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La “campana” non addomesticata dal carcere speciale di Voghera

Dopo aver visto in TV la “manifestazione teatrale” (è il caso di dirlo subito, nauseante!) presentata con grande ufficialità dall’amministrazione carceraria di Voghera che ha tirato fuori i suoi “gioielli di famiglia” in occasione del “santo Natale”, non ci possiamo esimere dal prendere la parola per dire la nostra a proposito del cosiddetto “Collettivo verde” e più in generale per quanto riguarda funzionalità e funzioni di questo “lazzaretto”. Lazzaretto considerato il “fiore all’occhiello” del ministero carcerario italiano sia per le sue strutture razionate in ingabbiamenti a compartimento stagno, sia per l’alta tecnologia elettronica centralizzata in stile americano e della quale si è dibattuto a lungo negli anni della sua inaugurazione.

Non era certo nostra intenzione polemizzare e/o tanto meno raccontare le reali contraddizioni che caratterizzano la gestione ed il trattamento in questo carcere, per il semplice fatto che diamo per scontato che all’esterno si conoscono e perché non sono la contraddizione principale del momento, esistendo situazioni peggiori come l’Asinara e Pianosa. Inoltre, non siamo interessati all’abbellimento delle galere con l’infioritura delle finestre per nascondere le sbarre, e tanto meno all’infiocchettatura delle pareti in “rosa” per addolcire il grigiore delle celle, in quanto restiamo fortemente convinti che le più belle galere sono quelle che si riuscirà a radere al suolo!

Ed invece, vista la “maestosità” e lo “sfarzo” in tutta la sua falsità che hanno rappresentato per l’“opinione pubblica” attraverso il Tg 3 regionale, e naturalmente grazie alla bontà dei suoi operatori attenti all’informazione spettacolo e di regime, ci preme dire la nostra verità per informare la moltitudine dei detenuti (e non detenuti!) che stanno ancora al di qua delle sbarre e delle reti alle finestre in quanto non si sono svenduti la loro identità ai dispensatori di “permessi premio”, delle “libertà da condizione”, degli “arresti a domicilio” ed altre truffe del genere che tutti conosciamo.

Ed allora, abbiamo preso la parola per far sapere a tutti che la realtà del funzionamento e trattamento dei prigionieri nel carcere di Voghera non è quella mandata in onda per più telegiornali dai solerti giornalisti del Tg 3 e raccontata col sorriso sornione da amministratori ed ex malavitosi rinsaviti…

E ci spieghiamo meglio.

  1. Il carcere di Voghera, dopo la riconversione in carcere maschile avvenuta negli anni scorsi, ha assunto l’immagine del “carcere di massima deterrenza” sia del circuito delle “carceri speciali” sia per le “normali”.
    Il primo periodo della sua “inaugurazione”, infatti, è stato molto “duro”. In pratica hanno rispettato la consegna che vuole l’uso del bastone all’apertura di un nuovo carcere, si sa bene a quale scopo… Fatto sta che i detenuti sono stati costretti a scendere in lotta facendo più di uno sciopero della fame per denunciare l’infame trattamento del tutto gratuito.
    Poi cominciarono le “visite” dei soliti politicanti garantisti del sistema e, tra un’“interrogazione” e l’altra al Ministro delle galere di turno, le violenze e le provocazioni finirono e il trattamento rientrò nella norma generale.
  1. Con la normalizzazione del trattamento si cominciarono ad aprire degli spazi di socialità interna, anche tra le sezioni, e questa mobilità si prestò al gioco di quello che poi si vedrà.
    Tra le varie iniziative che si prospettano fattibili alla direzione, viene fuori quella dell’Opera teatrale alla quale si dà credito. In poco tempo maturano le condizioni e si va a costituire un gruppo ampio di detenuti che si divertono a giocare a fare gli attori. Naturalmente la finalità della maggior parte di loro è quella di divertirsi contribuendo in questo modo ad allentare ulteriormente le tensioni, aprire ulteriori spazi di vivibilità, sfruttando naturalmente questi per i propri fini, ossia per cercare di ottenere quei “benefici di legge” promessi dalla magnanima “Riforma carceraria” del Gozzini. Ma ben presto le pie illusioni dei più si scontrano con quelle dei pochi che mirano più in “alto”…
  1. Come succede nelle “migliori galere”, c’è stato il solito gruppetto degli “attori veri”, i “più intelligenti e furbi”, che fa le sue “fughe in avanti”, socializza maggiormente col nemico credendo forse di “farlo fesso” usandolo per raggiungere i propri egoistici fini, senza capire, forse (?), che sta cascando nella trappola dei topi tesa da “marpioni” ben più furbi di loro… È un “giochetto” che in questi anni si è ripetuto spesso.
    Questo gruppetto sarebbero poi i “gioielli di famiglia” presentati a “Natale” come trofeo dalla Direzione di Voghera attraverso il Tg 3.
  1. È in questo contesto che viene creato il “Collettivo Verde”.
    Nella fase preparatoria le riunioni col personale civile e militare del carcere, come è facile immaginare, si intensificano. Intanto avviene la rottura con gli altri detenuti che non sono d’accordo di passare al di là del “guado”. Essi stilano documenti da far circolare nell’ambito del carcere cercando di mascherare con le parole ciò che avviene nei fatti. Ma trovano ben poche adesioni. Non gli resta che contarsi: non sono che una decina.
    Una volta contatisi e preso atto dell’opposizione della stragrande maggioranza dei detenuti all’iniziativa “verde”, non gli resta che chiedere di andare via dalla sezione speciale in quanto potrebbe diventare un rischio restare. Le riunioni con la Direzione e le massime autorità ministeriali sono all’ordine del giorno. Amato in persona gestisce l’operazione e ne cura i rapporti con i “personaggi” più rappresentativi. Sarà lui stesso ad illustrare alla stampa ed in TV i particolari della costituzione del “Collettivo Verde” e di quelle che sono le ragioni, i fini che si erano proposti. Sarà sempre lui a presentare all’“opinione pubblica” i “super-ergastolani, i super-killer, i super-irriducibili delle carceri”, ravveduti…
    Nel frattempo, una volta provata la loro fede al “nemico di una volta”, erano stati trasferiti dal Reparto Speciale in un’altra costruzione distaccata dal complesso, denominata la “casermetta”, poiché ne ha tutte le caratteristiche strutturali, tecniche ed organiche.
  1. A questo punto il “Ministero” dovrà dimostrare la sua buona volontà di dare fiducia agli affidabili. È ancora Amato a prendersi la responsabilità di dare ai suoi “gioielli” il massimo della credibilità. Così, in poco tempo, per dimostrare che fa sul serio, lanciando allo stesso tempo un messaggio a quanti sono rimasti al di qua se vogliono seguirli in quella strada, comincia a mandarli in “permesso” e, puntualmente, essi rientrano allo scadere del termine. Non ci può essere migliore dimostrazione della fedeltà verso l’“istituzione” e viceversa.
    C’è stata solo una piccola “macchia” all’inizio che ha rischiato di compromettere tutto. Infatti, un detenuto che non era nessun “personaggio”, per delle ragioni sue è mancato di qualche ora al rientro stabilito. Forse aveva perso un treno, visto che poi è rientrato e quindi non c’era la volontà di darsi alla latitanza. Ebbene, per questo poveraccio è stata la sua definitiva rovina! Oltre alla normale denuncia penale per il ritardo, come è tornato in “caserma” è stato letteralmente massacrato di botte dai suoi già ex soci e non dalle guardie come magari si poteva temere. Immediatamente è stato trasferito in un altro carcere speciale, per scontare le sue “colpe” ma più che altro per veicolare il messaggio del papà Amato che chi “manca” alla sua parola di “uomo d’onore” non avrà scampo! La sua vendetta, stando alle voci di chi l’ha conosciuto, pare sia un “piatto” che non si raffredda più.
  1. Da questa “area verde” di Voghera, vengono continuamente inviati messaggi in tutte le direzioni: in carcere alla ricerca di sottoscrittori dei loro programmi di abbrutimento, e fuori verso un’ “opinione pubblica” distratta dalla “disinformazione” perché li accolga a braccia aperte in quanto “personaggi ravveduti” e affidabili che il “carcere duro” ha educato…
    Ma nonostante ciò i sottoscrittori dei loro programmi di abbrutimento, stando ai numeri, sono pochi. Infatti, da quello che ci risulta, sono gli stessi più o meno di quando sono partiti. Ai soci fondatori se ne sono aggiunti un paio. Ma visto che non sono anonimi al pubblico riportiamo per esteso i loro nomi, certi di non commettere nessuna infamità. Questi sono: Andraus Vincenzo, Santo Tucci, Dirisio Claudio, Lattanzio Davide, Lattanzio Daniele, Russo Andrea, Rivellini Franco, Rossi Tonino, Sulas Roberto.
    Facciamo presente che insieme a questi, nella “casermetta”, ci hanno messo due combattenti rivoluzionari arabo-palestinesi i quali non hanno nulla da spartire con i programmi dei sopra citati personaggi e di Amato. I palestinesi sono stati assegnati d’ufficio dalla Direzione Generale di Roma filo-israeliana e sionista, per mantenerli isolati dai loro compagni e non farli comunicare tra di loro; per farli inoltre controllare da vicino da personale affidato, cercare di corromperli e farli arrendere, rinnegando la loro gloriosa causa rivoluzionaria contro il sionismo israeliano.
  1. Riepilogando per la cronaca, diciamo che questi signori del “Collettivo Verde” di Voghera vanno regolarmente in vacanza a casa, lavorano all’interno e all’esterno del carcere in quanto sconsegnati, si autogestiscono la carcerazione, hanno cucina, lavanderia ecc. autogestita, sono aperti dalla mattina alla sera in sezione, fanno i colloqui con i familiari in sala da pranzo, una volta la settimana si riuniscono con il personale civile e militare del carcere per discutere i “fatti degli altri”…
    Questi sono i “bravi” detenuti del carcere di Voghera per i quali c’è tutto.
    Dall’altra parte ci sono i “cattivi” detenuti del carcere di Voghera per i quali c’è solo la loro dignità.
  1. Noi, considerati i “cattivi” detenuti di Voghera, siamo divisi su tre sezioni speciali autonome. In pratica tre piccole carceri.
    Abbiamo il rigoroso divieto d’incontro con i detenuti delle altre sezioni, nonostante tra di noi non abbiamo avuto alcun motivo per non poterci incontrare. Ora le sezioni si moltiplicheranno. Infatti sono cominciati i lavori per dividere a metà ogni sezione in quanto da una parte ci dovranno stare i detenuti sottoposti all’art. 41 bis, e dall’altra chi ancora sta in lista d’attesa. Infatti ci vuole ben poco per essere classificati “ultrapericolosi”.
  1. Ogni sezione è composta da oltre 20 celle ma i detenuti sono circa una decina per sezione di cui la metà colpiti dal 41 bis.
    Questi detenuti con l’“aggravante” sono diventati “ultrapericolosi” dalla mattina alla sera. Per decreto! Senza che sia successo nulla che potesse giustificare un provvedimento repressivo del genere. Dalla mattina alla sera sono stati privati di tutto! Dal fornellino per riscaldarsi un bicchiere di latte ai colloqui con i familiari, alle telefonate mensili, alle ore d’aria, alla socialità. Quello che non è stato tolto definitivamente, è stato ridotto a metà. Mentre ai non interessati dal 41 bis è stato lasciato quel poco che avevano, e il tutto stando a pochi metri di distanza gli uni dagli altri. Infatti sono stati spostati solo all’altra estremità della sezione, però a noi è stato severamente vietato di passare loro anche solo un caffè. Questa è la vera strategia dell’individualizzazione del trattamento ideata da Amato e dai suoi soci.
  1. Con i prigionieri delle altre sezioni, se prima vi era la possibilità di incontrarsi in chiesa ed al campo sportivo per fare delle partite, possibilità raggiunte nel tempo, ora è stato definitivamente tolto tutto. Senza che sia successo nulla, lo ripetiamo.
    Però in questo carcere vige l’ideologia del “trescare”! Il sistema del controllo capillare del detenuto è fondato sul principio della costruzione delle “tresche”… Infatti, i divieti d’incontro tra soggetti che non hanno alcun motivo per essere privati dall’incontrarsi regolarmente, fanno nascere i sospetti che poi loro stessi, i dirigenti, alimentano, mettendo gli uni contro gli altri, alimentando voci di corridoio, distorcendo la realtà a piacimento di chi trama le tresche da dietro le quinte.
  1. Tra la primavera e l’estate ’92 è stata sostituita tutta la dirigenza. Dopo un lungo periodo di tergiversazioni dirigenziali, sono finalmente arrivati un direttore e un maresciallo comandante, che si dice siano definitivi, assegnati a questo carcere. Per un lungo periodo, tra l’inverno e la primavera, c’erano state delle “inchieste ministeriali” per accertare non si è capito bene quali infrazioni da parte della dirigenza precedente. Inchieste che hanno portato appunto alla sostituzione del personale dirigente.
    Questa nuova dirigenza, non appena insediata, ha cominciato a ritagliare degli spazi di vivibilità che si erano raggiunti con la gestione precedente e nel corso degli anni. Questa è stata la dimostrazione logica che il nuovo che hanno portato è quello di ritornare indietro al trattamento punitivo del periodo dell’apertura, come già detto. Il tutto è stato fatto per gradi, quasi temendo di disturbare la “quiete” dei detenuti. Ma nei fatti nessuno s’è meravigliato più di tanto finora. Però in futuro non si può garantire la stessa quiete, perché le misure restrittive stanno creando problemi ai familiari nei giorni del colloquio in quanto li stanno facendo aspettare fuori dai cancelli anche delle ore perché mancano le strutture necessarie per svolgere il servizio come lo intende la nuova dirigenza. Perciò, se il tutto rientra nella mentalità del “provocare” gratuitamente i familiari, è certo che non ci staremo.
  1. Altra contraddizione che vogliamo sottolineare è che nelle sezioni dei “cattivi” ci sono una gran parte di detenuti che stanno differenziati per motivi ridicoli e senza nessuna pericolosità oggettiva. Sono dei detenuti certamente antagonisti, che nelle carceri “normali” hanno lottato per avere il diritto alla saponetta, il diritto di mangiare cibi mangiabili, di avere l’assistenza medica ecc. ecc. Per punizione contro le loro legittime richieste sono stati mandati al carcere di massima deterrenza di Voghera.
    Altri ce ne sono che sono anni che si fanno la loro galera, che non hanno denunce né rapporti di punizione, che hanno pene irrisorie da scontare, eppure non vengono declassificati come si dovrebbe. Ci si chiede a chi giova mantenere fermo questo stato di cose.
    L’altro fatto giusto da denunciare, ma che rientra nella mentalità tragediografa vogherese, è il comportamento padronale del personale civile preposto alla cosiddetta “assistenza sociale”, che occupa il tempo con i “buoni” e non si preoccupa minimamente di chiamare anche quella parte dei “cattivi” che non hanno rinunciato alla libertà e che sono nelle condizioni di poter usufruire dei “benefici di legge”, che spettano a chi ha le carte in regola pur non essendo infame e/o confidente della direzione ecc.
    Queste figure, pur presenti nel carcere, svolgono un ruolo di supporto degli ideologi del “trescare”.
    Per curiosità bisognerebbe sapere anche cosa scriveranno nelle cartelle biografiche di ciascun detenuto quando le presentano per esempio al magistrato di sorveglianza, al ministero, ai carabinieri, ecc. ecc., per descrivere la personalità del detenuto “cattivo”… Con questo naturalmente non si pretende di diventare “buoni” alla maniera dei “verdi”, ma al contrario si vuole scoprire il marcio che c’è al carcere di Voghera per evitare di esserne contagiati.

Un gruppo di detenuti del carcere speciale di Voghera

Voghera, 1992

«In una società in cui sussistono le classi, la lotta di classe non può finire»

Documento di Carla Biano allegato agli atti del processo in Corte d’Assise d’Appello di Firenze

Come militante rivoluzionaria prigioniera, intendo ribadire il mio rapporto con questa “giustizia”, espressione del potere della borghesia e, nel contempo, riaffermare il carattere della prassi rivoluzionaria.

Questa posizione quindi non può che rispecchiare il rapporto esistente tra il proletariato e la guerriglia nei confronti dello Stato. Guerriglia che in Italia, nel processo rivoluzionario condotto dalle Brigate Rosse, fa del piano classe/Stato e del piano internazionale inserito nella proposta di costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, i due ambiti di intervento su cui agire, in stretta dialettica con le istanze proletarie e rivoluzionarie volte all’abbattimento di questo stato di cose.

Ogni singolo paese della catena imperialista ha caratteristiche, contraddizioni, dinamiche politiche proprie pur mantenendo una politica conforme ai dettami ed alla logica imperialisti.

L’Italia è parte integrante del progetto imperialista di dominio globale; progetto nel quale l’Europa, centro della ridefinizione degli equilibri internazionali, si colloca come protagonista con un sistema politico, economico e militare nuovi. Per essere parte attiva ed inserito a pieno titolo nelle nuove dinamiche internazionali che tendono alla ridefinizione del “Nuovo Ordine Mondiale”, lo Stato italiano necessita di far fronte ad una forte crisi interna; crisi che scarica i pesanti costi economici e sociali sul proletariato.

L’accordo sul costo del lavoro del 31 luglio siglato da governo, sindacati e confindustria con cui si sanciva la soppressione della scala mobile, il blocco della contrattazione aziendale e dei contratti del pubblico impiego, fino ad arrivare all’estesa manovra economica con i tagli alla sanità, alle pensioni, all’occupazione, al diritto allo studio, ai servizi, ecc., sono il prezzo che lo Stato imperialista impone per cercare di uscire da una forte crisi interna, di carattere economico e politico, e di integrarsi nel sistema politico, economico europeo.

Ai costi della crisi, agli effetti della riforma dei poteri dello Stato, fa fronte un’ampia resistenza operaia e proletaria, un’ampia conflittualità politica e sociale che si esprime con forme di lotta e di organizzazione che attraversano molteplici settori di classe; lotte che sono qualificate da una forte critica ai sindacati di regime che hanno perso ogni credibilità e legittimità da parte dei lavoratori.

Le espressioni di forte preoccupazione con cui il governo è attento al montare delle mobilitazioni, sono la necessità e la pretesa di reprimere e frenare preventivamente l’esplosione, l’espandersi di un conflitto sociale causato dalle politiche forcaiole della borghesia tendenti ad operare una pacificazione forzata e ad imbavagliare le tensioni politiche e sociali che si producono, con interventi orientati all’azzeramento delle precedenti conquiste operaie e proletarie frutto di vent’anni di lotte, dentro un clima di criminalizzazione diffuso e di attacco alle lotte. Da qui l’attacco e la criminalizzazione di qualsiasi forma di antagonismo all’operato del governo, che interviene con metodi terroristici contro i processi di aggregazione autonoma, tentando di risolvere i problemi posti dalla crisi attraverso intimidazioni, all’interno di un attacco ampio che si avvale di metodi di controguerriglia come tattica preventiva per sgonfiare, scomporre il montare delle istanze di lotta, puntando a racchiudere, trattenere le istanze antagoniste che si producono sul campo proletario.

In sintesi, gli apparati dello Stato pongono in essere il piano antiguerriglia capovolgendolo, rivolgendolo sull’intero campo proletario ed antagonista, con finalità di deterrenza e criminalizzazione di ogni antagonismo. In questo contesto va inserita la campagna contro la criminalità, dalla militarizzazione del territorio, alla riapertura di Pianosa e dell’Asinara, ai trasferimenti di numerosi prigionieri nei carceri a circuito speciale, al liberticida “decreto antimafia”. Tutto per oscurare, nascondere la vera campagna criminale, cioè quella che sta portando avanti l’esecutivo contro la classe: precettazioni, blitz militari nelle università, negazione del diritto di sciopero, chiusura di spazi di agibilità fisici e politici, ecc.

Viene usato ogni mezzo per convergere, far rifluire il movimento di classe nell’associazione delle rappresentanze istituzionali, con strumenti che vertono sia al contenimento, ingabbiamento delle spinte della lotta di classe, sia al loro convogliamento nei meccanismi della democrazia rappresentativa.

In tutto ciò si sente sempre più la necessità di consolidare e rafforzare l’unità di classe su contenuti proletari e rivoluzionari.

Questa fase di crisi economica e politica della borghesia costituisce sempre più la condizione concreta favorevole alla ripresa dell’offensiva di classe, apre un ulteriore spazio alla prassi rivoluzionaria e la lotta armata preserva in toto la sua validità.

Lo Stato è il risultato dell’inconciliabilità di interessi fra due classi in totale opposizione e la strategia della lotta armata, inserita in un processo rivoluzionario basato sullo sviluppo della guerra di classe di lunga durata, è la sola strategia attuabile, possibile nell’attuale sviluppo imperialista, in quanto è l’azione offensiva della guerriglia la sola possibilità di fare arretrare i piani fondamentali, vitali dello Stato mirati al suo rafforzamento.

La guerriglia, oggi, è il terreno primario dell’organizzazione di classe, costruita nel rapporto classe/Stato, che qualifica lo scontro acquisito sul piano rivoluzionario basato sull’approfondimento del rapporto classe/Stato, rivoluzione/controrivoluzione, proletariato internazionale/borghesia imperialista. Certo, c’è stata e c’è discontinuità nello scontro, è normale in ogni processo rivoluzionario; una strada che si apre è sempre ingombra di pietre che scorticano i piedi, rallentano il passo ma non ne arrestano la marcia.

Il processo rivoluzionario, affermatosi e radicatosi in Italia con vent’anni di attività politico-militare della guerriglia, ha sempre avuto carattere antimperialista e internazionalista; carattere che si è attestato e verificato nella prassi concreta.

Uno dei cardini principali su cui, negli anni ’80, si sono collocati il programma, il lavoro politico-militare delle organizzazioni rivoluzionarie, della guerriglia in Europa Occidentale, è stato l’opera di costruzione di una strategia unitaria antimperialista. Gli accordi dell’85 AD-RAF e più tardi RAF-BR nell’88 con il testo comune concretizzatosi con l’azione della RAF contro Tietmeyer, hanno avviato il processo di sviluppo di una prassi unitaria antimperialista che vive nella proposta del Fronte.

Processo questo ancora più determinante oggi dove l’imperialismo, da una parte, è sottoposto ad una sempre più acuta e pressante crisi ormai strutturale, congiunturale ed irreversibile, dall’altra tende sempre più a rafforzare il proprio dominio, la propria supremazia su territori sempre più vasti, con regole ferree dettate dalla violenza, dalla ineguaglianza.

La tendenza imperialista alla guerra è dovuta in larga parte alla crisi di un sistema economico e politico che deve ricorrere alla forza militare, all’annientamento, per sopravvivere. A riprova di questo sono gli USA che, in piena recessione economica, con una profonda crisi interna, tendono sempre più ad uno scontro bellico per ribadire, riconfermare con forza il loro potere egemonico sulla catena imperialista stessa. Un esempio per tutti, l’aggressione all’Iraq, dove l’Europa Occidentale ha dimostrato, da un lato, un’operatività, un’efficacia politico-militare nuova con la quale valersi per un’influenza più determinante ed incisiva sulle scelte future, d’altro lato, con il suo allineamento alle direttive USA, che i processi di congruenza europei sono interni al rafforzamento dell’alleanza e riconfermano il ruolo di leadership statunitense.

L’aggressione imperialista all’Iraq è stata la scusa, il cavillo per affermare il controllo a livello politico, economico e militare di un’area di importanza strategica sia per il controllo delle rotte tra i continenti che per le risorse energetiche e finanziarie mondiali; inoltre doveva servire come mezzo di deterrenza nei confronti dei popoli arabi che lottano per liberarsi dal giogo imperialista-sionista ed imporre così la tanto auspicata pax imperialista.

Sia l’aggressione al popolo iracheno che il conseguente monito ai popoli arabi, continuano oggi in modo sempre più pressante e criminale. L’embargo, le continue provocazioni, la divisione dell’Iraq in tre parti, rientrano nel disegno delle grandi potenze imperialiste di dissolvere, annientare tutti quei paesi sui quali non riescono ad avere il controllo.

La regolamentazione imperialista dell’area, nei propositi occidentali, vorrebbe l’entità sionista come tutore della stabilizzazione e sicurezza, sottoponendo a questo ruolo soluzioni politiche del conflitto arabo/sionista/palestinese.

La “conferenza di pace” rientra tutta in questo progetto; da un lato si tenta di delegittimare la lotta del popolo palestinese, portando sul tavolo imperialista, strappandola dalle strade dove è nata e vive, l’Intifada, dall’altro lato si tende al riconoscimento di “Israele” da parte dei paesi arabi. Riconoscimento che sancirebbe la presenza, l’egemonia, il controllo sulla vita dei popoli arabi, della piovra imperialista, USA in testa.

