blitz nei luoghi di lavoro per normalizzare i conflitti che vi si producono, in particolare camuffando la sostanza dello smantellamento dello “Stato sociale” in “scarsa attitudine al lavoro”; attacco e criminalizzazione di qualsiasi forma di antagonismo all’operato del governo, allo scopo di operare una pacificazione forzata e il silenziamento delle tensioni politiche e sociali che si producono nel paese. Un terreno obbligato, questo, anche in relazione alle esigenze del capitale in questa fase, che ha portato i livelli di sfruttamento della forza lavoro ad un limite di per sé insostenibile e che quindi genera conflitti e processi di aggregazione sui quali il governo si preoccupa di intervenire con metodi terroristici. Il quadro che viene a delinearsi di converso è perciò quello di una forte instabilità politica e sociale; lo stesso quadro politico delle forze istituzionali (di maggioranza e di opposizione) dimostra come alla generale tendenza all’accentramento dei poteri nell’Esecutivo ne consegue un indebolimento nella dialettica tra le forze politiche che continuamente genera la necessità di un riassestamento. Se la tendenza dominante all’esecutivizzazione è il tratto caratteristico di tutte le democrazie mature occidentali, la specificità del caso italiano merita di essere sottolineata proprio perché costituisce un percorso a suo modo originale sul piano del rapporto classe/Stato. Il riadeguamento delle forze politiche indotto dalla rifunzionalizzazione dello Stato trova uno stretto collegamento con l’accentramento dei poteri nell’Esecutivo proprio a partire dagli equilibri che si formano intorno alla frazione dominante della Borghesia Imperialista. Il processo intrapreso dal PCI è tutto interno a questa dinamica e rappresenta solo l’atto conclusivo della progressiva perdita di peso politico e della modifica della funzione stessa che, precedentemente alla fase controrivoluzionaria, PCI e sindacato avevano svolto in quanto rappresentanze istituzionali della classe. Ma ciò che è più importante è che lo snodo conclusivo del percorso revisionista ruota attorno al tema politico dominante della “modifica delle regole del gioco”, in primo luogo attorno alla modifica della legge elettorale che ne costituisce un capitolo determinante poiché va a ridisegnare la geografia politica delle sedi parlamentari e dei rapporti di coalizione fra le forze politiche rappresentanti la Borghesia Imperialista, tenendo conto anche che il “modello” del pentapartito è ormai già nei fatti superato dalla centralità assunta dalla DC nelle coalizioni di governo.

Il PCI, costretto ad inserirsi in questo processo in virtù della modifica dei termini della mediazione politica tra classe e Stato, ne scambia la forma con la sostanza: infatti la provocatorietà del referendum proposto sulla legge elettorale non è tanto perché costringe la maggioranza a compattarsi per scongiurarlo e porre dunque mano a quello che costituisce il più delicato ingranaggio del meccanismo della “riforma dello Stato” (infatti è chiaro che l’approvazione di una nuova legge si misura con un terreno e ad un clima politico non ancora giunto pienamente a maturazione cui sta cercando di porre rimedio questo stesso Esecutivo con la pratica dei colpi di mano sulle questioni politiche preminenti), quanto perché è agitato a scopo lealista e propagandistico per camuffare nella forma referendaria ciò che invece è materia esclusivamente relativa agli interessi borghesi negandone così il carattere di classe.

Nella sostanza il PCI finisce per favorire la modifica del quadro costituzionale, sancendo per così dire la rottura degli equilibri instauratisi dal dopoguerra, in virtù di una “rinnovata affidabilità al sistema” che è poi semplicemente il conformarsi ad una dialettica puramente formale con le forze di governo, così da rappresentare solamente il garante “democratico” del regime.

Sono proprio gli anni della controrivoluzione a segnare in modo irreversibile la natura ed i passaggi del processo rivoluzionario nel nostro paese, ad imporre il terreno e la qualità dello scontro di classe, ad imporre il terreno di adeguamento alle avanguardie e al movimento rivoluzionario, e ciò per una semplice ragione generalizzabile a tutti gli Stati: è in riferimento al come, al modo con cui la borghesia impone la sua dittatura di classe, al come e al modo con cui la borghesia regolamenta e “istituzionalizza” il proprio dominio che si organizza l’opposizione di classe, l’opposizione rivoluzionaria.

È sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi vent’anni non una delle ragioni obiettive che stavano alla base della costituzione della Guerriglia nelle metropoli imperialiste è venuta meno. Ovvero, in sintesi le ragioni dell’affermarsi della Guerriglia, della strategia della lotta armata, sono date dai mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo ha posto in essere sia sul piano storico-politico che economico-sociale. E in principal luogo nella diversa caratterizzazione delle forme di dominio e quindi del rapporto classe/Stato con l’affermarsi della controrivoluzione preventiva e dall’altro lato per il conseguente grado di integrazione politico-militare fra gli Stati della catena che stabilisce una nuova condizione entro cui viene a collocarsi e svilupparsi lo stesso processo rivoluzionario. Da ciò si è constatato il venir meno del dato del “momento eccezionale” (strategia terzinternazionalista dell’insurrezione) e ponendo in essere, nel carattere di lunga durata della guerra di classe, l’aumentato peso della soggettività rivoluzionaria nello scontro. Anzi, l’intersecarsi del movimento delle crisi capitalistiche e il rapporto rivoluzione/controrivoluzione, ha spinto gli Stati della catena imperialista (pur con tempi e passaggi riferiti alla propria storia concreta) a rimodellare i termini del “governo” del conflitto di classe. Questa la natura e la base da cui hanno preso il via le odierne “riforme dello Stato” riconoscibili da tutti, anche se molti fanno finta o hanno interesse a non vedere e ciò per un’unica ragione, perché riconoscere questi dati di fondo e la realtà attuale significa (per parte rivoluzionaria) collocare la propria militanza nei presupposti interni alla formazione della Guerriglia; perché la Guerriglia nelle metropoli imperialiste non è semplicemente un surrogato della guerra, una “tecnica militare” (guerra guerreggiata), ma l’organizzazione adeguata a misurarsi contro lo Stato, a rompere il reticolo della mediazione politica che caratterizza il rapporto politico tra le classi negli Stati a capitalismo maturo; è l’unità del politico e del militare; è rompere con il monopolio della violenza della classe dominante per praticare gli interessi generali del proletariato e collocarli nella loro giusta dimensione: scontro per il potere con il fine del superamento della società divisa in classi. D’altronde, questi ultimi dieci anni segnati dall’approfondimento del rapporto di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione hanno evidenziato in termini oggettivi come un processo rivoluzionario nelle metropoli imperialiste, in presenza della Guerriglia, assuma la connotazione di una Guerra di Classe di Lunga Durata, come la proposta della lotta armata sia il solo terreno adeguato allo scontro per l’organizzazione di classe. È evidente perciò come questi anni di controrivoluzione siano decisivi per lo scontro stesso del processo rivoluzionario nel nostro paese, decisivi perché non ci si può sottrarre al livello di scontro raggiunto; perché le dinamiche dello scontro rivoluzione/controrivoluzione attraversano in maniera orizzontale tutte le istanze politiche della classe (anche se lo Stato calibra il suo intervento nei confronti della classe e delle sue avanguardie mirandolo e dosandolo a seconda delle istanze si cui va ad agire); perché hanno imposto ed impongono all’avanguardia armata di misurarsi con le leggi dello scontro, di adeguare costantemente il proprio impianto politico, di affinare le capacità per realizzare il programma politico. Il contraltare a questi compiti è l’annientamento politico, è l’arretramento complessivo delle posizioni politiche della classe senza vie di mezzo! Per le BR questi anni sono stati fonte di ricchi insegnamenti e di una rinnovata capacità proiettata nel futuro proprio per la comprensione che hanno acquisito delle leggi generali che influenzano le dinamiche dello scontro di classe nelle metropoli imperialiste. Un percorso pratico fatto di avanzate e ritirate, di successi e sconfitte, di errori pagati duramente. Errori in parte evitabili e comunque sempre frutto dell’attività rivoluzionaria pratica. L’Organizzazione in attività saprà ancora una volta risolvere tali errori e far tesoro degli insegnamenti pratici e teorici. Dal loro superamento saprà trarne profitto, rilanciando su tali nuove acquisizioni (come sempre è successo in questi vent’anni) lo scontro a livello più alto. Da parte delle BR uno dei momenti fondamentali nel processo di riadeguamento alle mutate condizioni dello scontro è stata la scelta, nel 1982, di aprire la Ritirata Strategica. Le condizioni politiche generali in cui fu operata la Ritirata Strategica rimarcavano una sostanziale inadeguatezza dell’impianto e della linea politica dell’Organizzazione sui termini dello scontro. Da una parte l’incapacità di cogliere i mutamenti che a livello dell’imperialismo andavano a modificare il quadro degli equilibri generali. Dall’altro lato, per quanto riguarda l’analisi dello Stato e della situazione interna, si riteneva che l’attacco all’“Unità Nazionale” aveva lasciato la borghesia e lo Stato incapaci di ricompattare le proprie fila e di riformulare nuove intese politiche. Questo era anche il prodotto di una visione dello Stato schematica, che da un lato assolutizzava il piano soggettivo, dall’altro ne schematizzava le funzioni ad articolazioni del “Sistema Imperialista delle Multinazionali”. Non si coglieva il movimento partito all’interno stesso della borghesia e dello Stato teso a sferrare una controffensiva politico-militare alla classe, a partire dalle sue avanguardie di lotta e rivoluzionarie. Con il fine di operare una rottura a favore della borghesia nei rapporti di forza tra le classi per ridimensionare così il peso politico acquisito dalla classe operaia e dal proletariato. Una controffensiva senza precedenti, la quale non poteva che partire infliggendo un duro colpo alla Guerriglia in modo da riversarlo sull’intero corpo di classe attraversandolo orizzontalmente: dai settori dell’autonomia di classe che si sono dialettizzati con la Guerriglia, al movimento rivoluzionario, fino a pesare sulle condizioni politiche e materiali di tutto il proletariato. Una controffensiva che per proporzioni, modi di dispiegamento, ha assunto caratteri di vera e propria controrivoluzione. Le posizioni inadeguate, prodotte principalmente dalla giovinezza politica, sono state battute nelle battaglie politiche contro il soggettivismo idealista e l’operaismo. Il ricentramento operato dall’Organizzazione (esplicitato dall’azione Dozier per quanto riguarda l’antimperialismo e dall’azione Taliercio per quanto riguarda il piano classe/Stato) non impedì contraddizioni e ritardi. Ma il ripristino del corretto metodo dell’analisi materialista permise l’apertura della Ritirata Strategica nonostante i limiti di comprensione che l’Organizzazione aveva della stessa, gli permise di ritirarsi e proseguire nel riadeguamento pur all’interno della pressione esercitata dalla controffensiva dello Stato. La giustezza della scelta della Ritirata Strategica ha dimostrato nel tempo tutta la sua validità, poiché interpretando opportunamente le leggi della guerra rivoluzionaria ha permesso alle BR di ripiegare da posizioni niente affatto avanzate, collocando correttamente la sconfitta tattica dell’82 nell’andamento discontinuo dello scontro all’interno del percorso di lunga durata. Una scelta che ha permesso di aprire una fase rivoluzionaria in cui le BR, ritirandosi, hanno sottratto per quanto possibile, le forze al dissanguamento causato dalla controffensiva dello Stato senza cadere nell’avventurismo. In tal modo le BR hanno iniziato un lungo e difficile processo di riadeguamento complessivo a fronte delle modifiche avvenute nel contesto dello scontro con la conseguente durezza delle condizioni politiche e materiali venutesi a determinare nel tessuto proletario e nell’autonomia di classe. Un processo quindi non lineare e ciò proprio per la natura stessa dello scontro di classe e del processo rivoluzionario in generale e della funzione della Guerriglia in particolare, la quale evidenzia senza mediazione il rapporto di guerra che vige nello scontro di classe, caratterizzandolo pertanto come processo di guerra di classe di lunga durata.

Non linearità perché è un percorso materiale collocato per intero all’interno delle contraddizioni generate nel tessuto di classe dal confronto rivoluzione/controrivoluzione. Pertanto non è solo riduttivo, ma in alcuni casi anche oggettivamente opportunista pensare che sia sufficiente la “ricollocazione di un corpo di tesi e la loro propaganda per l’uscita dalla Ritirata Strategica” e ciò perché di fatto è sottrarsi alle implicazioni che ha l’operare nell’unità del politico e del militare, l’operare della Guerriglia indipendentemente dalla coscienza che se ne ha. Ma il procedere del processo di riadeguamento è strettamente legato alla ricostruzione delle condizioni politiche e militari della guerra di classe, alla capacità delle BR di articolare un processo di attivizzazione/organizzazione delle forze proletarie a partire dalle condizioni create dall’arretramento. Tenendo conto che per la Guerriglia anche il riadeguamento si realizza nell’unità del politico e militare; implica quindi che l’avanguardia combattente stabilisca una “condotta della guerra rivoluzionaria” i cui termini sono interni ai presupposti della Ritirata Strategica sino a che l’evolversi successivo dei livelli di ricostruzione, compattamento e direzione delle forze proletarie sul terreno rivoluzionario non abbiano maturato l’assestamento necessario per superare le posizioni di relativa debolezza nel complesso dei rapporti di forza tra le classi. Possiamo affermare che l’unità del politico e del militare agisce come una matrice nel processo rivoluzionario, dai meccanismi che permettono ad una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi rivoluzionaria, al processo rivoluzionario nel suo complesso. Per quanto riguarda l’esperienza maturata dall’Organizzazione possiamo dire che la Guerriglia svolge la funzione di direzione dello scontro di classe, affrontando contemporaneamente e globalmente i principali piani del processo rivoluzionario. La direzione operata dalla Guerriglia è volta ad organizzare e disporre le forze in riferimento al sostenere il livello di scontro dato e ai fini della fase rivoluzionaria sul terreno strategico della lotta armata obiettivamente consolidatosi nello scontro rivoluzione/controrivoluzione in vent’anni di prassi rivoluzionaria delle BR. In altri termini la strategia della lotta armata è il modo con cui si rende praticabile il processo rivoluzionario e si materializza lo sviluppo della Guerra di Classe di Lunga Durata contro lo Stato. Un processo in cui l’avanguardia armata si pone come direzione e organizza fin da subito i settori rivoluzionari di classe che si dialettizzano e si dispongono sul terreno della lotta armata. Vent’anni di prassi rivoluzionaria hanno chiarito come il portato dell’agire nell’unità del politico e del militare abbia tracciato un terreno concreto di (possibile) risoluzione al quesito da sempre oggetto di dibattito nel movimento rivoluzionario, quale la questione del “Partito” e del rapporto “Partito/masse” determinando al tempo stesso una netta demarcazione con l’opportunismo parolaio. Per quanto riguarda il Partito ciò ha evidenziato come questo sia un problema di costruzione/fabbricazione delle condizioni stesse della guerra di classe, cioè problema di costruzione di una direzione politica e di strutture organizzate, adeguate a sostenere lo scontro e a rilanciarlo ed approfondirlo, perseguendo ed assolvendo alle necessità e ai compiti dettati dalla congiuntura politica che scaturiscono dalla contraddizione dominante che oppone la classe allo Stato, disponendo e organizzando le forze disponibili intorno ai compiti imposti dalla fase rivoluzionaria, compiti che in generale sono sempre riferibili allo stato dei rapporti di forza tra le classi, agli equilibri dei rapporti tra imperialismo e antimperialismo, allo stato delle forze proletarie e in ultima istanza ad un determinato passaggio del rapporto di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione. Solo la risposta corretta e contemporaneamente la collocazione materiale delle forze permette di aprire una nuova fase rivoluzionaria di scontro. Nuova fase che è sempre il prodotto di come si è conclusa la fase precedente, in quanto prodotto del rapporto concreto di scontro tra le forze in campo. Pertanto il susseguirsi delle fasi rivoluzionarie assume un andamento non lineare, non schematizzabile dall’inizio alla fine. Alla luce dell’andamento concreto del rapporto di scontro tra le classi, la costruzione di una reale direzione politica attraverso un atto di “fondazione del Partito” pare non solo infantile, ma addirittura opportunista. Per questo le BR fin dalla loro iniziale attività ed elaborazione teorica hanno sempre posto il problema del Partito come processo di costruzione e di fabbricazione delle condizioni stesse della guerra di classe. Nodo che ha sempre caratterizzato le fasi del processo rivoluzionario nel nostro paese, dalla fase della Propaganda Armata alla fase attuale di Ritirata Strategica. In questo percorso le BR si sono costruite come direzione politica dello scontro proprio agendo da partito per costruire il Partito, perché le BR non sono il Partito ma un’organizzazione di Guerriglia che nel loro agire politico-militare pongono le basi per la loro trasformazione in Partito.

In altri termini la Guerriglia, le Brigate Rosse, si pongono nello scontro come un esercito Rivoluzionario (ovviamente con specifiche peculiarità determinate dal tipo di mediazione politica assestatasi negli Stati a capitalismo maturo) che lavora a costruire la direzione politica, il Partito Comunista Combattente. Questa impostazione fa altresì chiarezza riguardo a quelle posizioni che vedono il formarsi del Partito come una sommatoria, “federazione” di gruppi e organismi che si richiamano ideologicamente al comunismo, dettandone l’inconsistenza di queste posizioni.

Riguardo al rapporto “Partito/masse” la posizione delle BR è nettamente chiara; tale rapporto non è altro che il termine di costruzione/organizzazione degli spezzoni di autonomia di classe sul terreno della lotta armata, calibrato nelle forme e nei modi alle fasi rivoluzionarie che si attraversano. La giustezza di queste concezioni, oltre ad essere stata verificata dalla pratica, è derivata dal fatto che la direzione della Guerriglia si esplica sui piani principali dello scontro, cioè vi è interdipendenza e interrelazione tra i diversi momenti in cui si materializza l’operare della Guerriglia nella dinamica attacco-costruzione-organizzazione-attacco. Questo perché un processo rivoluzionario non è la risposta agli attacchi della borghesia alle condizioni politiche e materiali della classe (un atto difensivo), anche se nel suo sviluppo conosce fasi di resistenza più o meno prolungate, ma è nella sua sostanza un processo di attacco per affermare gli interessi generali del proletariato. In questa fase della guerra di classe segnata, dal lato dell’attività controrivoluzionaria dello Stato, da una riformulazione complessiva di tutti i termini della mediazione politica tra le classi e da parte rivoluzionaria, inserita nella fase generale dalle BR definita di Ritirata Strategica, cioè un periodo politico non quantificabile in anni nel quale l’attività rivoluzionaria è prevalentemente tesa ad una ricollocazione delle forze in modo da mantenere e rilanciare la capacità offensiva espressa dalla Guerriglia, diventano di fondamentale importanza i criteri con i quali si sviluppa l’attacco, si definiscono gli assi programmatici e la disposizione/strutturazione delle forze disponibili. Un dato generale dell’operare della Guerriglia è che la sua iniziativa è tesa a lacerare il piano degli equilibri politici fra classe e Stato e a costruire le condizioni materiali per un equilibrio politico e di forza favorevole al campo proletario che può partire solo intervenendo (con l’attacco) al punto più alto dello scontro. Questo poi si ripercuote come effetto su tutto l’arco dei rapporti fra le classi fino al piano capitale/lavoro, una dinamica di intervento che “libera” – anche se momentaneamente – energie proletarie.

Una forza politica che deve trovare il suo corrispettivo sul piano rivoluzionario nella costruzione di organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, calibrata nelle forme e nei modi alla fase di scontro e ai rapporti di forza generali. Vantaggi momentanei derivanti dell’attacco operato che vanno tradotti in organizzazione, perché lo scontro rivoluzionario diretto dalla Guerriglia nelle metropoli imperialiste non può costruire “basi rosse” stabili, non può avere retroterra logistico, perché lo scontro rivoluzionario nei centri imperialisti è una guerra senza fronti dove l’attività controrivoluzionaria dello Stato si dispiega contro l’intero campo proletario (Guerriglia, movimento rivoluzionario, classe); dove il processo rivoluzionario avanza in una condizione di accerchiamento strategico, almeno fino alla fase finale dello scontro rivoluzionario. Alla luce di questa considerazione di carattere generale ed ai caratteri assunti dallo Stato (in quanto organo della dittatura borghese e contemporaneamente manifestazione della inconciliabilità fra le classi) le BR fanno dell’asse classe/Stato il principale elemento programmatico su cui si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata. Non si tratta come nel passato di disarticolare, mettendoli sullo stesso piano, tutti i centri della macchina statale (periferici e centrali) anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello Stato, visto in una separatezza tra i suoi apparati (politici, burocratici, militari) a sua volta derivata da una visione semplificata e un po’ manualistica delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe, ricondotta a due sole fasi principali: quella dell’accumulo di capitale rivoluzionario e il suo dispiegamento nelle guerra civile. L’esperienza acquisita dalle BR ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nell’andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello Stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni l’attacco allo Stato, al suo cuore congiunturale, va inteso nel giusto criterio affermatosi nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento dell’attacco.

Centralità: si può affermare che date le condizioni politiche dello scontro, il suo approfondimento, la capacità dell’attacco di disarticolare (inteso in termini relativi e non assoluti) risiede in primo luogo nella capacità tutta politica di individuare all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi, il progetto politico centrale della Borghesia Imperialista.

Selezione: sta nella capacità di individuare il personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio delle forze che tale progetto sostengono.

Calibramento: sta nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado di approfondimento dello scontro (ad esempio anche in casi di arretramenti il livello di intervento non può prescindere dal punto di scontro più alto assestato), allo stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie, allo stato dei rapporti di forza generali sia interni al paese che negli equilibri internazionali fra imperialismo e antimperialismo. Questi i criteri che guidano l’attacco e la scelta dell’obiettivo e che permettono alla Guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo del vantaggio politico e materiale. In ultima analisi possiamo affermare che questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro, poiché solo la fase della guerra civile dispiegata consente di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.

Altro elemento programmatico, di vitale importanza, su cui si costruiscono i termini della guerra di classe è l’antimperialismo. Su questo terreno si è sviluppato un processo di confronto e di unità politica tra le diverse forze rivoluzionarie. L’esordio del Fronte Rivoluzionario Combattente in Europa Occidentale promosso nel 1985 dalla Rote Armee Fraktion (RAF) e da Action Directe (AD) ha costituito il primo momento di confronto concreto nelle forze rivoluzionarie, a partire dalla prassi che lo ha sostanziato; si è posto cioè sul piano soggettivo la possibilità di superare quel fronte oggettivo costituito dai singoli percorsi rivoluzionari che avvengono sia nel centro che nella periferia. L’assunzione soggettiva della politica di Fronte permette quindi di connotare l’internazionalismo proletario all’interno della prassi adeguata alla profondità dello scontro tra imperialismo/antimperialismo; in questo senso ribadiamo la giustezza delle affermazioni fatte dal Fronte fin dal suo esordio, e cioè che lavorare alla costruzione e consolidamento del Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria. L’attività antimperialista delle BR fin lì praticata con le iniziative politico-militari Dozier e Hunt, si è confrontata con il problema politico del Fronte ponendosi in dialettica con il suo processo di avanzamento e consolidamento (l’iniziativa politico-militare Conti).

L’approccio delle BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente alla politica di Fronte Combattente Antimperialista (FCA) è quella di una politica di alleanze con le altre forze rivoluzionarie (non necessariamente del centro) tesa a costruire momenti di unità successivi contro il nemico comune (le politiche centrali dell’imperialismo). Per questo il fronte non è e non può essere una formazione “spuria” di una nuova Internazionale Comunista, come qualcuno nell’intento di denigrare questa proposta politica ha cercato di spacciare, ma sostanzialmente è fondata su un rapporto di alleanza fra le varie forze combattenti. Tutto ciò non significa che l’attività antimperialista sostituisca l’intera prassi rivoluzionaria all’interno del paese; ovvero vive la consapevolezza che i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata dipendono in primo luogo dalla capacità di intervenire nelle contraddizioni tra classe e Stato e che tali contraddizioni nascono all’interno delle condizioni peculiari del paese (per quanto possano essere influenzate dalle relazioni che l’imperialismo stabilisce all’interno). Per questa ragione l’attività nel FCA costituisce per le BR una parte del loro programma politico, essa cioè vive con l’attacco al cuore dello Stato un rapporto programmatico. Inoltre, per la nostra Organizzazione, l’attività del FCA non può disperdersi in un attacco generico all’imperialismo, a qualsiasi livello esprime la sua politica, ma ne deve individuare i nodi centrali, sia quando essi si esplicano nel cuore del sistema, sia quando sono volti a “normalizzare“ l’area mediterraneo-mediorientale, sia quando essi si coordinano per stabilire politiche controrivoluzionarie nei confronti della Guerriglia e del FCA. Ciò significa intendere l’alleanza come un processo di unità successive, che non comportano l’annullamento del proprio impianto specifico nella politica di Fronte, ma stringerla all’interno dell’obiettivo di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo, indipendentemente dalle finalità strategiche delle Forze Rivoluzionarie che vi contribuiscono, siano esse lotte di liberazione nazionale o la conquista del potere politico da parte del proletariato. Per questo le BR affermano insieme alla RAF che non si tratta di fondere ciascuna Organizzazione in un’unica Organizzazione, ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo. L’unità possibile e necessaria, nel FCA, fra le Forze Rivoluzionarie del centro e quelle della periferia, nulla toglie al diverso peso e funzione che ognuna occupa nello scontro, due livelli che appunto si riunificano politicamente nella lotta contro l’imperialismo. All’interno di questi criteri generali, la nostra Organizzazione si rapporta alla politica del Fronte, contribuendo al suo rafforzamento attraverso intese politiche fattive. È all’interno di questo contesto, in riferimento alla politica di alleanze praticata e promossa dalla nostra Organizzazione, che rivendichiamo ancora l’iniziativa combattente della RAF contro il presidente della Deutsche Bank, Alfred Herrhausen. Essa, insieme alla precedente contro Tietmayer, si inserisce contro il centro della politica che in questa fase costituisce l’elemento principale del processo di coesione (formazione) dell’Europa Occidentale a partire dal suo cuore, il ruolo della Repubblica Federale Tedesca.