Ma la “pax” auspicata dall’imperialismo è ben lontana dall’essere realizzata e sempre valido è l’insegnamento di Che Guevara: «la coesistenza pacifica tra nazioni non comporta la coesistenza tra sfruttatori e sfruttati, tra oppressori ed oppressi». I massacri che il popolo palestinese ha subito lungo tutta la sua storia non hanno spezzato, azzerato la sua identità, come ne sono segno la sua forte determinazione, la vitalità dell’Intifada, la resistenza del popolo arabo, l’incisività delle sue avanguardie.

La tanto sbandierata collaborazione fra i popoli con cui l’imperialismo tenta di fare perno per imporre la propria pacificazione, il proprio “ordine”, non è altro che affamamento per milioni di proletari. Sulla “caduta” del muro di Berlino, sulla “guerra del Golfo”, sulla rovina economica, sociale e politica dell’URSS, sulla crisi yugoslava, si inscrive il “Nuovo Ordine Mondiale”, imposto attraverso la sottomissione dell’uomo ai tornaconti del capitale, in quanto è la società capitalista che oggettivizza l’individuo e, nella persona, soggettivizza la cosa; è la società capitalista che riduce il tutto a feticcio merce.

Venti di resistenza ed opposizione all’indifferenza, alla discriminazione, all’ineguaglianza, allo sfruttamento prodotti dall’imperialismo per i suoi profitti, soffiano sempre più forti in ogni parte del mondo. La rivolta di Los Angeles come le ampie mobilitazioni in Grecia, Spagna, Italia, Francia, Inghilterra, ecc., dimostrano che gli operai, i proletari, non accettano e non sono disposti ad essere merce di scambio per la realizzazione del “Nuovo Ordine Mondiale” decretato dai “grandi” della terra.

Già dall’aggressione all’Iraq si è visto che i progetti guerrafondai dell’imperialismo hanno trovato sulla loro strada una forte e determinata mobilitazione proletaria e combattente al Centro come nella Periferia, sintomo di un rinnovato internazionalismo proletario che ha posto in primo piano, nella prassi, il terreno unificante tra i processi rivoluzionari della Periferia, e la guerra di classe nella metropoli imperialista, dimostrando che esiste un elevato livello di unità tra i vari processi rivoluzionari.

Da qui la possibilità concreta di ricostruire prassi rivoluzionaria e di operare fattivamente alla proposta di costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista nell’area geopolitica Europa Occidentale, Mediterraneo, Medio Oriente; Fronte Combattente Antimperialista inteso come processo che verte verso la costruzione di successivi momenti di unità, che pone le basi per una effettiva politica di alleanze tra le forze rivoluzionarie di tutta l’area geopolitica.

È in questo intreccio che si esprime l’attività del processo rivoluzionario condotto, in Italia, dalla guerriglia, dalle Brigate Rosse; attività che ha conseguito piena legittimità, validità in vent’anni di prassi rivoluzionaria.

È in riferimento a questo processo rivoluzionario, alla guerriglia con il suo patrimonio storico, che si colloca la mia esperienza politica e la mia identità di militante rivoluzionaria.

Con tutto ciò intendo confermare, come militante rivoluzionaria prigioniera, il mio atteggiamento davanti a questo tribunale al quale non riconosco alcuna legittimità ed autorità.

– Attaccare le politiche, i progetti antiproletari e controrivoluzionari dello Stato volti al rafforzamento del suo potere.

– Lavorare alla costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista.

– A fianco del popolo palestinese nella lotta contro il sionismo.

– Onore a tutti i rivoluzionari caduti combattendo nella lotta per il comunismo.

Firenze, 5 novembre 1992

La militante rivoluzionaria prigioniera Biano Carla

Fonte: senza censura.org

Firenze, processo alla Brigata “Luca Mantini” – Documento di Maria Cappello e Fabio Ravalli allegato agli atti all’udienza del GIP

Le dinamiche della crisi di sovrapproduzione di capitali e, sul piano politico la rottura degli equilibri Est/Ovest in un approfondimento della tendenza alla guerra, sono i fattori oggettivi che impongono ai singoli Stati a capitalismo avanzato di misurarsi e dare risposte adeguate al procedere della crisi economica stessa e all’incalzare delle spinte guerrafondaie che, nel contesto internazionale, si sviluppano con sempre più gravi e concreti eventi bellici; ciò anche per ritagliarsi la migliore posizione possibile all’interno dei processi d’integrazione economica, politica e relativa gerarchizzazione della catena imperialista. Un contesto internazionale che accelera e influenza in parte i caratteri della stessa ridefinizione della mediazione politica fra le classi, avviata da tempo in Italia attraverso il processo di rifunzionalizzazione dello Stato per renderlo in primo luogo idoneo agli attuali livelli d crisi/sviluppo dell’imperialismo e ai corrispettivi termini di governo del conflitto di classe.

Questo movimento rende evidente il grado di crisi politica in cui si dibatte la borghesia imperialista nostrana. Il processo di “riforma dello Stato” costituisce quindi, anche in questa fase, la contraddizione politica dominante che oppone la classe allo Stato, più precisamente oggi entra nella sua piena fase di concretizzazione possibile, ampiamente accelerata dal precipitare della crisi a livello internazionale. Una accelerazione di carattere contradditorio ai fini della stessa rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, per le misure economiche e politiche che si impongono alla stessa frazione dominante di borghesia imperialista che lasciano ben pochi margini di manovra, i quali si riflettono in misure e strappi istituzionali di carattere autoritario mal governati e di breve respiro, che di fatto ritardano la realizzazione degli equilibri politici di governo idonei al varo di un disegno organico nella rifunzionalizzazione dello Stato.

Un processo questo, che nel corso degli ultimi anni ha maturato attraverso forzature laceranti nelle relazioni fra le classi (la controrivoluzione degli anni ’80 e i patti neocorporativi) la condizione politica di base per stabilizzare metodi di governo ed esecutivi sufficientemente stabili nell’esercizio dei loro poteri, pur in presenza di labili equilibri politici nelle relazioni fra le classi che nello stesso governo. È intorno al modo di governare il paese che sono stati definiti sostanziali passaggi nell’esecutivizzazione e verticalizzazione dei poteri, in cui l’accentramento dei poteri nell’Esecutivo si è rivelato come l’aspetto fondamentale delle riformulazioni indotte dalla stessa pratica di governo dei “fatti compiuti” portata avanti in questi anni da diversi esecutivi che si sono succeduti nella guida del paese. L’accentramento dei poteri nell’Esecutivo è nei fatti l’asse politico su cui ruotano le possibili risoluzioni, su un rinnovato piano formale, degli strappi istituzionali, in parte verificatisi per paradosso dagli effetti di questa stessa dinamica politica accentratrice, a sua volta derivata dall’incapacità di saldare e stabilizzare quegli equilibri politici e di forza dei rapporti tra le classi sul piano istituzionale, nonostante il ricorso a politiche di contenimento del conflitto di classe di carattere marcatamente controrivoluzionario e antiproletario, riflesso evidente della debolezza e crisi politica in cui verso la borghesia imperialista nostrana. Ciò è dovuto anche alla combattività della classe operaia ed all’attività delle Brigate Rosse che colpendo di volta in volta il personale più significativo nel sostenere l’equilibrio politico funzionale alla realizzazione di un dato progetto borghese, lo ha fatto puntualmente arretrare.

La dinamica politica prodotta dalle contraddizioni economiche e sociali si traduce in scelte politiche indirizzate ad un irrigidimento complessivo della mediazione politica, ad una contraddittoria erosione dei suoi margini anche in riferimento agli assi costituzionali della democrazia borghese, per ricercare quella che con aggettivo apologetico viene chiamata, dai propri fautori, “democrazia governante”. O meglio, capacità di decidere sulle questioni fondamentali senza dover incappare negli orpelli istituzionali che formalmente rappresentano la dialettica democratica nell’ambito della costituzione italiana. Un processo politico e una linea di indirizzo della borghesia imperialista che pur trovando sviluppo concreto dall’esigenza dell’attuale crisi congiunturale rappresenta per essa uno sviluppo della propria “democrazia”, delle sue forme di dominio, nel rafforzamento della sua dittatura di classe.

Il ruolo dei partiti resta fondamentale a dispetto della campagna demagogica in corso contro la “partitocrazia”, la quale risponde alla duplice esigenza di rifunzionalizzare i partiti alle nuove esigenze democratico borghese ed alla gestione di massa e populista a favore della cosiddetta “democrazia governante”. L’attuale campagna “moralizzatrice” ha le sue esclusive ragioni nel consenso forzoso verso un diverso rapporto con gli enti locali dettato dalla necessità di centralizzazione dei bilanci e, come già detto, verso metodi di governo fortemente centralizzati.

Ecco la voglia di cambiamento della borghesia imperialista!, ben rappresentata dall’attuale Esecutivo Amato che, al di là del ruolo tragicomico che egli si è costruito con il suo personale stile dirigista e interventista, in una continua drammatizzazione proporzionale all’inconcludenza dei “grandi disegni” di cui si proclama portatore (in questo specchio fedele della crisi politica della classe che rappresenta), è l’Esecutivo chiamato a tentare di portare a compimento quel processo di centralizzazione effettiva, con sanzione formale, dei suoi poteri rispetto agli attuali assetti istituzionali dello Stato e in principal modo verso il governo del conflitto di classe. Una sanzione formale che nell’intento dovrebbe essere realizzata con nuove regole elettorali, a questo fine la ricerca di stabili equilibri politici fra i partiti attraverso la Commissione De Mita.

L’obiettivo tanto auspicato dalla borghesia imperialista, quanto nella realtà utopico, è quello di sganciare l’azione di governo dalle contraddizioni prodotte dal conflitto di classe. Nella realtà questo obiettivo ha il suo limite nel suo stesso procedere, se per un verso il suo ambito d’azione ha una relativa linearità finché si svolge al’interno dei poteri formali dello Stato, per l’altro manifesta l’impossibilità di “istituzionalizzare” il conflitto di classe. Questo perché la sua istituzionalizzazione deriva dai rapporti di forza reali fra le classi perciò è il prodotto delle risultanze possibili e non di quelle prospettate e sempre in termini relativi. La momentanea stabilità realizzata nell’azione di governo non fa che riprodurre e ampliare le contraddizioni di classe preesistenti, solo formalmente accantonate, ma nella realtà solamente irreggimentate all’interno di regole saldamente in mano alla borghesia imperialista. In questo, in ultima istanza, si risolve la rifunzionalizzazione dello Stato in atto. Il Consiglio dei Ministri ristretto che funziona come organo decisionale attraverso l’ormai regola ordinaria dei decreti legge e il ricorso alla fiducia, sono la procedura con la quale vengono rifunzionalizzate le competenze e il ruolo del Parlamento intorno alle prerogative ed ai poteri dell’Esecutivo.

Le richieste di attribuzione di poteri eccezionali per decretare sulle principali questioni attinenti alla vita del paese, se da un lato dimostrano l’arroganza politica della “richiesta” in sé e, nei fatti, la debolezza politica della repubblica parlamentare, dall’altro sostanzialmente manifesta lo stato di necessità, per proprie contraddizioni, in cui operano le scelte della borghesia e del suo Stato, e i livelli di attribuzione dei poteri assestati nell’esecutivo che, per come vengono esercitati, rompono gli ultimi “legacci” istituzionali e costituzionali propri del funzionamento della Prima Repubblica. Alla concentrazione dei poteri nell’Esecutivo viene attribuito un potere taumaturgico nei confronti della crisi in cui versa la borghesia imperialista in presenza di fragili equilibri politici fra le classi, un’unica risposta che la borghesia ha per avere ampi margini istituzionali di manovra per dare corso ai propri programmi. Un operato inserito nel più generale processo di superamento della strutturazione costituzionale dello Stato affermatosi dal dopoguerra ad oggi. Un processo in atto che si sviluppa su tutti i piani delle relazioni fra le classi e procede attraverso strappi progressivi e riassetto degli organi istituzionali preposti, strappi e riassestamenti che riflettono le condizioni politiche e materiali nei rapporti di forza tra le classi, da cui questo stesso processo in ultima istanza deriva. Sul piano politico-istituzionale è evidente lo squilibrio tra accentramento dei poteri nell’Esecutivo e la difficoltà di riformulazione e funzionamento degli strumenti della democrazia rappresentativa e il contrasto tra rappresentanze istituzionali, sedi politiche preposte e conflitto reale nel paese.

Per cui il perseguimento della rottura degli assetti della Prima Repubblica non può che avvenire parallelamente alla sostanziale ricerca di modifica delle relazioni politiche fra le classi per ricollocarle sul piano formale in maniera funzionale alle esigenze attuali della borghesia imperialista, cioè avere la possibilità di assestare le forme del potere e gli assetti istituzionali che evolvono verso la nascita di una Seconda repubblica.

In questo senso ben si colloca il recente accordo triangolare sul costo del lavoro, e non solo per la decurtazione del salario, ma soprattutto per le implicazioni politiche che tale misura d’imperio provoca nelle relazioni fra le classi. Per parte della CGIL rappresenta il naturale sbocco della stagione di collaborazione sancita con la “svolta dell’EUR” e su questa linea corona la sua corporativizzazione, perciò non vi è nessuna variazione d sostanza nella politica sindacale. Gli stretti margini di manovra sindacale che questa linea ha provocato è un problema di legittimazione per la CGIL, che però non inficia affatto le scelte operate, ampiamente compensate dal ruolo di apparato burocratico che si è “ritagliata”. Di ben altro tenore è invece l’impatto politico sulla classe e di riflesso nella vita politica del paese, poiché le misure del 31 luglio si distanziano dai numerosi “accordi capestro”, pur inserendosi nel medesimo solco, rappresentando un ulteriore avanzamento dei famigerati Patti Neocorporativi. Queste misure rappresentano il tentativo di sancire lo Stato neocorportativo. Il quale sulla base tutta formale di una delega presunta dalle stesse regole della democrazia rappresentativa e non da soggetti reali aspira a marginalizzare dalla vita politica la parte sociale più significativa della società la Classe Operaia, la classe produttiva per eccellenza sulla quale pesa l’onere dell’economia capitalista e della reale ricchezza prodotta così da legare la parte viva del lavoro a pura variabile del capitale e piegarla alle sue esigenze di “risanamento economico”. Quindi il nocciolo politico dell’accordo di luglio risiede nel tentativo di incidere sulla base reale delle relazioni fra le classi e in questa direzione è premessa indispensabile ai poteri eccezionali “richiesti”.

Sul piano economico tale accordo è la spina dorsale delle politiche recessive adottate dal governo, in quanto le politiche monetarie sono solo dei correttivi artificiosi che non incidono affatto sulla natura della crisi e anzi si traducono in movimenti speculativi con risultati opposti a quelli auspicati. Un accordo quello di luglio che è pienamente inserito nelle politiche di bilancio le quali mirano ad un impoverimento generalizzato così da generare un abbassamento drastico del salario reale, per poter sostenere la concorrenza intermonopolistica e in particolare quella intereuropea. Il fatto che l’economia capitalista mostri chiaramente di scivolare sempre più nella depressione economica e che gli accordi sovranazionali e i correttivi messi in campo mostrino la loro inconcludenza, evidenzia come i sacrifici richiesti siano fini a se stessi data l’impossibilità da parte borghese di riuscire con strumenti “ordinari” a far fronte alla propria crisi che spinge inevitabilmente verso lo sbocco bellico come risoluzione ultima della sovrapproduzione di capitali.

Queste politiche economiche e politiche istituzionali collocate in un contesto internazionale che marcia oggettivamente e soggettivamente verso lo scatenamento bellico, vengono puntellate e sostenute dalle cosiddette “emergenze”, vere e proprie politiche mirate a costituire il collante ideologico e a favorire l’irreggimentazione della mediazione politica. Il ricorso “all’emergenza” dell’ordine pubblico (oggi chiamato “criminalità”) è una costante nel rapporto con il proletariato da parte della borghesia nelle diverse fasi di transizione che hanno caratterizzato la ricerca della governabilità e della “stabilità democratica” in Italia, basti ricordare l’adozione della politica delle stragi caratterizzante l’evolversi della Prima Repubblica.

Il dato nuovo che oggi emerge nella adozione di tale politica è che essa svolge la sua azione in riferimento ad obiettivi che travalicano in parte la stretta relazione con la classe. Obiettivi di carattere più generale che rispondono a quel quadro di interessi dominanti della borghesia imperialista come la costituzione di monopoli intereuropei e il ruolo geostrategico assegnato allo Stato italiano e in parte anche conquistato rispetto al progredire di fattivi eventi bellici degli organismi politico-militari della NATO e UEO. Esemplificativo in questa direzione è stato il passaggio tutto politico di assegnazione ai militari di funzioni di “Polizia Giudiziaria” e di ordine pubblico, un dato che oltre a modificare il ruolo delle Forze Armate dettato dalla costituzione per quanto marginale, è un aperto strappo nelle relazioni con la classe il cui portato politico va ben oltre la dislocazione sul territorio di alcune migliaia di soldati: un nuovo soggetto viene apertamente instaurato nella relazione classe-Stato, le Forze Armate!

Questo l’elemento politico dominante del nefando decreto legge. Un’attuazione derivata dai rapporti di forza, infatti il tentativo di “coinvolgere” l’esercito in funzione di Polizia Giudiziaria risale agli anni ’50 e solo la resistenza operaia e proletaria riuscì a demolire tale progetto. L’attuale dislocazione dei militari ha perciò una qualità nuova anche rispetto alla funzione di controllo del territorio assegnatagli durante l’aggressione al popolo iracheno pur inserendosi nel medesimo indirizzo. Infatti anche se secondaria rispetto al dato politico sopra esposto, l’assegnazione di questa funzione e la sua dislocazione sul terreno obbedisce alle linee politico-miltari della NATO in relazione alla nuova dottrina detta “presenza avanzata”, nonché alla necessità posta alle Forze Armate dai nuovi e fattivi scenari bellici di riqualificare e professionalizzare l’esercito sulla direttrice dettata dal nuovo modello di difesa italiano che ricalca la dottrina NATO.

In sostanza si sta assistendo ad una serie di interventi apertamente coercitivi che più in generale vanno a pesare e si riflettono sul più complessivo clima politico-generale dello scontro, contribuendo a definire il terreno su cui si giocano i termini di relazione fra campo proletario e Stato in questo momento. In quanto tendono a stabilire un rapporto con il contesto del conflitto di classe da parte dello Stato che permetta di gravare ed intervenire sullo stesso in modo costante e decisivo. E ciò a maggior ragione in una fase in cui all’interno di un quadro di polarizzazione oggettiva dei rapporti fra le classi e di una condizione prebellica emergono con chiarezza tutti i tratti di instabilità e crisi della borghesia imperialista e di converso maturano e trovano terreno di sviluppo i termini possibili e necessari delle potenzialità rivoluzionarie che dalle premesse storiche maturate nel corso della lotta di classe rivoluzionaria nelle metropoli, non può che presentarsi come guerra di classe rivoluzionaria portata avanti dall’avanguardia rivoluzionaria armata e dai settori più avanzati dell’autonomia politica di classe organizzati sulla strategia della lotta armata come dimostrato dalla pratica e progettualità delle BR. Una condizione che in termini concreti e prospettici, sul terreno dello scontro di classe, pone allo Stato la necessità di un intervento preventivo nel rapporto conflittuale che lo oppone al proletariato, a partire dal suo punto più alto (strategia della lotta armata), e del suo necessario governo di normalizzazione e contenimento, in una prospettiva di ricomposizione forzosa sul piano politico all’interno delle diverse forme di irreggimentazione lealista sugli interessi generali della borghesia imperialista, non ultima la prospettiva bellica. Una dinamica che comporta un conseguente sviluppo dei processi di controrivoluzione preventiva intorno cui vincolano gli stessi processi di rafforzamento dello Stato, strettamente connaturati alla sostanza antiproletaria e controrivoluzionaria di questi interventi.

Un procedere intorno a cui si sono anche date una serie di modificazioni sostanziali rispetto alla piena funzionalizzazione degli organismi coercitivi dello Stato intorno all’operato dell’Esecutivo. Una serie di modifiche che ovviamente non attengono all’espressione organica di uno “Stato di polizia” o alla “miltarizzazione della società”, ma in realtà sul piano delle trasformazioni delle relazioni fra i vari apparati dello Stato riflettono principalmente quel processo di accentramento e verticalizzazione del potere nell’Esecutivo in quanto concentra le leve di questi strumenti e apparati nelle mani del governo stesso che ne centralizza gli indirizzi, le funzioni e le competenze, all’interno del più complessivo quadro di rafforzamento del regime.

Una dinamica controrivoluzionaria del resto tanto più evidente di fronte agli scenari di guerra che fanno da sfondo e accompagnano i passaggi della crisi del sistema imperialista. Un piano su cui lo Stato italiano ha maturato significativi salti di qualità nella capacità di intervento diretto sui principali teatri bellici, funzionale all’escalation delle politiche aggressive del complesso della catena imperialista. Un ruolo che non solo ha superato i limiti di un intervento prettamente politico-diplomatico o di semplice sostegno militare in un quadro concordato di ruoli e competenze fra i diversi paesi imperialisti propri della fase precedente, ma più sostanzialmente in questa fase internazionale, caratterizzata da un approfondirsi della tendenza alla guerra imperialista, e lo stesso intervento in Yugoslavia sta a dimostrarlo, si va sempre più sostanziando per un ruolo direttamente interventista assunto in prima persona, che d’oltre modo porta in luce il proposito di una politica di potenza da estendere sulle sue “naturali e storiche” aree di influenza, al fine di ritagliarsi un proprio spazio nel complesso della catena imperialista.

Una dinamica guerrafondaia che a maggior ragione presuppone la ricerca di un contesto di scontro fra le classi interno totalmente pacificato. Un contesto di scontro che nella realtà, ben al di là delle velleità borghesi, a tutt’oggi costituisce il limite politico con cui lo Stato deve misurarsi, per la resistenza opposta dal campo proletario alle sue scelte. Iniziative belliciste che riversandosi all’interno dello scontro di classe del paese non fanno che acutizzare ulteriormente le contraddizioni, polarizzando maggiormente gli interessi di classe e influendo sul modo stesso con cui lo Stato si relaziona al campo proletario. Una dinamica questa che ulteriormente si riversa sul potenziamento di tutti i meccanismi e strumenti di controrivoluzione preventiva e in ultima istanza sugli stessi processi di riforma dello Stato.

È proprio quindi a partire dal contesto materiale di scontro che oppone il campo proletario allo Stato nel segno delle sue politiche apertamente antiproletarie, controrivoluzionarie e guerrafondaie che si evidenzia il carattere di classe della lotta in corso. Un carattere segnato da un “attacco organico” da parte della borghesia imperialista alla classe, in quanto per la sua vastità e profondità investe tutti i piani e aspetti delle relazioni fra le classi, finalizzato nelle velleità borghesi a voler ricacciare ancora più indietro le posizioni politiche e di forza della classe.

Un passaggio controrivoluzionario che dal punto di vista di classe e rivoluzionario esprime al meglio la qualità politica dell’approfondimento del rapporto di scontro fra le classi e fra rivoluzione e controrivoluzione. Un approfondimento dello scontro sia sul piano politico-generale tra classe e Stato e sia su quello fra rivoluzione e controrivoluzione che sostanzialmente si situa in continuità con il contesto controrivoluzionario degli anni ’80. Un approfondimento del rapporto di scontro che si è delineato proprio a partire dalle risultanze politiche e materiali prodotte dalla controffensiva dello Stato nel decennio scorso che, pur producendo un arretramento delle posizioni di forza del campo proletario e un relativo ripiegamento della sua avanguardia rivoluzionaria, le BR, non è riuscita tuttavia né a produrre una normalizzazione e pacificazione effettiva del conflitto di classe e, in particolar modo, una “sterilizzazione” della capacità di espressione dei settori più avanzati dell’autonomia politica di classe; né tanto meno ad inibire il portato politico dell’attività delle BR all’interno dello scontro. Fattori politici questi che al contrario di un “esaurimento” delle condizioni del processo rivoluzionario si sono tradotte in un approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. In particolar modo questo dato va messo in relazione a come la soggettività rivoluzionaria, le BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente, hanno saputo affrontare in termini strategici e concreti i compiti politici derivanti dallo scontro, lavorando allo spostamento dei rapporti di forza fra le classi e contribuendo alla tenuta complessiva dello stesso campo proletario di fronte alla controffensiva dello Stato, rilanciando al contempo i termini e i terreni di sviluppo della guerra di classe rivoluzionaria, determinando una maggiore maturità e spessore alla stessa proposta rivoluzionaria.

La questione fondamentale che si è riaffermata all’interno della prassi delle BR è la forza determinante della strategia della lotta armata come asse portante e propulsiva del processo rivoluzionario e fattore strategico guida per lo stesso processo di riadeguamento intrapreso dalle BR nella fase della Ritirata Strategica rispetto all’assunzione del loro ruolo e funzione di direzione rivoluzionaria dello scontro. Per questo le BR nel mantenimento e riferimento costante alle discriminanti dell’impianto di asse, sia gli assi strategici che i presupposti cardine della guerriglia (strategia della lotta armata, unità del politico e del militare, clandestinità e compartimentazione, principi di costruzione del PCC, concezione della guerra di classe di lunga durata, …) hanno potuto ridefinire i compiti attuali inerenti alla conduzione della Guerra di Classe di Lunga Durata, anche grazie ad una più precisa definizione della condotta della guerra rivoluzionaria nelle metropoli in riferimento alle leggi che la governano. Una maturità della proposta politica che si è resa subito evidente nell’esplicazione dell’attività concreta messa in campo sui terreni programmatici, veri e propri assi strategici di combattimento, dell’attacco al cuore dello Stato e l’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo. Ovvero misurando il proprio attacco contro i progetti dello Stato che si contrapponevano alla classe in termini dominanti nelle diverse congiunture, determinandone il loro relativo ripiegamento e nello stesso tempo lavorando per consolidare il grado di maturità raggiunto dallo scontro dentro al necessario termine politico militare e di organizzazione delle forze rivoluzionarie e proletarie sul terreno della lotta armata al fine di attrezzarle nello scontro prolungato contro lo Stato. Sia operando al rilancio dell’attività antimperialista in una pratica di combattimento indirizzata contro le politiche centrali dell’imperialismo e, intorno al criterio di una politica di alleanze con le altre Forze Rivoluzionarie dell’area, hanno lavorato concretamente alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista.

In particolar modo, asse discriminante della linea politica e strategica delle BR è l’attacco al cuore dello Stato che costituisce il solo modo, storicamente determinato, di procedere nella guerra di classe di lunga durata nelle metropoli e intorno a cui ruota la capacità di operare la direzione e l’organizzazione dello scontro rivoluzionario. E ciò a partire dalla considerazione che la questione dello Stato è questione fondamentale per i comunisti, e il suo abbattimento è un obiettivo imprescindibile al fine di conquistare il potere politico e instaurare la dittatura del proletariato. In questo senso le BR fanno propri i termini di fondo dell’analisi leninista dello Stato in rapporto a come questo esplica le sue funzioni a questo stadio di sviluppo dell’imperialismo per le diversità sopravvenute nelle sue forme di dominio. Analisi scientifica della macchina statale che risulta essenziale per centrare adeguatamente l’attacco per colpire al punto più alto dello scontro al fine di incidere sui rapporti di forza generali tra le classi. In questo senso per le BR non si tratta di coprire obiettivi “simbolici” o sviluppare la propria iniziativa a partire da un “punto qualsiasi” del rapporto di scontro tra le classi, bensì colpire quello che nella congiuntura è l’aspetto dominante della contraddizione principale che matura nel rapporto classe/Stato, le politiche centrali che riguardano direttamente la ridefinizione dei rapporti politici e di forza tra campo proletario e Stato, e le modalità di governo relative alla mediazione politica fra le classi.

Questo è il “cuore dello Stato”, un obiettivo altamente politico su cui si misurano gli stessi sviluppi del processo di guerra di classe di lunga durata e si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata. Il giusto criterio affermatosi nella pratica rimanda alla capacità di riferirsi ai criteri di centralità, selezione e calibramento dell’attacco. Criteri che guidano l’attacco e la scelta dell’obiettivo e che saranno determinanti per molte fasi ancora nello scontro, perché è solo nella fase finale di Guerra Civile Dispiegata che lo Stato può essere attaccato contemporaneamente su più livelli.

L’iniziativa rivoluzionaria così indirizzata causa una ricaduta in termini di relativa crisi del quadro politico istituzionale che rimette parzialmente in gioco gli equilibri fra le classi, fino al piano capitale/lavoro. La disarticolazione del nemico non solo lo indebolisce, lo “danneggia”, lo costringe a ripiegare, certo non dai suoi obiettivi (rispondendo questi ad un carattere di necessità generale per la borghesia imperialista), ma nel percorso di assestamento dei successivi passaggi del progetto politico dominante; nello spostamento (relativo) dei rapporti di forza a favore del campo proletario, che l’attacco determina, si apre uno spazio politico che per non essere disperso deve essere sintetizzato in forza politica. Per le BR significa tradurlo in termini politico-militari, ovvero va trasformato in organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, organizzando e disponendo sulla lotta armata le componenti proletarie e rivoluzionarie che si rendono disponibili, per attrezzarle a sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato e far avanzare il processo rivoluzionario. È dentro questa dialettica “attacco-costruzione-organizzazione-attacco” che le BR si fanno carico di rappresentare gli interessi generali del proletariato ed operano per ricostruire le condizioni politiche e materiali per un equilibrio politico e di forza a favore del campo proletario, esplicando al contempo la funzione di direzione rivoluzionaria e facendo vivere in tutta la sua concretezza e il suo portato la strategia della lotta armata come proposta a tutta la classe;

Le iniziative di combattimento sviluppate sul terreno dell’attacco al cuore dello Stato hanno reso evidente la qualità stessa del riadeguamento intrapreso dalle BR durante la fase di Ritirata Strategica e al cui interno è stato possibile definire i termini di apertura della fase specifica di Ricostruzione, una fase che pur informata dai caratteri generali della fase di Ritirata Strategica e, presentandosi nel contesto della controrivoluzione, tale da influenzarne la dinamica di svolgimento, per le BR costituisce un elemento fondamentale di avanzamento della guerra di classe e termine prioritario su cui porre le basi per il mutamento dei rapporti di forza e passaggio politico necessario su cui si dà uscita sostanziale della Ritirata Strategica e dal mandato politico da essa posto. Per questo, per le BR, l’affrontamento della complessa fase di ricostruzione si pone come obiettivo programmatico fondamentale, implicando a partire dallo sviluppo dell’attività rivoluzionaria sugli assi programmatici di combattimento, una più precisa strutturazione e disposizione delle forze in campo per meglio attrezzarle allo scontro prolungato contro lo Stato, uno sviluppo della dialettica guerriglia/autonomia di classe adeguata a questo livello di approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

La fase di Ricostruzione definisce quindi le stesse modalità concrete entro cui si dà possibile e necessario sviluppare organizzazione di classe sulla lotta armata indirizzate sul duplice binario costruzione-formazione, tese a ricostruire nel tessuto di classe i livelli di organizzazione politico-militare necessari allo sviluppo dello lotta contro lo Stato, e formazione dei rivoluzionari stessi perché acquisiscano la dimensione dello scontro a partire dalla ricca esperienza accumulata dalle BR in questi venti anni. In altre parole la fase di Ricostruzione nel suo sviluppo e nelle sue finalità comporta l’attrezzare su tutti i piani le forze proletarie e rivoluzionarie alle condizioni dello scontro, al fine di ristabilire i termini politico-militari per nuove offensive. E ciò ha implicato per le stesse BR un salto qualitativo nella loro attività di direzione, attraverso il salto alla centralizzazione politica delle forze in campo intorno alla loro attività generale. Il salto alla centralizzazione politica significa che tutte le forze lavorino all’interno del piano generale di lavoro delle BR, al fine di muovere come un sol cuneo sugli obiettivi perseguiti in modo da incidere con tutta la forza nello scontro e dispiegare intorno a ciò tutta l’attività di costruzione-consolidamento dell’organizzazione di classe.

La capacità di esprimere questo livello di direzione in riferimento stretto alla costruzione del complesso dei termini della guerra di classe, operando nel giusto criterio del “Agire da Partito per costruire il Partito” ha sicuramente posto le basi per un avanzamento del processo di costruzione del PCC. In quanto per le BR il problema della costruzione del PCC non è inteso come atto volontaristico o in cui la semplice formulazione di tesi politiche e del relativo programma è vista come sufficiente per la costituzione dell’avanguardia in Partito. Sul piano di sviluppo della strategia della lotta armata, operando nell’unità del politico e del militare, il processo di costruzione del Partito marcia strettamente in rapporto alla capacità di costruire e far avanzare il complesso delle condizioni politiche e militari per il dispiegamento della guerra di classe. Più semplicemente il problema del Partito non è solo ricondotto alla mera disposizione intorno al programma, ma più concretamente a come esso vive in rapporto alla strategia della lotta armata, operando nell’unità del politico e del militare rispetto a tutti i suoi termini: dall’accumulo di forze rivoluzionarie e proletarie intorno alla costruzione dell’organizzazione di classe armata, alla costruzione della direzione politica su di essa, alla costruzione di quadri politico-militari in grado di affrontare complessivamente i problemi dello scontro rivoluzionario…

È quindi all’interno di questi criteri d’attività e all’interno del più complessivo processo di costruzione del PCC che le BR danno sostanza alla parola d’ordine dell’“unità dei comunisti”. Parola d’ordine che non è intesa come unità generica sulla lotta armata ma va intesa come processo che ha il suo riferimento intorno all’indirizzo strategico, politico e programmatico delle BR in stretto riferimento ai livelli teorici, politici e organizzativi che la stessa prassi delle BR ha attestato nello scontro rivoluzionario.

Altro asse programmatico su cui le BR dispiegano la propria attività è il piano dell’antimperialismo imperniato sullo sviluppo di una politica di alleanze contro il nemico comune, con le forze rivoluzionarie che operano nella nostra area geopolitica, ciò al fine di indebolire e ridimensionare l’imperialismo costruendo, all’interno del processo di costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, i termini per offensive comuni contro le sue politiche centrali, condizione imprescindibile per dare sviluppo allo stesso processo rivoluzionario. Terreno programmatico anche questo intorno cui le BR costruiscono i termini politico-militari e di organizzazione di classe funzionali allo sviluppo della guerra di classe.

In sintesi ribadiamo che l’intera attività politico-militare delle BR, e in particolare i passaggi politici compiuti in questi ultimi anni, dimostra la valida applicazione della strategia della lotta armata alla realtà concreta del nostro paese sancendone il ruolo di direzione delle BR nello scontro rivoluzionario il Italia. Un dato questo da cui nessuno può prescindere che costituisce l’unica strada perché si dia avanzamento alla prospettiva di potere per il proletariato nel nostro paese.

– Attaccare e disarticolare il progetto di rifunzionalizzazione degli istituti e poteri dello Stato che nella fase attuale evolvono verso una Seconda Repubblica!

– Attaccare e disarticolare i progetti guerrafondai della borghesia imperialista nostrana che si attuano all’interno dell’alleanza imperialista!

– Organizzare i termini politico-militari per ricostruire i livelli necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata!

– Contribuire alla costruzione ed al rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista nella nostra area geopolitica, per combattere i progetti dell’imperialismo sulla linea della coesione europea, sia nei progetti di guerra diretti dalla NATO che si dispiegano in questo momento sulla regione mediterranea-mediorientale e lungo l’asse dei paesi dell’Est Europa!

– Guerra alla guerra, guerra alla NATO!

– Onore a tutti i rivoluzionari caduti combattendo l’imperialismo!

 

28/9/92

I militanti delle Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Comunista Combattente: Maria Cappello, Fabio Ravalli

Fonte: senzacensura.org

Processo per i fatti di Piazza Alberti – Dichiarazione di Pasquale Abatangelo

Firenze – 11 maggio 1976

In questa società composta di sfruttati e di sfruttatori, noi ci siamo schierati con la nostra classe, mettendo nella lotta tutte le nostre capacità di militanti comunisti. Come classe oppressa intendiamo l’esproprio alla borghesia una tappa obbligata nella costruzione del potere proletario. Le espropriazioni che per ora sono sporadiche e legate alla esigenza della nostra crescita, non sono che un anticipo all’espropriazione totale che la rivoluzione comunista attuerà nei confronti dei padroni. Il 29 ottobre 1974, durante un esproprio, in piazza Alberti caddero sotto il piombo dei cani da guardia della borghesia, i compagni Romeo e Mantini. La loro morte ha creato nelle avanguardie proletarie una presa di coscienza e una determinazione ad andare fino in fondo.

I N.A.P. sono oggi una realtà con cui i padroni e i loro servi dovranno fare i conti, Romeo o Mantini rivivono nelle nostre lotte e le azioni più importanti sono firmate “29 Ottobre” in loro onore. L’assassinio a sangue freddo di Anna Maria Mantini (fondatrice del nucleo armato 29 Ottobre) ci ha poi convinti definitivamente dell’importanza di ripagare con la stessa moneta i sicari o i loro mandanti. Di Gennaro, Vernich, Margariti, Tuzzolino e gli assalti armati ai covi dei carabinieri, sono solo il punto di partenza verso l’obiettivo di annientare le forze reazionarie.

In questa prospettiva ci siamo uniti con i compagni delle B.R. e con tutti i rivoluzionari e i comunisti degni di questo nome. I frutti di questa unione saranno molto amari per chi è abituato da 30 anni a ragionare in termini di voti conservando intatto il potere delegatogli dagli imperialisti. Come rivoluzionari non ci interessa il giudizio dei borghesi né quello dei loro lacchè; vogliamo creare una società alternativa a questa ed usiamo tutti i mezzi che le circostanze ci suggeriscono. La vostra “giustizia” si configura come una vendetta verso i compagni e come premio verso i servi per cui non ci interessa, anzi ci interessa solo il metodo per disorganizzarla e smascherarla agli occhi del popolo. Gli assassini di Serantini, Zibecchi, Boschi, Bruno e tanti altri proletari, sono noti a tutti, com’è noto che voi li assolvete e continuate ad assolverli per il semplice fatto che questi “killer” sono al servizio della classe dominante come lo siete voi. Anche in carcere non capita mai di vedere un borghese o un “boss” mafioso legato al letto di contenzione o in cella di punizione. Per non parlare di quelli che in carcere non ci vengono per niente, come i responsabili dei continui scandali politico-finanziari, da quello petrolifero a quello della Lockeed. Assistiamo da tempo ai vostri tentativi di criminalizzare la lotta di classe, e se questo poteva essere pericoloso qualche anno fa, oggi non fa altro che smascherarvi ogni giorno di più. I proletari sanno ormai da quale parte stanno i veri banditi, e l’abuso di questo termine ci ricorda che anche i gerarchetti fascisti davano del “bandito” ai partigiani. In questo modo accettiamo di essere “banditi” per voi e faremo di tutto per meritarlo sempre. La dura condanna che ci darete dimostra che non bastano più le calunnie mistificatrici della vostra stampa per nascondere alle masse che nel nostro paese esiste e cresce quotidianamente una sinistra armata. Perciò accoglieremo la vostra condanna come una nostra vittoria! Comunque, egregi signori, vorremmo ricordarvi che un domani dovrete rendere conto delle vostre azioni non a dio, ma alla giustizia proletaria.

 

II proletariato non dimentica… NIENTE RESTERA’ IMPUNITO!! L’UNICA GIUSTIZIA È QUELLA PROLETARIA!! TUTTO IL POTERE AL POPOLO ARMATO!!

 

Fonte: Nuclei Armati Proletari, Quaderno n. 1 di CONTROinformazione

Documenti dalle carceri e dai processi

1976
Maggio
Processo per i fatti di Piazza Alberti – Dichiarazione di Pasquale Abatangelo

1987
Marzo
Questa loquace area del silenzio
Cuneo, intervento di Giuliano De Roma

Aprile
La riforma è sempre annientamento
Documento di un gruppo di comunisti prigionieri del processo alla Colonna Napoletana delle Brigate Rosse

Maggio
Un’iniziativa da riprendere
Documento del militante delle BR-PCC Francesco Sincich allegato agli atti del processo di Genova

Riti di conservazione borghese
Milano: Processo di Appello Prima Linea – Documento di Giuseppe Bonicelli

Quale «ciclo storico» si è chiuso
Carcere di Novara

Giugno
Contro una trattativa infame
Documento dei militanti delle BR-PCC Alberta Biliato e Cesare Di Lenardo allegato agli atti del processo presso il tribunale di Venezia

La frattura fra Stato e movimento di classe
Roma: Documento di Susanna Berardi, Vittorio Bolognese, Lorenzo Calzone, Luciano Farina, Domenico Giglio, Natalia Ligas, Giovanni Senzani

Carcere di Novara. Per la ripresa della sinistra di classe
Alcune considerazioni in merito alla «battaglia di libertà» proposta da Bertolazzi, Curcio, Jannelli e Moretti

Movimentisti incalliti e falsi ingenui
Documento di alcuni prigionieri BR di Rebibbia

Luglio
I palestinesi e lo Stato imperialista italiano
Carcere di Trani – Comunicato di Hamidan Karmawi Ibrahim

Agosto
Cuneo: La lotta armata e gli sciacalli
Documento di Pasquale De Laurentis, Maurizio Ferrari, Aleramo Virgili

Quale «liberazione degli anni ’70»
Carcere di Novara – Documento di Prigionieri Comunisti per la Guerriglia Metropolitana

Settembre
Le Brigate Rosse contro la soluzione politica.
Carcere di Cuneo – Documento dei militanti delle BR-PCC Piero Bassi, Cesare Di Lenardo, Franco Sincich (Depositato agli atti – Tribunale Torino)

Necessità della rottura rivoluzionaria
Carcere di Cuneo – Documento di Renato Bandoli

La linea di demarcazione.
Carcere di Cuneo – Documento di Adriano Carnelutti, Giuliano Deroma, Carlo Garavaglia, Ario Pizzarelli

Ricostruzione del movimento rivoluzionario o soluzione-dissoluzione politica
Note intorno al dibattito sulla liberazione.
Carceri di Cuneo e Rebibbia – Documento di Paolo Cassetta, Prospero Gallinari, Francesco Lo Bianco, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti

La nostra memoria storica: la scelta di rottura radicale con lo Stato.
Carcere di Voghera – Documento di Laura Braghetti, Fernanda Ferrari, Caterina Francioli, Inge Kitzler, Patrizia Sotgiu

L’unico processo di liberazione possibile: rivoluzione sociale
Carcere di Voghera – Documento delle prigioniere comuniste per la guerriglia metropolitana Aurora Betti, Ada Negroni, Teresa Romeo, Marina Sarnelli

Un’ipoteca sulla ripresa rivoluzionaria
Carcere di Voghera, alcune compagne

Criticare non assolutizzare gli errori
Documento di un gruppo di prigionieri (Kamo)

Ottobre
Il confronto deve partire dalla realtà
Carcere di Cuneo – Documento di alcuni comunisti prigionieri

1988

Aprile
Roma, processo Moro-Ter.
Dichiarazione di Vittorio Antonini allegata agli atti

Roma, processo Moro-ter – Dichiarazione di Susanna Berardi, Vittorio Bolognese, Lorenzo Calzone, Luciano Farina, Natalia Ligas, Giovanni Senzani

Roma – Dichiarazione dei militanti Br-Pcc Domenico Delli Veneri, Antonino Fosso, Sandro Padula, Remo Pancelli

Giugno
Lottare contro la tortura e l’isolamento.
Documento di alcuni detenuti del carcere di Cuneo

Identità politica.
Tribunale di Venezia – Documento di Cesare Di Lenardo, militante delle BR-PCC allegato agli atti

Contro il nemico sionista
Carcere di Rebibbia, documento di Ahmad Sereya e Birawi Tamer

A proposito della rifunzionalizzazione dello Stato
Carcere di Rebibbia – Documento di alcuni militanti prigionieri delle BR/PCC

Contro l’isolamento di Abdullah El Mansouri
Carcere di Cuneo, documento del Collettivo prigionieri antimperialisti “La linea di demarcazione”

Luglio
Un esempio di collaborazione poliziesca.
Dichiarazione di Alessandra Di Pace, Gianfranca Lupi, Francesco Tolino al processo di estradizione della “Audiencia National” spagnola

Sono maturati i tempi.
Carcere di Latina – Documento delle prigioniere comuniste per la Guerriglia Metropolitana – Susanna Berardi, Anna Cotone, Natalia Ligas, Rosa Mura, Teresa Romeo, Marina Sarnelli, Caterina Spano, Pia Vianale

Settembre
Costruire e consolidare il Fronte Combattente Antimperialista
Roma, processo per Insurrezione – Dichiarazione comune di Brigate Rosse e Rote Armee Fraktion letta in aula dai militanti delle BR-PCC Sandro Padula e Francesco Sincich il 4.4.89

Ottobre
Unità nella lotta antimperialista.
Processo di Roma – Comunicato dei militanti delle BR-PCC Cappello Maria, Grilli Enzo, Grilli Franco, Lori Flavio, Marini Fausto, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio e dei militanti rivoluzionari: Bencini Daniele, Prudente Cesare, Pulcini Carlo, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco letto in aula e allegato agli atti

Per l’unità dei rivoluzionari nella lotta contro l’imperialismo.
Allegato agli atti del processo Moro-ter, Seconda Corte d’Assise di Roma

Novembre
Firenze – Dichiarazione dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente Maria Cappello e Fabio Ravalli

Da un militante BR processato in Svizzera.
Documento di Antonio De Luca messo agli atti

1989
Marzo
Costruire e consolidare la rivoluzione in Sardegna
Seconda Corte d’Assise di Roma, Dichiarazione di Pietro Coccone e Mauro Mereu agli atti del processo “BR-Insurrezione armata contro i poteri dello stato”

Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
Roma, Aula bunker, processo di appello per le armi – Comunicato dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Fausto Marini, Stefano Minguzzi, Fulvia Matarazzo, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Cesare Prudente, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro letto in aula

La lotta dei compagni prigionieri tedeschi è la nostra lotta!
Carcere di Novara – Comunisti prigionieri del “Blocco B”

Sosteniamo la lotta dei compagni prigionieri contro l’isolamento!
Seconda Corte di Assise di Roma, Processo “BR – Insurrezione armata contro i poteri dello stato” – Documento di alcuni compagni del “Collettivo Comunisti Prigionieri, Wotta Sitta” Vittorio Bolognese, Salvatore Colonna, Natalia Ligas, Giovanni Senzani agli atti del processo

Il processo per insurrezione armata contro i poteri dello Stato come dichiarazione di morte presunta della guerriglia in Italia.
Corte d’Assise di Roma, Comunicato dei militanti delle BR-PCC Sandro Padula e Francesco Sincich consegnato durante il processo

Aprile
Proposta al dibattito sulla continuità e ripresa del movimento rivoluzionario.
Roma, processo per “insurrezione” – Dichiarazione di Mario Fracasso, Maurizio Ferrari, Mario Mirra messa agli atti

Maggio
Riaffermare i principi comunisti e gli insegnamenti della lotta rivoluzionaria.
Roma, processo “BR-Insurrezione“
Dichiarazione di Vittorio Antonini allegata agli atti

Continuare la lotta contro lo sfruttamento e la politica guerrafondaia dell’imperialismo.
Roma, processo per “Insurrezione”
Dichiarazione dei militanti delle BR-PCC Sandro Padula, Franco Sincich letta in aula e allegata agli atti

L’identità dei prigionieri rivoluzionari è parte integrante dello scontro di classe.
Dichiarazione di alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta – Vittorio Bolognese, Salvatore Colonna, Natalia Ligas, Giovanni Senzani allegata agli atti.
Seconda Corte d’Assise, Roma – “Processo Insurrezione Armata – Guerra Civile”

Dichiarazione di Mario Mereu e Pietro Coccone

Giugno
Quale superamento?
Un’altra voce dal processo della Unione dei Comunisti Combattenti
Documento di Alessandra Di Pace, Gianfranca Lupi, Roberto Simoni, Francesco Tolino

Approfondire la crisi politica della borghesia imperialista
Tribunale di Milano, processo di appello per le armi – Comunicato dei prigionieri BR-PCC Tiziana Cherubini, Rossella Lupo, Franco Galloni depositato agli atti

Luglio
Contro la deportazione e per il definito e incondizionato rimpatrio in Sardegna.
Documento di Giacominu Baragliu, Vincenzo Piras, Costantinu Pirisi

Roma: Lettera aperta al movimento rivoluzionario.
Collettivo Wotta Sitta

Dicembre
Lo Stato e il monopolio della violenza
Processo “BR Insurrezione” 2° troncone – Dichiarazione di Renato Bandoli allegata agli atti

Processo per “Insurrezione” – Secondo troncone. Documento dei militanti delle Br-Pcc Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo, Antonino Fosso, Flavio Lori allegato agli atti

Il ruolo politico del Fronte Combattente Antimperialista
Firenze, Aula Bunker Santa Verdiana – Processo alla “Brigata Luca Mantini”
Comunicato dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello e Fabio Ravalli letto e allegato agli atti

Il processo di costruzione del PCC attraverso la direzione strategica della guerra di classe.
Firenze, Aula Bunker Santa Verdiana – processo alla “Brigata Luca Mantini”
Documento dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello e Fabio Ravalli allegato agli atti

La controrivoluzione degli anni ’80 e i compiti delle forze rivoluzionarie.
Roma, Aula Bunker Rebibbia, Processo per insurrezione – Documento di Marcello Ghiringhelli allegato agli atti

Costruire i termini attuali della guerra di classe.
Roma, Aula bunker Rebibbia – Processo insurrezione – Documento dei militanti delle BR-PCC Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo, Antonino Fosso, Flavio Lori allegato al processo

Il nostro sostegno militante alle compagne e ai compagni della RAF. Documento di Giuliano De Roma, Ario Pizzarelli, Patrizia Sotgiu messo agli atti del processo per “Insurrezione”

Per la costruzione del Fronte Rivoluzionario in Europa occidentale.
Roma, Processo per “Insurrezione”, documento dei Aurora Betti e Nicola De Maria allegato agli atti

1990

Febbraio
Grazie di cuore alla democrazia italiana! Comunicato di Hamidan Karmawi, militante rivoluzionario arabo-palestinese

Solidarietà con i prigionieri politici spagnoli in sciopero della fame per il raggruppamento! Carcere di Marino del Tronto, documento di Pietro Coccone e Giovanni Senzani

Contro il pestaggio dei prigionieri del blocco B di Novara.
Alcune compagne del carcere speciale di Latina

Costruire e organizzare i termini attuali della lotta di classe
Corte di Assise di Appello di Genova, processo di appello per associazione sovversiva – Documento agli Atti di Simonetta Giorgieri militante delle BR-Pcc

Disarticolare il progetto di rifunzionalizzazione dello Stato
Quinta Corte d’Assise di Roma, processo per “banda armata” – Dichiarazione letta in aula e allegata agli atti dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini.

Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
Documento del militante delle BR-PCC Giuseppe Armante

La priorità dell’antimperialismo nella prassi rivoluzionaria della guerriglia.
Quinta Corte d’Assise di Roma – Dichiarazione dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini allegata agli atti del processo per “banda armata”

Marzo
Napoli: Lottare insieme
Alcune compagne del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta del carcere di Latina. Susanna Berardi, Anna Cotone, Natalia Ligas, Rosa Mura, Caterina Spano, Maria Pia Vianale

Aprile
Per una conoscenza critica dei lineamenti essenziali della “perestroika”.
Carcere speciale di Novara, Blocco B – Il militante delle BR-PCC Sandro Padula

Maggio
Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di “riforma” dello Stato.
Corte d’Assise di Forlì, “Processo Ruffilli” – Documento dei militanti delle BR-Pcc Cappello Maria, Cherubini Tiziana, De Luca Antonio, Galloni Franco, Grilli Franco, Lupo Rossella, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio e dei militanti rivoluzionari Bencini Daniele, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco allegato agli Atti.

Giugno
Unità dei prigionieri politici europei nella lotta contro il blocco imperialista
Alcuni compagni del carcere di Trani

Luglio
Roma: Dichiarazione dei militanti arabi Hamidan Karmawi e Hammami Ahmed allegata agli atti del processo per “banda armata”

Prima Corte d’Assise di Roma, Processo “Tarantelli”, Dichiarazione di Antonino Fosso allegata agli Atti

Settembre
Sulle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario.
Corte d’Appello di Parigi, prima Chambre d’accusation. Documento dei militanti delle BR per la costruzione del PCC Giorgieri Simonetta, Vendetti Carla e dei militanti rivoluzionari Bortone Nicola e Gino Giunti letto all’appello all’ordinanza di prolungamento della carcerazione preventiva.

Roma: La mia assenza è un atto d’accusa
Comunicato del militante arabo Hamidan Karmawi Ibrahim

Il tallone imperialista nel Tricontinente e la “crisi del Golfo”
Carcere di Novara – Documento del militante delle Br-Pcc Sandro Padula

Ottobre
NO ALL’ISOLAMENTO!
Documento di un gruppo di compagni del carcere di Trani

Lottare uniti contro l’imperialismo in Europa e nel Tricontinente del Sud
Seconda Corte di Assise di Roma – Documento di alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta, Luciano Farina, Giovanni Senzani, allegato agli atti del processo BR-Romiti.

Novembre
Analisi sull’imperialismo
Documento di un gruppo di compagni detenuti nel carcere di Cuneo

La centralità della guerriglia nel processo rivoluzionario
Quarta Corte d’Assise d’Appello di Roma – Dichiarazione del militante rivoluzionario Carlo Garavaglia allegata agli atti del processo M.C.R. (Movimento Comunista Rivoluzionario)

Dicembre
Attaccare  il cuore dello Stato attaccare le politiche centrali dell’imperialismo.
Tribunale di Cuneo – Comunicato presentato il 18 dicembre 1990 dai militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

1991
Gennaio
Contro la guerra imperialista
Seconda Corte d’Assise di Roma, processo “BR-Romiti” – Documento allegato agli atti di Luciano Farina e Giovanni Senzani del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta

Guerra alla guerra imperialista
Seconda Corte di Assise di Roma – Dichiarazione dei militanti BR-PCC Giuseppe Armante, Antonio De Luca, Franco La Maestra allegata agli atti del processo del 7-1-91

Febbraio
Guerra alla guerra
Seconda Corte d’Assise di Roma – Processo “BR-Romiti”
Documento allegato agli atti di Luciano Farina e Giovanni Senzani del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta

Marzo
Tribunale di Cuneo. Documento dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

Aprile
Sesta Corte Penale, Napoli – Documento di Anna Cotone del Collettivo Comunisti Prigionieri “Wotta Sitta” allegato agli atti del processo-stralcio del Moro Ter

Tribunale di Bologna. Dichiarazione dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli., Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

Tribunale di Bologna. Documento allegato agli atti dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

Maggio
Corte d’Appello di Parigi, Prima Camera d’Accusa: Dichiarazione dei militanti delle Br-Pcc Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti e dei militanti rivoluzionari Nicola Bortone e Gino Giunti

Giugno
Carcere di Novara. Intervento dei Compagni del Collettivo Wotta Sitta alla “Giornata internazionale sulla questione della prigionia rivoluzionaria nel mondo” del 19.6.91

Settembre
Corte d’Appello di Parigi. Prima Camera d’Accusa – Documento delle militanti BR-PCC Simonetta Giorgieri, Carla Vendetti e dei militanti rivoluzionari Nicola Bortone e Gino Giunti allegato agli atti

Novembre
Roma, Processo per banda armata – Documento di Giuseppe Armante e Franco La Maestra allegato agli atti

1992
Febbraio
La pace imperialista è guerra!
Roma, processo d’appello Moro-ter – Documento allegato agli atti del Collettivo comunisti prigionieri Wotta Sitta

Roma, processo d’appello Moro-ter – Documento dei militanti prigionieri delle Br-Pcc Antonino Fosso e Sandro Padula allegato agli atti

Maggio
Firenze, processo di primo grado “Lando Conti” – Dichiarazione finale di Maria Cappello, Antonino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli, Daniele Bencini, Marco Venturini

Le minacce e i ricatti controrivoluzionari non intaccano la militanza dei prigionieri comunisti. Documento di Stefano Scarabello dal carcere di Carinola

Firenze, processo di primo grado “Lando Conti” – Ricordo di Carlo Pulcini di Maria Cappello, Antonino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli, Daniele Bencini, Marco Venturini

Firenze, processo di primo grado “Lando Conti“ – Documento di Maria Cappello, Antonino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli, Daniele Bencini, Marco Venturini

Settembre
Firenze, processo alla Brigata “Luca Mantini” – Documento di Maria Cappello e Fabio Ravalli allegato agli atti all’udienza del GIP

Novembre
«In una società in cui sussistono le classi, la lotta di classe non può finire». Documento di Carla Biano allegato agli atti del processo in Corte d’Assise d’Appello di Firenze

La “campana” non addomesticata dal carcere speciale di Voghera – Documento di alcuni detenuti

1993
Gennaio
Firenze, processo alla Brigata “Luca Mantini” – Comunicato letto in aula da Maria Cappello e Fabio Ravalli

1994
Giugno
Dal processo “Aviano”.
Dichiarazione dei militanti Br-Pcc Francesco Aiosa e Ario Pizzarelli e dichiarazione di Paolo Dorigo presentate al processo di Udine relativo all’attacco alla base USA di Aviano e allegate agli atti

Giugno-agosto
Due interventi di militanti prigionieri delle BR-PCC critici rispetto ai contenuti espressi nell’azione contro la base Usa di Aviano

2002
Giugno
Carcere di Biella – Dichiarazione sull’azione contro Marco Biagi di Nicola De Maria, militante delle BR – Colonna Walter Alasia

Settembre
Seconda Corte d’Assise del Tribunale di Roma
Dichiarazione dei militanti delle Br-Pcc Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Flavio Lori, Fabio Ravalli e della militante rivoluzionaria Vincenza Vaccaro allegata agli atti del processo “esproprio-Hunt”

2003
Marzo
Tribunale di Milano, udienza del 26 marzo 2003
Dichiarazione di Francesco Aiosa, Cesare Di Lenardo, Stefano Minguzzi, Ario Pizzarelli in ricordo di Mario Galesi

Ottobre
Prima Corte d’Assise d’Appello di Roma, Processo “Esproprio”. Udienza del 07/10/2003
Dichiarazione letta in aula da Stefano Minguzzi, allegata agli atti

Prima corte d’Assise d’Appello di Roma, Processo “Esproprio”.
Dichiarazione di Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Flavio Lori, Fabio Ravalli, Vincenza Vaccaro letta in aula all’udienza del 7/10/2003

2004
Maggio
Processo di Firenze per i fatti del 2 marzo 2003
Documento della militante delle BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente Nadia Lioce

Giugno
Processo di Firenze per i fatti del 2 marzo 2003.
Documento di Nadia Lioce letto in aula il 9 giugno 2004

Luglio
Seconda Corte di Assise di Roma, Processo D’Antona e banda armata. Udienza del 7 luglio 2005. Documento dei militanti delle BR-PCC Nadia Lioce e Roberto Morandi depositato agli atti

Settembre
Tribunale di Roma, udienza GUP 13/09/2004.
Dichiarazione di Francesco Donati allegata agli atti

Ottobre
Tribunale di Bologna, processo Biagi. Documento di Nadia Lioce e Roberto Morandi depositato agli atti dell’udienza preliminare del 5 ottobre 2004

2005
Febbraio
Tribunale di sorveglianza di Firenze – Dichiarazione del militante delle BR-PCC Roberto Morandi allegata agli atti dell’udienza del 11.02.2005 per ricorso al provvedimento di 41 bis

Tribunale di Trani, udienza del 22/2/2005
Documento di Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fabio Ravalli
Vincenza Vaccaro allegato agli atti del processo davanti al giudice monocratico

Marzo
Tribunale di Trani, Udienza del 2 marzo 2005
Dichiarazione di Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fabio Ravalli, Vincenza Vaccaro al processo davanti al giudice monocratico. In ricordo di Mario Galesi.

2006
Maggio
Processo in Corte di Assise di Appello Roma “Banda armata-D’Antona”
Documento dei militanti BR-PCC Nadia Lioce, Roberto Morandi letto in collegamento video-conferenza e allegato agli atti – Udienza dell’11/05/2006

2007

Marzo
Chi sono le mele marce?
Documento di Vincenzo Sisi, militante per la costituzione del Partito Comunista Politico militare

Maggio
Il tramonto non vincerà mai sull’alba.
Documento di Claudio Latino militante per la costruzione del partito comunista politico-militare

Ottobre
Stammheim – Mogadiscio 1977: Il coraggio dell’internazionalismo
Documento dei militanti prigionieri per la costituzione del PC P-M Davide Bortolato, Alfredo Davanzo, Claudio Latino, Vincenzo Sisi

Dicembre
12 dicembre 2007: Lo STATO delle STRAGI – Contro la RIVOLUZIONE PROLETARIA
Udienza preliminare processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”
Dichiarazione di Davide Bortolato, Alfredo Davanzo, Claudio Latino, Vincenzo Sisi militanti per la costituzione del PC(p-m)

Dichiarazione sciopero della fame contro l’isolamento
Processo PCP-M, militanti comunisti

2008
Marzo
Rivoluzione o controrivoluzione
Processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”
Dichiarazione dei militanti per la costituzione del Partito Comunista politico-militare PC(p-m)

Giugno
Contro la militarizzazione e la repressione della lotta di classe Resistenza – Rivoluzione
Dichiarazione dei Militanti Comunisti imputati al processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”

Novembre
Solidarietà agli ergastolani in sciopero della fame
Militanti comunisti, processo PCP-M di Milano

La rivoluzione è necessaria, la rivoluzione è possibile
Documento dei Militanti per la Costruzione del Partito Comunista Politico-Militare Bortolato Davide, Davanzo Alfredo, Latino Claudio, Sisi Vincenzo, e dei Militanti Comunisti Rivoluzionari Gaeta Massimiliano, Toschi Massimiliano

Dicembre
Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila – Comunicato di Nadia Lioce

2009
Gennaio
Come viene gestita la sezione EIV (Elevato Indice di Vigilanza)
Lettera e volantino di alcuni detenuti del carcere di Alessandria

Maggio
La rivoluzione non si processa
Processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”
Dichiarazione di Claudio Latino, Alfredo Davanzo, Davide Bortolato, Vincenzo Sisi

Elementi di Bilancio del Processo PC P-M.
Documento dei militanti per la costruzione del PC P-M Bortolato Davide, Davanzo Alfredo, Latino Claudio e Sisi Vincenzo e dei militanti comunisti rivoluzionari Gaeta Massimiliano e Toschi Massimiliano

2010
Gennaio
Ci costituiamo in Collettivo comunisti prigionieri.
Documento di Bortolato Davide, Davanzo Alfredo, Latino Claudio, Sisi Vincenzo, Toschi Massimiliano

Maggio
Intervento fatto in aula il 27 maggio dal compagno Claudio Latino a nome dei compagni Alfredo Davanzo, Vincenzo Sisi, Davide Bortolato del Collettivo Comunisti Prigionieri “L’Aurora” e del militante comunista prigioniero Massimiliano Toschi


Settembre
Lettera aperta di Franco Galloni alla redazione di “Solidarietà – per la costruzione del Soccorso Rosso in Italia”, ai compagni che s’interessano alla campagna di solidarietà ai prigionieri e a tutto il movimento rivoluzionario, in merito alla “campagna di liberazione dei prigionieri di lunga detenzione“.

2011
Gennaio
La più utile solidarietà ai militanti prigionieri rivoluzionari è sviluppare la lotta rivoluzionaria.
Documento del Collettivo comunisti prigionieri L’Aurora

Aprile
Lotte e composizione di classe 2010/2011
Due militanti per il PCP-M (vecchie talpe operaie)

Maggio
Primo maggio: dalla resistenza alla crisi all’organizzazione rivoluzionaria
Collettivo Comunisti Prigionieri L’Aurora

2012
Maggio
Crisi e organizzazione
Processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”
Dichiarazione processuale di Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi militanti per il PC P-M

A proposito della nostra firma.
Allegato non processuale di Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi

Luglio
Processo PCP-M, un bilancio
Documento dal carcere di Siano di Vincenzo Sisi e Alfredo Davanzo militanti per il PCP-M

2013
Maggio
Primomaggio – Lotte e composizione di classe 2012
Militanti per il PCP-M (vecchie talpe operaie)

Giugno
5-6 luglio 2013. Giornate internazionali di solidarietà al compagno Georges I. Abdallah
Dichiarazione dei militanti per il PC P-M Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi

Novembre
Militarizzazione e macchina mediatica
Documento dal carcere di Siano di Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi

Settembre
Contro la repressione, nuova determinazione
Documento dal carcere di Siano di Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi

FONDO VINCENZO SOLLI

Norme di comportamento (stralcio) – 1974

LA CLANDESTINITÀ

La clandestinità è una condizione indispensabile per la sopravvivenza di una organizzazione politico-militare che operi all’interno delle metropoli imperialiste. La condizione di clandestinità non impedisce che l’organizzazione si svolga per linee interne alle forze dell’area dell’autonomia operaia. Oltre alla condizione di clandestinità assoluta si presenta perciò, nella nostra esperienza, una seconda condizione in cui il militante pur appartenendo all’organizzazione, opera nel movimento, ed è quindi costretto ad apparire e muoversi nelle forme politiche che il movimento assume nella legalità. Questo secondo tipo di militanza clandestina da un punto di vista politico è alla base della costruzione delle articolazioni del potere rivoluzionario; da un punto di vista militare è a fondamento dello sviluppo delle milizie operaie e popolari. Operare a partire dalla clandestinità consente un vantaggio tattico decisivo sul nemico di classe che vive invece esposto nei suoi uomini e nelle istallazioni. Questo vantaggio viene annullato quando la clandestinità è intesa in senso puramente difensivo. La concezione difensiva della clandestinità sottintende o nasconde l’illusione che lo scontro tra borghesia e proletariato in ultima analisi si giochi sul terreno politico piuttosto che su quello della guerra e cioè che gli aspetti militari siano in fondo solo aspetti tattici di supporto. Il lavoro politico di ogni compagno si svolge all’interno di una colonna. Tutti i rapporti politici devono dunque essere controllati e valutati. […] Non si deve mai andare a un appuntamento o fare un lavoro particolare senza che qualcun altro dell’organizzazione non ne sia al corrente. In particolare per contatti con nuovi elementi esterni è necessaria una discussione preventiva coi responsabili della colonna. È necessario anche discutere la necessità di predisporre misure di sicurezza adeguate al caso. Ogni contatto deve essere regolato secondo un modo prestabilito. Nel caso in cui salti un appuntamento ne deve essere fissato automaticamente un altro di recupero permanente. Questa norma può essere usata come misura di sicurezza, soprattutto qualora un rapporto non sia ancora completamente verificato. Si può saltare appositamente un appuntamento e mandare un compagno in perlustrazione nella zona. I luoghi degli appuntamenti vanno quindi precedentemente studiati e conosciuti nei minimi particolari. Ogni luogo deve avere le seguenti caratteristiche: essere controllabile e ammettere una eventuale ritirata verificata e predisposta. […] Viaggiando evitare ogni occasione di litigio; guidare con estrema prudenza e totale rispetto del codice stradale. È necessario arrivare un po’ in anticipo agli appuntamenti per poter perlustrare la zona e per evitare di essere visti con la propria macchina posteggiata tenendo appunto presente l’eventualità di una fuga. Ogni militante deve avere i suoi luoghi di appuntamento. Fa parte del suo lavoro. È necessario inoltre evitare di ripetere gli appuntamenti negli stessi luoghi o per lo meno variarli con una certa frequenza. Vanno evitati i parchi pubblici, luoghi molto affollati, vicino a banche o istituzioni militarizzate. È preferibile evitare i centri più militarizzati ed incontrarsi nell’hinterland.

APPUNTI: 1. Non si prendono se riguardano l’organizzazione e la sua vita: si memorizzano. 2. Valgono per tutte le analisi generali, evitando di indicare nomi, luoghi, situazioni determinanti. 3. Non dimenticarli, non portarli con sé in azione. 4. Prestarli solo in caso di reale necessità. 5. Non vi devono figurare né indirizzi né tantomeno numeri telefonici.

DISCORSI: 1. Evitare discussioni sulla vita dell’organizzazione – anche con compagni – fuori dalle sedi adatte. 2. Nei luoghi pubblici, quando ci si trova tra compagni, si evitano pre o post riunioni: questo specie in vicinanza delle sedi. 3. Partire dall’ipotesi che tutti i telefoni sono controllati e quindi limitarne l’uso a brevi comunicazioni.

MACCHINE: Anche la macchina è un bene che l’organizzazione dà in dotazione al compagno. Egli è dunque responsabile della sua manutenzione. I documenti della macchina vanno accuratamente controllati al momento della consegna per verificare eventuali imperfezioni. Essi vanno inoltre periodicamente controllati tenendo presenti le varie scadenze dei bolli, della patente. La macchina all’interno deve figurare ordinata. Non devono esserci accumulati giornali di ogni genere, volantini o cartacce. Ogni sera occorre togliere l’eventuale radio o mangianastri, o altro che possa attirare l’attenzione dei ladruncoli. La macchina non deve essere prestata a nessuno salvo casi effettivamente urgenti o eccezionali. […] Deve diventare abitudine di ogni compagno quella di guardare spesso lo specchietto retrovisore delle macchine. In particolare ogniqualvolta si rincasa o ci si reca in qualsiasi struttura dell’organizzazione occorre accertarsi di non essere seguiti. È bene prendere l’abitudine di compiere qualche giro vizioso appositamente studiato per verificare in modo sicuro di non essere pedinati 1. Non posteggiarle nelle vicinanze delle sedi. 2. In ogni caso la macchina, anche in azione, deve contenere solo il minimo indispensabile di attrezzi meccanici utili per il suo ed il nostro effettivo funzionamento. 3. Partire dall’ipotesi che la macchina può essere perquisita o ispezionata in qualsiasi momento. 4. Non sempre la macchina è il mezzo migliore di riparo. 5. Le macchine nuove non devono essere intestate ai compagni. 6. Che bollo e patente siano sempre in regola e la macchina in perfetta efficienza. 7. I compagni devono sempre sapere il nome del proprietario della macchina presa in prestito.

CASE: «La casa è un bene dell’organizzazione che viene affidata in dotazione al militante: essa deve essere gestita secondo regole precise, inderogabili, uguali per tutti. Ogni casa deve essere frequentata esclusivamente dai militanti che ci abitano e conosciuta da un altro membro dell’organizzazione o della colonna precedentemente designato. Quest’ultimo dovrà recarsi nella casa solo per ragioni di particolare necessità. È ovvio, ma purtroppo necessario, ribadire che nessun altro (familiari, compagni legali e di brigata) deve conoscere né la casa di abitazione né la zona dove essa è ubicata. La tecnica di portare un compagno nella propria struttura con gli occhi bendati va rivista e usata solo in casi di assoluta emergenza. […] La strada deve prestarsi ad un facile controllo da parte del militante e a un controllo scoperto da parte del potere; cioè possibilmente non deve essere vicina a bar, luoghi pubblici di vario genere: negozi, istituti, magazzini. Quando un compagno prende possesso di una casa dell’organizzazione il suo primo compito è quello di costruirsi, nei dettagli anche minimi, come una figura sociale ben definita. Decide di presentarsi come operaio Fiat, o come professore, o come rappresentante. […] Il ruolo che ogni compagno si è assunto deve poi manifestarsi coerentemente nella sua vita di tutti i giorni. […] Se ad esempio si è assunto il ruolo di artigiano, bisognerà uscire di casa prima delle otto del mattino e non rientrarci fino alle 12.30, riuscire alle 14 e rientrare alle 19 o dopo. Ciò significa che ogni compagno si deve organizzare il proprio lavoro (appuntamenti, inchieste) secondo orari precisi […]. Salvo casi eccezionali ogni militante deve rincasare entro mezzanotte. Se non è strettamente necessario, i pasti li consuma a casa. […] Va detto che il ruolo assunto da ogni compagno va studiato attentamente per poter giustificare l’eventuale irregolarità del proprio comportamento. Per principio ogni militante deve presentarsi con aria rassicurante e gentile con i vicini di casa, ma è assolutamente necessaria una stretta riservatezza. 1. Non tenere in casa nulla dell’organizzazione e dei compagni: il materiale deve essere consegnato a Z (è il responsabile dei collegamenti della singola colonna) per la centralizzazione. 2. Partire dall’ipotesi che la casa può essere perquisita e ispezionata in ogni momento. In caso di perquisizione chiedere prima di avvertire il proprio legale, che ha il diritto di assistervi. 3. Come nei luoghi pubblici, non assumere atteggiamenti provocatori e di disturbo. 4. Per chi trasloca, scegliere stabili con citofono, onde evitare costi inutili di portierato. PERSONA: Ogni compagno deve essere decorosamente vestito ed in ordine nella persona: barba fatta, capelli tagliati. È bene girare con non più di due documenti e cioè la patente e una carta d’identità non legata ad alcunché. Bisogna avere con sé solo il materiale strettamente necessario al lavoro che si sta conducendo. Ogni militate dovrà portare la propria arma addosso. […] In caso di arresto, subito si declinano le generalità del documento di cui si è in possesso. Solo davanti al magistrato si declinano le proprie generalità. Ogni militante deve rifiutarsi di rispondere a qualsiasi tipo di domanda. La rivendicazione della propria identità politica è un fatto successivo che possibilmente verrà concordato con l’organizzazione. […] Nei riconoscimenti, se si viene arrestati, è bene riuscire a scambiarsi di posto con qualunque carabiniere accanto, poiché spesso il riconoscimento è già prestabilito. […] In ogni ora il nemico può individuare una base, ad ogni appuntamento il compagno può essere pedinato, il colpo può arrivare in qualsiasi momento, tutta la notte e per tutto il giorno. In caso di arresto, negare sempre. L’esperienza dimostra che il nemico difficilmente è in grado di colpire mentre entriamo in azione, mentre più frequentemente sferra gli attacchi infilandosi nella smagliatura dell’organizzazione. […] Nei rapporti con i familiari vanno tenuti presenti i tempi politici del lavoro dell’organizzazione. Prima e dopo le azioni, grosse o piccole che siano, non si possono avere rapporti. Quando la repressione colpisce le zone legali occorre tenersi nel modo più assoluto lontani. Bisogna avere cura di costruire alibi resistenti ai legali, qualora si trascorra con essi un periodo di tempo. […] Per lavoro clandestino intendiamo il consolidamento di una base materiale economica, militare e logistica che garantisca una piena autonomia alla nostra organizzazione e costituisca un retroterra strategico al lavoro tra le masse. […] È molto importante per l’organizzazione riuscire a non farsi fotografare o tanto meno riprendere in TV. Spesso questi fatti hanno causato la caduta di strutture dell’organizzazione. 1. Portare sempre con sé un documento di riconoscimento che deve essere esibito su richiesta. In caso di rifiuto si viene accompagnati in questura per rilievi segnaletici. 2. Controllare la scadenza del passaporto e tenerlo aggiornato. Chi non lo avesse lo faccia subito. 3. I compagni con precedenti penali possono controllare la loro posizione mediante richiesta di certificati penali. 4. Il taccuino dei numeri di telefono e dei nomi dei compagni deve essere abolito: i numeri corrispondenti si trovano sull’elenco telefonico, quelli di uso corrente si imparano a memoria; quelli che non appaiono sulla giuda e che non si memorizzano, si cifrano personalmente e si scrivono su un foglietto. 5. Le agende degli appuntamenti sono ammesse purché i fogli degli appuntamenti scaduti siano distrutti; si consiglia l’uso di schede settimanali. 6. Gli indirizzi dell’organizzazione devono essere consegnati a Z per la centralizzazione. 7. Partire dall’ipotesi che l’abito non fa il monaco.