Due assi programmatici (classe/Stato, antimperialismo/imperialismo) che sono il terreno pratico su cui le BR sviluppano e verificano la loro capacità d’attacco e assolvono alla funzione di direzione politica dello scontro. Una direzione che si colloca nel quadro di scontro interno e internazionale dove qualificare e far vivere nella strutturazione e disposizione delle forze il patrimonio acquisito in questi vent’anni e misurarsi con l’approfondimento dello scontro rivoluzione/controrivoluzione. Per inciso va detto che questi anni di prassi rivoluzionaria hanno verificato che qualora viene meno il modulo politico-organizzativo fondato sui criteri di clandestinità e compartimentazione, su sedi politiche ben definite che permettono di accertare e relazionare le diverse responsabilità attraverso il centralismo democratico, vi è perdita di capacità della Guerriglia su tutti i piani dello scontro. In questa fase politica quello che va tenute presente è il quadro determinato dalla dialettica rivoluzione/controrivoluzione nel nostro paese, un processo che si ripercuote nel modo in cui lo Stato si relaziona al campo proletario. Lo Stato ha ben presente che non può eliminare la componente rivoluzionaria, in questo senso ha definito un apparato antiguerriglia con un raggio d’intervento politico complessivo, ovvero finalizzato a tenere sotto pressione le componenti proletarie e rivoluzionarie che esprimono antagonismo verso lo Stato. Un aspetto questo che si compenetra con la mediazione politica facendo di quest’ultima un reticolo di atti politici e materiali che contrastano con l’ambito stesso di formazione dell’avanguardia, nel tentativo di impedire all’autonomia di classe di esprimersi. In sintesi, misurarsi con le condizioni politiche del rapporto classe/Stato per pesare sugli equilibri dello scontro mette in luce i termini necessari della dialettica Guerriglia/autonomia di classe. Una dialettica che a livello dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata deve agire sul binomio ricostruzione-formazione. Le BR hanno lavorato e lavorano per porre le basi alla fase di ricostruzione; queste poggiano sui passaggi effettivamente compiuti dall’avanguardia rivoluzionaria in termini di ricentramento teorico, politico e organizzativo attraverso la prassi concretamente messa in campo per portare l’iniziativa rivoluzionaria al punto più alto dello scontro tra le classi. Se queste basi consentono di definire questo indirizzo politico su cui s’incentra il lavoro rivoluzionario, è però vero che la fase di ricostruzione è un passaggio problematico e difficile per i molti fattori di contraddizione a cui l’avanguardia combattente deve dare soluzione. A fronte della qualità richiesta all’intervento rivoluzionario, quindi delle condizioni complessive per espletarlo, vi è la continua necessità di operare ricostruzione dei mezzi e delle forze che devono essere disposte; questo comporta un andamento avanzate-ritirate, per via dell’equilibrio da mantenere tra i due fattori, il quale deve confrontarsi con l’intensa attività antiguerrigliera e controrivoluzionaria dello Stato, e per altro verso per il necessario processo di formazione delle stesse forze rivoluzionarie. Ecco perché questa fase è soggetta ad un andamento fortemente discontinuo che comporta il procedere fra avanzate e ritirate, condizionando in tal modo l’atteggiamento tattico del momento. In sintesi, un termine di lavoro che attraversa verticalmente e orizzontalmente le forze in campo (seppure con le dovute differenze) a partire in primo luogo dalla formazione dei rivoluzionari.

L’adeguamento nella capacità di esprimere la direzione idonea alle mutate condizioni dello scontro comporta un salto di qualità nella centralizzazione delle forze in campo attorno all’attività generale dell’Organizzazione, cioè emerge la necessità politica che l’attività dell’Organizzazione si muova in termini di forte centralizzazione politica, che nell’accezione leninista significa: centralizzazione delle direttive politiche sull’intero movimento delle forze, decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse sedi e istanze organizzate. Più precisamente la centralizzazione deve rispondere alla capacità di responsabilizzare le forze in un piano di lavoro le cui caratteristiche politiche siano di patrimonio di tutti e non interpretabili spontaneamente dai diversi livelli organizzati. La centralizzazione dell’attività del movimento delle forze è condizione che richiede il massimo utilizzo politico delle medesime all’interno di una disposizione volta a farle muovere intorno all’iniziativa dell’Organizzazione. Ciò avviene solo dentro un piano di lavoro definito, all’interno del quale tutte le forze concorrono non per spontaneo apporto, ma disposte e organizzate in modo da contribuire confacentemente. Una dinamica politico-organizzativa che può avvenire appunto nel duplice movimento centralizzazione politica/decentralizzazione delle responsabilità. Questo perché non è più sufficiente disporsi spontaneamente sulla lotta armata pensando di ritagliarsi in piccolo i problemi posti dallo scontro; in altri termini, una riproposizione dell’esperienza dei nuclei, che al proprio livello riprendevano le indicazioni dell’Organizzazione, in questo contesto non è più praticabile politicamente.

Non si tratta di dover far fare esperienza al proprio livello alle forze che si relazionano, ma si tratta fin da subito di formarle all’interno di una disposizione che permette di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro richiede: la dimensione del senso organizzato del lavoro per rispondere alle necessità che assume questo livello di sviluppo della guerra di classe. Al di fuori di questo dato politico c’è solo un’interpretazione fumosa dell’unità dei comunisti che, muovendosi in ordine sparso, non può che trascendere dalle condizioni che lo scontro impone, al limite ritagliandosi un proprio spazio ininfluente ad incidere sullo scontro stesso, ma di fatto favorendo la dispersione delle forze e delle iniziative in quanto su di esse grava, indipendentemente dalla coscienza con cui si sono disposte nello scontro, tutto il peso delle condizioni politiche. Questo adeguamento implica la capacità di esprimere un livello di direzione politico-organizzativa adeguata alla centralizzazione nella disposizione delle forze sull’attività dell’Organizzazione, un livello di direzione che nel suo complesso muove verso un avanzamento nel processo di costruzione del Partito Comunista Combattente.

 

I militanti delle BR-PCC: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari organizzati intorno alle BR-PCC: Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini.

 

Febbraio 1990

La più utile solidarietà ai militanti prigionieri rivoluzionari è sviluppare la lotta rivoluzionaria. Documento del Collettivo comunisti prigionieri L’Aurora

Premessa

La questione della solidarietà di classe emerge ogni volta che la repressione mette in campo i suoi strumenti per arrestare la lotta di classe nelle sue diverse espressioni.

Le risposte che vengono date non sono sempre adeguate a questi attacchi, perché questi avvengono in forme diverse e con livelli di intensità determinati dalle fasi storiche, dai rapporti di forza tra le classi e dai soggetti in campo.

Contro i movimenti e le lotte per i bisogni immediati la repressione agisce per fermare i processi di radicamento ed estensione. Contro le organizzazioni rivoluzionarie che si danno percorsi e strutture funzionali alla lotta per il potere agisce per annullare ogni capacità di azione anche in forma preventiva.

Rispetto alle lotte per i bisogni immediati, dove la repressione si manifesta con i licenziamenti per rappresaglia, con le cariche poliziesche, con denunce e arresti per i reati di “piazza”, la solidarietà è la più genuina e naturale risposta per denunciare l’inconciliabilità tra bisogni proletari e potere borghese e per cercare di imporre il ritorno alla lotta dei compagni colpiti da arresti o licenziamenti.

Diversa è la situazione quando la repressione agisce contro la parte più cosciente ed organizzata del proletariato, oggi alla ricerca di una strada per far confluire le enormi energie della classe proprio verso quell’orizzonte politico che da sola non riesce a darsi: quello della rivoluzione proletaria contro il sistema di sfruttamento e di oppressione del capitalismo e dell’edificazione di una società socialista.

E nella ricerca di questa strada assume oggi il posto principale la costituzione del Partito rivoluzionario costruito in funzione della presa del potere politico da parte della classe operaia e del proletariato. Costruito quindi fin dai suoi primi passi nell’unità del politico-militare.

Lasciamo quindi da parte tutte quelle interazioni solidali che si sviluppano all’interno delle lotte che la classe oppone al procedere della crisi quando queste si trovano ad affrontare la repressione. Non perché non le consideriamo importanti, anzi. Piuttosto perché su di esse c’è ben poco da dire essendo la rappresentazione più naturale e spontanea della volontà di presentare la più forte unità proletaria a fronte dell’offensiva borghese alle condizioni di vita e di lavoro delle masse.

Quello che ci interessa invece trattare è la solidarietà che parti del cosiddetto movimento di classe offrono alle istanze rivoluzionarie colpite dalla repressione e quindi ai Militanti Prigionieri Rivoluzionari (MPR). In questo campo, spesso, l’opportunità e la modalità con cui si sviluppa il movimento di solidarietà sollevano critiche, dubbi, precisazioni, dibattiti, ecc. tutte cose che trovano la loro ragion d’essere alla luce della contraddizione fra la lotta della classe sui propri bisogni immediati (è questo il contesto in cui va collocato il movimento di solidarietà, con la particolarità che esso rappresenta settori di massa che cercano/sostengono l’istanza rivoluzionaria) e la lotta rivoluzionaria per la presa del potere politico.

E come in ogni contraddizione anche in questa si presenta un rapporto di unità e lotta. Unità, per quanto riguarda il reciproco riconoscimento (“siamo tutti dalla stessa parte”; “lottiamo ognuno per ciò che gli compete, lo stesso nemico”; ecc.) e lotta, dovuta a diversi livelli di coscienza per ciò che riguarda le necessità della lotta rivoluzionaria.

È questo un dibattito che a più riprese e gradi ci ha trovati coinvolti dal giorno degli arresti nel febbraio 2007, in quanto referenti di un movimento di solidarietà sviluppatosi in opposizione alle manovre repressive del nemico di classe che per estensione e militanza trova ben pochi riscontri negli ultimi 20 anni.

Un dibattito che, sviluppatosi sia tra di noi che tra noi e questo movimento, ci ha permesso di rilevare pregi e difetti di questa esperienza.

Ci ha anche dato modo di confrontarci con l’esperienza e i contenuti di altre componenti politiche di MPR.

L’intento di questo scritto è anche di fare il punto del dibattito e presentare a tutti coloro che intendono impegnarsi nel campo della solidarietà (e in seconda battuta a tutti quelli che, volenti o nolenti, ne sono i referenti: i MPR) la nostra sintesi. Questo perché ci siamo trovati spesso a dare risposte parziali a questo o a quel tema che viene sollevato dal movimento solidale senza mai riuscire a dare la visione generale e completa di ciò che pensiamo.

Ci sembra quindi giunto il momento di farlo.

 

Quale solidarietà vogliamo?

Vogliamo partire da un concetto che pur sembrando semplice e banale ci pare che non sempre venga tenuto nel la giusta considerazione come guida del movimento di solidarietà.

E cioè il fatto che la migliore (non l’unica) solidarietà che si possa fare ai MPR è quella di proseguire nella lotta rivoluzionaria.

Questo è un enunciato che ha validità universale, per noi, come per ogni organizzazione rivoluzionaria che tenga fede al proposito di rovesciamento dell’ordine imperialista esistente tramite la conquista del potere. Con ciò in realtà si supera il concetto stretto di “solidarietà” per abbracciare quello proprio della militanza rivoluzionaria.

Se questo concetto non è ben fermo si rischia di concepire il lavoro della solidarietà come fine a se stesso e non come una “parte di un tutto”. Si rischia di perdere l’orizzonte politico solamente con il quale il lavoro di solidarietà riveste la sua utilità principale di tener viva tra il proletariato e la classe operaia la strada della rivoluzione e della loro emancipazione. Se si vuole rendere produttiva l’esistenza dei MPR l’unico modo è quello di far conoscere la loro esperienza di lotta per il potere che si tratta “solamente” di riprendere alla luce degli insegnamenti delle esperienze fatte e nel le condizioni attuali in cui, tra l’altro, lo scontro va acuendosi. Possibilmente correggendone errori e difetti.

Tutto ciò senza nulla togliere al fatto che oggi la solidarietà, nel suo significato più ampio, ha acquisito grande importanza. Infatti essa è invocata e praticata su diversi fronti di lotta, in diverse situazioni sociali, proprio come primo livello di risposta alla realtà di disgregazione e di divisione concorrenziale, alimentata sistematicamente dalla borghesia. Si pensi alle aggregazioni territoriali che si sono date sia attorno a questioni sociali-ambientali, sia attorno a lotte operaie che, per le loro dimensioni ridotte e/o marginalizzate (in particolare le lotte dei proletari immigrati) hanno acquisito forza e collegamenti di classe proprio grazie alle reti d i solidarietà. Quindi sviluppare la solidarietà come tessuto di riaggregazione, come primo terreno su cui la classe può riconoscersi e sviluppare le proprie forze, come terreno di esperienze comuni e di comunicazione fra vari settori ecc., non può che essere positivo, creando base e consistenza di massa per lo stesso successivo passaggio, cioè la sua finalizzazione.

 

La solidarietà che non ci interessa

Al di fuori o se si trascura di tenere ben ferma l’impostazione appena affermata, ci si trova ad affrontare alcune deviazioni. Ne accenniamo qui alcune con cui ci siamo confrontati direttamente: la tendenza al vittimismo o all’innocentismo, il lamentarsi fine a se stesso di essere vittime delle montature della controrivoluzione e del fatto che la borghesia non rispetta le sue stesse leggi. Questo atteggiamento, pur comprensibile, non considera che lo scontro di classe non si può misurare sulla base del quadro giuridico, qualsiasi esso sia. Bisogna andare al la sostanza e considerare la repressione elemento imprescindibile dello scontro. Vittimismo e innocentismo non solo sono inutili , ma anche dannosi perché impediscono al proletariato di dotarsi della giusta concezione dello scontro e perché ci si va a confrontare con i codici borghesi legittimando e avvalorando la loro esistenza; considerare gli attacchi repressivi alle organizzazioni rivoluzionarie al pari della repressione verso il movimento di classe generico. Non distinguere e fare un tutt’uno come si rivela negli slogan: “siamo tutti terroristi” , “siamo tutti sotto attacco repressivo”, “abbiamo preso 150 anni di condanne” ecc.

Cosa che, se da un lato mostra la tendenza positiva ad unirsi alle istanze rivoluzionarie colpite dalla repressione, dall’altra svalorizza la loro precisa collocazione nello scontro come reparto d’attacco. Se l’intento è, come crediamo, impedire il loro isolamento, questo si può ben fare pur distinguendo le varie componenti.

Tra l’altro ci sembra che ponendo tutto sullo stesso piano si corre viceversa il rischio di esporre inutilmente il movimento solidale alla repressione, collocandolo/assimilandolo ad un livello che non gli è proprio; anche lo slogan “non siamo tutti, mancano i prigionieri” fa parte di questo appiattimento. Nel merito di questo specifico ci sentiamo di fare due considerazioni: la prima è che i prigionieri non mancano affatto, anzi continuano, nell’ambito del carcere imperialista, la lotta rivoluzionaria nella forma della resistenza al carcere stesso e nel rifiuto al capitolazionismo e al liquidazionismo. Secondo, i prigionieri appartenenti ad organizzazioni rivoluzionarie, proprio perché tali, nemmeno prima della loro cattura potevano essere assimilabili principalmente al cosiddetto generico “movimento” di classe essendo in primo luogo membri o promotori d i organizzazioni politiche rivoluzionarie complessive d’attacco.

Insomma, anche qui non va bene appiattire, si toglie parte dell’identità politica e si reca danno a quei MPR che ancora dal carcere tengono fede al progetto rivoluzionario; idem dicasi per tutte quelle volte che si nominano i MPR senza fare riferimento alla loro organizzazione politica di appartenenza o che vengono posti alla stregua della comune popolazione detenuta. E, teniamo a precisare, diciamo questo non perché i MPR vadano considerati una elite, vadano trattati meglio o messi sull’altare, anzi. Ma perché nello scontro di classe hanno rivestito e rivestono un ruolo specifico che non va mai nascosto o dimenticato; agitare i MPR come supplenza della rivoluzione o ridurli a feticcio di essa. Il che porta facilmente a metterli in maniera acritica su un altare. Bisogna invece considerare i MPR come parte attiva dello scontro di classe e tra di essi ci sono storie, linee politiche, modi di essere e di agire diversi e che vanno considerati, non sottaciuti. Ci si deve sempre porre la domanda se quello che fanno o dicono aiuti o meno la ripresa del processo rivoluzionario. E ciò, beninteso, vale per tutti, noi compresi. Non c’è la voce del prigioniero prima di tutto, in virtù della repressione che sta subendo. Prima di tutto vengono le esigenze della rivoluzione; in ultimo, sollecitare un protagonismo dei MPR onde avere materia e sostanza per alimentare il movimento solidale. Beh, qui non abbiamo molto da dire. Ci sembra evidente che il movimento di solidarietà si scontri qui con i suoi limiti ed in principal modo quello già accennato di considerarsi fine a se stesso. Ma su questo torniamo tra poco.

Detto tutto questo ci teniamo a precisare che la responsabilità principale di queste “deviazioni” (se così si possono definire) non è da imputarsi al movimento di solidarietà stesso, ma all’arretratezza e alla debolezza del processo rivoluzionario nel nostro paese, alla mancanza dell’organizzazione rivoluzionaria che sappia valorizzare e incalzare tutte le tendenze positive espresse dal movimento di classe nell’alveo della lotta rivoluzionaria.

E qui ci sentiamo di intervenire, in continuità al nostro contributo politico-organizzativo finalizzato alla risoluzione di questa mancanza. Non tanto con l’intento di darvi concretezza (cosa impossibile, visto dove ci troviamo), piuttosto cercando di arginare e contenere quello che a noi sembra rallentare e inibire la ripresa del processo rivoluzionario, cercando di contribuire ad elevare la coscienza e ad approfondire le questioni poste da tutti quelli che, esprimendo vicinanza e appoggio, intendono così schierarsi nello scontro di classe.

 

È dunque inutile la solidarietà ai militanti prigionieri rivoluzionari?

Alle nostre obiezioni potrebbe sollevarsi questa domanda.

Ebbene la nostra risposta è che ogni espressione positiva proveniente dalla classe e dal movimento di classe che si collochi o cerchi di collocarsi nel campo rivoluzionario non è mai né negativa né inutile. Anzi, può rappresentare un valido strumento di educazione delle masse nel diffondere le idee comuniste, nel collegare le lotte economiche e sociali alla lotta politica ecc. ma, appunto, deve collocarsi precisamente, trovare il suo ruolo e non fare confusione tra piani e livelli, questa sì, dannosa .

Per quanto riguarda la nostra stretta esperienza abbiamo visto quanto utile sia stato tutto il movimento di solidarietà che si è sviluppato fin dai giorni dei nostri arresti. Un movimento che è nato e cresciuto nel mentre prendeva le mosse la crisi economica provocata dall’insolvenza dei mutui subprime e che, in altre forme, prosegue tuttora in un crescendo di tensioni e contrasti tra i vari blocchi imperialisti. Senza dilungarsi troppo sui caratteri di questa crisi, si può tranquillamente affermare che essa sta determinando un vero e proprio salto di qualità nell’attacco alle condizioni di vita e d i lavoro delle masse popolari comune a tutta l’area dei “soliti” centri imperialisti (intendiamo cioè esclusi gli imperialismi emergenti dove assistiamo a diverse dinamiche, i cosiddetti BRIC, per capirci).

Questo perché l’unica soluzione di uscita definitiva dalla crisi per via capitalistica è far riportare il ciclo di accumulazione alla cui base si trova la necessità di estrarre dalla classe operaia quote crescenti di plusvalore in grado di valorizzare le enormi quantità di capitali già accumulati. Il che si traduce nel tornare a far profitti intensificando lo sfruttamento del lavoro vivo.

Anche nel nostro paese questo è l’imperante obiettivo che i principali gruppi imperialisti (FIAT in testa) stanno perseguendo con lo smantellamento pressoché totale di tutte le regole e i limiti allo sfruttamento che il movimento operaio aveva imposto con la lotta nel la sua storia (abbattimento del limite delle 8 ore, attacco ai CCNL, alla legge 300, alla      626, il Collegato lavoro, drastico dimezzamento della pensione, pesante ridimensionamento dell’assistenza ecc.). La tabula rasa di diritti e tutele è la condizione necessaria per continuare a far profitti. E non si danno più i margini materiali su cui hanno potuto crescere le ipotesi riformiste. O è così, o si molla tutto e si va da un’altra parte dove i profitti sono maggiormente garantiti. Questo è il ricatto che la FIAT sta imponendo nei suoi stabilimenti in Italia con la totale complicità di CISL-UIL-UGL e FISMIC e con l’incapacità della FIOM di dare risposte vincenti, poiché impantanata nella sua storica palude riformista e legalitarista.

Va anche tenuto presente che la crisi ha già seminato centinaia di migliaia di licenziamenti, un grosso rimpolpamento dell’esercito industriale di riserva a cui molto difficilmente farà seguito un riassorbimento, in una ipotetica conclusione della crisi che ancora nemmeno si intravede. Tanto che qualche testa d’uovo imperialista ha coniato la definizione “new normal” intendendo con questo dire, senza peli sulla lingua, che da questo arretramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari, persino nei paesi più avanzati, non ci sarà ritorno.

Un altro fattore che indica la gravità e la profondità della crisi in atto è che nemmeno l’enorme bacino dell’esercito industriale di riserva costituito dalla forza lavoro immigrata è sufficiente a garantire una sufficiente estrazione di plusvalore agendo sulla concorrenza salariale operaia. E l’auspicato scontro proletariato locale – proletariato immigrato, salvo qualche caso, non si sviluppa nonostante le forti spinte reazionarie dei partiti politici della grande e piccola-media borghesia che puntano da tempo alla mobilitazione reazionaria di massa. Ricorrono invece pesantemente all’utilizzo dei CIE e dei CTP, veri e propri lager disseminati in tutto il territorio nazionale in cui le inumane condizioni detentive servono a schiacciare la testa alle popolazioni immigrate.

Contrariamente ai disegni della borghesia si assiste piuttosto a forme di lotta del proletariato immigrato che raccolgono il sostegno di parti di proletariato italiano (vedi Milano e Brescia) quando addirittura non lottano insieme (cooperative lombarde e fabbriche varie).

Insomma alla borghesia imperialista serve ben altro. Deve scontrarsi frontalmente con la classe operaia centrale. Quella che ha il posto che si pensa fisso, che tramite le lotte si era guadagnata un certo tenore di vita. Quella di Pomigliano e di Mirafiori, per intenderci. Cioè con la parte più organizzata che porta ancora sulle spalle quel che è rimasto della memoria storica del movimento operaio.

Alcuni passi li abbiamo già visti (Pomigliano, formazione di NEWCO per aggirare il CCNL, adesso Mirafiori), il prossimo sembra essere quello di creare un CCNL per il solo settore auto, un distaccamento Federauto di Federmeccanica. Se così fosse, l’intento è evidente: isolare gli operai dell’auto e dell’indotto dagli altri per poi colpirli meglio. Infatti storicamente a questo è servito dividere la classe operaia in decine di categorie, ognuna con il suo CCNL.

D’altronde emblematica è la dichiarazione della Presidente di Confindustria Marcegaglia: “bisogna capire fino a che punto ci si può spingere […] abbiamo iniziato dal 1999 a cambiare le relazioni industriali, ma certo non è possibile cambiare in un giorno 100 anni di storia”.

Vediamo inoltre che, in questo contesto, la gravità della crisi impone alla borghesia di dispiegare un attacco generalizzato che oltre alla classe operaia coinvolge l’intero proletariato e la gran parte delle masse popolari. Senza fare l’intero e sempre più lungo elenco, basta pensare al taglio della spesa pubblica che si traduce in peggioramento delle condizioni del pubblico impiego, in riduzione dell’assistenza sanitaria, in declassamento dell’istruzione. Naturalmente senza toccare le spese militari per la guerra verso le quali invece va dirottata parte delle risorse precedentemente destinate alla spesa sociale.

In particolare il settore scolastico subisce uno specifico attacco con tagli che ne affossano definitivamente ogni residuo ruolo di promozione sociale per le classi subalterne. La scuola di massa deve essere trasformata in un contenitore di potenziali futuri disoccupati – sottoccupati in cui il codice selettivo-meritocratico è esasperato al fine di ottenere coercitivamente la disciplinata rassegnazione. Naturalmente potenziando invece la scuola d’elite per la formazione della classe dirigente come si vede con l’incremento del finanziamento alle scuole private.

In questo contesto scolastico-giovanile si è già espressa una forte risposta di massa che ha evidenziato una radicale opposizione delle fasce più proletarie degli studenti che, sul piano dei contenuti più avanzati (“ci rubano il futuro”, “la vostra crisi non la paghiamo”) è stato capace di cogliere correttamente la portata dello scontro e che ora si sta misurando con le manovre repressive dello stato volte ad annullarla.

E questo con grandi livelli di mobilitazione (centinaia di migliaia) e con un significativo sviluppo internazionale (Francia, Grecia, Inghilterra, Italia).

In sintesi ci troviamo di fronte ad una situazione “Nuova”, ad un cambio di passo nella dinamica dell’attacco della borghesia imperialista e delle conseguenti lotte di difesa. Una situazione in cui il proletariato e la classe operaia avranno bisogno delle loro migliori forze ed energie. Una situazione in cui chiunque intenda inoltrarsi nel campo della lotta rivoluzionaria può trovare terreno fertile per svilupparsi sapendosi dialettizzare correttamente.

Tornando quindi al nostro discorso, crediamo che anche il movimento di solidarietà nato attorno a noi debba registrare questo cambio di passo, cosa che probabilmente ha cominciato a valutare, anche in relazione all’esaurirsi della fase più intensa di scontro datasi con la nostra stagione processuale.

Bisogna andare oltre e ricentrare la propria attività verso la classe in lotta, dialettizzandosi fortemente con essa, avendo dalla propria parte tutto il portato di esperienze di lotta alla repressione e di appoggio a chi ha cercato di concretizzare un percorso rivoluzionario, proprio come soluzione da parte proletaria, della crisi del capitalismo.

 

Alcune precisazioni

Con questo non intendiamo che si supplisca alla mancanza dell’organizzazione rivoluzionaria o al necessario investimento militante sulla prospettiva rivoluzionaria. Lo sviluppo della rivoluzione e delle sue organizzazioni è e rimane nelle responsabilità proprie di chi se ne assume soggettivamente il compito. E non ci sono scappatoie.

A questo compito non possiamo supplire né noi in quanto MPR, né tanto meno chi promuove solidarietà nei nostri confronti né qualsiasi movimento che si collochi sul solo terreno del la difesa degli interessi di classe.

Detto questo, ciò non toglie che si possano sviluppare piani di lavoro parziali che portano acqua al mulino della rivoluzione. Certo, in mancanza del mulino, questi piani parziali possono disperdersi i mille rivoli ed essere più facilmente neutralizzati dal nemico di classe. Ma questa non è affatto una legge.

Tenendo ben presente il piano generale, pur non contribuendovi concretamente, si possono ben svolgere attività parziali.

E a conferma di questo si è visto il peso avuto dal movimento di solidarietà nel contrastare i piani della controrivoluzione che in ogni modo ha cercato di estirpare dalla classe la nostra esperienza, denigrandola e infangandola con le ipotesi più assurde (infiltrazione nella classe operaia, terroristi, gente fuori dal mondo, collusi con la mafia ecc.). E continua a rivelarsi estremamente utile nel rivendicare l’internità al movimento di classe dei MPR e nel tessere una corretta dialettica fra le diverse entità del movimento di classe, contribuendo a contenere l’operazione strategica dello Stato di separazione e isolamento delle istanze rivoluzionarie della classe.

Affermiamo questo in contrapposizione all’idea, presente nelle esperienze rivoluzionarie del nostro paese e anche quindi tra i MPR, che in assenza del piano principale, dell’organizzazione d’attacco, del partito, tutto il resto sia inutile; che prima di fare qualsiasi cosa è indispensabile che tutto sia a posto in un ordine prestabilito da realizzare secondo manuale.

La realtà non si compone di meccanismi ma di contraddizioni che bisogna saper trattare alla luce degli aspetti principali . Ed è indispensabile nell’analisi di queste contraddizioni (la dialettica) discernere le contraddizioni tra noi e il nemico “da quelle in seno al popolo” per dirla con Mao. In queste ultime, in particolare, rientrano quelle tra partito e masse di cui stiamo trattando. Non fare queste distinzioni, sostituire al materialismo dialettico il formalismo meccanicista come metodo di analisi, porta alle assurde affermazioni per cui, a prescindere dall’analisi concreta degli avvenimenti, i movimenti di solidarietà, di resistenza, di lotta in assenza dell’organizzazione rivoluzionaria sono sempre oggetto di manipolazione della controrivoluzione e di conseguenza oggettivamente controrivoluzionari o forieri di opportunismo. Incredibile come, con estrema facilità, si possa confondere l’analisi dei limiti e delle arretratezze evidentemente presenti nel tessuto della classe con l’analisi delle contraddizioni tra la classe e il suo nemico. Così sì, non si fa altro che abbandonare la classe alla sua sorte, lasciandola disarmata di fronte al potere e alle sue strumentazioni di recupero e repressione.

Certo è del tutto corretto cercare di concentrare le energie disponibili sul piano principale dell’attacco, ma è altrettanto errato concepire questo in contrapposizione ai molteplici aspetti parziali, secondari presenti nel movimento di classe, cui appartiene anche il movimento di solidarietà ai MPR.

D’altronde se quest’ultimo esiste (e non solo da noi ma in ogni parte del mondo dove la presenza di processi rivoluzionari produce prigionieri politici) è proprio in virtù dell’esistenza (passata o presente che sia) dell’istanza rivoluzionaria combattente.

Non concepire questa dialettica e il suo sviluppo positivo significa confinare forze proletarie nel buio del fare per fare e del movimentismo inconcludente.

Con quest’ultima precisazione non intendiamo entrare in polemica con altri che la pensano diversamente da noi. Le posizioni sono ben note e riteniamo fuorviante in questa fase aprire un simile dibattito. Il nostro intento è piuttosto porre l’attenzione, come già detto, sul fatto che tra i MPR esistono queste diverse posizioni, discendenti da progetti politici e percorsi organizzativi diversi, proprio perché i MPR ne sono l’espressone concreta, bisogna considerare queste diversità e non appiattirli alla mera dimensione della prigionia politica.

 

 

Conclusioni

Perseguendo l’obiettivo di migliorare la reciproca comprensione delle posizioni del movimento solidale e dei MPR, ci auguriamo che questo scritto fornisca, da parte nostra, tutte le chiarificazioni necessarie. Riassumendo:

– ciò che a noi interessa è in primo luogo la ripresa del movimento rivoluzionario, particolarmente impellente in questa fase di acuta crisi del modo di produzione capitalista in cui la disponibilità alla lotta del proletariato e della classe operaia andrà via via accrescendosi per forza di cose; in questa luce valutiamo tutto il resto e quindi chiediamo di essere considerati in primo luogo come militanti del movimento rivoluzionario del nostro paese e solo in seconda battuta come referenti della solidarietà;

– tra le due cose (essere militanti rivoluzionari e referenti della solidarietà) non esiste opposizione, bensì un rapporto di unità diretto al principale obiettivo della rivoluzione; rifiutiamo invece la solidarietà fine a se stessa, l’appiattimento, l’essere messi sugli altari in quanto prigionieri;

– infine affermiamo e rivendichiamo il ruolo positivo che il movimento di solidarietà ha svolto e svolge non solo nei nostri confronti ma anche nella storia passata e presente del movimento comunista internazionale. Il fatto che quest’ultimo nel nostro paese sia ad un livello arretrato, non autorizza l’avanguardia comunista, quando anche prigioniera, a denigrare le espressioni più genuine e sincere di quella parte del proletariato che simpatizza per la rivoluzione.

Detto questo fateci sapere cosa ne pensate e, sempre disponibili ad ulteriori chiarimenti, vi auguriamo buon lavoro.

 

COLLETTIVO COMUNISTI PRIGIONIERI “L’ AURORA”

 

Gennaio 2011.

Elementi di Bilancio del Processo PC P-M. Documento dei militanti per la costruzione del PC P-M Bortolato Davide, Davanzo Alfredo, Latino Claudio e Sisi Vincenzo e dei militanti comunisti rivoluzionari Gaeta Massimiliano e Toschi Massimiliano

L’udienza del 4 maggio ha costituito il più alto momento della vicenda processuale contro i militanti per la costituzione del PC P-M, con una giornata di significativo impatto politico: la più forte mobilitazione della solidarietà, dentro ed attorno al tribunale, e la lettura della nostra dichiarazione finale in aula.

Questa vicenda, nel suo corso, ha acquisito una certa rilevanza di interesse generale nello scontro di classe. Per quanto il percorso politico organizzativo, colpito dalla repressione, fosse in una fase embrionale, esso (pur con i suoi limiti e difetti) era un passo decisivo nella ritessitura di quell’entità politico – strategica che storicamente si è dimostrata e legittimata in quanto unica, coerente concretizzazione della via rivoluzionaria, e qui nei paesi del centro imperialista. Quell’entità che si è forgiata nel vivo del grande ciclo di lotte dalla fine degli anni ’60, sostenendo una fase di scontro altissimo a cavallo fra i ’70 e gli ’80, ridando corpo e possibilità tangibili alla rivoluzione proletaria. E sul filo di continuità con il Movimento Comunista Internazionale.

È chiaro che avanguardia riconosciuta e portante di tale percorso sono state, nel nostro paese, le B.R. ma negli anni seguenti, di sconfitta tattica e di ondata reazionaria, si è trattato di riprendere criticamente la via tracciata, di evincerne i grandi insegnamenti, l’eredità positiva, liberandola dal peso degli errori. Perciò, come nucleo di militanti postisi sul terreno della ripresa della via rivoluzionaria, abbiamo formulato la centralità della questione del partito del proletariato, nei termini di PC P-M.

La precipitazione della crisi capitalistica, acuendo tutte le contraddizioni, ne rende ancor più evidente la necessità, l’urgenza. Settori di massa si battono con decisione, si radicalizzano, e nelle loro forme di lotta si sviluppa il contenuto dell’antagonismo di classe: operai sequestrano padroni e dirigenti, i giovani affrontano le polizie, i proletari immigrati sfasciano le prigioni-CIE (centri di ritenzione per immigrati), ecc.

In dialettica con questi sviluppi della lotta di classe si situa dunque il nostro processo. Così la nostra espressione di piena solidarietà agli operai in lotta alla FIAT di Pomigliano e alla Thyssen-Krupp di Torino.

Agli inizi del processo, quando potemmo incontrarci le prime volte dopo un anno di sostanziali isolamenti, definimmo le linee di una strategia processuale.

  • In carcere ed in tribunale, la lotta continua. Si tratta di affermare le stesse ragioni della via rivoluzionaria, cui si è contribuito all’esterno, e per cui si viene arrestati. Dunque il carattere principale da affermare è quello di processo politico, entro il generale scontro di classe ed ai fini degli obiettivi rivoluzionari di questa fase, in particolare del percorso di costruzione del partito
  • Questo pur tenendo conto del diverso grado di investimento militante dei compagni, in particolare fra i compagni rivendicanti il percorso politico-organizzativo in questione e quelli militanti entro realtà di movimento e/o di fabbrica. L’obiettivo che ci si era dati era quello di unità nella differenza. Unità fondata sulla comune identità di classe e di appartenenza al campo rivoluzionario.
  • La difesa andava impostata secondo il criterio del “processo di connivenza d’attacco”. Cioè, senza rifiutarlo drasticamente, ci si disponeva ad affermare il primato del politico, la negazione di legittimità alla giustizia borghese, e una battaglia costante lungo il suo svolgimento. Il ruolo degli avvocati andando perciò a subordinarsi a questa impostazione, l’aspetto tecnico-giuridico a quello
  • La solidarietà ed il movimento di classe potevano così trovare ampio spazio per dialettizzarsi con noi, per sviluppare una solidarietà nel suo senso più vero e ciò è reciprocità nel comune interesse di sviluppo delle posizioni rivoluzionarie nel contesto di scontro con la repressione, di affrontamento allo Stato della

In conclusione del processo, possiamo dire di aver tenuto saldi questi presupposti, e di averli realizzati in quanto obbiettivi politici, e questo anche grazie alla riuscita unità nella lotta fra questi vari soggetti.

Particolarmente significativo lo smacco alla strategia della Contro (Digos e magistrati) tesa a creare divisione e disgregazione. Il loro unico risultato è stata la creazione del “pentito” di turno, rivelatosi però molto maldestro ed inefficace. Per contro, la compattezza fra tutti noi è stato notevole, segnata da vari momenti marcanti, dalla solidarizzazione nei momenti di scontro acceso, espulsioni dall’aula, ecc.

Questo ha inciso positivamente pure sulla tattica tenuta dagli avvocati. Relazionandosi alla nostra impostazione politica ed a questa esigenza di non dare adito a differenziazioni di tipo dissociativo, anche gli avvocati hanno trovato una certa base di intesa e di comune battaglia.

Ne è conseguita una difesa globalmente omogenea e coerente con i presupposti politici. Alcuni passaggi delle loro arringhe hanno così partecipato alla nostra iniziativa di stravolgimento (ribaltamento) politico dell’accusa, evidenziando tutto il carattere classista, di ingiustizia e di strumento di repressione controrivoluzionaria dell’ordine giudiziario.

Evidenziando come strategie e strumentazione repressive sono vere e proprie articolazioni, da parte borghese, di uno scontro che tende a trasformarsi in guerra aperta.

A rafforzare il tutto, il notevole apporto di solidarietà del movimento di classe. Questo non era per nulla scontato, visto il clima di terrore preventivo con cui lo Stato cerca di isolare le istanze rivoluzionarie. E invece, la mobilitazione attorno al processo ha ribadito e sviluppato pienamente quello slancio che si era manifestato sin dal giorno degli arresti.

Questa solidarietà si dava sia rispetto alla rivendicazione di internità delle nostre figure al movimento di classe – nostra collocazione negli ambiti proletari di lavoro e di lotta – sia rispetto al riconoscimento di percorso politico-organizzativo. Per quanto la realtà del movimento di classe sia ancora caratterizzata da frammentazione e incapacità a produrre unità e determinazione progettuale-strategica, se ne riconosce la possibilità nei passi concreti fatti da alcuni nuclei militanti. Se ne riconosce la valenza, il potenziale. L’espressione immediata di solidarietà è stata in particolare importante come elemento di forza nel contrasto all’operazione che lo stato cerca sempre di imbastire in questi casi: “non si tratta che di quattro fanatici isolati..” L’intreccio che si dava fra il livello qualitativo di questa solidarietà – e cioè da situazioni specifiche di movimento e dalle fabbriche di provenienza – e l’entità della nostra istanza politica, ha determinato un’espressione di forza, ha permesso di attestarsi su un livello di lotta visibile, sulla linea di affrontamento fra classe e Stato.

Non è cosa di poco conto, poiché ha significato il ribaltamento, in certa misura, del dato di partenza, e cioè di una sconfitta tattica in impulso ad una nuova dinamica. Dinamica sicuramente ridotta e parziale rispetto agli obiettivi progettuali della struttura in formazione, però dinamica significativa che consente l’allargamento di spazio politico, l’innalzamento del dibattito politico. Tant’è che questo dato si è dispiegato chiaramente in questa stagione processuale, vivendo come rappresentazione (pur modesta ed embrionale) di quella tendenza rivoluzionaria che è comunque sentita in ambiti proletari, come esigenza e passaggio inevitabile dalla semplice lotta di classe alla guerra di classe. Tanto più nell’attuale sprofondamento di crisi e guerra imperialista.

A questa dinamica ha contribuito molto anche l’apporto internazionale, che non è stato un semplice fatto testimoniale, episodico. Si è configurato invece come iniziativa costante e sistematica nel tempo. Perché? Perché essa si è generata entro gli ambiti ruotanti attorno alla costruzione del S.R.I. il quale, dalla sua definizione originaria, concepisce il sostegno ai prigionieri rivoluzionari come parte e funzione della più generale battaglia per cui essi sono caduti in carcere e cioè lo sviluppo del processo rivoluzionario. Perciò la priorità è sempre stata per le esperienze relativamente più avanzata e vive, dal punto di vista rivoluzionario. E questo, coordinando e concentrando l’iniziativa dei vari comitati nazionali, attorno quei casi che acquisiscono un valore al di là delle frontiere: fu (ed è) il caso con il movimento rivoluzionario di Turchia e Kurdistan, con Palestina e mondo arabo, con Spagna e Paese Basco, e appunto con il caso nostro.

Quanto questo sia significativo ed importante è evidente sia nella sua dimensione diretta, tangibile, che nella prospettiva che apre: nell’attuale contesto, estendere la valenza di ogni battaglia rivoluzione/controrivoluzione in tutta l’area geo-politica, significa farne veicolo di avanzamento nell’interesse generale internazionale.

Insomma, questo dispiegamento di solidarietà, sul piano locale ed internazionale, è ancor più importante oggi e proprio accentuando il suo carattere di internità, di dialettica con gli sviluppi del movimento di classe e della sua tendenza rivoluzionaria (e non come semplice “soccorso”).

Il fatto che la nostra vicenda sia assurta ad un ruolo emblematico, significativo, rispetto agli scenari del possibile scontro di classe – e questo ben al di là sia dei livelli politico-organizzativi concretizzati che delle capacità soggettive – ha determinato il suo sovraccaricarsi di interesse a valenza, da parte dei due campi.

Sicché, nel campo proletario, ciò è avvenuto rispetto ai livelli di coscienza e maturazione, esistenti o meno. Vale a dire che, talvolta, pur esprimendo solidarietà (sempre rispettabile) lo si è fatto tentando di ricondurre, di ridurre la dimensione strategico-rivoluzionaria ai limiti e ristrettezze della dimensione movimentista.

Infatti, quello che ci ha stupito di più, negativamente, è la diffusa trasversale, tendenza a ridurre in questa vicenda il suo aspetto principale, portante: l’istanza di riorganizzazione e progettualità strategiche, sul terreno politico- militare.

Si è voluto spesso presentare la cosa come semplice ondata repressiva contro il movimento, finendo per di più per rendere principale il dato repressivo.

Questo è sbagliato, e molto.

Benché, da anni, l’involuzione autoritaria, la blindatura preventiva, fino a forme di guerra preventiva da parte statuale, stiano avanzando e si aggravino di anno in anno, possiamo riscontrare che comunque queste politiche si manifestano a livelli diversi. Contro il movimento di classe, nella sua dimensione di massa, viene fatto ricorso alla violenza poliziesca nelle piazze, così come allo squadrismo fascista-razzista; vengono usati fermi di polizia e denunce, perquisizioni e tutta la politica di sgomberi ed espulsioni (centri sociali, case occupate, fabbriche in lotta), fino alla repressione specifica contro i proletari immigrati che assomma al suo carattere di classe pure quello neo-colonialista.

Infine la spada più pesante: l’uso dei reati associativi. Che però, rispetto a questo campo di massa, bisogna dire che (per il momento) è ancora un uso deterrente, risolvendosi in brevissime carcerazioni – come nel caso della rete “Sud ribelle”, o dei sindacalisti SLAICobas, sempre al sud – e certo con effetti intimidatori e paralizzanti. Il massimo peso repressivo (sempre rispetto ai movimenti di massa), con un vero salto di qualità, lo si è avuto come nel caso delle pesanti condanne per il G8-Genova e per gli scontri a Milano – Corso Buenos Aires. Ma proprio perché la repressione colpiva lotte di piazza non pacifiche, anzi vere pratiche di violenza proletaria organizzata. Certo, la repressione è stata vile ed indiscriminata, ma la differenza qualitativa politica c’è.

Tant’è che arriviamo al nocciolo della questione: la repressione che tocca le istanze di lotta e i progetti organizzativi che praticano l’uso delle armi. Che sia nell’area comunista che in quella anarchica. La repressione, qui si dà come parte di vero e proprio scontro, sviluppato ed assunto politicamente. Come parte inevitabile quando si cerchi di trasformare la lotta di classe in vera lotta rivoluzionaria. E questo è un’altra differenza qualitativa, politica, fondamentale.

Viceversa, nella visione riduttiva, la repressione appare quasi come unico attore a fronte di un informe movimento. E mancando una chiara visione del piano di tendenziale lotta rivoluzionaria, e la sua conseguente assunzione, ne discende un’attitudine che potremmo definire vittimista. Perno ne è la convinzione che si venga attaccati “per le proprie idee, per la propria identità”. Ciò che, oggi in Italia, all’attuale livello delle contraddizioni, non è vero ed è sfalsante politicamente. Infatti la questione dell’identità politica, proprio perché non è meramente “idealista”, concerne la prassi. È questa a qualificare veramente l’identità. È questa che è stata attaccata nel caso nostro, e non la generica identità di militanti di classe.

Ed è per questo, per contro, che migliaia di onesti e combattivi militanti di classe, oggi, non vengono arrestati (per non parlare dei ciarlatani di sedicenti partiti m-l-m, o altri “rivoluzionari” inconseguenti).

Sicuramente un domani, quando le forze rivoluzionarie ed il processo rivoluzionario si svilupperanno, allora la repressione si estenderà e toccherà anche solo il “reato d’opinione”, toccherà gli ambiti di massa in modo indiscriminato (come avvenne nella fase acuta di scontro dei primi anni ’80). Ma, anche in questo caso, motivo scatenante ne è l’esistenza dell’istanza rivoluzionaria, dello sviluppo del processo rivoluzionario. E così è oggi, pur nelle proporzioni de la situazione attuale, di sviluppo embrionale delle contraddizioni. Presentare le cose come repressione delle idee, dell’identità politica, significa sostenere qualcosa di non credibile politicamente e, peggio, svalutare, eludere l’istanza rivoluzionaria. Tant’è che l’attitudine vittimista si riassume poi in una difesa del tipo “non è successo nulla, non hanno fatto nulla.”

Noi abbiamo discusso, riflettuto sul perché emerga diffusamente questa attitudine. In effetti, ci sembra questione di rilievo poiché essa è sintomo, risultato dei livelli attuali del movimento e dei nodi politico-ideologici da affrontare.

Come si può superare la situazione di arretratezza soggettiva di fronte alle grandi possibilità oggettive offerte dalla crisi capitalistica?

Come superare la situazione di difensiva permanente – a fronte di attacchi incessanti su tutti i fronti – e riuscire a ricomporre le fila proletarie su una prospettiva unificante, e unificante perché concreto percorso (strategia) verso la realizzazione degli obiettivi di trasformazione sociale?

Come superare il senso di impotenza, inefficacia, o meglio il dislivello dei piani d’azione con cui il sistema, blindato, riesce a tenere a distanza i movimenti, a confinarli nella marginalità?

Come superare l’uso disfattista degli esiti delle Rivoluzioni del Novecento, finalizzato ad impedire, bloccare ogni seria progettualità di “mondo nuovo”?

Qui le risposte non possono che essere sul piano della progettualità, di un’ipotesi politico organizzativa che assuma responsabilità e rischi del caso. Il tutto concretizzandosi in una prassi.

Ora, questo è esattamente il senso del nostro tentativo, del nostro inizio di un percorso politico-organizzativo definito come “costruzione del PCP-M”. Un percorso che riesca a riannodare i fili che raccogliamo dal grande ciclo ‘70/’80, operandone una sintesi adeguata in superamento di limiti ed errori.

Sintesi che fa propria soprattutto l’esigenza di concretizzare la strategia rivoluzionaria, tramite la costituzione di un Partito in grado di sostenere un processo rivoluzionario di lunga durata, e questi come unico sbocco positivo alle tante istanze di lotta e trasformazione sociale.

Solo la rottura rivoluzionaria ed il dispiegamento di un percorso di scontro politico-militare può dare sbocco e prospettiva a queste istanze, può aprire la possibilità dell’alternativa sociale; viceversa non solo impossibile, ma destinata ad essere stritolata dalla involuzione autoritaria e militarista del sistema capitalista (che fa a pezzi persino le illusioni riformiste della “sinistra borghese”).