LEGAMI DI PARENTELA E AMICIZIA: I rapporti con la legalità sono il punto più debole di tutto il nostro lavoro. L’accerchiamento periferico avviene infatti a partire da quelle zone legali che si sospetta siano in contatto con l’organizzazione: mogli, famiglie, avanguardie politiche che si espongono. Dobbiamo dare per scontato che a partire da questi punti in nemico cercherà di giungere ai compagni clandestini. È necessario dunque regolamentare questi rapporti nella maniera più rigida. 1.Verso il mondo esterno bisogna acquisire una dimensione di “autonomia” ponendo una barriera tra sé e gli altri. 2. Liquidare il proprio passato pericoloso.

RAPPORTI CON COMPAGNI ESTERNI ALL’ORGANIZZAZIONE: Per nessun motivo i compagni delle forze regolari devono frequentare le case dei compagni irregolari o di militanti non completamente esterni all’organizzazione. 1. Con tali compagni la discussione riguarda esclusivamente le analisi generali e la strategia. Non si deve fare assolutamente alcun riferimento all’organizzazione.

VIGILANZA: 1. Ogni compagno deve essere in grado di cogliere, valutare e verificare (nei pressi dell’abitazione, della sede o quando è in auto) tutte le situazioni anomale (spie, piantoni, macchine sospette, ecc) e deve indicare tutti i dati possibili a Z. I sospetti devono essere verificati onde evitare tensioni allarmistiche inutili; questo vale anche per notizie eventuali di fermi ecc. di altri compagni, perquisizioni di case o sedi e arrivo di fascisti. 2. Queste note non basta averle in tasca o in testa: si devono assimilare e mettere in pratica si da ora. Poi si distruggono.

OGNI LEGGEREZZA È L’INIZIO DI UN TRADIMENTO. ANCHE SENZA VOLERLO POSSIAMO COMPORTARCI DA SPIE E DA DELATORI. IL RISULTATO NON CAMBIA: LA SI PAGHERà CARA

 

La sintesi

(documento interno – 1983)

 

Il dibattito autocritico scaturito dal documento: “Elementi del bilancio politico della sconfitta del soggettivismo”, dibattito non privo di contraddizioni, ha avuto dall’inizio due presupposti fondamentali:

1) non si mette in discussione un caposaldo fondamentale sviluppatosi negli ultimi dodici anni, la Lotta Armata come strategia per la transizione al comunismo, come unica politica proletaria e rivoluzionaria; la guerriglia come: “….soluzione al bisogno strategico di mantenere l’offensiva”, come acquisizione più avanzata dello sconto di classe.

2) non si apre la porta allo scioglimento dell’avanguardia comunista combattente all’interno del movimento rivoluzionario, non ci proponiamo come “area di dibattito”, ma come OCC BR che con il suo patrimonio teorico pratico, nel bene o nel male, ha rappresentato il punto giù alto di direzione del processo rivoluzionario.

In questo senso, pur in una situazione che abbiamo definito di emergenza (peraltro niente affatto conclusa), abbiamo mantenuto istanze di dibattito, di lavoro, di direzione. Così come nel confronto con le avanguardie comuniste presenti nel movimento rivoluzionario, pur affrontando questioni di ordine teorico e strategico per la ridefinizione di un impianto generale, non abbiamo mai abbandonato i principi di: organizzazione che differenziano i membri effettivi, i membri candidati, dai contatti. Tuttavia era in inevitabile che questa riflessione, proprio per il suo carattere di messa in discussione dell’impianto strategico, producesse, insieme a posizioni positive, altre negative, contraddizioni, riserve, perplessità e sfiducia. Va quindi fatta una precisazione preliminare: dobbiamo imparare a correggere le impostazioni sbagliate che tendono ad emergere costantemente, come L’IPERCRITICISMO e LA CATTIVA STORICIZZAZIONE.

L’ipercriticismo mette sullo stesso piano in modo indifferenziato momenti principali ed aspetti secondari della contraddizione, concepisce l’autocritica approfondita come analisi di parte … isolare singoli problemi particolari (lavoro questo da cui potrebbe derivare tutt’al più un elenco di cose da fare) piuttosto che spingerla ad individuare la matrice politica di errori diversi che hanno attraversato tutto il corpo militante e tutta 1’O., e coinvolgerli nel lavoro teorico pratico di rifondazione di una strategia e di un impianto organizzativo adeguato. Riaffermiamo quindi che non è possibile ridurre od assolutizzare l’autocritica ad alcuni aspetti particolari dell’impianto e del lavoro d’O. Non si può, ad esempio, identificare nel burocratismo o nel militarismo la radice comune di problemi diversi.

Allo stesso modo, storicizzare schematicamente porta a considerare il manifestarsi delle contraddizioni legandole alla presenza o all’assenza di questo o quel compagno, porta a dividere la storia dell’Organizzazione in un periodo positivo e in uno negativo; in ultima analisi, concepire successi ed errori come intuizioni individuali piuttosto che come processi collettivi. Le contraddizioni in un’O. rivoluzionaria sono il riflesso dello scontro tra concezione borghese e concezione proletaria del mondo, tra idealismo e materialismo storico dialettico. Infiltrazioni ideologiche borghesi tendono a ripresentarsi in forme e con pesi diversi nel corso del processo rivoluzionario. Ciò che dobbiamo affermare è che nella fase della transizione, nella guerra di classe, nella fase dell’organizzazione delle masse sul terreno della lotta armata per il comunismo, della costruzione del Sistema del Potere Proletario Armato, le infiltrazioni di soggettivismo, la loro derivazione economicista militarista risultano antagoniste all’affermazione della linea proletaria rivoluzionaria.

 

PERCHé NELLA DIALETTICA CONTINUITÀ/ROTTURA ABBIAMO PRIVILEGIATO LA ROTTURA.

 

Ogni processo autocritico passa per una sconfitta (almeno finora) e la portata dell’autocritica dipende dall’entità della sconfitta. Ravvisare questo […] è sicuramente indice di maturità, soprattutto è condizione […] per individuare la natura dei problemi senza soffermarsi superficialmente al loro aspetto esterno, al modo in cui si presenta e ripresenta.

Sarebbe stato molto semplice, ad esempio, spiegare l’epilogo disastroso dell’operazione Dozier con la presenza degli infami, o dicendo di non aver mobilitato a sufficienza i Nuclei Comunisti Rivoluzionari, o teorizzando sbrigativamente di aver fatto un passo troppo lungo rispetto alle potenzialità del movimento antagonista, ancora con una preparazione militare inadeguata.

Molto meno semplice, anzi impossibile, sarebbe ricostruirci (attraverso questo tipo di bilancio) sia l’identità politica che la presenza ed il lavoro all’interno delle masse. Dunque bisognava guardare più a fondo il tipo di dialettica che aveva presieduto fino ad allora alla costruzione delle campagne, dei programmi, al rapporto con le masse, così come alla battaglia politica, alla costruzione del Partito e del Sistema del Potere Proletario Armato. Esattamente la rilettura critica di questi compiti che eravamo andati materializzando, in particolare dopo la DS 80, significava PRIVILEGIARE LA ROTTURA. Insomma, a poco sarebbe servito soffermarci più di tanto sui presupposti teorico pratici su cui le BR si sono costruite e la guerriglia si è sviluppata, avrebbe significato dare al dibattito un taglio di “conservazione”, riaffermandoci come patrimonio storico piuttosto che adeguarsi ai nudi compiti; non spiegare perché, dalla chiusura della fase della Propaganda Armata ad oggi, non si è ridefinito compiutamente un impianto adeguato nella direzione delle masse verso la guerra di classe dispiegata per il comunismo. D’altra parte è vero che una simile riflessione è complesso dirigerla, ed uscirne in positivo significa imparare a capire le contraddizioni e governarle (non certo mediando quelle antagoniste) individuandone la natura, il modo in cui entrano in dialettica, il modo in cui possono ripresentarsi su piani più avanzati; significa imparare a produrre teoria e pratica rivoluzionarie senza delegare a nessuno questi compiti. In questo lavoro si mettono a nudo, insieme al potenziale politico che vive nell’O, le sue debolezze, non solo, ma la situazione in cui si svolge questo lavoro è inizialmente di debolezza (debolezza di linea politica), all’interno di condizioni generali difficili da interpretare (e da vivere): rapporti di forza pesantemente sfavorevoli al Proletariato Metropolitano, vivace ripresa del movimento antagonista, presenza di grosso dibattito nel movimento rivoluzionario intorno alle teorie che da più parti vengono formate.

Ciò spinge alcuni compagni verso posizioni estremizzate: dal non vedere più punti fermi e confondersi nel marasma, al non voler criticare nulla, aggrappandosi all’unica certezza: ciò che si conosce, tutto ciò che è stato fatto.

Così, l’aver privilegiato la rottura ha fatto credere ad alcuni compagni che l’autocritica porta a considerare la Lotta Armata per il comunismo come una “forma di lotta”, e che 1’O. tendesse a negarsi aprendo la strada al movimentismo. Altri compagni, l’unità distinzione tra tattica e strategia, tra particolare e generale, ed inoltre tra il generale che vive in determinate fasi (e quindi all’interno di ogni sua specifica congiuntura) ed il generale processo rivoluzionario per il comunismo, hanno pesato che la sconfitta del Sistema del Potere Proletario Armato in costruzione dovesse essere definita tattica perché non costituiva sconfitta generale del processo rivoluzionario per il comunismo.

L’O. parlando di sconfitta generale non l’ha riferita al generale processo rivoluzionario di lunga durata per il comunismo; ciò che pure andava e va sottolineato, conferma l’influenza di questa sconfitta sugli attuali rapporti di forza complessivi, non perché questi derivino unicamente dalla guerriglia. La guerriglia tuttavia è un elemento non indifferente nella loro determinazione, come non indifferente è stata la sconfitta di una campagna del peso che aveva quella Dozier e il corollario di tradimenti, dissociazioni e carcerazioni. Inoltre la sconfitta non riguarda solo le BR e la concezione della campagna come “operazione politica” di O; seguiva, ad esempio, la sconfitta preventiva della campagna del Partito Guerriglia ed investiva fasce consistenti del SPPA [Sistema di potere proletario armato] in costruzione. Parlare di sconfitta tattica era ed è sbagliato, in quanto si esalta l’oggettività delle allusioni al comunismo e si sminuisce la necessità dell’autocritica delle Avanguardie Comuniste Combattenti rispetto agli errori generali, strategici commessi nel vivo dello scontro di classe.

Altri compagni ancora, per controbilanciare il portato dell’autocritica, pur riconoscendo nell’impianto generale il vizio di soggettivismo (che ha impedito di adeguarsi ai nudi compiti), salvano “alcuni aspetti” come le azioni di Roma del 79-80, la costruzione dei Nuclei Clandestini di Resistenza, la costruzione dei quadri dirigenti. Qui necessitano alcune precisazioni, altrimenti si appiattisce tutto in un unico calderone. Non intendiamo “buttare il bambino con l’acqua sporca”; cioè non diciamo che oggi inizia la battaglia contro il soggettivismo dopo un periodo di cupo torpore. Proprio la DS 80 ha rappresentato la prima sedimentazione di una battaglia che era vissuta nell’O. già negli anni precedenti, ripercuotendosi A FASI ALTERNE sulle iniziative di combattimento, così come nella linea di massa il dibattito interno (cellule o nuclei), ad esempio, rappresentava ancora l’incomprensione del salto nel modo di operare nel rapporto con la classe verso l’organizzazione delle masse e non più solo dei comunisti.

La contraddizione intorno alla frase famosa “….Organismi di Massa Rivoluzionari sono sorti e sorgono…”, se da una parte testimonia una critica alla concezione dell’organizzazione rivoluzionaria delle masse come portato spontaneo dell’acutizzarsi della contraddizione BI/PM, dall’altra non si proietta verso i nuovi compiti, ma tendeva a conservare la funzione dell’O per quella che aveva nella fase precedente.

Le stesse direttive di combattimento rappresentano questa contraddittorietà: la separazione tra disarticolazione dello Stato e organizzazione delle masse, pur rispecchiando il massimo luogo di odio proletario, oscillando tra il tentativo di aprire una dialettica sui bisogni (come nella campagna sulle forze militari) e l’apparente ignoranza di una campagna in corso (come nelle azioni Bachelet e Minervini rispetto al movimento dei Proletari Prigionieri).

La DS 80, pur avendo rappresentato il primo punto fermo nella comprensione dei nuovi compiti, non ha tuttavia sconfitto definitivamente il soggettivismo, né immunizzato il suo ripresentarsi. In che senso ?

La comprensione dei nuovi compiti era prevalentemente assunzione della elaborazione teorica contenuta nell’“Ape..”, calata su un impianto ancora pesantemente influenzato dai compiti precedenti, che ruotava attorno alla centralità dell’O e stentava a rapportarsi con i differenti livelli di espressione delle lotte di massa. Non a caso l’esperienza maggiormente positiva è stata la campagna per la chiusura dell’Asinara, una campagna che già viveva in uno strato di classe che aveva maturato livelli di organizzazione e di antagonismo irripetibili meccanicamente in altre situazioni. Il dibattito intorno a “Nuclei o OMR” pur essendo tutto interno ai nuovi compiti (e rappresentando quindi un livello diverso di battaglia politica contro il soggettivismo, da quello che si esprimeva intorno a “cellule o nuclei”), rispecchiava un approccio ridotto alla problematica dell’organizzazione della masse, il cui referente di fatto erano quelli d’accordo con la linea politica e con le campagne dell’O, mentre scomparivano o venivano sottovalutati i movimenti di massa pur con contenuti e livelli di maturità differenti. Il SPPA risultava essere un modello stereotipato a cui adattare una realtà ricca di molteplici espressioni e forme di organizzazione. Il combattimento non era sintesi di una attività molto più complessa e vasta di direzione rivoluzionaria, non rilanciava in avanti la mobilitazione di massa, ma in parte la esaminava, inconsciamente cercava di compensare la debolezza della linea di massa. Aver introdotto nel dibattito la “questione del lavoro legale” non significa ripiegare dopo una sconfitta perché non siamo certo in presenza di riflusso del movimento rivoluzionario, quanto spingere la nostra attenzione ed il nostro referente non solo alle esperienze più mature ed organizzate clandestinamente, ma anche a quelle che si mobilitano a livelli di semilegalità.

Insomma si tratta di capire che i movimenti non sono un tutto piatto da cui emerge l’avanguardia rivoluzionaria, si tratta di imparare a rapportarsi ai livelli differenziati a cui si esprime la lotta di classe, senza per questo dire che ogni lotta ha lo stesso peso e lo stesso contenuto antistatuale ed anticapitalistico.

Un’ultima considerazione a proposito della costruzione dei quadri di partito. Anche qui non possiamo sopravvalutare ciò che si è trasformato da necessità in virtù. Un quadro politico formatosi sui documenti d’O, un quadro di propaganda armata, capace di “riportare la linea politica”, ma disabituato ad elaborare, certo proveniente dal vivo della lotta di classe e non dalle cattedre universitarie, ma ciò testimonia il radicamento dell’O e non di essersi dotata di strumenti adeguati a trasformare avanguardie di massa in quadri di partito. Alla luce di come il dibattito si sta sviluppando, dei contributi che tutti i compagni sono impegnati ad elaborare, dalla positività del confronto con le avanguardie comuniste non militanti dell’O e con realtà di massa interne al movimento proletario antagonista, oltre che dalle contraddizioni che da questo dibattito si sprigionano dando il polso della qualità del corpo militante, esprimendo gli elementi avanzati e quelli arretrati, possiamo riaffermare la giustezza e la necessità dell’impostazione che, nella dialettica continuità/rottura, ha privilegiato la rottura.

 

PERCHé ABBIAMO PARLATO DI DIFENSIVA STRATEGICA

 

La guerriglia nasce all’inizio degli anni ’70 dentro condizioni di controffensiva padronale e statuale, non tanto per rispondere ad una crisi che ancora non si manifestava concretamente come crisi generale del Modo di Produzione Capitalistico (MPC) (il cui primo segno premonitore è l’inconvertibilità del dollaro con l’oro, nell’agosto 1971), ma essenzialmente per mantenere l’offensiva dell’operaio massa sviluppatasi, se pur non linearmente e sempre per cicli di lotta, negli anni ’60 e culminata nel biennio ’68 69. La guerriglia, quindi, non aspetta il concretarsi del nesso crisi ristrutturazione per interpretare l’allusione al comunismo presente nelle lotte operaie. Se comunque, nel primo periodo della fase della propaganda armata (’71 ’74) l’offensiva guerrigliera si scagliava contro le gerarchie di fabbrica, con l’acuirsi di processi di crisi ristrutturazione e con l’evidenziarsi del dominio “politico” all’interno della Formazione Economico Sociale (FES), l’offensiva guerrigliera (in dialettica con 1’esigenza operaia di rompere lo accerchiamento della fabbrica) si pone sull’asse strategico dell’attacco al Cuore dello Stato (’74 ’78). La fase della Propaganda Armata si conclude grazie alla “Campagna di Primavera” del ’78, che non solo individua con più precisione rispetto al passato qual’é il “cuore dello Stato” da disarticolare, ma riesce a radicare ulteriormente la Lotta Armata per il comunismo tra le avanguardie del Proletariato Metropolitano (PM). Entrati nella fase di transizione dalla Propaganda Armata alla Guerra Civile dispiegata, l’offensiva guerrigliera non solo deve disarticolare il cuore dello Stato e propagandare la necessità della strategia della Lotta Armata per il Comunismo (LAxC), ma deve farsi carico di dirigere i1 processo di costruzione del Sistema del Potere Proletario Armato (SPPA) (PCC, Organismi di Massa Rivoluzionari OMR , Movimento di Massa Rivoluzionario MMR ).

Quindi l’offensiva guerrigliera è oggi reale ed offensiva soltanto se è adeguata ai compiti di fase. Di fronte ad una sconfitta del SPPA in costruzione, diventa vitale difendere strategicamente il processo di costruzione del SPPA. Questa difesa strategica è in primo luogo politica, cioè significa preparare nuove controffensive partendo da rettifiche e salti politici in dialettica con la classe. Ritirarsi nelle masse, cioè rifondare il processo di costruzione del SPPA in dialettica e all’interno stesso del movimento antagonista, significava e significa sviluppare una battaglia politica dentro il movimento rivoluzionario contro il soggettivismo, contro le sue varianti economiciste militariste che trasformano l’avanguardia rivoluzionaria non solo in apparato separato, ma soprattutto in retroguardia del PM!! Ritirarsi nelle masse e, colpendo le posizioni conquistate dal nemico all’interno del SPPA in costruzione, vuol dire individuare terreni unitari di lotta del movimento rivoluzionario al cui interno sviluppare questa battaglia politica.

Per tutto ciò abbiamo parlato di difensiva strategica. Dato che questi concetti si sono storicamente definiti come concetti militari, delle leggi della guerra sviluppate da Mao, probabilmente sono stati troppo “stretti” per esprimere compiutamente i contenuti politici ed i principi politici che intendiamo difendere strategicamente!

Quando abbiamo parlato di quadro strategico generale caratterizzato dalla difensiva, intendevamo ricordare ai soggettivisti che il rapporto di forza generale tra BI e PM è favorevole alla BI, che non è sufficiente ad esempio – un’azione contro i CC per affermare che già esiste un SPPA. che processa il “sistema di potere imperialista”. Intendevamo sostenere che il rapporto di forza generale tra il nesso crisi ristrutturazione per 1a guerra imperialista e il nesso crisi rivoluzione antimperialista per il comunismo, vede come aspetto dominante il primo nesso ed il secondo. come tendenza principale.

Volevamo rompere con l’ideologismo soggettivista, recuperando il metodo del materialismo storico e dialettico. Volevamo ricordare che – come su tutte le contraddizioni – la tendenza principale (in questo caso 1a rivoluzione) diventa aspetto dominante se distrugge l’aspetto dominante (in questo caso la ristrutturazione per la guerra imperialista).

Fatte queste considerazioni, entriamo nel merito di alcuni concetti e valutazioni espressi sopra che rappresentano inoltre un primo punto sul dibattito in corso, questo documento vuole essere però anche un primo contributo sui nodi teorici e strategici che si agitano nel movimento rivoluzionario, spesso plasmate da concezioni ultrasoggettiviste e metafisiche come nel caso del Partito guerriglia. L’obiettivo politico è lavorare all’arricchimento della teoria e della pratica della rivoluzione comunista nella metropoli imperialista; rimettere il materialismo storico e dialettico con i piedi per terra, riaffermare il metodo scientifico di analisi della crisi, la centralità della fabbrica e della produzione di merci, il rapporto dialettico fra Forze Produttive (FP) e Rapporti di Produzione (RP), tra guerra e politica.

 

LA DOMINANZA DEL POLITICO NELLA FES. FUNZIONE E CUORE DELLO STATO

 

Con la crisi le diverse regioni della FES hanno movimenti caotici e differenziati e si […] definitivamente, il POLITICO domina sulle altre regioni, crescentemente all’interno delle altre regioni stesse (nell’economico, nel giuridico, nel culturale, nel religioso, ecc..). In ultima istanza il dominio del politico è dettato […] regione economica del Modo di Produzione Capitalistico (MPC) proprio per favorire la riproduzione del rapporto di produzione capitalistico. Mentre ai tempi di Marx e Lenin era soprattutto “gendarme” “banda amata” per difendere i rapporti di produzione capitalistici, nella fase dominata dal capitale monopolistico multinazionale lo Stato diventa Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM) che favorisce la riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici in qualità di Stato “capitalista collettivo” di Stato, “banca” di Stato, “capitalista reale”. Col dispiegarsi della crisi generale del MPC lo Stato accentua i processi di controrivoluzione preventiva e di statalizzazione della “società civile”, per questo lo stato si caratterizza come “Stato sociale” (che è il contrario dello Stato “riformista”). La militarizzazione della società civile, 1a statalizzazione dei sindacati, dei partiti politici, dei mass media, ecc. sono il riflesso del caratterizzarsi delle Stato come “Stato sociale”, sono il riflesso della dominanza del politico. Infatti il movimento Stato fabbrica è dominante rispetto al movimento fabbrica-Stato, così come è dominante il movimento più generale Stato società civile rispetto al movimento società civile Stato. Con la crisi il capitale non mantiene il suo dominio in maniera forzosa (come puro capitale…. come diceva PL), ma per poter superare la crisi stessa e poter nuovamente estendere il suo dominio riprendendo il ciclo economico, necessita di ristrutturazione per la guerra imperialista. La legge del valore lavoro non si estingue con la crisi è imposta, “forzosamente” dà l’intervento della violenza statale, ma al contrario dimostra la sua impietosa validità suscitando processi di ristrutturazione per la guerra imperialista IN BASE ALLA LEGGE DEL VALORE LAVORO, legge inesorabile del capitalismo la crescita del capitale che determina l’estensione del dominio capitalistico con l’estensione multinazionale della massa del lavoro salariato. Perciò l’estensione del dominio non è la semplice moltiplicazione dei centri di controllo e di comando, ma è in primo luogo estensione di un rapporto sociale che si dà a partire da quello principale, la produzione di plusvalore. È la stessa legge del valore lavoro in dialettica con la legge di caduta tendenziale del saggio di profitto (che ne è parte integrante) a rendere possibile e necessaria, cosi come è la stessa legge del valore lavoro, l’uscita dalla crisi attraverso i processi di ristrutturazione per la guerra imperialista. È la stessa legge del valore lavoro, è la regione economica, il MPC a promuovere la dominazione del politico mediante la rifunzionalizzazione dello Stato.

Lo Stato in qualità di macchina del dominio capitalistico, quando il capitale necessita e sviluppa processi di ristrutturazione per la guerra imperialista (per favorire la ripresa del ciclo economico), è reale organizzazione del rapporto sociale esistente fra le classi: nel favorire la riproduzione del Rapporto di Produzione Capitalistico (RPC) si funzionalizza in termini di Stato della ristrutturazione per la guerra imperialista, La funzionalizzazione concreta dello Stato in questo senso è qui data dal “partito della guerra imperialista”, insieme di consorterie presenti nei partiti (in particolare nella DC e nel PSI), nei ministeri (in particolare quelli più importanti dal punto di vista della politica economica oltre che in quelli squisitamente militari), oltre che dalle associazioni padronali (Confindustria, Intersind), nei mass-media la […] si é ormai impossessata dello Stato, cioè dall’insieme degli apparati di dominio. E questo partito è espressione organica di questa frazione dominante della borghesia e delle sue determinazioni sovrannazionali.

Per questo possiamo affermare che il “partito della guerra imperialista” in questa fase è il CUORE DELLO STATO che guida e tenta di egemonizzare i molteplici fronti della ristrutturazione secondo i ritmi e le priorità di questa tendenza in atto, la guerra imperialista in atto, non a caso questo “partito” si contrappone frontalmente al PM in quanto non essendo possibile un allargamento della base produttiva, garantisce peggiori condizioni di riproduzione della forza lavoro (fl) complessiva comprimendo i costi di tale produzione (ad esempio il taglio della spesa sociale, l’aumento delle spese militari e dei fondi per le multinazionali), fornendo una nuova organizzazione del lavoro con cui intensificare lo sfruttamento ed espelle fl eccedente; favorendo la ristrutturazione del mdl per spezzare la rigidità della forza lavoro e per sviluppare mobilità.

Lo Stato come “Stato sociale” il cui cuore è il “partito della guerra imperialista” favorisce l’accelerazione-sviluppo dei processi di ristrutturazione per la guerra imperialista all’interno della società civile e, quindi, prepotentemente contro il PM. Per questo far vivere il “generale”, cioè le direttrici del “partito della guerra imperialista” sempre di più in ogni particolare […] di diversi settori del PM (anche se non tutti i particolari “hanno lo stesso peso specifico” e diverso è il loro rapportarsi con il “generale”).

In questa fase, infatti, dominanza del politico significa anche massima polarizzazione politica tra BI e PM in quanto anche i Bisogni Immediati (favorendo “pesi specifici diversi”) si scontrano con il Modo di Produzione Capitalistico (MPC) e lo Stato; pertanto lo SIM si caratterizza come Stato della ristrutturazione per la guerra imperialista, nella misura in cui è Stato della controrivoluzione preventiva scatenata.

In questo quadro la contraddizione principale; 1a contraddizione BI PM arriva ad una maturità superiore diventando contraddizione antagonista; il rapporto SIM PM, la lotta di classe, si materializzerà sempre di più in termini di scontro di potere in guerra di classe. Venutesi a creare nuove condizioni favorevoli alla rivoluzione proletaria ria stante i processi internazionali di crisi ristrutturazione per la guerra imperialista che partono dalle metropoli e stante la controrivoluzione preventiva scatenata, è possibile e necessario trasformare lo scontro di potere in scontro per il potere, la guerra di classe. in. guerra. rivoluzionaria antimperialista per il comunismo.

 

SULLA GUERRA E SULLA POLITICA

 

Ogni società divisa in classi ha sostanzialmente alla sua base la guerra, pertanto è sbagliato dire che oggi “la guerra informa la politica” perché ciò potrebbe essere inteso come dominanza del militare sul politico; in eguale misura é scorretto separare il politico dal militare. Separando il politico dal militare lo stesso processo rivoluzionario verrebbe ricondotto ad una interpretazione terzointernazionalista, dividendo ciò che è tendenzialmente unito nel PM e che da ora è unito dall’avanguardia comunista. combattente e dai livelli più significativi dell’antagonismo proletario. Inoltre si metterebbe in secondo piano la politica rivoluzionaria necessaria per trasformare la guerra di classe in guerra rivoluzionaria antimperialista per il comunismo, per trasformare l’attuale antagonismo del PM in “inimicizia assoluta” del PM nei confronti della BI.

Se affermiamo che già esiste “l’inimicizia assoluta” (che per Lenin è la guerra dispiegata della classe) a cosa servirebbe la politica rivoluzionaria?

Nella guerra di classe metropolitana la guerriglia è la forma di guerra rivoluzionaria che riunendo il politico ed il militare sulla base della “politica che guida il fucile” fa unire la strategia della LAxC per trasformare 1’autonomia proletaria in “inimicizia assoluta” con la borghesia e lo Stato. Cioè la guerra civile dispiegata di lunga durata per il comunismo.

Per questo la politica rivoluzionaria non é una semplice appendice di una “inimicizia assoluta” di una “guerra sociale totale”: la politica rivoluzionaria serve proprio per poter realizzare la trasformazione verso la “inimicizia assoluta” (comunque) per favorire la costruzione del SPPA deve canalizzare scientificamente le lotte proletarie ed il combattimento proletario contro lo Stato. Non si tratta di colpire i “mille cuori” del potere sociale, ma di dirigere e organizzare la lotta ed il combattimento proletario contro il potere politico, contro lo Stato ed in primo luogo contro il suo cuore [….] “partito della guerra imperialista” a livello centrale e periferico.

In questa fase solo attaccando il “partito della guerra imperialista” il PM può trasformare i rapporti di forza nel sociale. Solo attaccando le determinazioni di questo “partito” a livello centrale e periferico il PM può avere un peso politico reale in questa società.

Il PM non deve avere un generico “potere sociale” ma proprio per i contenuti sociali della necessità/possibilità della transizione al comunismo deve conquistare ciò che la borghesia vuole negargli: il potere politico che per il PM è esclusivamente potere politico rivoluzionario per il comunismo. La politica rivoluzionaria non […] il politico ed il militare sin da ora, ma il politico, il militare e il sociale vive nella società soltanto nella misura in cui esiste progettualità rivoluzionaria. Progettualità rivoluzionaria è sapere condensato per la transizione al comunismo, è memoria storica della possibilità/necessità dell’arricchimento maturo del marxismo leninismo nella metropoli imperialista: è progettualità basata sul metodo del materialismo storico e dialettico; è lotta contro l’ideologismo e il soggettivismo, la metafisica. Comunismo non è un ideale, è una comunità reale, cioè una società senza classi da costruire non mediante una “metafisica rivoluzionaria permanente totale” di trotskiana memoria, ma attraverso la rivoluzione realizzata per tappe storicamente determinate. La guerra di classe non è un concetto dell’avanguardia comunista combattente per meglio definire le molteplicità dei compiti presenti nel processo rivoluzionario e per definire particolarmente la sua attività. L’avanguardia comunista combattente del PM non è solo soggetto portatore di teoria rivoluzionaria, ma è parte e direzione della guerra di classe per trasformala in una guerra rivoluzionaria antimperialista per il comunismo. La LAxC non è più soltanto come nella fase della propaganda armata la strategia che l’avanguardia politica pratica o propaganda tra le masse, ma sempre nelle lotte che si proiettano verso il comunismo; la strategia della LAxC è sempre più l’unica e reale politica rivoluzionaria e proletaria.

La possibilità/necessità della trasformazione della guerra di classe in guerra rivoluzionaria antimperialista per il comunismo è un movimento, un rapporto dialettico con i processi di crisi/ristrutturazione per la guerra imperialista che fanno del nostro paese un anello debole proprio quando cerca di saldarsi meglio alla catena imperialista ed in primo luogo agli usa. L’attività dispiegata dall’antagonismo del PM maturato da profonde cause oggettive non si ricompone “oggettivamente” né tanto meno questa attività può essere ricomposta a livello superiore un [….] operato dell’avanguardia comunista combattente (che in questo caso viene relegata al ruolo di retroguardia).

L’attività generale del PM determinata dalla contraddizione principale (BI/PM) […] e non vivendo allo stesso livello dei rapporti di forza si trasforma e riduce la società con la modificazione dei rapporti di forza generali.

In questo processo il Partito in costruzione all’interno del SPPA in costruzione ha un’importanza fondamentale. Il Partito non deve “riassumere” tutto ciò che dalle masse si sviluppa. Non tutti i contenuti dell’antagonismo alludono al comunismo, molti bisogni immediati alludono ad un comunismo povero!!!

Il movimento di attività generale che le masse proletarie svolgono è un movimento complesso perché differenziato al suo interno dalla scomposizione operata dalla BI: compito del Partito è ricomporlo al livello più alto dentro la strategia della LaxC. L’attività generale delle masse va colta per intero in tutta la sua “scomposizione”, in tutti i suoi diversi livelli di antagonismo e contemporaneamente il Partito deve individuare i livelli più significativi che nella fase tendono alla ricomposizione della classe in classe per sé.

Dentro l’attività generale delle masse si colloca l’iniziativa molteplice dell’avanguardia comunista combattente per dirigere il processo di costruzione del SPPA; le attività, i contenuti, gli obiettivi più significativi espressi dall’antagonismo proletario vanno ricomposti-unificati dal Partito mediante il Programma Politico Generale (PPG) che in questa fase è necessario per la disarticolazione proletaria dei processi in atto sviluppati dalla BI per la costruzione di nuovi rapporti di forza. Il rapporto di forza esistente tra BI e PM, tra guerra imperialista in atto e rivoluzione proletaria si può ribaltare soltanto trasformando i rapporti di forza generali, solo con la conquista del potere politico. La trasformazione dei rapporti di forza generali mediante la conquista proletaria del potere politico, quindi con l’abbattimento dello Stato e la disarticolazione del MPC è tappa preliminare rispetto alla possibilità necessità della dittatura rivoluzionaria per il comunismo. Solo con la conquista proletaria del potere politico, solo con il raggiungimento di questa tappa preliminare è possibile trasformare quello che è l’aspetto dominante della contraddizione principale in questa fase e cioè il processo di guerra imperialista in atto, in aspetto secondario, e la rivoluzione proletaria da tendenza principale in concreto aspetto dominante della contraddizione principale. CONTRADDIZIONE CHE PUO’ MORIRE SOLO CON IL COMUNISMO, SOLO CON LA SOCIETA’ SENZA CLASSI.

 

MOVIMENTO PROLETARIO ANTAGONISTA, COSTRUZIONE DEL SPPA INTORNO AD UN PROGRAMMA POLITICO GENERALE.

 

Con la crisi il capitale non riesce a procedere ulteriormente alla propria valorizzazione complessiva, la lotta di classe, stante il dominio del capitale monopolistico multinazionale, si accentua a livello mondiale. Possiamo affermare che oggettivamente in ogni diversa FES, sia in quella in cui il capitale “domina realmente” come nelle metropoli, sia in quella in cui domina (in)formalmente come nella periferia imperialista, la lotta di classe ha in sé i contenuti latenti della possibilità/necessità della transizione al comunismo. Malgrado la lotta di classe si esprima in modi diversi a livello quantitativo e qualitativo, malgrado la diversità dei processi rivoluzionari, malgrado le diverse tappe dei processi rivoluzionari nelle periferie rispetto a quelle dei processi rivoluzionari nelle metropoli, possiamo affermare che la possibilità/necessità della transizione al comunismo viva latentemente a livello mondiale […] in un nuovo internazionalismo proletario.

Nella nostra FES la lotta di classe ha raggiunto un alto livello di maturità e si esprime in termini di rapporto di guerra; in questa fase i processi in atto di ristrutturazione per la guerra imperialista, pur dentro rapporti di forza sfavorevoli congiunturalmente al PM, costituiscono condizioni oggettivamente favorevoli per la rivoluzione proletaria in quanto costituiscono la causa della contraddizione Stato/PM. Sono nel [….] della lotta di classe in termini di scontro di potere, di guerra di classe. Quando la lotta proletaria ai sviluppa e tende a generalizzarsi e ramificarsi non è recuperabile in alcun modo dalla BI e non può essere finalizzata ad un ulteriore sviluppo del capitale, cosa che poteva avvenire in una fase di crisi ciclica del MPC.

La guerra di classe è dunque il risultato dell’approfondimento della contraddizione FP/RP nella crisi a partire dai punti focali dove più forte e maturo è l’antagonismo: la grande fabbrica metropolitana. I processi di crisi-ristrutturazione per la guerra imperialista fanno aumentare lo sfruttamento capitalistico della classe operaia che essendo DENTRO i rapporti di produzione capitalistica e crescentemente CONTRO questi stessi rapporti possiede le maggiori potenzialità dell’antagonismo assoluto e complessivo del modo di produzione borghese: fanno peggiorare le condizioni di vita e di lavoro del proletariato marginale; fanno aumentare le quote di proletariato emarginato a cui appartiene il proletariato extralegale inteso in senso stretto (perché le attività extralegali tendono a coinvolgere tutti i diversi settori del PM) ed il proletariato prigioniero in senso stretto (cioè aumentano i PP “stabili” relativamente al PP “instabile”). Il proletariato emarginato possiede la forza lavoro che il capitale non può più impiegare né esportare e quando si nega come forza lavoro […] il proletariato extralegale; ciò non vuol dire che i proletari emarginati ed in particolare i proletari extralegali siano di per sé antagonisti assoluti e complessivi del MPC. Da questo punto di vista è sbagliato parlare di una enorme massa di capitale variabile vagante che il capitalismo stesso non può più impiegare né esportare e che a sua volta si nega come forza lavoro, affermando se stessa come antagonista assoluto e complessivo del MPC (crisi, guerra internazionalismo proletario. PG, Palmi) Infatti all’MPC e allo Stato si contrappone un movimento proletario antagonista caratterizzato dalla resistenza attiva a partire a dalla lotta DENTRO e CONTRO i rapporti di produzione capitalistici, FUORI e CONTRO lo Stato.

A differenza della resistenza passiva della disobbedienza civile “LA RESISTENZA ATTIVA È RESISTENZA OFFENSIVA” in quanto il movimento proletario antagonista oltre a resistere contro i processi di ristrutturazione per la guerra imperialista è offensivo per 1’allusione della transizione al comunismo esistente nel vivo della lotta al MPC e allo SIM. Le lotte proletarie che tendono a generalizzarsi con difficoltà relative stante una controrivoluzione preventiva scatenata, non sono le lotte economico politiche, ma le lotte proletarie contro lo Stato! Il no operaio al tetto antinflazione sugli aumenti salariali imposti dal governo Spadolini; il no! operaio all’attacco della confindustria della scala mobile; il no! operaio alla politica economica dello Stato basata sul taglio delle spese sociali e sull’aumento delle spese militari e dei fondi destinati alle imprese multinazionali in testa; il no! proletario alla NATO e ai blocchi militari in generale e complessivamente alla guerra imperialista. Queste lotte hanno contenuti molto avanzati e fanno parte del movimento proletario antagonista, la base sociale in cui è possibile e necessario costruire le basi sociali rivoluzionarie e cioè il SPPA con le tre determinazioni: il Partito, gli OMR, i MMR.

Il SPPA si costruisce a partire dalla lotta proletaria e si estende DENTRO e CONTRO i rapporti sociali di produzione capitalistici, FUORI e CONTRO lo Stato. Se invece si credesse possibile costruire tale sistema esclusivamente fuori e contro i rapporti di produzione capitalistici, non solo mancherebbe la centralità operaia, ma addirittura si arriverebbe a riproporre un programma immediato unico per tutto il PM basato sull’esproprio proletario, si privilegerebbe la lotta alla distribuzione capitalistica dei redditi e delle merci. Nella contraddizione valore d’uso valore di scambio si privilegerebbe l’aspetto esistente nella distribuzione senza capire che i rapporti di distribuzione e di scambio sono determinati in ultima analisi dai rapporti di produzione. Inoltre con il concepire la costruzione del SPPA separatamente dai rapporti di produzione capitalistici è frutto di un’analisi del MPC in cui le forze produttive ed i rapporti di produzione non vengono evidenziati come un’unità di opposti anche quando raggiungono il massimo livello di tendenza divaricante, ma esclusivamente come rapporto tra elementi separati.

Così come gli elementi più avanzati di lotta del PM si sviluppano dentro e contro i rapporti di produzione capitalistici, fuori e contro lo Stato, nelle metropoli imperialiste ed in particolare in questa fase costruire il SPPA non vuol dire costruire le “basi rosse”, le “zone rosse in cui esercitare il potere rosso, perché non ci sono zone liberate, territori da difendere e non esistono, come è stato in Cina, territori da difendere e masse armate: basi sociali rivoluzionarie non significa neanche “basi rosse invisibili” perché l’ambiguità del concetto di invisibilità ha pontato e porta il SPPA in costruzione a diventare invisibile alla classe, la clandestinità in riferimento agli OMR in costruzione, non deve significare invisibilità al movimento rivoluzionario e al movimento antagonista, ma esclusivamente clandestinità rispetto allo Stato.

I1 SPPA non si costruisce per linee esterne al movimento antagonista, si può costruire solamente per linee interne al movimento antagonista e a partire dall’alto, cioè dai livelli di lotta più alti in termini di contenuti e forma che debbono essere “condensati” dalla guerriglia mediante un Programma Politico Generale (PPG) per dirigere, mobilitare organizzare la lotta ed il combattimento proletario contro lo Stato della ristrutturazione per la guerra imperialista. (Le campagne non sono “campagne d’O” bensì campagne per organizzare l’offensiva proletaria nelle nuove condizioni di controrivoluzione preventiva scatenata.)

Nella dialettica masse Partito-masse si dà possibilità concreta di costruzione della linea di massa rivoluzionaria per attaccare il cuore dello Stato partendo dai contenuti più avanzati presenti nelle lotte del PM. Il rapporto masse/Partito/masse è storicamente determinato e attualmente si esprime come rapporto: movimento proletario antagonista/Partito in costruzione. Movimento proletario antagonista in cui è possibile e necessario costruire il SPPA e trasformare le scontro di potere in scontro per il potere.

A proposito del SPPA vanno fatte alcune doverose precisazioni. Se con la DS 80 si superava l’idealismo presente in certe tesi sviluppate nel ’79, come quella in base alla quale “gli OMR sono sorti e sorgono in conseguenza del divenire oggettivo della crisi” (2° delle 20 tesi finali pubblicate nell’Ape e il comunista), perché in realtà gli OMR non nascono spontaneamente come ci dimostrano questi ultimi anni di pratica sociale, oggi è fondamentale battere sempre nel vivo della pratica sociale tutte le concezioni soggettivistiche del SPPA alla cui base c’è sempre l’idealismo. L’esistenza di un SPPA in costruzione. non deve, ad esempio, far considerare la costruzione del PCC come già realizzata, l’esistenza del movimento di massa rivoluzionario come già DATA, come se fosse qualcosa di statico e non invece unito/distinto dal movimento proletario antagonista, e gli OMR in costruzione come “anello permanentemente mancante”, o meglio “permanentemente mancante” anche quando esistono migliaia di OMR […] allora a SPPA costruito e considerato le tre determinazioni (PCC – OMR – MMR) essendo in continuo mutamento nel loro reciproco e nel rapporto con il movimento antagonista, da un lato, e nel rapporto con lo Stato e con il MPC, dall’altro lato sarebbero permanentemente mancanti! Costruzione del PCC e OMR sono processi distinti ma in stretta unità dialettica, tanto che non si dà PCC senza la costruzione direzione e conquista degli OMR; così come non si dà costruzione degli OMR senza una loro direzione del movimento di massa antagonista in movimento di massa rivoluzionario.

In questa fase: trasformare lo scontro di potere in scontro per il potere, trasformare la guerra di classe in guerra rivoluzionaria antimperialista vuol dire costruzione del SPPA intorno ad un programma generale che, congiuntura dopo congiuntura, disarticolando lo Stato della ristrutturazione per la guerra imperialista e della controrivoluzione scatenata, si costruisce in dialettica con i contenuti più avanzati delle lotte del PM (contro la guerra, la cassa integrazione, la nuova organizzazione del lavoro, contro la ristrutturazione del mercato del lavoro, contro lo Stato del terrore e della tortura) che alludono, in continuità con le lotte degli anni ’70, ad un programma generale di transizione al comunismo.

Il Programma Politico Generale vive all’interno dei diversi settori di classe del PM mediante il Programma Politico Immediato, e in questa fase di transizione dalla propaganda armata alla guerra civile dispiegata ha come obiettivo la CONQUISTA DEL POTERE POLITICO. Conquistare il potere politico vuol dire costruire rapporti di forza generali favorevoli al PM; vuol dire distruzione abbattimento dello Stato e disarticolazione del MPC; conquistare il potere politico come tappa preliminare per la possibilità necessità del suo movimento rafforzamento ATTRAVERSO LA DITTATURA RIVOLUZIONARIA DEL PM nella prospettiva dell’abolizione insieme alla classe di ogni potere dell’uomo sull’uomo.

Nelle metropoli imperialiste la dittatura rivoluzionaria del PM può e deve darsi soltanto sul terreno politico mediante la POLITICA RIVOLUZIONARIA, può e deve materializzarsi in ogni rapporto sociale caratterizzandosi come dittatura rivoluzionaria integrale (a livello economico culturale, ecc) per la CONTINUA DISTRUZIONE del MPC e quindi per la costruzione della società senza classi. La dittatura rivoluzionaria del PM, periodo storico ineliminabile per la transizione dal capitalismo al comunismo, considerando sempre che il comunismo o è per tutti o non è comunismo, non può esistere senza eliminazione globale dell’intero sistema imperialistico mondiale. (Da questo punto di vista internazionalismo proletario, che per altro non concede spazio ad alleanze tattiche con nessuna forza imperialistica specie per il proletariato delle metropoli dell’est e dell’ovest, è elemento centrale e decisivo del programma rivoluzionario.)

 

 

SULLA CENTRALITÀ DELLA PRODUZIONE DI MERCI

 

La legge del valore lavoro, legge fondamentale del MPC, dimostra da un lato l’origine dello sfruttamento nell’estrazione capitalistica di plusvalore (grazie all’uso capitalistico della forza lavoro) e, dall’altro, dentro una tendenza verso zero del valore, la necessità capitalista dell’aumento tendenziale del saggio di plusvalore (o saggio di sfruttamento pv/v); comunque la produzione di valore e plusvalore trova un limite nella riproduzione capitalistica allargata, nella accumulazione capitalistica in cui vive la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto (pv/c+v) grazie al continuo aumento della composizione organica del capitale (c/v).

L’aumento tendenziale del saggio di plusvalore e la caduta tendenziale del saggio di profitto costituiscono la causa oggettiva in ultima istanza della necessità e sviluppo del dominio reale del capitale (basato sulla produzione di plusvalore relativo) e del suo attuale stadio superiore dettato dal CAPITALE MONOPOLISTICO MULTINAZIONALE e dal suo processo MULTI PRODUTTIVO.

Infatti è questa la pausa dello sviluppo a fianco e dentro le due branche della produzione (produzione di mezzi di produzione e produzione di beni di consumo di massa in cui sono compresi anche i beni di lusso), della produzione di “modelli di consumo” e di “sistemi ideologici”. Questa produzione non è una nuova branca di produzione finalizzata esclusivamente alla “realizzazione riproduzione del plusvalore relativo, del rapporto sociale dominante”. La produzione delle forme della coscienza si divide in due: infatti lavoro produttivo di plusvalore e lavoro improduttivo di plusvalore necessario alla sua realizzazione riproduzione, vivono ora nella produzione delle forme della coscienza e quest’ultima si sviluppa a fianco e dentro le due branche della produzione. Ciò è dimostrato, per esempio, dal rapporto multinazionali mezzi di comunicazione di massa (vedasi i diversi testi di Mattelart).

La produzione di sistemi ideologici e di sistemi di consumo non solo è finalizzata alla realizzazione riproduzione del plusvalore relativo, ma anche alla produzione diretta di plusvalore, stante una crescente mercificazione della produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo.

La produzione di merci non è esclusivamente produzione di merci salari ma anche – ad esempio di merci lezioni, come diceva Marx già un secolo orsono. La produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo non è esclusivamente produzione di nuovi bisogni e creazione di nuovi valori d’uso, ma anche produzione di merci, aventi come tutte le merci un valore d’uso ed un valore di scambio, originato dal valore incorporato.

Nelle metropoli l’estensione del lavoro improduttivo di plusvalore, necessario alla realizzazione riproduzione di plusvalore (a cui per esempio corrisponde l’estensione del proletariato dei servizi) si sviluppa grazie al gigantesco aumento di produttività di plusvalore del capitale monopolistico multinazionale).

I1 lavoro produttivo di plusvalore non si riduce però alla sola produzione di merci salari, ma si diversifica nel continuo processo multiproduttivo del capitale monopolistico multinazionale fino a coinvolgere la stessa produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo grazie ai processi intestini di mercificazione dettati dal crescente dominio reale del capitale.

Nel dominio reale del capitale non esiste una branca produttiva di merci ed una produttiva di nuovi bisogni e di nuovi valori d’uso, proprio perché non solo la produzione di merci è egemone e centrale, ma anche perché la produzione di merci si estende e diversifica coinvolgendo la stessa produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo.