Per quanto il movimento di classe sia composto di livelli e situazioni diverse, per coloro che si pongono sul piano della prospettiva rivoluzionaria può e deve esistere unità tendenziale, politica ed ideologica, con le punte più avanzate che pongono la suddetta questione di strategia e prassi. Solo in questo modo si crea lo spazio politico necessario per riuscire ad articolare il lavoro in seno alla classe, anche sui livelli più minuti. Cioè, solo in questo modo si può far vivere un rapporto dialettico fra le varie istanze.

Viceversa si finisce nell’arretramento: ci si appiattisce sui livelli di massa (invece di farli evolvere); ci si perde in impostazioni velleitarie ed inconseguenti (perché non si dice e non si pratica il come affrontare l’imperialismo e la crisi capitalistica); si arretra di fronte alla repressione in attitudine vittimista e de-politicizzata; ecc.

Certo, oggi l’esercizio è difficile, mancando il polo rivoluzionario costituito, di questa dialettica. Mancando cioè, se non il Partito quanto meno un’organizzazione politico-militare che sappia “agire da partito”. Però questo è il lavoro, questa è l’impostazione. L’articolazione nel lavoro di massa, nelle situazioni di base, nei movimenti, deve orientarsi al comune obbiettivo di avviare, costruire la via rivoluzionaria. Ciò che chiamiamo “Unità nella lotta”.

Le attitudini, le impostazioni contraddittorie a questa comune finalità e che alimentano opportunismo e incoerenza, vanno criticate e superate. Ciò che chiamiamo “Lotta nell’unità”.

 

Milano – maggio 2009

 

I militanti per la costruzione del PCPM

Bortolato Davide

Davanzo Alfredo

Latino Claudio

Sisi Vincenzo

 

I militanti comunisti rivoluzionari

Gaeta Massimiliano

Toschi Massimiliano

Intervento fatto in aula il 27 maggio dal compagno Claudio Latino a nome dei compagni Alfredo Davanzo, Vincenzo Sisi, Davide Bortolato del Collettivo Comunisti Prigionieri “L’Aurora” e del militante comunista prigioniero Massimiliano Toschi

Presentazione verbale del documento allegato agli atti del processo d’Appello come dichiarazione finale.

– La nostra presa di posizione collettiva è espressa nel documento che oggi alleghiamo agli atti, qui mi limiterò a presentarlo e a farne una rapida sintesi.

– Innanzitutto alcune parole sull’uso fatto dei nostri documenti dalla Corte di Primo Grado: è un uso mistificatorio. In perfetto stile inquisitorio.

Si è voluto considerare la nostra presa di posizione collettiva come la prova regina della confessione.

Si vede proprio che l’Inquisizione ha lasciato il segno nel modo di fare giustizia di questo stato.

Il bisogno di confessione è grande da parte delle Corti giudiziarie della nostra classe dominante.

E in questo processo questo bisogno si è fatto ancora più grande a causa della debolezza politica dell’accusa.

Solo questa debolezza, infatti, spiega la necessità di trasformare, con un’operazione da prestigiatori, in confessione un nostro documento politico.

È la stessa debolezza che spiega la necessità di sostituire tre giudici popolari alcuni giorni prima del ritiro in Camera di Consiglio. E in aggiunta c’è stata anche la provocazione di considerare tra i firmatari del nostro documento anche chi non lo ha firmato affatto come il compagno Bruno Ghirardi.

– Vogliamo ribadire che non abbiamo niente da confessare alle Corti giudiziarie della classe dominante. Il carattere di classe della loro giustizia è chiarito fino in fondo dal fatto che i padroni responsabili coscienti di migliaia di morti di operai per cancro, cosa riconosciuta anche dai “processi Eternit”, Pirelli e Fincantieri, non si faranno nemmeno un giorno di galera. Per non parlare delle stragi. Con relativi depistaggi e archiviazioni.

– I nostri documenti, le nostre espressioni politiche, sono assunzioni di responsabilità e dichiarazioni di solidarietà nei confronti della nostra classe. La classe il cui sfruttamento mantiene anche la sovrastruttura giudiziaria di cui questo processo è una manifestazione. Solo alla classe degli sfruttati e degli oppressi dobbiamo dare spiegazione del nostro essere qui come imputati di fronte alla giustizia borghese. E vogliamo ancora una volta utilizzare questa scomoda posizione per ribadire il nostro rapporto di unità con la classe operaia e ringraziare della solidarietà che ci è stata espressa nel corso del processo. Ringraziamento che non potrà mai compensare la grande onda di calore umano che è riuscita a raggiungerci superando le mura delle galere e le grate delle gabbie.

– Come con le altre prese di posizione anche con questa cerchiamo di portare il nostro modesto contributo nella ricerca della verità. Non si tratta però della verità giudiziaria della giustizia borghese, che ci ha già condannato e ci condannerà, ma della verità rivoluzionaria della classe che lotta per la fine del sistema dello sfruttamento e dell’oppressione, per una società senza distinzione di classe, basata non sull’individualismo ma sull’uguaglianza, finalizzata non al profitto individuale ma al benessere collettivo.

– In questo senso interveniamo in questo processo per ribadire ancora una volta il suo carattere politico. Questo processo è un momento dell’offensiva con cui la borghesia cerca di impedire lo sviluppo della lotta del proletariato.

Lo fa con i manganelli della celere contro i lavoratori, i giovani e le popolazioni in lotta e lo fa con la magistratura e i processi che colpiscono avanguardie e soggettività che si pongono sul piano strategico – organizzativo per strappare il potere alla classe degli sfruttatori.

Tutte queste sono contromisure che la borghesia prende per far fronte alla crisi del suo sistema. Una crisi che come si è visto negli ultimi anni è tra le più gravi della storia del capitalismo.

– in considerazione di questa situazione abbiamo scelto di introdurre il nostro documento con una frase di Carl Marx: “A un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà dentro ai quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene. E allora subentra una epoca di rivoluzione sociale.”.

– Abbiamo fatto questa citazione per due motivi. Primo perché vogliamo rimarcare che la nostra storia non è assolutamente descritta nel racconto che ne fa chi ci accusa. E’ una storia che non è solo parte della storia e del movimento delle organizzazioni rivoluzionarie originatesi dal ’68 studentesco e dal ’69 operaio che a partire dagli anni ’70 hanno riaperto l’opzione della rivoluzione proletaria ponendo la questione del potere. Ci interessa, infatti, rivendicare che la nostra piccola storia è una goccia del grande fiume del movimento comunista internazionale che da oltre 150 anni rappresenta l’unica vera possibilità di superamento dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo fondamento del capitalismo.

– Il secondo motivo è che la frase di Marx è una lucida descrizione della situazione attuale di crisi del capitalismo, crisi che è precipitata in questi ultimi anni.

Anni di crisi in cui i volumi di ricchezza bruciati sono stati enormi. La saturazione dei mercati ormai rende impossibile un investimento produttivo che valorizzi i capitali in eccesso. È crisi di sovrapproduzione e l’unica via di uscita è la distruzione di forze produttive di alcuni a vantaggio di altri tra i gruppi imperialisti. In un contesto in cui le distruzioni dell’ambiente sono sempre più devastanti.

-sul fronte esterno si creano nuovi squilibri tra vecchie potenze economiche declinanti e nuove potenze emergenti e si approfondiscono tutte le contraddizioni. Si rafforza la tendenza alla guerra interimperialista e si sviluppano guerre per accaparrarsi risorse e posizioni strategiche come quelle che massacrano il popolo afgano e iracheno.

– Sul fronte interno ance nel nostro paese la crisi oltre che economica diventa anche politica e istituzionale. La torta da spartirsi diventa sempre più piccola e come conseguenza si assiste ad uno scontro sempre più acuto tra le diverse lobby affaristiche collegate alle diverse frazioni della borghesia e ai loro partiti. Uno scontro in cui si scoprono gli altarini: la corruzione, l’immoralità e la putrefazione del sistema dei valori della borghesia.

– Anche se sempre più divisi nella lotta per la spartizione del potere e della ricchezza quello su cui si trovano sempre d’accordo banchieri, industriali e governanti è far pagare la crisi ai lavoratori e alle masse popolari. Coltivano l’illusione di poter superare questa crisi intensificando lo sfruttamento, spremendo più sudore e succhiando più sangue, estraendo cioè più plusvalore dal lavoro e per questo riducendo ulteriormente i salari reali.

– In realtà quello del trasferimento sempre maggiore di ricchezza prodotta dai settori popolari a quelli padronali è un processo in atto da tempo e che con l’acuirsi della crisi si intensifica. Ma tutto questo travaso fatto di riduzione del cosiddetto costo del lavoro, licenziamenti, tagli e privatizzazioni di sanità, scuola, previdenza e assistenza che ha portato alla miseria interi strati proletari non è servito ad impedire l’inevitabilità della crisi.

– Ha creato però una situazione sempre più insostenibile che porta ad un aumento delle lotte operaie e delle masse popolari. Mobilitarsi in prima persona per la difesa dei propri interessi primari diventa una scelta obbligata. E sempre più difficile diventa il lavoro degli imbonitori, dei professionisti della resa agli interessi dei padroni.

– Queste lotte sono caratterizzate dalla difficile ricerca di una soluzione di parte proletaria del problema. Esprimono contenuti come: “La vostra crisi non la paghiamo”, “A lavoro uguale salario uguale”, “Contro la privatizzazione e mercificazione dei beni comuni” (acqua), “Lavorare meno, lavorare tutti” che contrastano i piani del supersfruttamento. Ma come anche la rivolta degli immigrati a Rosarno ci ha mostrato la realtà dell’oppressione capitalistica è un blocco di potere dispotico e violento che dagli avvoltoi della finanza mondiale scende fino ai negrieri-caporali.

– Questo blocco di poter si può affrontare solo imparando a coniugare resistenza e attacco. Un esempio in questo senso lo troviamo nella situazione attuale in Grecia dove parallelamente alla mobilitazione di massa contro l’affamamento e la miseria si dà la ripresa della lotta armata per il potere. Il movimento di classe che si rifiuta di pagare i costi insopportabili della crisi del sistema entra in dialettica con l’istanza rivoluzionaria trovando così una prospettiva politica.

– A noi preme ribadire ancora una volta che il polo principale di questa necessaria dialettica è l’istanza rivoluzionaria. Il piano di partito che si pone sul terreno di scontro per il potere. È qui che il lavoro dei comunisti trova il suo sbocco come la storia del movimento comunista internazionale ha ampiamente dimostrato.

Solo con il partito il movimento delle masse può conquistarsi una strategia rivoluzionaria e rovesciare l’oppressione attraverso una guerra popolare prolungata.

– Naturalmente se, come noi crediamo, questo sviluppo è storicamente inevitabile, ed è anche accelerato dalla crisi in corso, nessun processo e nessuna sanzione giudiziaria potrà impedirlo.

 

– La crisi produce guerra e miseria: sostenere la resistenza, organizzare l’attacco.

– Costruiamo il partito Comunista-P.M. della classe operaia e del proletariato.

– Proletari di tutto il mondo uniamoci: morte all’imperialismo, libertà ai popoli.

Dal processo “Aviano”. Dichiarazione dei militanti Br-Pcc Francesco Aiosa e Ario Pizzarelli e dichiarazione di Paolo Dorigo presentate al processo di Udine relativo all’attacco alla base USA di Aviano e allegate agli atti.

Premessa

Rispetto al testo del 5.6.94 pubblicato da un gruppo di militanti prigionieri della nostra Organizzazione che ritrattano la loro rivendicazione dell’azione di Aviano dobbiamo riaffermare che le Brigate Rosse hanno un’identità politica, strategica e programmatica, chiarissima lungo una storia di ventiquattro anni durante i quali la direzione è sempre stata nell’Organizzazione in attività. Lì rimane.

La logica e la procedura adottate da questi nostri compagni sono gravi e sconcertanti. Le spieghiamo con la confusione e l’oscillante disorientamento determinati da anni di assenza di attività politico-militare e quindi di direzione politica di Organizzazione e con la conseguente ignoranza dei problemi odierni dello scontro. La fase di ricostruzione della guerriglia nell’attività è estremamente complessa e difficile per tutti e non deve stupire troppo che ciò possa anche riflettersi a suo modo, in maniera più distorta in carcere.

Come militanti delle BR-PCC abbiamo discusso e deciso la gestione di questo processo nel metodo degli ultimi vent’anni: sulla linea politica dell’Organizzazione in attività – consapevoli che, come ogni militante sa bene, non spetta ai prigionieri sindacare l’operato dell’Organizzazione bensì sostenerlo – assieme ai nostri compagni coi quali in carcere siamo organizzati e nel carcere in cui siamo rinchiusi. In questo stesso corretto ambito abbiamo ora ritenuto obbligata questa nostra nota e, insieme abbiamo ritenuto doveroso fare ciò che è possibile per evitare contrapposizioni che siamo in grado di valutare come sicuramente dannose per l’insieme del movimento rivoluzionario. Nelle contraddizioni non antagoniste e soprattutto nelle questioni interne d’Organizzazione rifiutiamo per principio, per metodo e per stile di lavoro di alimentare logiche di schieramento.

Non intendiamo perciò discutere pubblicamente. Le BR non svolgono dibattiti a cielo aperto, che producono solo divisione e confusione: solo nel processo prassi-teoria-prassi si produce chiarezza, e così unità.

L’intero contributo teorico-pratico dato dalle Brigate Rosse nel processo rivoluzionario in Italia è un patrimonio acquisito, è la base politico-militare su cui pur nelle difficoltà la guerriglia in attività, le BR-PCC, si stanno confrontando contro lo stato e l’imperialismo nel lavoro di rimettere in moto la continuità della direzione rivoluzionaria del proletariato. È all’Organizzazione in attività che anche noi, in quanto prigionieri, ci discipliniamo, come ogni militante prigioniero è tenuto a fare.

La conduzione della fase di ricostruzione è un processo nient’affatto lineare, che oltre tutto è dovuto ripartire sui colpi militari subiti dalla nostra Organizzazione nell’88-89 e ha la necessità di costruire nei tempi dovuti il suo consolidamento, che non può che prodursi sulle proprie gambe nel vivo dello scontro.

 

Dichiarazione Corte di Assise di Udine 6 giugno 1994.

Il 2 settembre 1993 un nucleo armato della nostra organizzazione ha attaccato il personale militare americano della base aerea Usa di Aviano. Lo rivendichiamo ancora una volta, e in quest’aula, come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

Lo scopo era di infliggere le maggiori perdite e causare il maggior danno possibile al nemico: indipendentemente dall’esito concreto conseguito dalla nostra operazione e dalle circostanze particolari che ne hanno condizionato il risultato, la scelta dell’obiettivo e delle modalità dell’attacco è difesa da una valutazione politica del tutto consapevole del livello di scontro da praticare per rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria, nella logica offensiva della guerriglia e nella linea delle Brigate Rosse per la costruzione del PCC. Il bilancio sulla conduzione e sulla conclusione dell’operazione di Aviano ha di sicuro suggerito alla nostra organizzazione utili motivi di riflessione e fornito nuovi elementi critici di esperienza. Nessun insegnamento andrà sprecato, in futuro certamente faremo meglio.

In ogni caso la nostra azione contro uno dei maggiori centri logistici e operativi della struttura militare americana in Europa meridionale e nell’area mediterranea ha dimostrato ancora una volta che attaccare le forze imperialiste non solo è necessario ma è possibile anche in condizioni difficili coma ha detto un grande guerrigliero: «Bisogna fare la guerra in tutti i posti dove la fa il nemico, nella sua casa, nei luoghi dove si diverte e si riposa… Bisogna impedire che il nemico abbia anche un solo minuto di tranquillità, un minuto di tregua fuori dalle sue basi e anche all’interno di queste…». (Che Guevara)

Per la linea delle Brigate Rosse il piano in cui si attesta, nel vivo dell’azione, il rapporto fra rivoluzione e controrivoluzione e si fissa il conseguente impegno politico-militare dell’avanguardia combattente, non deriva dai rapporti di forza misurati sulla specificità delle situazioni locali, ma sintetizza nella pratica dell’attacco la contraddizione principale, imperialismo/antimperialismo. Per questo nonostante l’acuirsi della crisi nella ex Jugoslavia e l’avvio dell’operazione “Deni Flight” ponessero la base di Aviano in prima linea, riaffermandone il ruolo e l’importanza come braccio operativo della strategia Nato di intervento nei Balcani e sottolineandone la funzione già svolta in passato di indispensabile ponte logistico per le “proiezioni di potenza” americane nell’area mediterranea e mediorientale, è stato possibile colpire dove volevamo anche se non come volevamo. A fronte della determinazione della guerriglia, poco contano i vari gradi di allarme “bravo” o “charlie”, le tanto propagandate “eccezionali misure di sicurezza”, l’estendersi e l’approfondirsi di un controllo poliziesco già capillare in una delle regioni storicamente più militarizzate d’Europa.

Il 2 settembre ’93 le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente lo hanno dimostrato.

Nella propria impostazione strategica le BR hanno definito fin dalle origini l’indirizzo antimperialista ed internazionalista del processo rivoluzionario entro cui collocare lo sviluppo stesso della lotta armata per la conquista del potere politico da parte del proletariato in questo paese. Già nella risoluzione della direzione strategica del 1975 l’organizzazione afferma che: «…la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli europee è anche guerra di liberazione antimperialista, perché l’emancipazione di un popolo da un contesto imperialista deve fare i conti con la repressione imperialista. Non esistono vie nazionali al comunismo perché non esiste la possibilità di sottrarsi singolarmente al sistema di dominio imperialista».

A partire da questi presupposti politici di fondo l’attività più che ventennale delle Brigate Rosse ha individuato nella Nato il vettore principale delle politiche centrali imperialiste. Con la cattura del generale Dozier e in seguito con l’azione contro Hunt e fino all’azione Conti, l’analisi si è concretizzata in pratica di combattimento, seguendo una linea che ha saputo svilupparsi fase per fase costruendo le basi per la formazione del Fronte Combattente Antimperialista.

Colpire la Nato attaccando Aviano per noi non significa “smascherare” l’aggressività guerrafondaia occidentale o “denunciare” il pericolo di una intensificazione dell’intervento imperialista in questa o quell’area di crisi. Non è stato un gesto di propaganda armata. Il rombo quotidiano degli F 16 o degli A-10 in fase di decollo per una missione che per la prima volta dalla sua istituzione nel ’49 impegna direttamente la Nato coinvolgendola in uno scenario bellico, è la più efficace propaganda che gli americani stessi possano fare all’autentico carattere “di pace” o “umanitario” delle loro iniziative militari e, insieme, ai miserabili vantaggi che la loro presenza in Friuli comporta per la situazione economica locale. Il proletariato e i popoli della periferia del sistema non hanno il problema di “smascherare” le grottesche costruzioni ideologiche che da sempre mistificano le aggressioni imperialiste, perché hanno provato e provano sulla propria pelle cosa significhi il volo degli aerei a stelle e strisce, dalla Libia alla Somalia, dal Libano all’Irak, da Grenada a Panama e ovunque gli Usa e i loro alleati occidentali hanno seminato morte e distruzione in nome dei diritti dell’uomo.

L’azione di Aviano, quindi, non è stata simbolica, ma ha rappresentato l’applicazione di cosa significhi per le BR-PCC considerare l’attacco agli Usa, l’attacco alla Nato, come il concreto e vitale punto di incontro dell’interesse strategico del proletariato metropolitano e dei popoli già bestialmente sottoposti all’aggressione imperialista in ogni parte del mondo. In questo senso la nostra attività e la decisione di usare le armi il 2 settembre 93 si inserisce a pieno titolo in questa fase di riorganizzazione delle forze rivoluzionarie attorno alle basi programmatiche e dell’impianto strategico delle BR-PCC che pone le condizioni per il rilancio della lotta armata e del processo rivoluzionario in questo paese. A questo proposito collochiamo l’iniziativa dei compagni dei nuclei comunisti combattenti condotta a Roma il 10-1-94 contro la sede del Nato Defence College, struttura di formazione di quadri politico-militari da inserire in ruoli dirigenziali, come un momento qualificante nel percorso di ripresa di una pratica rivoluzionaria che ha dimostrato quanto l’incisività strategica della proposta politica della nostra organizzazione trovi riscontro in quelle avanguardie combattenti consapevoli di misurarsi con gli impegnativi compiti posti all’ordine del giorno dalle stesse caratteristiche dello scontro attuale.

Infine, per ciò che riguarda questo processo, da quanto abbiamo sostenuto risulta chiaramente che il nostro comportamento si riferisce all’ambito degli interessi della guerriglia e quindi non ha bisogno di alcuna giustificazione davanti a un tribunale dello stato. Della nostra condotta politica e pratica rispondiamo soltanto alla nostra organizzazione: le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

L’arrogante certezza che la fine del bipolarismo consegnasse nelle sole mani della casa bianca il governo del concludersi di un secolo di straordinari sconvolgimenti economici e sociali, di guerre e rivoluzioni, sta tramontando proprio nel momento della massima proiezione estera della supremazia bellica di Washington.

Al di là di ogni apparenza è proprio l’indebolimento tendenziale della base economica dei grandi trust monopolistici americani nei confronti del processo di formazione degli altri poli imperialisti a far privilegiare il piano strettamente militare come terreno su cui riaffermare saldamente fra gli alleati una indiscutibile superiorità USA. In questo senso non esiste una discontinuità sostanziale fra le linee strategiche di gestione della transizione al dopo “guerra fredda”, impostate con l’attacco all’Irak e sfociate nella tesi di Bush sul “nuovo ordine mondiale” a egemonia americana, e l’evoluzione degli indirizzi di politica estera dell’amministrazione democratica.

L’aggressione all’Irak è stata l’ultima guerra in cui l’interesse generale dell’imperialismo a ribadire la subordinazione di un paese della periferia poteva ancora identificarsi con lo specifico interesse Usa al controllo di un’area strategica e, nel contempo, la prima guerra in cui la ricerca da parte americana della copertura di una coalizione internazionale tramite il paravento Onu era finalizzata all’utilizzo dello strumento militare come metro di misura della propria leadership nell’ambito delle relazioni interimperialiste. Fatte le debite proporzioni, e in un altro contesto, la riproposizione di uno schema analogo in Somalia chiarisce quanto la strada dell’uso dell’interesse generale dell’imperialismo, come collante politico di una coalizione animata da esigenze concorrenziali, sia ormai sempre meno producente e praticabile. L’impostazione della operazione “restore hope” voluta dai repubblicani e la sua conclusione malamente gestita dai democratici, non rimandano tanto alla differenza fra Bush e Clinton nel governo della prima fase di “unipolarismo”, quanto al grado di divaricazione fra reali interessi specifici degli stati imperialisti già raggiunto nel breve periodo trascorso dalla guerra del golfo e rispecchiato dall’attuale stallo dell’intervento occidentale nella crisi della ex Jugoslavia. Le oscillazioni della politica estera ufficiale americana sono il riflesso di questa situazione. La casa bianca si muove fra la diretta assunzione di un ruolo di gendarme dell’ordine mondiale e una linea in cui è l’Onu, tramite le sue “missioni umanitarie”, che consente agli Usa di conseguire i propri obiettivi senza risultare direttamente impegnati in ogni congiuntura. Viene anche lasciata aperta un’ipotesi che abbandona la proposta di costruzione di una forza armata stabile Onu e rivaluta la Nato attraverso l’approfondimento del rapporto bilaterale con i maggiori stati imperialisti come miglior veicolo del riconoscimento della supremazia americana. In ogni caso alla favola del presidente buono, disponibile a liquidare l’eredità di Reagan e di Bush, ma prigioniero della logica aggressiva del complesso militare-industriale, può dar credito solo il cretinismo clintoniano di una certa sinistra della borghesia europea, PDS orgogliosamente in testa.

 

La realtà è che i vari gruppi dirigenti, le frazioni di borghesia, gli stati, si stanno muovendo conseguentemente ad una situazione segnata nel profondo dal generalizzarsi di una crisi per sovrapproduzione assoluta di capitali che da vent’anni investe il sistema imperialista, crisi che è il fattore dominante di questa fase e si traduce oggi nella grave recessione in cui si trovano coinvolti, se pur in diversa misura, tutti gli stati imperialisti.

La tendenza alla guerra come sbocco storicamente inevitabile delle contraddizioni innescate dal carattere strutturale della crisi capitalistica non deriva dalla pianificazione delle politiche aggressive dell’imperialismo ma le presuppone. Il prodotto di queste strategie poi, e come sempre, si verifica sul campo, e ciò nell’epoca dell’imperialismo significa la distruzione dei capitali sovrapprodotti, di merci e di forza lavoro eccedente, ovvero fame, morte e devastazione per milioni di persone: la trasformazione dei conflitti locali in guerre regionali e poi in guerre più estese nella periferia ed ora anche in Europa è la forma con cui si sta già dispiegando la sostanza della tendenza alla guerra.