In caso contrario la tendenza oggettivamente divaricantesi valore d’uso – valore di scambio verrebbe considerata metafisicamente come tendenza realizzata stante l’esistenza di una vera e propria branca produttiva di nuovi valori d’uso […] come sembra credere chi, cercando di “forzare l’orizzonte” non fa che rispolverare le vecchie tesi marcusiane della “società dei consumi” e dell’uomo ad una dimensione, questa volta è chiamato uomo merce.

Nella fase del capitale monopolistico multinazionale, essendo ormai creato il mercato mondiale, non solo si deve sviluppare una nuova qualità del rapporto produzione/consumo, per continuare l’espansione economica, ma si devono avviare processi di mercificazione della stessa produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo. Questa mercificazione è il riflesso storico della divisione interna alla produzione di merci, del lavoro in lavoro manuale e intellettuale, della generale divisione sociale del lavoro. Col dominio reale del capitale sul lavoro, sulle forze produttive, non solo il lavoro intellettuale domina e controlla il lavoro manuale ed il lavoro morto domina sul lavoro vivo, ma si mercifica la produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo in cui il lavoro si divide, anche qui, in lavoro manuale ed intellettuale, Quindi, dominio reale del capitale, dominio del lavoro intellettuale sul lavoro manuale e del lavoro morto sul lavoro vivo significa anche e crescentemente mercificazione imposizione di sistemi ideologici e di modelli di consumo.

Per questo la contraddizione valore d’uso valore di scambio anche nella fase del dominio reale del capitale, anche nel suo stadio di ulteriore sviluppo dominato dal capitale monopolistico multinazionale, deve essere analizzata a partire dalla produzione di merci, produzione che possiamo anche definire produzione multinazionale e multiproduttiva di merci.

 

SULLE CAUSE OGGETTIVE DELLA CRISI DI SOVRAPPRODUZIONE ASSOLUTA DI CAPITALE

 

La contraddizione fondamentale del MPC è la contraddizione valore d’uso valore di scambio (forma fenomenica del valore) insita nel duplice carattere della merce, tendenza all’illimitato sviluppo del valore d’uso e tendenza verso zero della produzione di valore. Tale dinamica divaricante trasferita al capitale sociale rimanda ad un’altra contraddizione, cioè la contraddizione tra il contenuto materiale della produzione in rapporto a tutta la società e le forme in cui si distribuisce il prodotto che ne risulta.

A partire dalla produzione capitalistica la contraddizione valore d’uso-valore di scambio si esprime come contraddizione nella diversa dinamica tra le determinazioni nella concreta esistenza delle singole categorie del capitale (composizione tecnica del capitale) e loro composizione in valore, cioè tra mezzi di produzione, forza lavoro e plusprodotto da un lato e capitale costante, capitale variabile e plusvalore, dall’altro; quindi anche nelle contraddizioni: mezzi di produzione/capitale costante, forza lavoro/capitale variabile, plusprodotto/plusvalore. Ma nella dinamica dello sviluppo capitalistico si manifesta una contraddizione anche nelle diverse dinamiche delle singole categorie tra loro.

“In altre parole mentre il capitale costante si riproduce su scala allargata, con una dinamica di sviluppo tendente verso l’alto, il capitale variabile, relativamente a quello costante, tende a decrescere. Già questo fatto ci impone di considerare la composizione organica del capitale sia dal punto di vista della sua composizione in valore, che da quello della sua composizione tecnica. E’ importante richiamare la duplice determinazione della composizione organica di capitali perché è da questi rapporti che scaturisce il plusvalore e, data la diversa dinamica con cui questi elementi si riproducono, ne risulta che il capitale non è da parte sua riproducibile all’infinito, ma è limitato nella riproduzione di tali rapporti. Se è vero che il plusvalore si realizza nell’ambito della circolazione è pur vero che esso ha alla sua base un plusprodotto che risulta dal processo di produzione […] Nel modo di produzione capitalistico il tempo di lavoro necessario tende verso zero, ne deriva che il plusvalore aumenta in rapporto inversamente proporzionale. Da qui sorge un’altra barriera: poiché il plusvalore è la base di un diverso rapporto, ossia è la base su cui si fonda il profitto, ne consegue che, mentre il saggio di plusvalore in quanto saggio di sfruttamento tende ad aumentare, nella sua metamorfosi, nella sua proiezione, il saggio di profitto tende verso la caduta. È proprio qui la diversa dinamica del rendimento del valore, unica determinazione del profitto, motore principale dello sviluppo capitalistico, sta la ragione ultima, oggettiva della crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali”. (da Corrispondenza Internazionale: la FES in Lenin pag. 241)

Nella fase dominata dal capitale monopolistico multinazionale (nelle due varianti: multinazionali occidentali e società miste internazionali a polo dominante russo) la produzione, a partire dalle metropoli diventa essenzialmente produzione di PLUSVALORE RELATIVO, anche se permane la produzione di plusvalore assoluto, essenzialmente nella periferia del sistema imperialista mondiale. Il capitale monopolistico multinazionale è capitale il cui livello sociale risiede nelle metropoli, vive e si realizza nelle metropoli a livello intermetropolitano e nell’intreccio metropoli periferia del sistema imperialista mondiale. Pertanto le metropoli non possono essere definite “fabbrica totale” perché oltre a non produrre e realizzare esclusivamente plusvalore relativo, non esauriscono in sé i rapporti di produzione, distribuzione e scambio capitalistici multinazionali: in caso contrario si arriverebbe a credere, con schemi tardo luxemburghiani, all’esistenza di “aree capitalistiche” e di “aree non capitalistiche”. In eguale misura, le metropoli non sono “fabbriche diffuse” perché altrimenti non si distinguerebbe più il lavoro produttivo di valore da quello improduttivo; inoltre le metropoli non sono basate sul “decentramento produttivo” perché altrimenti si scambierebbero alcune controtendenze alla caduta del saggio di profitto, quali l’estensione del lavoro salariato produttivo di tipo nero e/o precario, per controtendenze principali e quindi si arriverebbe ad affermare più o meno indirettamente che nelle metropoli la produzione di plusvalore e principalmente produzione di plusvalore assoluto grazie al massimo prolungamento della giornata lavorativa, ed ai salari bassissimi, caratteristica peculiare delle fasce produttive di proletariato marginale.

Fatte queste dovute precisazioni possiamo riaffermare che, a partire dalle metropoli, la produzione capitalistica diventa essenzialmente produzione di plusvalore relativo, diventa produzione di […] centralità della classe operaia e delle grandi concentrazioni industriali all’interno del PM, il quale è la forma principale del movimento antagonista e rivoluzionario.

La diminuzione del tempo di lavoro necessario avviene mentre aumenta il tempo di lavoro superfluo, il tempo di lavoro che origina il plusvalore: il tendenziale aumento del saggio dì plusvalore avviene nell’ambito di una crescente diminuzione del tempo e il lavoro astratto socialmente necessario cristallizzato nelle merci e cioè nell’ambito di una tendenza verso zero del valore.

Poiché la forza lavoro è l’unica fonte del valore e del plusvalore, nel processo di accumulazione capitalistica, con l’aumento della composizione organica del capitale, il plusvalore prodotto è troppo piccolo relativamente al valore del capitale complessivo accumulato, cioè non riesce a valorizzare l’intero capitale e non riesce a fargli compiere il necessario salto di composizione organica. Pertanto si ha una caduta tendenziale del saggio di profitto.

L’aumento tendenziale del saggio di plusvalore e la caduta tendenziale del saggio di profitto, nella fase in cui, principalmente a partire dalla metropoli, domina realmente il capitale sul lavoro, sulle forze produttive sociali, nella fase dominata dal capitale monopolistico internazionale, portano con sé contraddizioni esplosive. Per questo la tendenza oggettivamente divaricantesi tra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto è in ultima analisi, la causa oggettiva della possibilità necessità della CRISI DI SOVRAPPRODUZIONE DI CAPITALE (sopra tutto in termini di capitale costante e variabile ed in misura del tutto secondaria come sovrapproduzione di merci) […] così come era stata 1a causa oggettiva della nascita, sviluppo e dominio del capitale monopolistico multinazionale.

 

CRISI DEL RAPPORTO FORZE PRODUTTIVE CAPITALISTICHE/RAPPORTI DI PRODUZIONE CAPITALISTICI

 

La crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale tende a portare al limite la contraddizione valore d’uso valore di scambio, lavoro necessario pluslavoro, lavoro vivo lavoro morto, lavoro concreto lavoro astratto, lavoro manuale lavoro intellettuale, sapere sociale generale espropriazione culturale del lavoro salariato, lavoro alienato mezzi di produzione e merci, cervello: sociale braccio manuale […] e più in generale la contraddizione forze produttive rapporti di produzione (FP/RP) si sviluppa ad un livello superiore all’interno del dominio dei rapporti di produzione capitalistici, non solo sulle FP (con il rapporto di proprietà privata dei mezzi di produzione), ma soprattutto e crescentemente, dentro le FP stesse.

È il passaggio dalla produzione di plusvalore assoluto a quella di plusvalore relativo, è il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo, è il passaggio storico dall’operaio professionale dei tempi di Gramsci allo operaio massa attuale, elemento centrale del proletariato metropolitano, in quanto figura centrale della classe operaia. Nella contraddizione FP/RP capitalistici, i rapporti di produzione capitalistici non sono stati mai esterni alle FP (anche nella fase del dominio formale del capitale sul lavoro) e, quindi le FP non sono mai state neutrali o progressive (così come credevano i revisionisti Kautsky e Bukharin).

Come già diceva Marx un secolo fa: “il capitale produce essenzialmente altro capitale; e lo fa nella misura in cui produce plusvalore. Analizzando il plusvalore relativo così come la conversione del plusvalore in profitto, abbiamo visto come questo principio sia alla base del modo di produzione proprio dell’era capitalistica; forma particolare dello SVILUPPO DELLE FORZE PRODUTTIVE SOCIALI DEL LAVORO, ma in quanto FORZE AUTONOME DEL CAPITALE, CONTRO L’OPERAIO ed in opposizione diretta con il suo sviluppo proprio” (dal Capitale, libro III°). Nello stesso capitolo leggiamo che: “….. la tendenza a ridurre i costi di produzione al loro minimo diventa il mezzo più potente per soffocare la forza produttiva sociale del lavoro; ma questa crescita risulta essere la crescita delle forze produttive del capitale.

La separazione che il capitalismo opera tra lavoro e mezzi di produzione costituisce la possibilità del rapporto di produzione capitalistico. Quindi la forza lavoro è la prima ed essenziale forza produttiva in qualità di rapporto di produzione capitalistico, forma salariata del lavoro sociale.

Per una concezione metafisica della realtà una forza produttiva non può al contempo essere anche rapporto di produzione e viceversa. Per una concezione metafisica della realtà le forze produttive sono viste come separate dai rapporti di produzione. Con la crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale, il rapporto FP/RP è sempre più contraddittorio pur rimanendo una contraddizione interna al MPC in quanto la loro dinamica divaricante può essere realizzata soltanto dalla vittoria rivoluzionaria del PM sul capitale. Tra la contraddizione FP/RP e la lotta di classe esiste un legame dialettico e non meccanico determinista come vedono i soggettivisti metafisici. Pertanto è sbagliato richiamarsi esclusivamente al Manifesto del 1848 “la forza motrice della storia è la lotta di classe”, o esclusivamente alla prefazione di “Per la critica dell’economia politica” dove si afferma che “….. ad un certo grado di sviluppo le FP entrano in contraddizione crescente con i RP ed allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”. La lotta di classe è il reale motore della storia e la sua base è la contraddizione FP/RP.

Nella fase del dominio reale del capitale sul lavoro, sulle FP essendo il capitale un rapporto sociale di produzione: il rapporto di produzione capitalistico, le FP sono sempre plasmate dai rapporti capitalistici grazie alla divisione del lavoro imposta dall’organizzazione capitalistica in forma scientifica del lavoro (è bene ricordarlo a tutti gli operaisti soggettivisti e a tutti i neosoggettivisti “schizometropolitani” ).

Per questo la contraddizione FP/RP non deve essere analizzata in maniera meccanicista determinista, ma dialettica (logica dialettica, quindi metodo dell’astrazione con analisi della tendenza o del limite) e questa dialettica deve planare verso il concreto, dall’astratto bisogno arrivare al concreto, al concreto storico.

 

“Le tendenze oggettive che emergono dalla dinamica contraddittoria fra le FP/RP possono REALIZZARSI solo grazie alla lotta di classe, all’interno della classe rivoluzionaria. In tal modo il marxismo perde qualsiasi carattere evoluzionistico fatalistico e dimostra non solamente una SPIEGAZIONE (materialistica) della storia, ma uno strumento con cui FARE la storia.

Al contrario se le teorie che privilegiano unicamente la contraddizione oggettiva fra FP/RP finiscono con l’attribuire alla rivoluzione un carattere di INEVITABILITA’ OBIETTIVA ed alla sociologia un’impronta meccanicista, l’accentuazione soggettiva o volontaristica del ruolo della lotta di classe, oltre a rimandare ad una concezione del comunismo “ideale” o a comportare una perdita di scientificità della analisi storica, si prelude ogni capacità di incidere completamente sulla situazione storico sociale.

Infatti qui il carattere arbitrario dell’intervento soggettivo affonda le sue radici in un modello teorico conoscitivo che, ignorando e sottovalutando la struttura fondante MATERIALISTICA della sociologia marxista finisce per ricadere nell’idealismo”.

(da C.I. pag.7 “La fes in Lenin”)

Attribuire alla rivoluzione un carattere di inevitabilità obiettiva vuol dire essere metafisici così come si è metafisici parlando di “rivoluzione permanente” (da Trotskij ai neosoggettivisti invece di RIVOLUZIONE ININTERROTTA PER TAPPE. È invece possibile battere una concezione metafisica, idealistica della rivoluzione; è possibile e necessario attribuire alla rivoluzione un carattere STORICAMENTE DETERMINATO se dall’astratto, dalle tendenze al limite, si arriva al concreto, al concreto storico mediante l’analisi delle controtendenze di quegli anelli di congiunzione tra astratto e concreto che sono i processi in atto, mediante la leninista analisi concreta di cose concrete.

 

CRISI, TENDENZA AL LIMITE E CONTROTENDENZA

 

Con la crisi il capitale tende al limite alla distruzione delle forze produttive pur di mantenere dominanti i rapporti di produzione capitalistici. Con la crisi diventa più chiaro che “il limite del capitale è il capitale stesso”, che l’imperialismo delle multinazionali è superputrescente; la crisi dimostra che 1’imperialismo delle multinazionali è tendenzialmente sulla difensiva pur non perdendo la capacità di attaccare e offendere il proletariato internazionale; l’imperialismo delle multinazionali è una tigre di carta ma con i denti (bombe) al neutrone, perché è […] guerra al proletariato.

Poiché la contraddizione FP/RP materializzandosi storicamente conduce alla lotta di classe reale motore della storia e determina la base materiale da cui, in ultima analisi la lotta di classe si emana, quando con la crisi il capitale tende al limite della distruzione delle forze produttive, nella lotta di classe la BI tende al limite all’annientamento del proletariato internazionale […] e così tende al limite alla propria distruzione, perché senza proletariato internazionale […] niente BI! Il capitale monopolistico multinazionale, quindi, tende al limite al crollo, ma ciò non significa, e non deve significare terrorizzare la crisi-crollo come fanno al di là delle buone intenzioni i soggettivisti di ogni specie presenti nel movimento rivoluzionario. “Mentre per i soggettivisti il concetto di TENDENZA è pura proiezione in avanti della realtà fenomenica, per Marx è RIFLESSO ANTICIPANTE DELLA REALTA’ EMPIRICA. Marx, in altri termini, spinge la simulazione concettuale del MPC al PUNTO LIMITE in cui le contraddizioni giungono alla loro piena maturità, si mette nella condizione migliore per fissare, a partire dalla previsione dì una situazione futura, i criteri adeguati alla prassi rivoluzionaria. Il modello della tendenza al limite pone le condizioni dell’agire cosciente che costruisce il proprio scopo senza abbandonarsi al fatalismo deterministico, senza abbandonarsi all’ubriacatura irrazionale dell’utopia” (Ape e il comunista, pag.59).

Tra la tendenza al limite del modello teorico e la realtà storica ci sono scarti da colmare. Dall’astratto al concreto ci sono degli anelli di congiunzione che chiamiamo controtendenze o processi in atto controtendenziali. Tendenza al limite in base al materialismo dialettico (logica dialettica) non vuol dire immediatamente materialità storica perché esistono di fatto le controtendenze. Le controtendenze sono gli unici anelli di congiunzione che ci consentono l’ascesa dal piano della teoria a quello della storia. Le controtendenze non devono servire per negare l’oggettiva tendenza al limite, al crollo del MPC, ostacolando momentaneamente la fine del MPC, ma nello stesso tempo confermano e rafforzano la validità della legge valore lavoro e la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Analizzare le tendenze a1 limite senza analizzare le controtendenze, significa passare dall’astratto al concreto in modo soggettivista, antimarxista, anche se lo si nega formalmente è proprio il metodo soggettivista di analisi delle contraddizioni capitalistiche a condurre sostanzialmente a teorie della crisi come crisi crollo. L’analisi delle tendenze al limite dell’MPC nella fase del dominio del capitale monopolistico multinazionale non porta, e non deve portare, a fatalistiche teorie della possibilità necessità della rivoluzione proletaria per il comunismo: il comunismo è possibile e necessario!

Perciò, ricapitolando possiamo affermare che la causa della crisi strutturale dell’MPC va individuata a partire dalle tendenze oggettivamente divaricantesi fra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto. Ogni teoria della crisi che separa, più o meno evidentemente, produzione capitalistica e accumulazione capitalistica, legge del valore lavoro e legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, porta ad analisi soggettiviste: da qui il soggettivismo inizia ad essere nudo, pazzo e nelle migliori delle ipotesi “schizometropolitano”. Privilegiare, più o meno rozzamente, nell’analisi della crisi la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto (come si fa nelle tesi di fondazione del PG) porta inevitabilmente al di là delle buone intenzioni ad analisi soggettiviste, porta necessariamente a teorie della crisi come crisi crollo: in ogni caso la tendenza al limite al crollo del capitale, diventa meccanicisticamente tendenza realizzata. Dobbiamo ricordare a chi se ne fosse dimenticato quanto segue: “il fascino dell’estrapolazione logico dialettica di Marx ha scatenato molte fantasie, non ultima quella degli operaisti soggettivisti che hanno pensato dì individuare nella realtà fenomenica dei nostri giorni elementi di conferma empirica del modello: la tendenzialità. ” (Ape e comunista, pag. 59).

La crisi è necessitata di fatto da una caduta reale del saggio di profitto, ma questa caduta reale del saggio del profitto stimola la rigenerazione ad un livello superiore della sua stessa causa, e cioè la dinamica oggettivamente divaricantesi tra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto. Inoltre nel dispiegarsi della crisi si accorciano i cicli, si fanno più ravvicinate le diverse ed ulteriori cadute reali del saggio di profitto sempre dentro la dinamica divaricante tra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto.

La crisi, nel favorire il dispiegarsi di controtendenze non porta ad una caduta reale lineare, una caduta crollo del saggio di profitto ma a processi di ristrutturazione per la guerra imperialista per riplasmare rimodellare le forze produttive, distruggendo forze produttive sovrapprodotte sovraccumulate; distruggere forze produttive sovrapprodotte sovraccumulate riplasmando e rimodellando forze produttive […] per creare e alimentare il saggio di profitto. II MPC distrugge par produrre e produce per distruggere, per cercare di aumentare i saggio di profitto.

I1 MPC spinge, per cercare di uscire dalla crisi, al dispiegarsi scatenarsi della guerra imperialista in atto (dentro cui si nascondono in primo luogo le due superpotenze). Il carattere di crisi generale si è evidenziato con molta chiarezza con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro con l’oro (agosto 1971), che fino a quel momento fungeva da moneta equivalente generale. Comunque le controtendenze economico finanziarie che da allora si sono materializzate non hanno portato al superamento della crisi stessa; in ultima analisi hanno favorito una più violenta concentrazione centralizzazione capitalistica nelle multinazionali più forti e competitive, ma anche in questo caso, il plusvalore prodotto ha valorizzato soltanto una parte del capitale complessivo accumulato.

Pertanto la guerra imperialista è l’unico sbocco capitalistico alla crisi. La tendenza alla guerra mondiale imperialista non è una semplice tendenza perché la guerra imperialista è già in atto, sia pure in nodo ancora non dispiegato. La guerra delle Falkland tra Argentina e Gran Bretagna è una guerra dietro cui hanno manovrato le due superpotenze, non solo per interessi “politici”, ma soprattutto economici in riferimento al continente Antartico.

La guerra in Libano tra israeliani e libanesi falangisti da un lato, e palestinesi e siriani, dall’altro, è anch’essa manovrata dalle due superpotenze per una nuova divisione del medioriente in zone d’influenza. L’appoggio della Siria ai palestinesi è formale: alla Siria non interessa realmente la causa della rivoluzione palestinese, per cui il genocidio del popolo palestinese e il ridimensionamento di questo focolaio di “terrorismo”, come 1o definisce il presidente degli USA, non è in contraddizione con la formalità dell’appoggio siriano. Dietro 1a Siria si nasconde 1’URSS, che, minacciando Israele, in realtà intende difendere esclusivamente i propri interessi di superpotenza nell’area mediorientale.

I processi di guerra imperialista in atto mettono a nudo il revisionismo (ad esempio la direzione dell’OLP) e fanno sviluppare la tendenza rivoluzionaria. Così nella metropoli i processi di crisi ristrutturazione per la guerra imperialista, generano la tendenza opposta: crisi rivoluzione antimperialista di lunga durata per il comunismo.

Altri compagni affermano quanto segue: “l’evolvere del processo della crisi assume forme diverse per ogni ordine dì contraddizione e configura nella sua manifestazione fenomenica una chiara tendenza a tramutarsi in guerra mondiale imperialista. Occorre tuttavia ricordare che all’interno di questa tendenza generale alla guerra, la contraddizione principale è quella fra proletariato e borghesia imperialista e, allo interno di quest’ultima è la tendenza rivoluzionaria ad avere una posizione dominante” (crisi, guerra e internazionalismo proletario, Brigata Palmi PG).

Poiché la guerra mondiale imperialistica non è una semplice tendenza, ma un processo in atto, è sbagliato affermare che la tendenza rivoluzionaria ha una posizione dominante, mentre è giusto sostenere che la tendenza principale è la rivoluzione e la contraddizione principale è quella tra il proletariato e la BI, e 1o sviluppo della rivoluzione in qualità di tendenza principale, è dovuto ad un livello “più basso” cioè alla contraddizione FP/RP che nella crisi porta i rapporti di produzione capitalistici a distruggere le forze produttive sovrapprodotte come unico sbocco capitalistico alla crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali e cioè ai processi dì crisi ristrutturazione per la guerra imperialista.

La contraddizione fondamentale FP/RP si manifesta nella crisi mediante processi di ristrutturazione per la guerra imperialista: e questa contraddizione fondamentale acutizza la contraddizione principale tra proletariato e borghesia imperialista. La guerra si sviluppa all’interno stesso della BI, la quale sì fa sempre la guerra per interposta persona, attraverso i proletari, contemporaneamente si estende contro tutto il proletariato mondiale per piegarlo alle necessità dell’MPC. Questi due aspetti che hanno forme e sviluppi diversi, non coincidono materialmente, ma ugualmente interagiscono a partire dalle metropoli in un unico processo, quello di ristrutturazione per la guerra imperialista. La crisi genera infatti processi di ristrutturazione per la guerra imperialista nell’illusione capitalista di risolvere la causa della crisi e superare la tendenza oggettivamente divaricantesi tra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto nell’illusione di aumentare le ragioni sociali della tendenza principale presente nel mondo, da essa stessa accelerata: la rivoluzione proletaria per il comunismo.

Con la crisi il capitale monopolistico multinazionale “tende al limite” alla distruzione delle forze produttive ed al contempo favorisce la materializzazione concreta di “controtendenze”. Per non distruggere complessivamente le forze produttive il capitale monopolistico multinazionale determina la materializzazione di controtendenze che, nel concreto, distruggono forza produttiva sovrapprodotta sovraccumulata. Da un lato, la tendenza al limite della distruzione delle forze produttive non deve essere intesa come pura precisazione in avanti della realtà fenomenica, delle controtendenze: per questo è sbagliato parlare di crisi ristrutturazione distruzione delle forze produttive. D’altro canto, le contraddizioni contrastando in maniera relativa la tendenza al limite non fanno che confermare la validità, le controtendenze […,] relativa ad un livello chiaramente contraddittorio di materializzazione dialettica e non meccanico della tendenza al limite e ciò è evidente in un periodo di crisi assoluta del MPC.