Il riarmo reaganiano che ha trainato l’illusoria e breve ripresa economica della metà anni ’80 come estrema misura controtendenziale per arginare l’incedere della crisi è riuscita ad accelerare il collasso dell’est, incapace di reggerne le conseguenze anche a causa del grado di integrazione già conseguito nel mercato internazionale. Dall’89 al ’91 si è innescato un processo che, attraverso le crisi interne dei paesi dell’Europa orientale, lo scioglimento del Comecon e del patto di Varsavia, è sfociato nella dissoluzione della stessa Unione Sovietica, con la presa del potere politico da parte di formazioni che esprimono e perseguono organicamente interessi controrivoluzionari ed esigenze borghesi. Le conseguenze di questa realtà sono evidenti. Il quadro strategico internazionale caratterizzato dall’assetto bipolare della contraddizione storica est/ovest si è trasformato radicalmente con ovvie ripercussioni sia nella periferia, sia nel centro del sistema imperialista, specie in Europa. La fine della “guerra fredda” interagisce così con l’aggravarsi delle ragioni strutturali della crisi ed è proprio nell’estendersi e generalizzarsi delle sue conseguenze sociali e politiche in ogni angolo del mondo che la maturazione storica della necessità di rottura del sistema imperialista si traduce nella possibilità di porre con rinnovata forza all’ordine del giorno la costruzione dello sbocco rivoluzionario.

Oggi il “trionfo sul comunismo” può rovesciarsi dialetticamente nel suo contrario. È una possibilità che non cerca di riprendere le mosse dai cieli a temporali dell’ideologia, ma che riaffiora concretamente dalle stesse linee di frattura del precedente equilibrio internazionale e si afferma in uno scenario sempre più instabile e disordinato, lacerato da dinamiche di conflitto che coinvolgono masse enormi di uomini e di donne, ipotecano la sopravvivenza di intere aree geografiche, cancellano e ridisegnano confini, provocano flussi migratori inarrestabili, sconvolgono e rimescolano assetti sociali, culture e tradizioni. Le prospettive di lotta e le grandi potenzialità rivoluzionarie, che scaturiscono dalla natura e dalla portata delle cause materiali alla base della nuova situazione, proprio perché fanno definire strategicamente favorevole il quadro attuale, impongono ai comunisti il massimo impegno nel promuovere quell’ineludibile riadeguamento alle condizioni dure e complesse dello scontro odierno che trova il suo primo passo nella comprensione delle direttrici che caratterizzano questo stadio della crisi del modo di produzione capitalistico contemporaneo, l’imperialismo.

Per quasi mezzo secolo gli stati imperialisti hanno riconosciuto sostanzialmente la supremazia della super potenza americana e il suo ruolo nella difesa dell’interesse generale del blocco occidentale, da intendersi non come sommatoria meccanica di interessi specifici e parziali, ma come convergenza di esigenze ricomponibili in un contesto tendenzialmente unitario in quanto storicamente determinato dalla stessa definizione delle linee economiche e politiche di superamento della crisi postbellica. A differenza della prima guerra mondiale imperialista, la conclusione della seconda vede l’affermarsi di una sola vera potenza egemone, realmente vincitrice. Si innesca così un processo che va diversificandosi dalla precedente dinamica del mondo capitalistico nella sua fase imperialista. Gli Usa che grazie allo sforzo bellico avevano enormemente accelerato lo sviluppo delle forze produttive dovevano ricostruire un’area di mercato adeguata all’assorbimento delle ingenti masse di capitale accumulato. Il piano Marshall rispondendo a questa vitale esigenza americana determina anche le premesse strutturali della futura coesione del campo occidentale; anzi crea il campo occidentale inserendovi da subito le nazioni fasciste sconfitte. Dato da allora quello specifico rafforzamento della tendenza all’internazionalizzazione dei mercati e dei capitali che sul piano mondiale renderà presto obsolete le vecchie forme di dominio degli imperi coloniali ridisegnando le relazioni fra centro e periferia e sul piano “atlantico”, dopo la ricostruzione e la conseguente espansione delle economie europee, sfocerà nella ricerca di progressive ridefinizioni del rapporto di integrazione/concorrenza fra i diversi paesi. Un rapporto che si preciserà nelle tappe successive della connotazione di un interesse generale europeo, formalizzandosi nella creazione di istituzioni e organismi sovranazionali sempre più complessi, allargati e articolati, dalla CECA alla UE del trattato di Maastricht.

Questo processo, lento e intervallato da frequenti battute d’arresto, è potuto avviarsi solo all’interno di una solida cornice politico-militare e diplomatica, del tutto diversa dalle intese o alleanze prebelliche: il patto atlantico nasce infatti con la duplice funzione di fronteggiare l’espansione del campo socialista congelando gli equilibri di Yalta (la dottrina Truman del “containment”) e di stabilizzazione interna in chiave anticomunista e controrivoluzionaria del rapporto classe/stato cercando di fissare i limiti entro i quali integrare nel quadro democratico l’espressione politica mediata e “compatibilizzata” della spinta dal basso delle esigenze proletarie. Una necessità, quest’ultima, particolarmente sentita dalla borghesia di quei paesi dove le masse operaie vedevano nell’Urss un forte punto di riferimento ideologico e nella ricostruzione dell’Europa orientale un concreto esempio di come il piano Marshall non fosse l’unica strada per uscire dalla devastazione provocata dalla guerra. L’istituzione della Nato, mentre segna la piena affermazione della contraddizione est/ovest, rafforza a sua volta le ragioni della coesione rispetto a quelle della divaricazione, alimentando ulteriormente la spinta oggettiva verso la stretta interdipendenza economica dell’occidente. Per un lungo periodo, con qualche eccezione significativa (Suez, momento di punta del gollismo, ecc.) che misura la distanza di questa realtà da quella delle relazioni interimperialiste fra le due guerre mondiali, i contrasti fra le medie potenze verranno quindi incanalati in ambiti politico-diplomatici che ricomporranno le latenti spinte centrifughe in un interesse generale europeo, armonizzandolo con l’esigenza degli Usa a ribadire, congiuntura dopo congiuntura, la propria supremazia nella gestione dell’equilibrio bipolare. In questo senso l’interesse generale del campo occidentale si riassume nel riconoscimento consensuale della leadership americana e si articola gerarchicamente non solo in base al peso economico effettivo dei vari anelli della catena imperialista, ma anche secondo la loro specifica collocazione geopolitica lungo l’asse della contraddizione principale, la linea di fronte con il nemico globale rappresentato dall’Est.

La particolare attenzione Usa alla capacità dell’Italia di tenere adeguatamente la sua posizione nel fianco sud-est della Nato, tradottasi in una prassi consolidata di aperte e dirette ingerenze nelle questioni interne del paese e in un’opera costante di pressioni “non ufficiali” sullo svolgimento dei suoi passaggi politici cruciali, è un esempio ben noto che vale anche per molteplici altre situazioni. La dimostrazione di quanto la contraddizione est/ovest abbia profondamente connotato non solo il definirsi di un interesse generale dell’imperialismo ma, in ultima analisi, anche l’evolversi delle specifiche forme del dominio borghese, sta nello stesso procedere dei vari assetti politico-istituzionali verso il consolidamento delle attuali “democrazie compiute” europee. Allo stesso modo le direttrici strategiche che hanno fin qui presieduto il processo di formazione economica e di strutturazione politica di un polo imperialista europeo non possono essere considerate indipendentemente dalla contraddizione principale che ne ha stabilito i presupposti, orientato lo sviluppo e scadenzato le tappe.

Oggi, con l’esaurirsi di quella solidarietà occidentale in funzione antisovietica che ha contrassegnato un’intera fase storica, le contraddizioni interimperialiste stanno assumendo una portata impensabile anche solo qualche anno fa. Processi che parevano inarrestabili si bloccano e deviano dal loro corso, costruzioni diplomatiche date per eterne si ridefiniscono o si esauriscono. L’unanimità di facciata e l’ottimismo propagandistico dei vertici internazionali riescono sempre meno a mascherare le conseguenze dell’approfondirsi della crisi economica nelle relazioni fra gruppi e stati imperialisti. La loro tendenziale rotta di collisione, per ora ammessa ufficialmente solo a livello di “guerre sui tassi”, “guerre commerciali” o di “contenziosi” sui reciproci protezionismi, influisce in modo evidente sulla tenuta dei vecchi equilibri negli organismi sovranazionali. Lo scontro politico fra interessi concorrenziali si svolge ancora in forme mediate nella camera di compensazione dell’Onu, ma la stessa questione della futura composizione del consiglio di sicurezza è indicativa della velocità con cui la ricollocazione gerarchica nella catena degli stati imperialisti si rifletta nella ricerca di un maggior potere decisionale nel definire la nuova articolazione con la posizione di supremazia americana. Le contraddizioni fra gli Usa e il polo imperialista europeo in formazione vengono moltiplicate dalle dinamiche centrifughe che ridisegnano l’Europa centro-orientale e dal disfacimento dell’ex Unione Sovietica, fattori destabilizzanti che a loro volta si ripercuotono all’interno della UE. La politica di Kohl e la linea della Bundesbank scaricano sugli alleati le difficoltà sorte dall’enorme costo dell’annessione della DDR mettendo così in crisi lo stesso tradizionale asse franco-tedesco. La “Grande Germania” cerca spazio ad oriente e si circonda di una fascia di paesi satellite con l’area del marco che si estende dal Baltico al bacino danubiano, ma la RFT non ha la forza di imporsi da sola come unica potenza egemone continentale. Lo SME è franato, le tappe previste per l’unificazione monetaria non possono più essere rispettate, la situazione economica interna di nessuno stato imperialista risponde più ai parametri vincolanti del trattato di Maastricht, l’intero processo di unificazione deve essere continuamente rinegoziato.

È la crisi balcanica a mettere a nudo, dopo anni di assordante retorica europeista, le difficoltà di una concertazione effettiva delle politiche estere degli stati imperialisti e quindi a definire il reale stadio raggiunto dal processo di formazione del polo imperialista europeo sul piano della autentica coesione e della sua concreta strutturazione politica. I governi di Bonn, Parigi, Londra, Roma, prima sono unanimi nel fomentare l’odio nazionalista come fattore di accelerazione delle tendenze disgregative già presenti nella federazione Jugoslava, poi si dividono nel promuovere l’ascesa e favorire il consolidamento di nuove borghesie compradore in sanguinosa competizione per sistemarsi sotto questo o quell’ombrello protettivo. Messa per la prima volta di fronte ad una prova concreta nella gestione diretta dell’intervento in un’area di crisi, L’UEO dimostra la fragilità del suo iniziale tentativo di porsi, dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, come il vettore della progressiva autonomizzazione politico-militare europea e si subordina ancora una volta alla Nato, muovendosi in modo “compatibile e complementare” alla struttura militare atlantica. Una situazione che conferma come la riqualificazione della Nato nel ruolo di braccio armato dell’Onu, attraverso l’applicazione della dottrina della “presenza avanzata” per la sua proiezione in interventi “fuori area”, privilegia l’interesse americano a condizionare le modalità e i tempi di sfondamento a oriente degli alleati europei. In questa realtà, ancora tutta in movimento, va inserito il nodo in via di definizione dell’associazione alla Nato di vari paesi ex socialisti tramite diversi e progressivi gradi di partnership, mentre la geografia delle nuove alleanze “sul campo” e delle sfere di influenza tende a ricalcare quasi esattamente la disposizione delle forze dell’equilibrio europeo deflagrato nel ’14 con il primo macello mondiale di proletari causato dall’imperialismo.

È in questo scenario che dobbiamo considerare anche la valutazione della situazione italiana, non limitandoci a tenerlo sullo sfondo con una visione che, riducendo l’antimperialismo a una sorta di “politica estera” da affiancare di volta in volta alla conduzione della lotta qui, impedirebbe di concepire da subito l’agire della guerriglia in questo paese come parte integrante dello scontro rivoluzionario a livello internazionale.

Il processo di rafforzamento e sviluppo del fronte combattente antimperialista ha già scontato il peso politico estremamente negativo dell’assenza di una prassi rivoluzionaria adeguata alla gravità del momento durante la partecipazione italiana alla coalizione imperialista che aggredì l’Irak nel ’91. Allora le retrovie del nemico restarono sostanzialmente al sicuro. I movimenti di massa che pure si svilupparono contro la guerra non poterono, a causa della loro stessa natura, sottrarsi effettivamente all’influenza di una sinistra europea che, a partire dal suo interesse oggettivo nella partecipazione agli utili del dominio imperialista del mondo, si dimostrò organicamente schierata nella propria borghesia imperialista. I movimenti oscillarono così inevitabilmente nell’orbita e sotto la direzione di un opportunismo diversamente graduato dal “pacifismo equidistante” fino all’adesione più o meno critica alle superiori ragioni dell’occidente. L’iniziativa della guerriglia in Europa occidentale, e particolarmente in Italia, assolutamente non all’altezza della portata dello scontro , non riuscì ad impostare nemmeno in abbozzo quel rapporto dialettico con le avanguardie espresse anche dal movimento di massa che, sulla base di un’incisiva azione dall’alto e sul terreno di combattimento dettato dal livello dei rapporti di forza complessivi, poteva sviluppare una maturazione in senso antimperialista. Soltanto la presenza attiva ed effettiva di una guerriglia che esprime gli interessi strategici del proletariato può infatti costruire forza e organizzazione sul piano rivoluzionario.

Ma questa indispensabile autocritica non ci può esimere dal prendere posizione su ciò che è accaduto ad una altra organizzazione che pure si era schierata all’avanguardia nella conduzione di campagne di attacco alla Nato e contro le politiche di riarmo imperialista in Europa nel corso degli anni ’80. La Raf ha dichiarato fin dall’aprile del ’92 di voler recedere dal processo di lotta antimperialista per dedicarsi ad una specifica ed “universale” battaglia di “contropotere”. In questa nuova chiave la concezione guerrigliera e la prassi internazionalista che è stata la discriminante fondamentale posta storicamente dalla Raf nel movimento rivoluzionario internazionale, sono totalmente rimosse in quanto ritenute un allontanarsi “dalla lotta qui” e vengono sostituite da una impostazione strategica alternativa per la creazione, attraverso una dinamica che dovrebbe necessariamente svilupparsi dal basso, di spazi sociali liberati da estendere gradualmente in ambito capitalista. Non solo viene così ribaltata la concezione strategica della lotta armata, ma l’atteggiamento verso le lotte del proletariato metropolitano si rovescia nell’apologia delle particolarità e dei limiti delle lotte stesse. Per quanto riteniamo doveroso riaffermare oggi quanto abbiamo sempre sostenuto sulla funzione storica della Raf nella nascita della guerriglia e sul contribuito al suo radicamento ormai venticinquennale nei centri dell’imperialismo, ribadiamo che poco importano gli altri aspetti teorici della sua revisione e che la manovra di far leva sulla condizione dei compagni prigionieri nelle mani del nemico per giustificare la propria deriva opportunista ha tali analogie con vicende già sperimentate in Italia da non meritare di essere denunciata ancora una volta. Al contrario, e per parte nostra, torniamo ad affermare con forza che l’involuzione della Raf conferma ulteriormente come l’abbandono dell’impostazione della guerriglia di partire dal quadro strategico degli interessi del proletariato mondiale come condizione costitutiva, conduce ad abbandonare la linea rivoluzionaria nelle metropoli, nel “proprio” paese. Internazionalismo e antimperialismo effettivi sono garanzia della correttezza strategica e dell’efficacia politica della lotta per il potere nel paese in cui la guerriglia opera. Il rilancio di una linea rivoluzionaria nelle metropoli parte da questa realtà, una realtà che si dimostra ancora più valida in questa fase della situazione internazionale e del rapporto rivoluzione/controrivoluzione ad essa collegato.

Esiste una correlazione diretta fra la necessità della borghesia imperialista di liquidare un assetto politico e istituzionale ormai obsoleto e la ricerca delle condizioni generali più favorevoli per una nuova collocazione dell’Italia nel più grande riallineamento globale di forze mai verificatosi dalla fine della seconda guerra mondiale.

Lo scontro a tutto campo che agita protagonisti e comparse della scena politica attuale va ricondotto a questa prospettiva di fondo ed è in questo senso che va utilizzata la bussola analitica capace di orientare la guerriglia nella corretta individuazione del cuore dello stato.

Dietro la cosmesi propagandistica delle mani candeggiate, della virtù contro il vizio, del nuovo contro il vecchio, compare l’oggettività della dinamica che anima e indirizza la fase di transizione alla seconda repubblica. Era l’esigenza della borghesia imperialista di governare l’inserimento nel processo di formazione del polo europeo sostenendo il livello crescente di integrazione/competizione con le altre economie a presupporre il demitiano “portiamo in Europa l’azienda Italia”, cioè il vecchio. È la stessa tendenza ora rafforzata nel suo carattere competitivo dalla fine del bipolarismo e dalla fluidità degli attuali equilibri internazionali a motivare il berlusconiano “per contare di più in Europa”, cioè il nuovo. Al di là degli imbonimenti ideologici che intasano i canali della costruzione del consenso, appare chiaro che nessuna delle linee politiche oggi in conflitto si propone di frenare un processo che è comune pur nelle ovvie specificità, a tutte le formazioni economico-sociali europee e che detta il riposizionamento di tutti gli stati imperialisti. Lo scontro è invece avvenuto e continua a svolgersi fra la capacità delle diverse linee di porsi come interpreti privilegiate dell’articolazione programmatica, politica e istituzionale, dell’interesse della borghesia imperialista a vedersi garantito il retroterra più funzionale alla proiezione sui mercati internazionali. Come in ogni scontro, ci sono stati vincitori e vinti. Un intero ceto politico è stato, se non del tutto spazzato via, fortemente e definitivamente ridimensionato “per via giudiziaria”, cioè grazie a un metodo che anche nei momenti di maggior tensione ha saputo assicurare la tenuta della stabilità complessiva del sistema.

La DC che per mezzo secolo ha gestito i passaggi determinanti nel progressivo perfezionamento delle forme democratiche del dominio borghese, dalla liquidazione del CLN al centrismo, dal centro sinistra alla solidarietà nazionale, non è riuscita a guidare quella transizione ad una matura democrazia compiuta che pure era stata da tempo promossa dai suoi settori più lungimiranti e organici alla borghesia imperialista. La drastica marginalizzazione della DC non deriva ovviamente né dall’inettitudine della sua leadership, né dai vincoli di un apparato ideologico di matrice cattolica ormai superato, né dal suo grado di corruzione. In quanto a competenze maturate in decenni di esercizio del potere la burocrazia DC non risulta certo sprovveduta rispetto ai nuovi arrivati sulla scena politica. Inoltre, sul piano ideologico, l’interclassismo e il solidarismo cattolico hanno sempre rappresentato un ottimo collante sociale oltre che un efficace supporto teorico alla centralità democristiana. Ridurre poi ad una questione etica il problema della quota di clientelismo “patologico” presente nel sistema di potere democristiano è una grossolana mistificazione che vuole confondere i motivi del definitivo superamento del vecchio “keynesismo all’italiana” e della liquidazione del welfare della prima repubblica. Le cause della fine della DC sono oggettive e materiali. Derivano da un lato dal mutamento non solo dei rapporti di forza fra le classi ma dalla composizione stessa delle classi sotto la spinta incalzante della crisi che rende sempre più difficile la mediazione fra il diversificarsi degli interessi anche all’interno della borghesia, dall’altro segnano l’impossibilità di graduare i tempi e le tappe della riconversione del vecchio sistema di potere, scadenzandoli come in passato sulla velocità di adattamento democristiana ai nuovi assetti e non, come richiesto oggi, sulle priorità espresse direttamente dalla borghesia imperialista. Non è superfluo ricordare, inoltre, come la fine del bipolarismo abbia fatto venir meno quel pilastro fondamentale dell’egemonia DC rappresentato dal tradizionale rapporto fiduciario atlantico con gli Usa, dovuto alla collocazione italiana sulla linea di confine della contraddizione est/ovest. Se il problema di rinegoziare le future relazioni con Washington permane ed anzi assume una crescente importanza, saranno governi non più necessariamente democristiano a gestirlo, com’è dimostrato dalla visita di Clinton e dalla “scommessa” del presidente americano sull’Italia berlusconiana.

La riforma dello stato, la rifunzionalizzazione dei suoi poteri, la ridefinizione delle sue competenze e del grado e delle caratteristiche della sua presenza diretta nella sfera economica avanzano ormai su linee percorse da altri soggetti politici, che si contendono la guida della prosecuzione di un disegno da completare là dove il crollo della DC ne ha lasciato l’abbozzo. L’obiettivo del passaggio alla seconda repubblica era in realtà maturo da tempo. Già dopo la metà del decennio scorso era stato possibile mettere in cantiere progetti di riforma istituzionale che ratificavano l’assestamento del rapporto classe/stato su posizioni decisamente sfavorevoli per il campo proletario. Una modificazione sostanziale dei rapporti di forza che si era potuta concretizzare attraverso la fase di profonda ristrutturazione produttiva dell’inizio anni ’80 e l’attacco controrivoluzionario che aveva non solo colpito duramente la guerriglia, ma che aveva scompaginato l’intero arco delle forme politiche con le quali si era espresso il livello di autonomia di classe ereditato dai grandi cicli di lotta precedenti. La erosione progressiva degli spazi conquistati dalla classe operaia negli anni ’70 di pari passo al restringimento oggettivo delle basi materiali di qualsiasi credibile ipotesi riformista, l’accelerarsi dell’involuzione del revisionismo e la trasformazione del sindacato in una articolazione del regime pronta ad imboccare la strada della concertazione neocorporativa, marciavano parallelamente al precisarsi dei vincoli economici fissati dagli organismi internazionali (CEE, FMI, Banca Mondiale) che imponevano l’avvio del ridimensionamento complessivo del welfare come condizione del rilancio concorrenziale del sistema. La traduzione sul terreno istituzionale di questa situazione, dopo le forzature in senso presidenzialista del periodo craxiano, era sistematizzata nel progetto di riforma De Mita-Ruffilli, nella pratica di governo, viveva già nell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, nello svuotamento delle prerogative parlamentari e nel mantenimento dell’opposizione in un ruolo di subalternità consociativa, quindi in quei primi elementi di “democrazia governante” (dove alla massima concentrazione del potere reale corrisponde la più vasta apparenza di democrazia, cioè il massimo di democrazia formale) che dimostravano quanto la fase matura della prima repubblica avesse già incorporato quel salto di qualità nel rapporto classe/stato operato dalla controrivoluzione negli anni ’80. Allo stesso modo la definizione di piani di controllo e riduzione della spesa e di rientro dell’enorme debito pubblico era già stata impostata programmaticamente dal governo De Mita (il primo piano Amato) anche se solo la successiva linea Amato-Ciampi ha cominciato ad applicarla in concreto. Lo schema demitiano non poteva però prevedere la velocità di divaricazione della forbice fra la gradualità di un disegno teso a ridurre al minimo le effettive lacerazioni costituzionali e la maturazione delle spinte alimentate dai pressanti interessi economici della borghesia imperialista. All’interno di questo contesto l’attacco delle Brigate Rosse individua l’importanza del più organico progetto politico elaborato dalla DC per affrontare i delicati passaggi del generale processo di riassetto dello stato e con l’azione contro Ruffilli contribuisce a incrinare gli equilibri politici che lo sostenevano. Il resto è storia recente. La riforma elettorale che doveva sanzionare il definitivo assestamento di una democrazia compiuta a misura del mantenimento di una rinnovata centralità democristiana, si è trasformata in un autentico boomerang accelerando il tracollo della DC e dei suoi vecchi alleati.

È significativo che sia stato un comitato d’affari della borghesia nella più pura delle sue accezioni, il primo vero “governo dei tecnici” dell’epoca postfascista, a porsi sia come curatore fallimentare della prima repubblica, attento a far procedere nella massima stabilità l’emarginazione della dirigenza del pentapartito e la crescita delle nuove formazioni politiche dilazionando la scadenza elettorale per consentire la creazione di un cartello di sinistra-centro, sia come promotore dell’impostazione di una politica estera da media potenza capace di ritagliarsi autonomi spazi di intervento e sfere di influenza.

Il Ciampi continuatore della linea Amato di “risanamento economico” e garante dell’affidabilità della “Azienda Italia” di fronte al sistema bancario internazionale, il Ciampi che svuota le riserve di Bankitalia pur di “tenere il paese agganciato a Maastricht” è lo stesso che perfeziona i primi passi di un rinnovato protagonismo in aree storicamente oggetto dell’espansionismo italiano. Lo dimostrano il protettorato sull’Albania, l’avvio di una presenza concorrenziale a quella di altri stati imperialisti nella penetrazione nella regione balcanico-danubiana e, principalmente, l’intervento in Somalia.

La partecipazione alla sanguinosa aggressione al popolo somalo è stato un concreto passaggio di quella rinegoziazione del rapporto con gli Usa nella definizione dei margini di maggiore autonomia di manovra consentiti all’espressione di un interesse specifico a sottolineare il peso e la rilevanza dell’apporto italiano ad un intervento imperialista. Non solo: la richiesta di un esplicito riconoscimento ufficiale in sede Onu, con i suoi risvolti pratici, sul campo, nel mutamento della relazione di totale subalternità iniziale alla gestione americana di “restore hope” non si riduceva alla ricerca di una affermazione del “prestigio nazionale”, ma rispecchiava il tentativo tutt’altro che formale di attestare una salda presenza italiana nel corno d’Africa ad un livello ben più efficace della precedente e disastrosa esperienza craxiana. Un obiettivo per ora mancato; nell’ambito del più generale fallimento dell’intera operazione, grazie alla tenace e coraggiosa resistenza del popolo somalo, ma che ha mostrato apertamente il grado di crescente difficoltà nella composizione di interessi concorrenziali fra diversi stati imperialisti.

I parà della folgore hanno lasciato sul terreno a Mogadiscio e sulla vecchia strada imperiale di Mussoliniana memoria centinaia di somali giustiziati come “banditi”, forse un migliaio secondo la stima orgogliosamente formulata dal generale Floris al ritorno dalla spedizione. Una buona verifica sul funzionamento del “nuovo modello di difesa” e, insieme, la fine della presunta scarsa affidabilità militare come argomento da far pesare contro l’Italia nelle relazioni interimperialiste.

Su un’altra scala e in un diverso contesto la crisi nella ex Jugoslavia ha fatto risaltare il coinvolgimento italiano in termini ben differenti da quello tradizionale di semplice, per quanto importantissima, portaerei della Nato protesa nel mediterraneo. L’articolazione e la graduazione delle mosse politico-diplomatiche italiane nei confronti della linea americana e delle differenziate strategie d’intervento degli altri stati imperialisti era tesa fin dall’inizio del precipitare bellico della situazione a connotare uno specifico interesse nazionale in discontinuità con il precedente allineamento acritico verso qualsiasi indirizzo di volta in volta adottato dagli alleati più potenti. Anche in questo caso i più ampi spazi di manovra gestiti dal duetto Ciampi-Andreatta sono stati resi possibili dalla completa disponibilità italiana ad attivizzarsi sul piano strettamente militare con una mobilitazione mai registrata in passato e addirittura non richiesta, come si è visto con l’altalena di assensi e dinieghi in sede di organismi internazionali alla proposta dell’invio di un contingente in Bosnia, considerata come un ulteriore fattore di squilibrio in una realtà già complicata dal difficile calibramento nel sovrapporsi sul campo di diverse linee di “interpretazione” del mandato Onu da parte dei vari protagonisti dell’intervento imperialista.

È questa eredità che l’esecutivo di Ciampi ha trasferito nelle mani del cosiddetto “primo governo della seconda repubblica”: la più solida delle piattaforme per qualsiasi successiva forzatura nel senso di un aggressivo attivismo internazionale finalizzato alla nuova collocazione imperialista dell’Italia.

Intervenire nel delicato snodo di contraddizioni in cui si inserisce il rinnovato protagonismo italiano per la piena assunzione di un ruolo da media potenza che spinge per un suo riposizionamento gerarchico, politico, diplomatico e militare negli organismi sovranazionali (dall’Onu alla UE, dalla Nato alla UEO) significa allora provocare anche quelle ricadute sul terreno dei rapporti di forza interni che definiscono il cuore dello stato nella linea garante della più efficace articolazione fra risanamento economico, nuovo quadro politico-partitico, passaggi di riforma istituzionale e di revisione costituzionale. Oggi il cuore dello stato vive nella linea che si afferma e si rafforza nella competizione per dirigere la fase di transizione alla seconda repubblica e perseguire così l’approfondimento e il perfezionamento delle forme di dominio sul proletariato che stabilizzano il rapporto classe/stato sul livello richiesto dalla borghesia imperialista come condizione indispensabile alla proiezione concorrenziale sui mercati internazionali.

Il rapporto di unità programmatica fra antimperialismo e attacco al cuore dello stato va stretto in questo senso ed evidenzia la capacità della guerriglia di individuare e colpire le direttrici politiche centrali della ricollocazione imperialista dell’Italia e nel contempo di impostare realisticamente l’avvio del processo di disarticolazione dell’instaurazione di una autentica seconda repubblica.

Solo con questa logica una adeguata pratica offensiva della guerriglia può costruire le valide premesse per rimettere in moto una corretta dinamica (sempre e comunque vincolata dagli esiti dell’andamento discontinuo dello scontro) che sappia relazionare l’uscita del campo operaio e proletario dalla difensiva con il rinnovarsi dell’espressione politica, anticapitalista, antistatale e antimperialista della sua autonomia. La conseguente rivitalizzazione della dialettica avanguardia combattente/autonomia di classe va costruita nella prospettiva della direzione da parte della guerriglia dei tempi e dei passaggi dell’organizzazione e della disposizione delle forze proletarie rivoluzionarie sul terreno della lotta armata.

Il processo che abbiamo ora delineato sinteticamente non è uno schema astratto né una esercitazione teorica che prescinde dagli effettivi rapporti di forza che caratterizzano la situazione attuale; ma presuppone una valutazione compiutamente materialista anzitutto delle reali condizioni del campo proletario e della natura difensiva delle lotte di resistenza che riesce ad esprimere in questa fase. Un campo operaio e proletario indebolito da anni e anni di attacchi durissimi alle proprie posizioni sociali ed economiche e, nonostante una recente ripresa di mobilitazione e di dibattito, ancora in larga misura depoliticizzato, confuso, inquinato da opportunismi di ogni genere.

Il carattere offensivo o difensivo delle lotte non si stabilisce a partire dal giudizio sulle forme che di volta in volta vengono sviluppate, sulla pratica “alta” o “bassa” o sulla loro diffusione ed estensione quantitativa. Per i comunisti il parametro di riferimento non è l’osservazione sociologica, ma è l’analisi dei rapporti di forza che si determinano fase dopo fase fra proletariato e borghesia, fra classe e stato, fra rivoluzione e controrivoluzione. La capacità di contrastare specifici progetti di attacco alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato e la possibilità delle lotte di sedimentare organizzazione al di fuori e contro il reticolo di mediazioni politiche ed istituzionali che le imbrigliano e le depotenziano, non vanno misurate indipendentemente dai rapporti di forza complessivi, ma relativamente ad essi. La qualità dello scontro di classe e il carattere dell’autonomia operaia e proletaria che vi si può sviluppare è data anche, a partire dalla base materiale delle contraddizioni strutturali del rapporto di produzione capitalistico, dalla coscienza, dalla memoria e dalla tradizione storica che si determinano nel proletariato attraverso le sue esperienze politiche e rivoluzionarie. Esperienze che in questo paese sono particolarmente contrassegnate da più di vent’anni di lotta armata per il comunismo e dal ruolo centrale svolto in questo senso dalle Brigate Rosse. L’impossibilità pratica, in un lungo arco di tempo in cui i colpi subiti dalla guerriglia lo hanno impedito organizzativamente, di riaffermare una presenza rivoluzionaria attiva esprimendola con attacchi al livello necessario ha inciso pesantemente sulla maturazione dell’autonomia di classe come soggetto politico.

Abbiamo ricordato come la fase finale della prima repubblica avesse già ampiamente incorporato quei rapporti di forza decisamente sfavorevoli al campo proletario “capitalizzando” gli esiti dell’attacco dispiegato contro la classe all’inizio degli anni ’80. È da questa realtà che si formalizzano gli accordi neocorporativi e si ridefinisce la funzione del sindacato confederale, terzo attore sul palcoscenico della concertazione con governo e confidustria in quanto non solo garante del controllo e del depotenziamento dei picchi “alti” delle lotte di resistenza, ma soggetto attivo e giuridicamente riconosciuto dell’articolazione nella classe degli assi programmatici della linea di “risanamento economico” e dei suoi effetti sul piano contrattuale, salariale, normativo. Un sindacato di regime che rafforza la sua stessa ragion d’essere e compatta la sua struttura burocratico-amministrativa a misura della capacità di cogestire il processo di graduale smantellamento del welfare, di contenimento e riduzione del salario reale e di massima flessibilità della forza lavoro. È su questo terreno che la linea Amato-Ciampi ha riscosso i più notevoli successi consentendo al governo la più totale mano libera sugli altri fronti della politica economica, dall’azione di Bankitalia sui tassi d’interesse, alla riorganizzazione del sistema creditizio, all’inizio effettivo delle dismissioni e delle privatizzazioni. Indipendentemente dal grado di liberismo che i nuovi esecutivi della seconda repubblica intenderanno davvero mettere nei loro programmi operativi, gli accordi del 3 luglio ’93 che perfezionano il funzionamento della dialettica neocorporativa già definita con il patto del 31 luglio dell’anno precedente, restano una solida piattaforma di riferimento anche per una linea governativa che si proponga di ridimensionare ulteriormente il ruolo e il peso del sindacato. La natura di regime ormai assunta da una larga fascia di dirigenti e bonzi sindacali facenti riferimento all’area revisionista troverà di sicuro anche nella seconda repubblica la possibilità di esprimersi nell’impegno di contenimento e repressione delle lotte operaie.

È solo incidendo sui rapporti di forza complessivi che determinano questa situazione che la prospettiva di un rafforzamento politico del campo proletario può tradursi in una uscita della classe dalla difensiva, una tenace e quotidiana resistenza che è destinata ad indebolirsi ulteriormente senza il rilancio della lotta armata e della sua capacità di disarticolare il progetto centrale della borghesia imperialista di transizione alla seconda repubblica e della piena assunzione italiana di un ruolo da media potenza in uno scenario internazionale estremamente fluido e solcato da profonde contraddizioni.

L’attività di direzione dei comunisti sullo sviluppo della prospettiva rivoluzionaria deve quindi tenere sempre presente il piano internazionale dello scontro, assumendosi la responsabilità di agire nell’attuale rapporto classe/stato ad esso collegato. Una responsabilità decisiva e un ruolo dirigente da conquistare e difendere che non possono esprimersi in modo compiuto se non nella dimensione del processo di costruzione del partito comunista combattente. Fuori da ogni velleitarismo o attendismo è questa la discriminante sulla quale si deve confrontare politicamente e verificare concretamente l’unità dei comunisti per il rilancio e l’avanzamento della strategia della lotta armata.

Un confronto pratico che deve indirizzarsi da subito sulla necessità di attestare solidamente la guerriglia su quei livelli di analisi e di programma politico-militari e organizzativi richiesti dalla fase di ricostruzione e indispensabili per far fronte ai nuovi compiti da sostenere in un quadro di riferimento generale difficile e complesso e in dure condizioni di lotta. Un processo di questo tipo non può realisticamente essere concepito come il risultato automatico e lineare di una maturazione spontanea o condotto come il graduale riconnettersi di una pratica ancora inadeguata alla qualità che deve caratterizzare l’iniziativa guerrigliera con l’assunzione teorica dell’impianto strategico della lotta armata. La vitalità delle avanguardie che il movimento rivoluzionario riesce a esprimere non deve condizionare le sue potenzialità di crescita alla “medietà” dei livelli di coscienza già acquisiti. Sono le rotture soggettive, è il ruolo sempre crescente della soggettività rivoluzionaria ad individuare e intraprendere un percorso che si fa carico di responsabilità ineludibili nel misurarsi con tutti i passaggi di questa fase.

La fase di ricostruzione non si sviluppa in vetro, al riparo dai colpi che si subiscono nel corso dello scontro, ma nel suo stesso procedere riesce già a far vivere le proprie finalità – nel senso di agire da partito combattente per costruire il partito combattente, nel porsi sempre come suo nucleo strategico – grazie alla consapevolezza che nella conduzione di un processo rivoluzionario di lunga durata le battute d’arresto, gli arretramenti e le sconfitte invece che distruggere la guerriglia la rafforzano e ne rilanciano l’impianto organico.

Per questo fare tesoro del ricchissimo patrimonio di esperienza politica, militare, logistica e organizzativa delle Brigate Rosse non significa ricorrere meccanicamente ad un arco di soluzioni già date, ma impegnarsi per ristabilire i termini complessivi che consentano nuove offensive tenendo ben presente che anche la fase di ricostruzione è un processo orientato dalle linee fondamentali che presiedono la strategia della lotta armata.

Un impianto organico che scaturisce dal portato teorico e dai risultati politici conseguiti in più di vent’anni di pratica combattente, verificato nel vivo dello scontro e sottoposto al vaglio critico della realtà dei rapporti di forza e che rappresenta il più alto contributo all’elaborazione della scienza comunista della rivoluzione proletaria in questo contesto storico.

– La rivoluzione nella metropoli nel quadro degli interessi del proletariato mondiale, il rapporto strategico con i processi rivoluzionari e di liberazione alla periferia del sistema, l’internazionalismo e l’antimperialismo come condizioni stesse dell’affermazione della rivoluzione e ambito generale in cui collocare i diversi percorsi rivoluzionari.

– In questa prospettiva il conseguimento dell’obiettivo della conquista del potere politico, della distruzione dello stato borghese e dell’instaurazione della dittatura proletaria per il superamento storico della società divisa in classi e per la costruzione della società comunista.

– La lotta armata come strategia generale del proletariato metropolitano, il carattere di lunga durata della guerra di classe per la conquista del potere politico. L’attacco al cuore dello stato come attacco che in ogni congiuntura individua e colpisce il progetto dominante della borghesia imperialista nella contraddizione che oppone la classe allo stato.

– L’unità del politico e del militare come matrice fondante dell’agire della guerriglia. La clandestinità e la compartimentazione come principi strategici che presiedono la sua impostazione offensiva e ne garantiscono la tenuta nell’andamento discontinuo dello scontro.

– Centralità, selezione, calibramento dell’attacco come criteri guida nella scelta dell’obiettivo dell’iniziativa rivoluzionaria della guerriglia e a partire dall’attacco centrale al cuore dello stato e ai progetti imperialisti, l’organizzazione e la disposizione delle forze rivoluzionarie proletarie sul terreno della lotta armata, la formazione della direzione rivoluzionaria come processo di formazione, nello scontro, del partito comunista combattente.

– Centralizzazione delle direttrici dell’attacco/decentralizzazione delle responsabilità a tutte le istanze organizzate per pesare con il massimo di incisività nello scontro e concentrare lo sforzo politico militare sugli obiettivi perseguiti.

Ogni vittoria e ogni sconfitta delle forze rivoluzionarie nel centro e nella periferia del mondo dominato dall’imperialismo sono nostre vittorie e nostre sconfitte, indipendentemente dalla distanza geografica, dalle particolari condizioni di classe, dalle differenti caratteristiche di origine e consolidamento dei vari percorsi rivoluzionari e di liberazione nelle peculiari contraddizioni economiche e sociali che li alimentano.

“La guerriglia è la forma dell’internazionalismo proletario nelle metropoli. È il soggetto della politica proletaria a livello internazionale” (risoluzione della direzione strategica 1979), quindi si pone fin dall’inizio come parte e funzione della guerra di classe internazionale e sviluppa la lotta per il potere negli stati del centro imperialista, dove una vittoria rivoluzionaria assumerebbe una portata decisiva per l’apertura di sbocchi rivoluzionari alla periferia e dunque per l’insieme del processo rivoluzionario mondiale. Questa concezione dell’internazionalismo che spazza via ogni logica “solidaristica” e supera definitivamente ogni visione dell’antimperialismo come una sorta di “politica estera” della “propria” rivoluzione è una conquista irreversibile acquisita dall’esperienza più che ventennale delle Brigate Rosse.

L’attacco alla struttura militare Usa, l’attacco alla Nato, si inserisce nel rilancio della politica di sviluppo del Fronte Combattente Antimperialista e articola nella pratica il significato che attribuiamo alla costruzione nel vivo del combattimento di concreti e propositivi punti di incontro dell’interesse strategico del proletariato metropolitano e dei popoli soggetti al dominio e all’aggressione imperialista.

È in questo senso che da tempo la nostra organizzazione ha riconosciuto l’individuazione di un’area geo-politica dove realizzare i passaggi politico-militari e organizzativi necessari al consolidamento della dimensione strategica del fronte e allo sviluppo della sua capacità di attacco. L’area Europea mediterraneo mediorientale che si polarizza sostanzialmente su due regioni, gli stati europei e il mondo arabo, separati anche se organicamente funzionali secondo la dinamica sviluppo/sottosviluppo, è da considerarsi un’area unitaria in quanto reciprocamente complementare nell’articolarsi del rapporto centro/periferia. È un’area estremamente variegata la cui interdipendenza è il risultato di un lungo processo storico che ha sedimentato sulle coordinate della sua continuità geografica una fitta rete di interconnessioni economiche, politiche, militari che evidenziano il legame fra le strutture del sistema imperialista e il carattere delle lotte di classe e dei percorsi rivoluzionari e antimperialisti che vi si dispiegano. È proprio per questo che è necessario e possibile concretizzare soggettivamente nella linea del fronte e nell’insieme di quest’area la convergenza che già esiste tendenzialmente tra i diversi processi rivoluzionari nei paesi dipendenti e nelle metropoli, realizzando così una saldatura di portata strategica per l’avanzata del processo rivoluzionario internazionale.

In quest’ambito assume un’importanza eccezionale la rivoluzione palestinese, al centro dello snodo che collega le potenze imperialiste ai paesi del mondo arabo-islamico. Un mondo che, pur frantumato dalle dinamiche reali dell’approfondimento dei rapporti fra le borghesie arabe e l’imperialismo dovuto all’incalzare della crisi e al mutamento degli equilibri internazionali dopo l’89, vive come forte punto di riferimento nella coscienza delle masse arabe sfruttate e rappresenta ancora un vettore di stimolo e di coagulo per le lotte nella regione. La contraddizione era la presenza dell’entità sionista e la rivendicazione di una nazione palestinese è centrale e determinante per la pacificazione imperialista, e in primo luogo americana, dell’intero medio oriente.

Ed è proprio la soluzione politica di questa contraddizione a stare al centro dei piani imperialisti per questa regione, piani che puntano a far accettare nel cuore stesso della nazione araba la presenza di Israele, di uno stato creato ex novo dall’imperialismo per farne una testa di ponte per i suoi interessi nell’area. Attraverso la realizzazione progressiva di rapporti bilaterali fra Israele e i paesi arabi confinanti, l’imperialismo e il sionismo perseguono l’obiettivo della disgregazione del fronte arabo, già minato dalle politiche filoimperialiste dei regimi arabi reazionari e la cui fragilità è apparsa in tutta la sua evidenza nello schieramento a fianco degli americani nella guerra di aggressione contro l’Irak. In questo modo il nemico vuole porre le basi per fare di Israele non più solo un gendarme dell’imperialismo, ma una potenza regionale pienamente riconosciuta e destinata ad esercitare tutto il peso economico derivante dal suo sviluppo tecnologico e dai suoi rapporti con l’occidente.

Per arrivare a questo gli imperialisti hanno ben chiaro che il loro nemico principale da abbattere è la rivoluzione palestinese, perché è essa, attraverso la lotta armata delle sue organizzazioni combattenti e la partecipazione delle masse all’Intifada, a tenere aperto un conflitto che si riflette all’interno di ogni paese arabo alimentando fra le masse il nazionalismo arabo con la sua carica antimperialista, un nazionalismo storicamente rivoluzionario per il contesto economico, sociale e strategico in cui è sorto e si è sviluppato.

Il cuore del progetto di pacificazione imperialista e di dominio della regione è sempre rappresentato da quegli accordi di Camp David che aprirono la prima breccia effettiva nel corpo della nazione araba con il coinvolgimento dell’Egitto, uno dei suoi paesi più rappresentativi non solo per il suo peso complessivo ma anche per ciò che aveva significato il panarabismo nell’epoca di Nasser per il riscatto dell’intera regione dalla subordinazione all’occidente.

La nostra organizzazione aveva già riconosciuto l’importanza strategica di Camp David e ne aveva colpito uno dei garanti esecutivi, il direttore generale della Forza Multinazionale di osservazione nel Sinai Leamon Hunt, a Roma il 15 febbraio 1984. Fu quello un passo concreto di una politica di fronte che solo più tardi avrebbe avuto una più compiuta definizione, ma che condusse già allora ad una unità antimperialista oggettiva di fatto, fra le BR per la costruzione del PCC e le organizzazioni combattenti della regione mediorientale che attaccavano in quella fase quello stesso progetto.

Oggi il progetto di Camp David informa ancora da parte israeliana le politiche tese a frantumare il fronte arabo e palestinese, perseguendo processi di pace bilaterali e separati con l’Olp e gli stati arabi confinanti. E anche il “piano di autonomia” già previsto dagli accordi del ’79 trova ora una concretizzazione nella formula del piano Gaza-Gerico, “Gaza and Jericho first” frutto dell’accordo raggiunto fra la direzione capitolazionista dell’Olp e il governo Rabin, sotto la tutela americana.

Questo accordo segna una tappa fondamentale nello sviluppo della strategia imperialista nella regione e il suo esito misurerà l’andamento dei rapporti di forza tra rivoluzione e imperialismo in tutta l’area, e non solo. Attraverso esso i settori di borghesia palestinese più legati al capitale internazionale puntano a creare un ambito in cui sviluppare una propria economia. Non necessariamente uno stato, quindi, essendo sufficiente per questo scopo un qualsiasi ambito territoriale riconosciuto giuridicamente che attragga capitali e ottenga condizioni di favore nel flusso commerciale con l’estero. In un tale quadro tutti i punti qualificanti del programma originario dell’Olp vengono accantonati e la lotta nazionale palestinese viene dirottata verso gli obiettivi di un pugno di capitalisti, proprietari terrieri e intellettuali filo occidentali legati all’imperialismo e sui quali la direzione dell’Olp punta per crearsi una base di consenso, una politica che significa però aprire una contraddizione in seno al popolo palestinese fino ad oggi unito nell’Intifada.

Questo progetto è attaccato da tutte le forze rivoluzionarie che esprimono gli interessi genuinamente popolari delle masse e le difficoltà in cui si dibatte sono sotto gli occhi di tutti. L’opposizione delle organizzazioni palestinesi che non hanno mai rinunciato alla lotta armata e sei anni di Intifada hanno determinato una situazione in cui la direzione capitolazionista dell’Olp è costretta a prendere decisioni in sintonia con le richieste israeliane e americane e sempre più in contrasto con gli interessi nazionali, smascherandosi così di fronte alle masse in Palestina e nella diaspora e creando essa stessa i presupposti per l’intensificarsi dell’opposizione delle classi sfruttate palestinesi, di tutti coloro che saranno inevitabilmente esclusi dai ristretti benefici economici apportati dal “piano di autonomia”.

Su un altro fronte, ma nell’ambito della stessa contraddizione creata dalla presenza dell’entità sionista in questa regione, il fronte di resistenza nazionale libanese, nel quale si sono integrate le forze palestinesi in Libano e le organizzazioni combattenti islamiche, prosegue l’offensiva contro le truppe israeliane e la milizia-fantoccio dell’ALS di Lahad e contribuisce a indebolire la coesione interna e la sicurezza dell’entità sionista, attraverso una pressione continua sulle forze di occupazione, ostacolando così la pacificazione imperialista della regione oltre che la ricostruzione in Libano di un regime filoimperialista sovvenzionato dai sauditi e dai capitali occidentali.

La lotta dei compagni palestinesi e libanesi è quindi assolutamente centrale nel rapporto di guerra tra rivoluzione e imperialismo nel cuore di un’area strategicamente vitale per la ridefinizione dei nuovi equilibri internazionali.

Allargando la prospettiva di riferimento generale, il dispiegarsi di diverse iniziative antimperialiste e rivoluzionarie nel mondo arabo e islamico, in Turchia e nella regione curda va visto come strategicamente convergente con lo sviluppo di processi rivoluzionari e di liberazione in molte altre regioni della periferia, in Africa, Asia e America Latina. A questo proposito l’avanzare della guerra popolare in Perù e nelle Filippine dimostra in modo estremamente significativo come la direzione comunista delle lotte di liberazione sia la migliore garanzia dell’approfondimento del loro carattere antimperialista e rivoluzionario.

È necessaria quindi la massima determinazione per favorire il più vasto schieramento combattente di forze rivoluzionarie contro il nemico comune. Le Brigate Rosse fanno vivere concretamente questa necessità nel contributo alla costruzione e allo sviluppo del fronte combattente antimperialista, il passaggio politico-militare più avanzato per collocare l’antimperialismo al livello di scontro adeguato ad attaccare e disarticolare le politiche centrali che indirizzano le strategie imperialiste nella nostra area geopolitica. La costruzione del FCA è un impegno programmatico che le BR assumono fino in fondo, nelle nuove condizioni e nella consapevolezza della dimensione strategica del Fronte maturata nel vivo della lotta.

GUERRA ALLA GUERRA!

GUERRA ALLA NATO!

COSTRUIRE E CONSOLIDARE IL FRONTE COMBATTENTE ANTIMPERIALISTA!

ATTACCARE E DISARTICOLARE LA FASE DI TRANSIZIONE ALLA SECONDA REPUBBLICA!

ORGANIZZARE I TERMINI POLITICO-MILITARI DELLA FASE DI RICOSTRUZIONE PER IL RILANCIO DELLA LOTTA ARMATA!

ONORE AI COMPAGNI CADUTI COMBATTENDO PER IL COMUNISMO!

 

Corte di Assise di Udine, 6 giugno 1994

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione
del Partito Comunista Combattente

Francesco Aiosa, Ario Pizzarelli

 

 

Dichiarazione di Paolo Dorigo

 

Come militante comunista riconosco l’incisività dei contenuti politici di fondo e condivido l’attualità e la correttezza dell’analisi che ha condotto le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente ad attaccare la base di Aviano, uno dei principali centri operativi della struttura imperialista Usa e Nato nella nostra area geopolitica. Colpire la Nato attaccando Aviano è stato un passaggio quanto mai chiaro di cosa significhi costruire, in riferimento alla dimensione strategica del consolidamento del fronte combattente antimperialista, un concreto e vitale punto di convergenza degli interessi del proletariato metropolitano e dei popoli soggetti al bestiale dominio dell’imperialismo. L’azione di Aviano conferma la validità della linea strategica delle BR per il PCC anche in questa difficile e impegnativa fase di ricostruzione delle forze rivoluzionarie per il rilancio della lotta armata.

Mi riconosco completamente, quindi, nella gestione politica che le BR hanno dato a questo processo e di fronte a qualsiasi tribunale dello stato ribadisco che il mio comportamento si riferisce all’ambito degli interessi della guerriglia a cui rispondo, come militante comunista, della mia condotta politica e pratica.

 

Corte di Assise di Udine, 6 giugno 1994

 

Paolo Dorigo

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Come viene gestita la sezione EIV (Elevato Indice di Vigilanza). Lettera e volantino di alcuni detenuti del carcere di Alessandria

Cari compagni,

abbiamo saputo del presidio che ci sarà qui fuori il 14 gennaio.

Con queste poche righe vogliamo ringraziarvi per l’iniziativa che avete organizzato e per la solidarietà che, assieme ai compagni e alle compagne che non potranno esserci, portate alle lotte di noi prigionieri.

Da parte nostra vi daremo il benvenuto con una sonora battitura alle sbarre.
Fa sempre piacere ricevere il sostegno dei compagni di fuori. Il vostro impegno al fianco dei perseguitati e degli oppressi ci fa sentire meno isolati, perché la solidarietà è una cosa preziosissima anche se in questi luoghi cercano di arginarla, ma troverà sempre degli spiragli per arrivare fin dentro le nostre celle.

Il vostro entusiasmo ci dà la forza di cercare a continuare a lottare anche qua dentro.

Vi mandiamo un testo che abbiamo scritto per lo sciopero della fame.

Vi mandiamo un fortissimo abbraccio mai vinti.

Con affetto

Antonino, Max e tutti i compagni della EIV di Alessandria

ALESSANDRIA, 15/01/09 [TESTO DEL VOLANTINO]
Il 19 gennaio 2009 inizierà in Piemonte la settimana di sciopero della fame per l’abolizione dell’ergastolo che a staffetta sta coinvolgendo tutte le regioni italiane e anche di altri stati europei.
In questa occasione noi detenuti della sezione EIV (Elevato Indice di Vigilanza) del carcere di Alessandria – San Michele abbiamo voluto portare avanti una lotta anche contro quei soprusi che ogni giorno subiamo in questa sezione.

Per legge l’EIV dovrebbe essere un regime carcerario dove il detenuto gode degli stessi diritti dei comuni, ma è sottoposto ad una vigilanza più stretta; di fatto però la tendenza del Ministero e dei direttori dei vari istituti di pena è quello di avvicinarlo sempre più alle condizioni di carcere duro del 41bis.

Quella dove ci troviamo è una sezione piccola: siamo in 7.

Questo basta alla direttrice per decidere che a noi non spetta l’uso del campo da calcio perché portarci sarebbe troppo complicato; neanche la scuole è adatta a noi dato che una classe deve essere di almeno 10 elementi.

Non abbiamo la possibilità di usare la palestra né di partecipare ad attività educative o sportive, che per quattro gatti non vale la pena avviare, l’aria la facciamo nei passeggi dell’infermeria fatti per mandarci una persona alla volta. Di fatto, quindi, passiamo 22 ore al giorno chiusi in cella senza fare niente, alla faccia della funzione rieducativi della pena che, se con l’ergastolo viene del tutto accantonata, qui manca anche per chi ha le pene più lievi.
Col passare dei mesi le motivazioni di natura economica – burocratica – organizzativa che la direzione apportava per negarci di volta in volta ciò che ci spetta di sono mostrate delle vili falsità ed è emersa invece la precisa volontà di amplificare il peso costrittivo e afflittivo della galera verso i carcerati.

L’esempio di maggior rilievo di questo intento del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) e della direttrice, è stata l’installazione questa estate di pannelli di plexiglas opaco alle finestre che impediscono il passaggio di aria e luce e la visione dell’esterno, aumentando così il senso di clausura.

Per non parlare poi delle periodiche e del tutto arbitrarie restrizioni dei generi che si possono acquistare alla spesa o che possiamo ricevere tramite pacco postale e al colloquio.
Per far fronte a questa situazione e far rispettare i nostri diritti abbiamo fatto varie istanze e ricorsi al DAP, magistrati e direzione che, quanto raramente si degnavano di rispondere, ribadivano che per legge ciò che chiedevamo ci spettava, ma poi di fatto continuava il lento e inesorabile peggioramento delle condizioni di vita nella sezione.

Abbiamo capito che è inutile fare affidamento sugli organismi preposti alla fase esecutiva della repressione per ottenere qualche miglioramento, ma solo mobilitandoci in prima persona potremo ottenere qualcosa.

La nostra situazione si inserisce in un contesto generale di crisi economica dove la risposta principale è la guerra e i finanziamenti di stato ai grandi colossi finanziari.

Contemporaneamente sempre più gente si ritrova senza lavoro e sempre più vicina alla “soglia di povertà”, andando ad accrescere il già diffuso malcontento delle masse. La tattica del governo è quella delle varie politiche securitarie, delle emergenze sicurezza e della guerra tra poveri, che portano alla criminalizzazione di varie fasce della popolazione.
Nel mondo carcerario questo si traduce in sovraffollamento, grandi proclami sull’inasprimento del carcere duro e sull’uso massiccio della differenziazione, per riprodurre anche qui quei meccanismi di premialità e mercificazione dell’individuo e dei suoi diritti propri di questa società.
Soltanto organizzandoci e lottando uniti potremo difenderci dagli attacchi e dai soprusi che ogni giorno affrontiamo e per questo ci riserviamo in futuro di portare avanti altre iniziative di lotta per le nostre condizioni e la nostra dignità.

Esprimiamo la nostra solidarietà a tutti i prigionieri in lotta.
I detenuti della sezione EIV del carcere di Alessandria – San Michele

Antonino e Max

A proposito della nostra firma. Allegato non processuale di Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi

“Noi, in quanto percorso di costruzione – dove la sigla PCP-M, più che un nome formale, è obiettivo sostanziale da raggiungere – all’interno dell’area rivoluzionaria, discendiamo da questi passaggi e cerchiamo di recuperarne il meglio, di rielaborarlo in forme adeguate per il presente”. (…) “E ripetiamo che questa sigla ha il suo significato in quanto esplicitazione di un obiettivo di fondo, da raggiungere. E cioè natura e carattere del Partito e della strategia. È soprattutto questione sostanziale, al di là della forma nominale che potrà assumere nel percorso futuro.”

(da “La rivoluzione è necessaria, è possibile”, documento dicembre 2008)
Questo è il senso preciso della sigla PCP-M. Che, evidentemente, non è mai esistito. L’Organizzazione vissuta era finalizzata anche a quell’obiettivo, verso quell’orizzonte. L’ultima tappa, quella CCPA, era semplicemente l’unità fra i militanti residui, senza alcun aggancio ad un conseguente sviluppo organizzativo esterno.

Siamo usciti dal CCPA. Il quale continua ad esistere, assicurato di una continuità formale (per quanto discutibile nella sostanza) rispetto al percorso politico!

Ma accampare diritti di proprietà (come nella pretesa dei nostri ex-compagni) rispetto ad una sigla, PCP-M, che invece è pura sostanza politico-ideologica, questo è veramente riflesso di una concezione che, da tempo, aveva corroso la realtà del Collettivo, creando le condizioni della rottura. Con, in ultimo, la formalizzazione da parte loro della rottura dei rapporti politici e personali.
Atti di arroganza, figli di un’impostazione dogmatica; ancor più stridenti nella misura in cui non corrispondono di certo ad una maggior coerenza politica e di percorso complessivo.
Basti guardare ai nostri profili militanti, alle storie di provenienza e dunque agli apporti politico-strategici degli uni e degli altri, fino all’assunzione dei processi.

Quanto alla presunta decisione di non utilizzare più la sigla PCP-M, è una falsità. Semplicemente si volle dare un segno preciso di discontinuità organizzativa (nella continuità politica). Il che non escludeva né la continuità della lotta politica per quell’obiettivo, né che noi o altri all’esterno la assumano come firma orientativa, finalistica. Cosa ancor più vera nel caso nostro, visto che non abbiamo alcuna ridicola velleità di riorganizzazione dal carcere. Anzi, saremmo ben felici se pure dei perfetti sconosciuti riprendessero in mano armi e progetto, sigla compresa, in modo conseguente!

E in superamento dei nostri limiti, dei gravi errori organizzativi da noi compiuti. Perché deve essere chiaro che si è trattato più di incapacità, inadeguatezza e incoerenze nel modo di applicare una linea ed un impianto strategico che invece, in quanto tali, sono sintesi di lunga rielaborazione e rimessa a punto, a seguito delle sconfitte degli anni Ottanta.

E anche su questo ci si contrapponeva nel Collettivo, gli altri manifestando chiusura ed incapacità ad affrontare un serio bilancio.

Anzi, tutto ciò oggi dovrebbe essere al centro del dibattito nelle ampie aree militanti. Perché questi sono i nodi da sciogliere per passare ad un livello adeguato allo scontro ed all’apertura di una prospettiva rivoluzionaria. Invece di soddisfarsi in facili unità, non impegnative, su terreni in cui è proprio la pressione della Controrivoluzione a spingerci, per mantenerci inoffensivi e marginali.

Anche la nostra sconfitta nel 2007 è stata utilizzata così per far arretrare su linee difensiviste e di ritorno al movimentismo. Ciò che ha avuto pure (ed ha) dei riflessi interni e di contorno alle nostre scadenze processuali.

Si tratta di ravvivare le vere questioni, e di assumerle con coerenza. Perciò continuiamo a porci come semplici militanti per il PCP-M, per cercare di contribuire, insieme a tutti coloro che vogliono applicarvisi seriamente, all’apertura di una prospettiva rivoluzionaria, nella costruzione dei suoi elementi costitutivi essenziali.

Ciò che appunto può riassumersi nell’orizzonte sostanziale di un PCP-M, al di là della sua futura denominazione formale.
Davanzo Alfredo, Sisi Vincenzo

Militanti per il PCP-M
Maggio 2012

 

Processo PCP-M, un bilancio. Documento dal carcere di Siano di Vincenzo Sisi e Alfredo Davanzo militanti per il PCP-M

Ad oltre cinque anni dai nostri arresti, a maggio si è svolto un ulteriore processo PCP-M. A conclusione del quale si è posta la necessità di fare chiarezza sul significato della nostra diversa tattica processuale, rispetto alle passate scadenze.

Un diverso approccio determinato da alcuni cambiamenti, il principale essendo il fatto che il processo avrebbe affrontato essenzialmente il nodo del reato associativo. “Associazione sovversiva e banda armata”: semplici o con finalità terroristica!

Pensiamo che questo sia un terreno minato, perché può portare a posizioni autogiustificatorie, di differenziazione legalista. Specialmente se si lascia gestire questa “battaglia” agli avvocati che, nonostante le loro apprezzabili qualità, restano interni al piano legalitario e (è bene ricordarlo) all’ordine giudiziario borghese.

Qualsiasi fase di vera lotta rivoluzionaria (quindi armata), o anche singoli episodi significativi, vengono qualificati come terrorismo. Questo in particolare negli anni ’70, passando per le svolte emergenziali (leggi speciali), fino all’ultima avviata nel 2001 come portato della “guerra infinita al terrorismo internazionale” (sorta di guerra mondiale informale, dichiarata dalla catena imperialista dominante). In pratica, ogni forma di rivolta, opposizione, organizzazione di avanguardia, armate, contro l’ordine imperialista, vengono bollate dalla qualifica terroristica.

Ciò che si ricongiunge ad un altro concetto fondamentale caratterizzante la nostra epoca di profonda crisi del sistema: è la classe dominante a scatenare la guerra di classe! Perché sa che la guerra diventa sempre più l’orizzonte sociale di un sistema che, bloccato nelle sue possibilità di sviluppo economico-sociale, diventa sempre più distruttivo-mortifero per la gran parte delle popolazioni. Non lasciando altra via d’uscita ad esse che la rivolta o, magari l’avvio di processi rivoluzionari.

Orizzonti di guerra che come vediamo divampa nelle periferie mondiali dominate dall’imperialismo, laddove questo nodo di contraddizioni è esplosivo da tempo. L’ossessione del terrorismo, la “guerra al terrorismo”, e “l’esportazione di democrazia e diritti umani” sono le categorie-guida della macchina da guerra imperialista, nelle sue articolazioni ideologiche, politiche e giuridiche. Che vengono rivolte persino contro i movimenti sociali, di fabbrica e di piazza. Figurarsi rispetto alle organizzazioni rivoluzionarie, sia di classe che di liberazione antimperialista!

La “battaglia giuridica” su questo terreno non solo è illusoria, ma tende ad entrare in contrasto con le esigenze della lotta rivoluzionaria. Diciamo questo anche col senno acquisito dal ciclo precedente, anni ’70/’80: distinzioni, giustificazioni innocentiste, furbismi a pretesa ideologica diventano rapidamente arretramento politico opportunista.

Tali considerazioni ci hanno portato ad una tattica che fosse più chiara e netta possibile: impostazione processuale solo in termini politici di riaffermazione della linea e strategia politico-militare e rifiuto della suddetta diatriba attorno ai reati associativi. Perciò, revoca degli avvocati.

In particolare era inaccettabile l’argomentazione circa “l’inidoneità organizzativa”, vero controsenso per chi cerca di costruire una forza organizzata. Argomentazione svalutativa, appunto da arretramento politico. L’atto della revoca ha dato consistenza all’impostazione. Essa si è precisata nei nostri interventi: “Non abbiamo nulla da cui difenderci, tantomeno dalla qualifica di terrorismo che, invece, è espressione propria del dominio di classe dello Stato borghese e imperialista. Siamo qui a rivendicare ed affermare il legittimo ricorso all’uso della forza da parte proletaria, all’organizzazione politico-militare per sviluppare il processo rivoluzionario di liberazione del proletariato”. “Rivendichiamo i percorsi fatti, nell’indirizzo di costruzione del PCP-M, e ne riaffermiamo l’esigenza attuale”.

Interventi che, volendo anche impedire il ruolo collaborativo degli avvocati imposti d’ufficio, finivano puntualmente in espulsioni dall’aula.

Tutti i momenti in cui abbiamo cercato di far vivere vari contenuti politici: “In quanto operai e comunisti abbiamo preso le armi, perché solo con queste si può abbattere il potere borghese dello sfruttamento e dell’oppressione, e costruire la società nuova, senza classi”. Cosa ancora più evidente oggi: dal carattere di genocidio sociale assunto dalle politiche di crisi, al carattere dittatoriale dei nuovi governi sovranazionali (la troika) che rendono ancora più tangibile il profilo dello Stato Imperialista delle Multinazionali. Dalla sempre più evidente esigenza rivoluzionaria come unica prospettiva di classe possibile, alla necessaria organizzazione politico-militare come sua concretizzazione.

Proprio per ciò abbiamo anche salutato l’azione contro l’Ansaldo di Genova, come contributo al processo rivoluzionario. Abbiamo dovuto fronteggiare l’ennesima presenza provocatoria del prof. sen. Ichino (per altro spalleggiato da qualche notabile governativo) ricordando a questo eminente servo della borghesia, che ama (come i suoi padroni) presentarsi da vittima virtuale, le incalcolabili vittime reali del sistema capitalistico e tutta la violenza insita nelle loro politiche economiche, vera e propria guerra di classe. Alla cui risposta, da parte proletaria noi cerchiamo di contribuire.

Alcuni di questi concetti sono rimbalzati con toni scandalistici sugli organi di informazione. I funzionari governativi presenti non hanno gradito e, su segnalazione della Digos di Milano, è stata aperta un’indagine per “istigazione alla violenza”, la cui prima conseguenza è stata una perquisizione generale delle celle, e il sequestro di documentazione. Infine la sentenza che, raccogliendo i dubbi della cassazione, ha tolto l’aggravante terroristica e ridotto le pene massime (fra i due, quattro anni e i tre, sette a testa). Cioè riduzioni contenute, e a conferma dell’impianto accusatorio e probatorio (altro che “sentenza scoordinata”…).

Il tutto si è svolto nella consueta e forte dialettica con la solidarietà e componenti del movimento di classe. Tra cui una delegazione internazionale, con compagni/e da Svizzera, Germania, Belgio Francia. L’udienza finale è stata molto partecipata, con la risonanza degli slogan da una parte all’altra delle sbarre. Tra gli slogan, “per i compagni dentro, nessun lamento – linea di condotta, combattimento!”. Questo rende esplicito e caratterizza pienamente il concetto di solidarietà attiva, compresa in funzione dello sviluppo del processo rivoluzionario. Infatti la repressione va intesa, e affrontata, come sua parte inevitabile. Nel senso preciso dello sviluppo dialettico dello scontro: i colpi repressivi dello Stato vanno trasformati in occasioni di maturazione ed ulteriore elevamento dei nostri livelli politici.

Ma, essendo la solidarietà un piano di aggregazione e mobilitazione proletaria pubblica e “di base”, vanno evitate quella confusione e ambiguità che finiscono per tirare al ribasso il livello politico. Cioè non potendo essere conseguenti, in quest’ambito, nei termini dell’impegno rivoluzionario, si tende facilmente all’impostazione vittimista, recriminatrice (contro la repressione intesa come ingiustizia, montatura, ecc.) e, infine, ad arretrare nel tatticismo legalista. Ultimi esempi, alcuni tempestivi (e non richiesti!) comunicati sulla sentenza della cassazione, prima e sul processo poi; in cui non solo si sconfina nei soliti legalitarismi e vittimismo movimentista (l’ossessione contro “le toghe rosse” sic), ma addirittura si arriva a censurare il contenuto politico del processo. Tutto ciò che abbiamo or ora relazionato sparisce, e con esso gli elementi centrali della nostra identità e battaglia politica. L’insistenza nel riproporre questa impostazione sbagliata e deviante crea evidentemente un vero problema con alcuni circoli. Non con tutti i loro partecipi, spesso mossi da un autentico slancio solidale, ne con altri circoli che hanno saputo e sanno rapportarsi a noi nei giusti termini di “unità/distinzione”. Quei termini che già molto tempo fa insistemmo a richiamare (per esempio, nei documenti “Elementi di bilancio del processo PCP-M, 2009” e “La migliore solidarietà consiste nello sviluppo della lotta rivoluzionaria, 2010”. Pur consapevoli dell’importanza di lavorare per l’unità (sia fra proletari che fra comunisti) pensiamo che in Italia e purtroppo nei centri imperialisti in generale, si debba ancora fare i conti con pesanti eredità storiche. Le quali, precisamente, sono all’origine della persistente frammentazione, inadeguatezza e incoerenza. Che vanno superate per riuscire a compiere il salto di qualità così necessario al movimento comunista, di fronte alle grandi e gravi possibilità del presente.

Alcuni importanti avvenimenti, oggi, offrono occasioni a questo percorso di maturazione. La sentenza definitiva sul G8 di Genova ha ratificato le condanne più pesanti mai viste, per scontri di piazza. Scontri e attacchi anche rivendicati politicamente da alcuni compagni/e condannati/e. E giustamente, perché il valore e significato di quelle giornate rimangono come un passaggio importante per tutto il movimento di classe. E questo ancor più nella “dialettica” con una repressione che, fra i massacri di piazza e queste condanne, assume veramente i caratteri da guerra di classe preventiva. L’operazione, poi, contro il movimento NO-TAV è entrata nella fase processuale, attorno cui si vede lo sviluppo del dibattito tendere chiaramente verso la tattica di assunzione collettiva di ragioni e pratica di una lotta. E potrà essere un bel banco di prova, data la forza e la portata di interesse generale ormai acquisite da questo movimento.

Certo, ci sono differenze importanti fra repressione contro i movimenti di lotta di massa e quella contro l’organizzazione rivoluzionaria armata. Però, come dicevamo al nostro processo: la guerra di classe esiste e, per ora, è la borghesia che la sta conducendo (a suon di massacri sociali e imperialistici). Il proletariato deve imparare a condurre la propria. Ne fa parte l’affrontare la repressione come guerra di classe. E, combattendo, imparare a combattere!

 

Vincenzo Sisi e Alfredo Davanzo militanti per il PCP-M

 

 

Carcere di Siano, luglio 2012

Chi sono le mele marce? Documento di Vincenzo Sisi, militante per la costituzione del Partito Comunista Politico militare

Ho letto da qualche parte, che tutto nella mia biografia stride con il mitragliatore nell’orto. Si continua a parlare di doppiezza. Da una parte il bravo compagno, il delegato e dall’altra la lotta armata. Non è così, non c’è doppiezza, divisione, tra l’essere un comunista rivoluzionario e stare con la propria gente. Organizzarsi nel sindacato, senza essere d’accordo con la linea dei vertici. Per organizzarsi tra noi lavoratori, nelle forme consentite, ci vuole la tessera sindacale. E, noi lavoratori ci facciamo la tessera! Perché, i lavoratori non hanno il diritto per legge di eleggere la propria rappresentanza nei luoghi di lavoro. Bella la vostra democrazia! Non sarà che vi fa un po’ paura quando i lavoratori si organizzano per conto proprio. Poi, quando alcuni di questi operai, si rendono conto dei limiti delle lotte economiche e dell’inutilità della lotta parlamentare e si organizzano in quanto comunisti, allora la vostra paura cresce. Il vostro potere di controllare e di dominare, imponendo il vostro modello, potrebbe essere messo in discussione. Le persone che da questo sistema hanno solo da rimetterci, pagando i costi del vostro benessere con lo sfruttamento, potrebbero vedere che esiste una alternativa, una cura al vostro mondo di sfruttamento e barbarie. E allora mettete in moto tutta la vostra capacità di manipolare le coscienze e confondendo le idee.

Farci passare per terroristi, criminali pronti a colpire chiunque, nemici della gente, per criminalizzare le nostre idee.

Invece diventa un po’ più difficile criminalizzare le nostre vite. Quelle sono lì, sotto gli occhi di tutti, a dimostrare la nostra coerenza con le idee che portiamo avanti. La nostra internità alla classe sociale di appartenenza. La classe Operaia. Io ho iniziato a lavorare a 14 anni, a 15 ho fatto i libretti, facevo 11 ore al giorno più il sabato. Sono diventato operaio specializzato. Lì c’era il rapporto individuale con il padrone, per il contratto si scioperava in 2, io ed un vecchio comunista. Sono andato in FIAT, lì si lottava, eravamo un problema di ordine pubblico. Disse così Cesare Damiano qualche anno dopo, parlando del contratto metalmeccanici del 79.

Bisognava fare piazza pulita di quella classe operaia, che sfuggiva al controllo, che non si voleva piegare alla politica di sacrifici. E allora fuori! Prima in 61, poi in 23 mila. Con i capi del P.C.I. torinese che organizzavano il tutto, insieme alla FIAT. Schedature, espulsioni e reparti confine. Dopo la cassa sono entrato in Ergom, lì c’era il padrone, o eri con lui o eri contro. Io ero contro, ma facevo bene il mio lavoro ed ero inattaccabile. Fumate improvvise di sostanze irritanti che facevano bruciare gli occhi e venire gli sforzi di vomito. Tutti fuori! Di corsa! Non c’era un aspiratore. C’era chi aveva paura e restava dentro a respirare il fumo con le lacrime agli occhi. Con altri compagni abbiamo costruito il sindacato. All’inizio eravamo 6 iscritti, c’era tanta paura. Il contratto che scadeva e la paura di non essere confermati, i capi che ci tallonavano, a picchettare la bollatrice nei primi scioperi. Poi la vigliaccata del licenziamento e l’offerta di denaro, tanto denaro, per restare fuori. Mi hanno tenuto fuori 3 anni e mezzo. Con il sindacato che non mi voleva, neppure a fare lavoro volontario e gratuito. Oggi dicono che la stima nei miei confronti era trasversale. Per quanto riguarda le operaie e gli operai, la stima è reciproca ed è la sola cosa a cui tengo. Oltre all’affetto per le persone care e per i miei compagni di lotta. A quelle persone con le quali ho condiviso speranze e lotte, voglio dire che non c’è doppiezza nella mia vita e quella dei miei compagni di lotta. Io ero e sono così perché ho cercato e cerco di essere un comunista. Nelle cose di tutti i giorni, nel lavoro e nella lotta. A tutti gli altri voglio dire: Vigliacchi! Come fate a dire che sono un infiltrato tra i lavoratori e nel sindacato. Epifani ha detto che siamo delle mele marce. Lui i tre turni non li ha mai provati, lui è stato messo lì dal sistema di partiti, che hanno svenduto la classe Operaia. Io vengo da una famiglia di operai che hanno pagato la tessera e contribuito a dargli da mangiare, sputando sangue nelle fonderie. Chi è l’infiltrato nella classe Operaia? Chi è la mela marcia tra me e lui. Gli ho sempre detto in faccia quello che pensavo, nei congressi. Il mio sindacato sono i lavoratori! Ho sempre detto nelle discussioni dei direttivi che quello che contava per noi delegati era la capacità di costruire spazi di autonomia nei luoghi di lavoro per stimolare il protagonismo dei lavoratori. Ma per quanto bene fai, resti bloccato dalle compatibilità e dai limiti della lotta economica all’interno dei cancelli della fabbrica. Mentre fuori, lo strapotere dei vertici sindacali, dopo anni di arretramenti e sconfitte imposte ai lavoratori, diventa strumento di controllo sulla classe. Cosa risponde il delegato al compagno di lavoro, incazzato per il suo stipendio di 950 euro al mese? Cosa rispondere alle operaie con i polsi scassati dai ritmi di lavoro, con alle spalle 37 anni di fatica, in fabbrica e nelle famiglie, quando domandano, ma noi quando andiamo in pensione? Cosa rispondo a chi ha 2 figli ed un contratto a termine di 3 mesi. E cosa dire a chi ha lo sfratto e ti fa notare che per le armi il governo i soldi li trova e per fare le case popolari no. Gli rispondo che c’è Rifondazione al governo e che la borghesia di sinistra è meglio di quella di destra. E quando si guarda fuori e vedi che la merce che costa meno di tutte sono i lavoratori. Allora o sei d’accordo o sei contro. O accetti le loro regole e sei complice. O lavori per costruire l’alternativa.

 

Vincenzo Sisi

Militante per la costituzione del Partito Comunista Politico militare

 

2 MARZO 2007

Il tramonto non vincerà mai sull’alba. Documento di Claudio Latino militante per la costruzione del partito comunista politico-militare

Le teste d’uovo della controrivoluzione che hanno orchestrato il blitz del 12 febbraio lo hanno chiamato “Operazione Tramonto”. Nel loro sforzo di “intelligence” voleva essere il contrappunto al giornale “Aurora”, organo di propaganda per la Costruzione del Partito Comunista (politico-militare).

Per quanto si impegnino nello studio la loro ignoranza in cose di rivoluzione resta sempre grande. “Aurora” infatti era il nome della nave da guerra dello zar, di cui si erano appropriati i marinai rivoluzionari, che sparò il colpo di cannone contro il palazzo d’inverno il 7 novembre 1917; il segnale per l’insurrezione proletaria che diede impulso alla rivoluzione russa che portò, per la prima volta nella storia, la classe operaia al potere.

Questa è stata una nuova alba per l’umanità mentre i loro vari tramonti sono stati: lo schiavismo, l’oppressione coloniale, i regimi fascisti e nazisti, le guerre imperialiste mondiali. Tra questi l’esempio “migliore”, il punto più alto raggiunto dalla loro “cultura occidentale”, è sicuramente il buio nucleare che scese dopo il tramonto dei piccoli soli artificiali accesi su Hiroshima e Nagasaki dalla “democratica America”. Ma le nostre teste d’uovo e più ancora i loro padroni “post-comunisti”, diessini e rifondaroli, finalmente giunti a scaldare la sedia di qualche presidenza e di quale ministero, questa storia naturalmente la rimuovono presi come sono dal remunerativo compito di servire gli interessi del grande capitale finanziario e monopolistico. Da tempo hanno abbandonato la giovanile idea socialdemocratica di riformare il sistema dell’oppressione e dello sfruttamento e ora si dedicano con zelo puntellare la sempre più fragile legittimità del capitalismo nella sua fase imperialista. Hanno sposato ormai l’idea reazionaria dell’immutabilità della situazione, fermando la storia all’epoca dell’imperialismo, arrivando nella loro perversa ipocrisia a concepirlo e a propagandarlo come “imperialismo dei diritti umani” che conduce le “guerre umanitarie”.

Hanno però ben presente che questa mistificazione è debole e può reggere solo se nessuno dice, con la teoria e con la pratica, che “il re è nudo”, che la storia precede sulla base delle contraddizioni e della lotta tra le classi e finirà solo nella società senza classi.

Questa debolezza la avevano già ben presente i loro precursori socialdemocratici e guerrafondai Scheidemann e Noske che, dopo aver appoggiato “la grande guerra” il 14 gennaio del 1919 tracciarono la linea provvedendo ad assassinare Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Seguendo la stessa strada gli odierni professionisti della sottomissione di classe, integrati da tempo nella politica borghese, si sono ancora una volta scagliati contro la possibilità della via rivoluzionaria. Dall’alto delle loro cariche istituzionali governative, sindacali hanno plaudito all’operazione repressiva che essi stessi hanno patrocinato con l’obiettivo politico di ribadire l’impossibilità della trasformazione rivoluzionaria del sistema capitalistico attraverso la presa del potere da parte della classe operaia e l’instaurazione di una società socialista.

Questo bubbone opportunista, coltivato dai padroni e oggi ben rappresentato nel loro governo, ha perseguito l’obiettivo sparlando di provocatori infiltrati nella classe operaia, ma per quanto si sia impegnato non è riuscito a nascondere la realtà, il ruolo di delegati e avanguardie di lotta riconosciute dai loro compagni agli operai comunisti arrestati.

Nei fatti hanno così riportato in primo piano l’opzione rivoluzionaria e mostrato qual è la vera e unica opposizione al loro sistema. Questa è la loro debolezza. E la manifestazione concreta di ciò è l’onda di solidarietà che sul piano dell’autonomia di classe si è originata nei nostri confronti.

 

“La lotta contro l’imperialismo se non è indissolubilmente legata alla lotta contro l’opportunismo è una frase vuota e falsa”. (Lenin; L’Imperialismo).

Questi “post-comunisti” traditori ripetono come pappagalli il verbo dei loro padroni; sul dio mercato, sull’internazionalizzazione del capitale che darà pace e progresso ai popoli, con l’intento di nascondere l’esistenza della lotta feroce tra i gruppi monopolisti e il suo reale contenuto, cioè la spartizione del mondo.

La loro parte “radicale” mistifica considerando l’imperialismo solo come politiche aggressive e non come la natura stessa del capitale finanziario, dell’oligarchia dei monopoli e delle multinazionali che governa il mondo. Vendono la menzogna che sarebbero possibili altre politiche che, sempre sulla base del capitale finanziario un “altro mondo sarebbe possibile”. Altri più radicali ancora teorizzano l’ultra imperialismo, il superimperialismo onnipotente del capitale finanziario mondialmente coalizzato, l’impero unico che domina sulla moltitudine coltivando così la subalternità all’onnipotenza e nascondendo le contraddizioni che alimentano la tendenza alla guerra.

Ma la realtà delle cose è sempre più evidente, i fatti come sempre hanno la testa dura. Il mondo è dominato da oligarchie finanziarie e monopoliste che, attraverso reti di relazioni di dipendenza, dirigono tutte le istituzioni economiche e politiche delle società borghesi. Monopoli privati e statali intrecciati tra di loro che sono sorti dall’elevato stadio della concentrazione della produzione raggiunto dal capitalismo più avanzato. Sono nati dalla politica coloniale, hanno perseguito l’accaparramento delle principali fonti di materie prime, si sono espansi con la lotta per l’esportazione di capitali e la conquista delle sfere di influenza. Questo loro sviluppo ha già portato a due guerre mondiali e ora ne sta preparando una terza. Infatti lo sviluppo ineguale che contraddistingue il capitalismo li condanna a scontrarsi per nuove ripartizioni con conseguenza sempre più devastanti. Tutte le alleanze imperialiste nascono da una guerra e ne preparano un’altra.

 

Cronache della terza guerra mondiale

I gruppi monopolisti lottano di nuovo per spartirsi il mondo non per semplice malvagità, ma perché ne sono costretti; perché lo sviluppo capitalistico e la sua crisi li costringe a questo per continuare a ottenere profitti sempre maggiori. L’obiettivo diretto sono sempre le aree dominate del tricontinente (Asia, Africa, America Latina) da poter sfruttare con i vantaggi esclusivi del monopolio.

I dati attuali di questo scontro sono il contrasto tra le “vecchie” potenze e quelle “emergenti” e la prosecuzione della politica imperialista USA e Occidentale sulle due direttrici consolidatesi negli ultimi decenni: lo sfondamento ad est verso i territori ex sovietici e la ricolonizzazione verso il sud del mondo. Lungo queste due direttrici prende corpo la tendenza a la guerra. “La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, con mezzi militari” (Von Clausewitz).

La fase della nuova rispartizione si è aperta con il crollo dei regimi revisionisti che avevano preso piede nei paesi socialisti interrompendo il processo di costruzione del socialismo. Gli imperialisti USA hanno chiamato questa spartizione costruzione del “nuovo ordine mondiale”. Il contesto è quello della crisi generale di sovrapproduzione e della conseguente stagnazione delle economie delle vecchie potenze USA in testa.

Il nuovo ordine mondiale si articola in nuova area balcanica, nuovo medio oriente, nuova Asia centrale. Tutte aree in cui l’imperialismo USA e il suo sistema di alleanze impone per mezzo di guerre di aggressione, una vera e propria ricolonizzazione con occupazioni militari allestimento di basi strategiche, bombardamenti, stragi e massacri. Vengono principalmente messi sotto tiro quelli stati che tendono a sottrarsi alla condizione semicoloniale perseguendo linee di sviluppo “autocentrato”, libero da vincoli imposti dall’imperialismo dominante. E tra questi in particolare quelli che dispongono di ampie riserve di materie prime strategiche o che “godono” di una buona posizione strategica in funzione del controllo dei flussi o in relazione a contrasti interimperialisti sulle sfere di influenza.

Gli imperialisti USA, con il regime coloniale sionista loro alleato vogliono mettere le mani sull’intero medioriente (Iraq, Iran, Siria, Palestina, Libano) per rafforzare il loro controllo sul mercato mondiale del petrolio e usarlo come coltello puntato alla gola delle economie loro concorrenti strategiche che non sono autosufficienti (UE, Cina, India). Si insediano in Asia centrale (Afganistan, Georgia, Kirghisistan) per costruire una testa di ponte strategica contro Russia e Cina e per mettere le mani sulle enormi risorse petrolifere stimate nella regione. Dentro a questo sviluppo guerrafondaio l’episodio dell’11 settembre è in genere la lotta condotta da Al Qaeda rappresentano il tentativo di una parte della borghesia araba, in particolare Saudita e Egiziana di reagire rivendicando a proprio esclusivo vantaggio lo sfruttamento del proprio proletariato e delle risorse presenti sui propri territori sottraendoli al vincolo semicoloniale imposto dagli USA. Lo dice chiaro e tondo Khaled (prigioniero torturato nelle carceri segrete della CIA) quando definisce la loro lotta indipendentista e paragona Bin Laden a George Washington.

A fare maggiormente le spese della guerra come al solito sono le masse delle nazioni oppresse costrette anche nelle spirali degli odi feroci scatenati ad arte dalle nuove versioni della politica del “divide et impera”, del mettere masse contro masse, unica politica applicata dagli imperialisti per cercare di contenere gli indubbi successi della resistenza popolare armata contro l’occupazione militare. Si perché il resto più che politica è pura mistificazione, la frottola della “guerra umanitaria” condotta dalle “forze di pace” con il compito della “ricostruzione”. Ma la cruda realtà delle condizioni di vita dei popoli sottoposti a questo trattamento dopo diversi anni di “impegno” delle forze imperialiste, come in Afghanistan e in Iraq provvede a smascherare l’ipocrisia e la falsità.

Comunque la propaganda imperialista non demorde e utilizza con la massima spudoratezza tutto; dai “diritti umani”, alla “libertà di culto”, ai diritti delle donne. Una chicca è la dichiarazione del ministro degli esteri D’Alema sui Talebani che, oltre a lapidare le adultere, squartavano i comunisti. Quello che però non dice è che erano stati allevati dagli americani proprio per fare quello sporco lavoro, salvo poi, come i vari Bin Laden o Saddam Hussein, diventare nemici per la semplice ragione che non corrispondevano più a successivi piani predisposti per la nuova spartizione del mondo. Un ottimo esempio di produttività imperialista nel campo della propaganda; per legittimare la loro guerra di aggressione usano il pretesto delle aberrazioni reazionarie degli stessi regimi reazionari che avevano messo in piedi in precedenza.

Che le loro mire però siano più ampie dei singoli conflitti lo svelano episodi trattati fino ad ora sottotono, come lo schieramento di un nuovo sistema antimissile in Polonia, ridicolmente giustificato con la necessità di difendere l’Europa occidentale nientemeno che da missili nucleari iraniani. A parte l’idiozia geografica la dice lunga sulla reale natura di questa iniziativa la reazione russa, che in contrapposizione denuncia i vecchi trattati e minaccia di dotarsi di nuovi e più adeguati armamenti.

C’è poi tutta la ricerca e la sperimentazione di nuove armi da parte americana come: le cluster bomb, i raggi della morte, le bombe al fosforo, quelle a pressione, per finire con i satelliti killer e le “mini” bombe atomiche. Un armamentario di nuova generazione che va ben oltre le “necessità” derivate dall’occupazione militare e dall’oppressione di singoli popoli ribelli e che apre la porta alla prospettiva concreta di conflitti interimperialisti da condurre al di sotto della soglia deterrente dell’olocausto nucleare, della distruzione completa del pianeta. D’altronde anche durante la secondo guerra mondiale fu usato di tutto ma non fu mai usata l’arma chimica per il semplice fatto che avrebbe potuto essere usata in maniera devastante anche dall’avversario (fu usata solo segretamente nei campi di sterminio nazisti).

Le nuove armi vengono sperimentate sul campo dei conflitti già in corso come è accaduto sicuramente a Fallujia o in Libano allo stesso modo di come era successo nella guerra civile spagnola per quelle poi usate nella seconda guerra mondiale. È un processo inevitabile, non tanto per il carattere soggettivamente criminale che contraddistingue la borghesia imperialista ma perché oggettivamente nell’ambito del loro sistema la guerra è l’unico mezzo che gli imperialisti hanno per registrare nuovi rapporti di forza, contendersi e spartirsi le sfere di influenza (colonie e semicolonie) e scaricare su altri il costo della crisi di sovrapproduzione. Ma la storia ha già dimostrato che “o la rivoluzione impedisce la guerra o la guerra scatenerà la rivoluzione” (Mao Tze-Tung). E la resistenza armata dei popoli ne indica fin da ora la concreta possibilità.

Sul fronte interno i nostri professionisti della sottomissione oggi al governo hanno sudato e sbuffato per approvare gli attuali crediti di guerra, il finanziamento delle “missioni di pace”, per poter poi mendicare ai loro padroni USA le briciole del bottino della nuova spartizione. Ormai i democratici, i progressisti, i sinistri radicali, i pacifisti non scendono più solo ai compromessi ma fanno pienamente e direttamente la politica dei padroni, la politica del grande capitale. Dopo che si è persa da tempo qualsiasi illusione sul riformismo è stato rovesciato lo stesso concetto di riforma e quella che era l’utopia della trasformazione graduale in senso egualitario dà invece il nome ad un perverso meccanismo di revisione normativa che facilita l’affermazione degli interessi del capitale finanziario e monopolista. Riforma del mercato del lavoro vuol dire precarizzazione legalizzata e liberalizzazione dello sfruttamento, riforma delle pensioni vuol dire allungamento dell’età lavorativa e quindi aumento dello sfruttamento nell’arco della vita, riforma del TFR vuol dire trasferimento di risorse economiche dei lavoratori a banche, assicurazioni e finanziarie. Ma non solo, anche le altre “riforme” che vanno a colpire i cosiddetti interessi corporativi a vantaggio dei cosiddetti consumatori, come nel caso di tassisti, benzinai, e bottegai in genere altro non sono che restringimenti della fascia delle piccole attività a vantaggio della grande impresa di distribuzione o di servizi. Questo utilizzo della parola “riforma” è la più chiara manifestazione della putrefazione del riformismo. E con essa della fine della rappresentanza politiche istituzionale della classe operaia. D’altronde la base materiale del riformismo si era storicamente determinata con l’ampliamento della fascia concorrenziale, con la promozione di strati di proletariato al “ceto medie”, con l’innalzamento economico delle condizione della classe operaia ottenuto con la lotta sindacale. Tutte cose che oggi sono ampiamente contraddette dall’andamento della crisi generale del sistema e dalle misure ferocemente antiproletarie e antipopolari che la classe dirigente borghese prende per farvi fronte.

Con la morte del riformismo è stata seppellita anche l’illusione di democrazia; i famosi “spazi democratici”, eredità della vittoria della resistenza sul nazi-fascismo, cristallizzati dalla costituzione la cui riscrittura materiale oggi recita che la repubblica è fondata sullo sfruttamento selvaggio del lavoro precario, nero e immigrato e che la “guerra umanitaria” è ammessa come metodo valido per dirimere le “controversie internazionali”.

Che il vuoto formalismo della democrazia imperialista sia la “migliore” dittatura di classe per la borghesia, nella fase dell’imperialismo, i proletari lo hanno imparato da tempo e oggi lo trovano confermato in ogni decisione presa sulla loro pelle dagli apparati politico-burocratico- amministrativi ad esclusivo vantaggio del grande capitale e dei sui apparati militar-industriali come nel caso della “TAV” o di Dal Molinimposte “democraticamente” sulla testa delle popolazioni residenti o in quello delle “missione di pace” sulla testa di iracheni, afgani o libanesi contro la maggioranza degli italiani. D’altronde nel quadro atlantico fu addirittura imposto lo status di “sovranità limitata” del nostro paese, sottomesso ancora dopo più di sessanta anni dalla fine della seconda guerra mondiale, a servitù militari da parte degli USA per non parlare dei “correttivi” della dinamica politico-istituzionale operati a botta di stragi contro il proletariato e le masse popolari, da Portella della Ginestra nel ‘47 a quella tra il ’69 e ‘87 centinaia di morti innocenti di cui sono direttamente responsabili gli apparati clandestini dello stato, diretti dai loro padroni USA, su cui con la complicità dei “sinceri democratici” e delle diverse specie di post-comunisti e sceso un “pietoso” velo di silenzio in onore dell’impunità imperialista.

Lor signori, i padroni non possono certo dare lezione di democrazia.

La via democratica per la trasformazione non è mai esistita nella fase imperialista. A fare ulteriore chiarezza aveva già provveduto anche il colpe in Cile da cui i Berlingueriani hanno tratto la “giusta” lezione che senza il consenso della frazione dominante della borghesia imperialista non si può andare “al potere” con la via parlamentare anche avendo la maggioranza elettorale. Da questo insegnamento molto “democratico” hanno tratto quindi la “coraggiosa” decisione di scendere a compromessi, il compromesso storico, chiudendo così la loro parabola opportunista di svenditori degli interessi di classe.

Noi, forti dell’esperienza storica del Movimento Comunista Internazionale abbiamo tratto altro. In primo luogo la storia della lotta tra le classi, questo non può essere negato o nascosto, in questa lotta o si sta da una parte o si sta dall’altra. E questo è ancor più chiaro oggi quando la crisi generale di sovrapproduzione spinge le formazioni sociali imperialiste alla guerra. Come conseguenza di questa lotta di classe la trasformazione della società non è mai stata un processo graduale. E sempre stato invece un processo caratterizzato delle rotture e dai salti. La classe che ha il potere non lo cede mai democraticamente ma sempre attraverso processi rivoluzionari che distruggono vecchi rapporti politici di dominazione e istaurano un nuovo potere.

Quello che oggi è all’ordine del giorno è il superamento del modo capitalistico di produrre e del suo sistema sociale e la costruzione di una società socialista attraverso la rivoluzione e la dittatura del proletariato. Questa tendenza risiede nelle contraddizioni oggettive sempre più acute dell’economia capitalista e nella coscienza soggettiva della classe operaia della necessità della sua soppressione e superamento attraverso la rivoluzione. Un processo che non è indolore, ma segnato da insurrezioni, guerre civili, guerre di liberazione, guerre popolari prolungate. Questa è la storia e questa è la realtà anche dei nostri giorni. L’emancipazione della classe operaia internazionale, delle masse popolari e delle nazioni oppresse passa necessariamente per la via obbligata della rivoluzione. Prima che un dato soggettivo è fondamentalmente un dato oggettivo. Sempre più la putrefazione dell’imperialismo ci porta al margine della storia: “o comunismo o barbarie” (Marx). Che gli imperialisti facciano il tifo per la barbarie è un dato ormai fin troppo chiaro; lo dicono anche espressamente quando ripetutamente minacciano di riportare all’età della pietra l’economia dei cosiddetti stati canaglia. D’altra parte le zone “bonificate” dai loro “coraggiosi” bombardamenti, lasciate senza luce elettrica e senza acqua potabile, dove il massacro è la regola, ne sono la migliore testimonianza. Come ne sono testimonianza le condizioni bestiale che vigono nelle zone industriali del tricontinente, veri e propri campi di concentramento dove l’unica libertà in vigore è la libertà assoluta di sfruttamento e dove imperversano le squadre della morte del capitale come nel caso di Ciudad Juarez al confine tra Messico e USA con centinaia di giovani operaie delle maquilladores (fabbriche manifatturiere) sequestrate e massacrate negli ultimi anni.

Per la parte nostra, per i comunisti, il compito di indicare e tracciare la via rivoluzionaria , la via della rivoluzione proletaria. In questo non partiamo da zero. Possiamo contare sul patrimonio rappresentato dall’esperienza concreta del Movimento Comunista Internazionale che ha le sue radici storiche nella comune di Parigi e nella rivoluzione d’ottobre e che nel nostro paese, dopo il biennio rosso e la resistenza riprende con la lotta per il potere delle esperienze rivoluzionarie dai primi anni ’70.

 

Un’esperienza ricca che ci insegna che la vittoria è possibile, lo è già stata storicamente, e che indica la strategia della guerra popolare prolungata come universalmente valida per le classi e i popoli oppressi nella fase imperialista.

Il compito oggi principalmente per noi è la costruzione del partito comunista. Il partito della classe operaia, la sua avanguardia politica organizzata per la lotta per il potere, a questo stadio dello sviluppo e della crisi del modo di produzione capitalistico e delle condizioni generali dello scontro di classe che ne consegue non può essere altro che un partito rivoluzionario caratterizzato dall’unità del politico-militare.

L’emancipazione sociale della classe operaia e la sua autonomia politica da tempo non sono più rappresentate all’interno delle istituzioni della cosiddetta democrazia borghese, non possono più esserlo e lo sanno bene anche tutti i vari post-comunisti, i vecchi e nuovi revisionisti che oggi si guardano bene da utilizzare gli stessi termini di classe operaia e proletariato. Quindi se la classe operaia vorrà avere un suo partito sarà un partito rivoluzionario e nessuna operazione di controrivoluzione preventiva lo potrà impedire.

 

Costruire il partito comunista della classe operaia! Utilizzare la difesa per organizzare l’attacco!

Costruire il fronte popolare contro la guerra imperialista!

Morte all’imperialismo libertà ai popoli!

 

 

Latino Claudio

Militante per la costruzione del partito comunista politico-militare

 

1 maggio 07