Le controtendenze alla tendenza limite al crollo del capitale, sono i processi in atto operati dalla BI e cioè i processi di ristrutturazione per la guerra imperialista. Infatti ristrutturazione e guerra imperialista vivono concretamente una strettissima unità dialettica in quanto i processi di ristrutturazione si sviluppano in funzione della guerra imperialista: non c’è una guerra interimperialista, è una guerra esterna poi, perché non esista separazione tra guerra esterna e guerra interna.

Sicuramente il nostro paese è ben lontano dall’essere pacificato sul fronte della lotta di classe nel polo tra BI e PM, comunque ciò non ha impedito ad esempio che il governo mandasse una task force nel Sinai a far rispettare l’accordo antipalestinese di Camp David tra Egitto e Israele, così come avevano deciso organi sovrannazionali.

La guerra non essendo esterna rispetto alla contraddizione fondamentale del MPC (FP/RP), produce due movimenti opposti che accentuano la contraddizione principale, cioè la contraddizione BI/PM. La guerra imperialista è guerra per stabilire il ciclo della valorizzazione ed accumulazione del capitale distruggendo notevoli quote di forza lavoro e mezzi di produzione eccedenti, stabilendo una diversa divisione del mondo in sfere di influenza (conquistando nuovi mercati ed accaparrandosi materie prime), ed una diversa divisione internazionale del lavoro; è guerra per difendere l’imperialismo in crisi e poter mantenere i putrescenti rapporti di produzione capitalistici; è guerra per il mantenimento del potere della BI sul proletariato internazionale.

I processi di ristrutturazione per la guerra imperialista fanno della lotta dì classe tra BI e PM una guerra di classe, uno scontro per il potere.

Nella guerra di classe, il PM tende a sviluppare la guerra rivoluzionaria antimperialista per il comunismo. La guerra rivoluzionaria del PM col suo sviluppo accelera l’agonia del MPC; la guerra rivoluzionaria, all’opposto della guerra imperialista, nasce e si dispiega per distruggere definitivamente la guerra stessa abolendo la causa che in questa epoca storica genera 1a guerra e, cioè, il MPC.

Mentre la sostanza della guerra imperialista è distruggere per mantenere in vita il MPC, cioè per tornare nuovamente a distruggere, la sostanza della guerra rivoluzionaria sta nel distruggere il MPC, cioè per tornane nuovamente a distruggere, la sostanza della guerra rivoluzionaria sta nel distruggere il MPC, e costruire un nuovo e diverso ordinamento sociale: LA COMUNITà REALE, LA SOCIETA’ SENZA CLASSI.

 

Fonte: Atti del processo Ruffilli

Per il partito – N.1

Cellula comunista per la costituzione del PCC
Aprile 1989
PRESENTAZIONE

La cellula comunista per la costituzione del PCC è formata da compagni provenienti da diverse ipotesi organizzative, che si collocano all’interno dell’esperienza storica del movimento comunista internazionale e, nel particolare di questi ultimi 20 anni fanno riferimento agli insegnamenti prodotti dall’avanguardia comunista combattente nel nostro paese, alla quale, nel bene e nel male, ed ai vari livelli della loro coscienza un contributo hanno dato. Individuando come asse centrale della propria riflessione oggi, la valorizzazione dell’esperienza delle B.R. che nel panorama delle varie OCC degli anni ’70, hanno rappresentato la componente M.L., ed oggettivamente l’unica alternativa credibile al progetto revisionista (al di là di ogni tipo di scelta che può aver maturato oggi la maggioranza dei suoi ex dirigenti).
Il naufragio delle prospettive di costituzione del P.C.C., il non aver saputo adeguarsi alle nuove condizioni economico/politiche, il non aver superato gli errori di “giovinezza” del movimento rivoluzionario, sono state le principali cause della sconfitta politica del movimento rivoluzionario dei primi anni ’80, e la non soluzione di questi problemi rimane la principale “impasse” per la ripresa dell’iniziativa comunista in Italia.
Sulla base di queste considerazioni e dell’omogeneità di fondo a cui sono pervenuti sulle tematiche centrali ed essenziali, i compagni della Cellula hanno preso l’iniziativa di rilanciare la proposta di costituzione del partito nell’odierna situazione.
Rilanciare questo disegno vuol dire per la Cellula reagire a quella sconfitta contrastando il clima liquidazionista e revisionista che essa ha prodotto in parte del movimento rivoluzionario, nella certezza che le sorti della lotta di classe e della lotta armata in Italia non si sono decise in quella congiuntura, per quanto grave e drammatica essa sia stata.
I problemi politici che questa ambiziosa scadenza – la fondazione del P.C.C. – pone, sono di grande dimensione e richiedono la definizione di un quadro di riflessione di grande respiro; necessitano quindi di allargare il confronto al maggior numero di compagni possibile, al fine di approfondire il dibattito per valorizzare l’esperienza passata collocandola all’interno del patrimonio storico del movimento comunista internazionale, in modo da poter articolare una posizione politica complessiva capace di costituire la base di un vero e proprio apparato di tesi per il congresso di costituzione del partito. Necessita inoltre una grande battaglia politica nel movimento rivoluzionario al fine di superare le tesi soggettiviste e battere con decisione il risorgente revisionismo, ipotesi queste che confondono le prospettive e chiudono il dibattito in un vicolo cieco, incapaci entrambe di dare una risposta politica da un punto vista marxista e rivoluzionario, che permetta ai comunisti di riprendere l’iniziativa.
Queste profonde convinzioni ci hanno portato a decidere di pubblicare una rivista periodica, contenente articoli di approfondimento teorico/programmatico che riesca ad essere strumento di battaglia politica e veicolo del dibattito precongressuale.
I compagni della Cellula sono ben consci delle difficoltà a cui un tale lavoro va incontro, e che pertanto quanto da essi prodotto non può dirsi, allo stato in cui si trova, esauriente. Gli stessi temi affrontati in questo numero dovranno essere approfonditi ed altri vasti temi affrontati. Ciò si darà all’interno del dibattito e riguarderà la pubblicazione dei prossimi numeri.
Per la realizzazione di tale progetto (il necessario lavoro teorico/programmatico e organizzativo che comporta la costituzione del P.C.C.), i compagni della Cellula si augurano di poter contare sul più grande numero di compagni rappresentativi della realtà di classe, siano oggi in parte organizzati o più o meno dispersi e privi di collegamenti fra di loro, ma risoluti a tenere alta la bandiera del comunismo nel nostro paese.
Dalla capacità, volontà, impegno concreto di questi compagni, dipende il fatto che si possa uscire dall’attuale crisi del movimento rivoluzionario italiano; che si possano recuperare i ritardi e gli errori commessi in questi anni (da cui certo non ci esentiamo); che le tappe per arrivare alla costituzione del partito vengano percorse nel più breve tempo possibile e che il partito possa cominciare ad agire come tale. Questo è l’obiettivo della Cellula e questa rivista è uno degli strumenti per perseguirlo.

CELLULA COMUNISTA PER LA COSTITUZIONE DEL P.C.C.

L’AMNISTIA “DI SINISTRA” E LE NUOVE INFLUENZE REVISIONISTE
NEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO ITALIANO

Ci sembra che nel corso dello scorso anno (88) sulle posizioni che vanno dal dissociazionismo stile Negri/P.L. alla più recente operazione Curcio-Moretti-Balzerani, il dibattito abbia fatto sufficiente chiarezza. Una linea di demarcazione netta fra questi ex militanti ed il movimento rivoluzionario si è evidenziata. Non è perciò di queste posizioni che vogliamo qui parlare. In questo documento vogliamo invece riferirci a quell’area che “utilizzando” i problemi concreti che l’avanguardia comunista si trova di fronte e gli stessi errori del movimento rivoluzionario, propone tesi all’apparenza “piene di buon senso”, che si richiamano formalmente ai principi del M.L., alla lotta contro il soggettivismo, ecc., ma che in sostanza si rivelano liquidazioniste ed opportuniste. Si tratta delle posizioni di alcuni noti militanti detenuti delle U.C.C., della rivista “POLITICA E CLASSE”, ecc., insomma di quell’area che propone l’amnistia “di sinistra”, la ridefinizione di una “sinistra di classe” nella quale si confondano i confini fra riformisti, revisionisti e rivoluzionari, le alleanze con i “sinceri democratici” e con i partitini legali (con o senza braccio armato). Quell’area nella quale si dibatte di un “movimento politico unitario” con le forze della sinistra non socialdemocratica, nella quale si predica il realismo delle situazioni difficili e la difesa a parole dell’esperienza degli ultimi 20 anni di L.A. in Italia, nonché la necessità di trarne un bilancio per riprendere l’iniziativa. Ma di fatto non di valorizzazione si tratta, nei fatti ed a un esame accurato dei testi, questa pretesa “valorizzazione” si riduce ad una semplice “storicizzazione”. Di bilancio non si tratta, ma di un abbandono definitivo dello strumento della L.A., ingombrante per quelle alleanze che ricercano nell’ambito della “sinistra nella sua accezione più ampia”.
In vero un dibattito già avvenuto venti anni fa in Italia e non solo in Italia, fra l’ipotesi riformista/revisionista e quella rivoluzionaria, un dibattito già risolto nei fatti dal movimento rivoluzionario, nella assunzione del principio dell’unità del politico/militare nell’agire dei comunisti anche nella fase non rivoluzionaria.
Si dice spesso che nodo cruciale da sciogliere è quello della coniugazione tra il patrimonio storico del Movimento Comunista Internazionale e gli insegnamenti estraibili e generalizzabili dell’esperienza della L.A. in Italia. Ciò è giusto. Ma siamo sicuri che questi ultimi costituiscano davvero una novità sostanziale o non siano piuttosto una forma specifica, caratteristica della organizzazione rivoluzionaria di classe nelle metropoli imperialiste? Quando diciamo che elemento di valore storico di quest’esperienza è l’aver riattualizzato la via rivoluzionaria, il nodo del potere politico nei paesi del centro imperialista ed in questo periodo storico, non diciamo implicitamente che essa, pur con alcune caratteristiche proprie, ha sostanzialmente ripreso contenuti di principio che intanto si confermano validi in quanto sono chiavi di lettura scientifica di un’intera epoca e dei modi e tempi della transizione? Insomma se il punto fondamentale è stato il riaffermare l’esigenza per il proletariato di costituirsi in classe per sé, dotandosi di indipendenza ideologica, politica e militare, la scelta della forma combattente ne è un derivato ed ha trovato ragion d’essere, legittimazione nella prima e non viceversa. Con questo si vuol dire che non ha senso contrapporre l’uso delle armi per come si è caratterizzato nella recente esperienza a quello fatto nella tradizione terzinternazionalista. Questa contrapposizione, che viene rimarcata col fatto per cui l’esperienza nostra non avrebbe precedenti nella storia dei P.C., non fa che indebolire la proposta. È semmai l’elemento di continuità, di affinità, di approfondimento, che va ripreso e che può darci forza nel dimostrare la necessità, la praticabilità e l’utilità di un P.C.C. E non è un caso poi il verificare che proprio nel tentativo di sostanziare questa “originalità” non si riesca a produrre lo sforzo di elaborazione desiderato e si registri l’attuale impasse. In effetti un bilancio della L.A. e del M.R. degli anni ’70/80 è maturo da tempo e si tratta di recuperarne i contenuti generalizzabili, che più conseguentemente hanno valorizzato la tradizione storica del Movimento Comunista Internazionale.
Ciò su cui va posto l’accento non è tanto il fatto che il P.C.C. si fonda sull’aspetto centrale dell’uso delle armi, quanto sul fatto che nel processo di costituzione in classe indipendente, il partito utilizza tutti i mezzi possibili e che tra questi, la L.A. ha valore centrale perché esplicita nel modo più chiaro ed efficace il programma comunista, perché incanala nel miglior modo le energie proletarie, scongiurando sia gli avventurismi sconsiderati, sia il riflusso nel puro contrattualismo e riformismo. E questo è un punto su cui ci si ricollega al miglior Lenin del “Che fare?”. Anche allora, infatti, ci si poneva il problema dell’organizzazione di combattimento e sono note le polemiche contro chi pensava di poterne fare a meno, accusando i bolscevichi di cospirativismo e terrorismo. Se è vero che l’attività militare non fu centrale, è certo comunque che tutto l’impianto politico-organizzativo era formato alla lotta per il potere, clandestinità e L.A. compresi.
Si tratta cioè di applicare la teoria ed i principi del M.L. alla nostra epoca (esperienze soggettive, fatti materiali, acquisizioni….) e, al contempo, di definire quindi la tattica, la strategia, la linea politica ed il programma politico adeguato per affrontare questa situazione.
Tutto ciò, come si può ben capire, non ha niente a che vedere con presunte innovazioni della teoria M.L. o con i dibattiti relativi alla crisi della sinistra. Si tratta di una discussione tutta interna al movimento comunista rivoluzionario e deve quindi avere a nostro avviso due precise discriminanti: il riconoscimento dei principi M.L. ed il carattere combattente del partito nella fase attuale. Solo in questo si può parlare di valorizzazione dell’esperienza passata, solo in questo modo è possibile rilanciare una proposta di progetto politico forte e di ampio respiro e costruire l’organizzazione rivoluzionaria capace di guidare le masse nel nostro paese alla rivoluzione proletaria ed alle successive tappe sino al comunismo, salvaguardando l’unità del politico/militare, evitando così sia deviazioni che vedono negli aspetti parziali della lotta di classe o nel lavoro politico di massa e legale, il fine dell’agire del partito, tanto quanto le posizioni militariste che vedono nel solo combattimento (nello sparare per resistere) il fine ultimo dell’agire del partito.
Fingere di non vedere questa situazione, l’affermarsi cioè di queste posizioni opportuniste/revisioniste all’interno del movimento rivoluzionario, rifiutarsi di capire che l’affermazione di queste posizioni è estremamente legata all’assenza di una presenza chiara e forte da parte dei comunisti rivoluzionari ed ai problemi che tale assenza ha prodotto, pensare quindi che in fondo basta andare avanti come prima, “continuare a combattere per dimostrare di esistere” perché ogni autocritica del passato, ogni risoluzione dei problemi posti dalla sconfitta porta all’opportunismo e alla liquidazione dell’esperienza passata, o a limitare la critica a queste posizioni a un dibattito ristretto, ad un’area limitata di simpatizzanti o militanti del proprio gruppo, rifiutando di dargli da subito in tutte le situazioni la necessaria battaglia politica e rinviando ciò alla futura costituzione del partito, o non considerare importante la lotta politica a queste posizioni in quanto già sconfitte storicamente, ci sembrano posizioni perdenti, che in ultima istanza permettono proprio l’affermarsi di queste posizioni.
Sebbene la sconfitta di queste posizioni si darà in forma piena nella capacità dei comunisti di costituire il P.C.C., noi crediamo che la battaglia politica a queste posizioni sia necessaria sin da subito e vada svolta sia con i mezzi illegali propri di un dibattito tra comunisti sulla ripresa dell’iniziativa politico/militare e la fondazione del P.C.C., sia con tutti i mezzi legali possibili atti a smascherarli nelle situazioni di movimento e di lotta nel nostro paese dove essi cercano di inserirsi, saper dare questa battaglia al di là delle forze limitate che si possono avere e che fan sì che oggi non si evidenzi una forza marxista rivoluzionaria capace, per autorità politica e strumenti organizzativi, di unificare tutti i comunisti nella costituzione di un solo polo rivoluzionario, cioè del partito, necessariamente oggi un P.C.C., vuol dire lavorare nella direzione della costituzione del partito, far chiarezza, battere le idee errate, far emergere la linea giusta. Questa è attività che ci si dà sin da ora e non è rinviabile alla futura attività del partito, in quanto è premessa del necessario lavoro di costituzione dello stesso, momento di confronto che riguarda tutti i comunisti.
Vediamo quindi di affrontare con ordine la questione, di vedere in cosa consiste il loro revisionismo ed opportunismo, di vedere qual è la parabola che ha dato vita a quest’area in cui si trovano oggi uniti ex militanti rivoluzionari e vecchi opportunisti incalliti. Per avere una riprova di questa unione basti vedere l’associazione di firme ed interventi nel primo e secondo numero della rivista “Politica e Classe”.
Per procedere con ordine non si può che riferirsi al dibattito in corso da diversi anni nel movimento rivoluzionario italiano in seguito alla sconfitta dell’82.
Sconfitta che, vorremmo precisare onde non lasciar spazio ad equivoci, fu dovuta ad elementi di ordine oggettivo, la mutata situazione concreta e l’offensiva padronale in atto, e di ordine soggettivo: l’impreparazione dei comunisti ad adeguare il proprio impianto politico a questa situazione. Ogni riflessione che colga uno solo di questi due elementi si dimostra oggi incapace di prospettive durevoli alla ripresa dell’iniziativa comunista in Italia.
A partire da questa situazione, l’avanguardia comunista si trova di fronte alcuni problemi che la realtà si era incaricata di far emergere in tutta la loro gravità e che erano già precedentemente interni all’esperienza combattente in Italia: il giovanilismo, il soggettivismo, l’economicismo, ecc.
Per superare questi limiti era innanzi tutto necessario trarre un bilancio dell’esperienza di questi ultimi 20 anni di lotta rivoluzionaria nel nostro paese e condurre una riflessione politica e teorica sulla esperienza della L.A. in Italia.
Esperienza che si era posta nei fatti come unica alternativa concreta all’ipotesi revisionista, e ciò soprattutto nella sua componente M.L., le BR. Quindi collocare questa esperienza all’interno del patrimonio storico del Movimento Comunista Internazionale.

I termini essenziali del dibattito
Negli ultimi venti anni infatti assumevano carattere dominante due ipotesi sulla possibilità di trasformazione sociale. O la strada indicata dalle BR o quella indicata dal PCI. Se, come abbiamo visto, la sconfitta tattica dell’ 82 aveva ragioni oggettive e soggettive, bisognava analizzare la realtà alla luce del bilancio quali erano stati gli errori dell’impianto precedente che non gli avevano permesso di adeguarsi alla realtà e di rispondere a quell’urgente richiesta di direzione politica proveniente da ampi strati di proletariato. Ciò significava discutere di tattica e di strategia, del rapporto crisi/tendenza alla guerra imperialista, guerra di lunga durata/insurrezione, della centralità operaia, di quale forma di partito, del legame con l’esperienza del movimento comunista internazionale, del rapporto partito/masse, ecc. Tutti problemi tutt’oggi più che attuali e dalla soluzione dei quali dipende la possibilità di rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria in Italia. In merito a queste problematiche si può dire che il dibattito e la riflessione, e quindi le risposte da parte del movimento rivoluzionario si sono divise in un certo modo in due posizioni dominanti all’interno del movimento rivoluzionario (altre posizioni come PG, COLP ecc. si sono infatti sciolte come neve al sole, dimostrando l’inconsistenza delle loro proposte, alcuni constatando la sconfitta delle loro ipotesi sono confluiti nel fronte della dissociazione e della resa, altri, i più onesti che non sono passati al soldo della borghesia, propongono oggi di riunificare i vari cocci delle passate O.C.C. in una sorta di ampio fronte anti-imperialista, come se niente fosse successo). Le due posizioni dominanti a cui ci riferiamo sono quelle note come la Prima e la Seconda posizione, nate in seguito alla spaccatura delle BR nell’ 84.
Intendiamo evidentemente queste posizioni in senso largo, ovvero non riferito ai soli militanti delle BR che hanno aderito all’una o all’altra di queste posizioni, ma nel senso dell’area di riflessione e di dibattito che intorno all’una o all’altra si sono costituite.
Possiamo dire in modo schematico (in quanto in modo più approfondito demandiamo ai documenti precedentemente prodotti sull’argomento dalle varie posizioni) che il dibattito si è incentrato su due diversi modi di concepire la ritirata strategica e quindi la ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria. Da un lato i compagni della Prima posizione che affermano sufficiente liquidare gli aspetti più eclatanti del soggettivismo presenti nelle BR degli anni 80, come loro stessi sostengono: “Quel modo fallimentare di analizzare i fenomeni sociali sostituendo al movimento reale storico concreto i movimenti tendenziali dati come già realizzati…”, senza però mettere in discussione la scelta strategica della lotta di lunga durata come processo rivoluzionario nelle metropoli imperialiste e senza mettere in discussione l’idea gradualista di costruzione del partito, irridendo al necessario lavoro politico di educazione delle masse, fino ad arrivare oggi a proporre la costituzione del fronte antimperialista.
Fronte basato sulla strategia della L.A. assunta come guerra di lunga durata contro la NATO ed i vari centri decisionali dell’imperialismo con sede nei vari stati nazionali dello stesso, operazione politica questa che permette così di unificare chi intende la L.A. come lotta in favore del Terzo Mondo, chi lotta in dialettica con i paesi “socialisti” e con chi crede che questi paesi non siano per niente socialisti. Relegando così le masse e la situazione politico/sociale come aspetti marginali del conflitto (preoccupandosi al massimo che comunque esistono le contraddizioni sociali e trovando in ciò le proprie legittimazioni).
La guerra di lunga durata e la strategia della L.A. ad essa collegata si trasformano quindi in impianto teorico/ideologico-tattico/strategico, sostituendo principi e programma e trovando così la legittimazione del loro esistere e si pongono così in modo talmente generico da porsi al di là del conflitto sociale per come esso è dato, neutralizzando così nei fatti la loro attività soggettiva.
L’attività politica non è vista in funzione delle contraddizioni sociali che si manifestano. Le lotte delle masse non sono importanti per il livello di esperienze che acquistano e per le forme organizzative che producono e che manifestano l’autonomia di classe di fronte alla borghesia e alle direzioni revisioniste. Semmai interessano solo in quanto servono ad incrementare l’area della guerriglia e a sprigionare nuove forze disponibili alla guerra di lunga durata (quanto poi questa sia una pia illusione è la realtà stessa a dimostrarlo, escluse alcune eccezioni individuali che non fanno certo testo).
In realtà la disponibilità delle masse alla L.A. non è data dal convincimento individuale, ma viene da momenti di lotta contro la borghesia in cui esistono le condizioni complessive entro cui è possibile l’insurrezione di massa e la conquista del potere politico; condizione che a nostro avviso per i paesi imperialisti restano valide per come indicate da Lenin (nota 1).
Come si può capire, una tale impostazione indica un modo assai strano di concepire il partito leninista ed i principi leninisti sia sui compiti e sull’agire pratico del partito, sia sulle forme che assume il processo rivoluzionario nei paesi imperialisti, sia sul rapporto partito/masse, ecc.
Una posizione quindi che, nonostante le dichiarazioni di principio di voler superare l’economicismo ed il soggettivismo precedenti alla ritirata strategica, nei fatti propone una sorta di continuismo che non riesce a risolvere i problemi posti dalla crisi dell’ 82, anche se si propone di colpire i progetti politici dominanti della borghesia imperialista (come nel caso Ruffilli), si trova poi incapace di assumere una gestione politica adeguata, inseguendo il fronte unico antimperialista e, per conseguenza, non comprendendo la possibilità/necessità di staccare l’Italia dalla catena imperialista, ma immaginandosi un’interconnessione assoluta tra i vari paesi imperialisti (una sorta di super imperialismo mondiale), elude i compiti necessari a tale scopo.
Dall’altro lato si è sviluppato il dibattito della Seconda posizione, che ha prodotto prima il libro “Politica e Rivoluzione”, sebbene i suoi autori per un eccesso di tatticismo e pragmatismo di cui vedremo in seguito a quali posizioni approdi, non abbiano sostenuto fino in fondo la battaglia politica prodottasi nelle BR nell’84, ma anzi al contrario al momento della spaccatura si siano schierati a fianco della posizione che in modo chiaro avevano criticato nel suddetto libro.

Gli sviluppi della Seconda posizione
Poi l’uscita del libretto rosso della Seconda posizione che cercava di sistematizzare e definire quali fossero i compiti dell’avanguardia comunista oggi nel nostro paese; primo fra tutti la necessità di ricollocare l’esperienza italiana nell’esperienza più generale del movimento comunista internazionale, quindi di ridefinire l’impianto politico informandolo ai principi del M.L.
Cercava quindi di definire le differenti strategie e le differenti forme conseguenti che assume il processo rivoluzionario nei paesi imperialisti e nei paesi dominati, il diverso rapporto che ha quindi il partito là dove deve occuparsi della “strategia” del sale e del riso, della gestione delle zone liberate in rapporto ad un partito che opera nel cuore del centro imperialista.
Cercava quindi di affrontare, valutando le condizioni oggettive e soggettive createsi negli anni 70 in Italia, la questione della fondazione del P.C., superando quel concetto gradualista di costruzione dello stesso, parimenti legato all’ipotesi della strategia della guerra di lunga durata.
Come si può ben capire, questa seconda tesi che sostenevamo al tempo, pur non essendo militanti BR, e che ancora oggi sosteniamo come unica soluzione per riprendere in modo durevole e continuativo l’iniziativa politica dei comunisti nel nostro paese richiedeva e richiede un enorme sforzo di elaborazione teorica e di analisi della società, soprattutto in un movimento rivoluzionario dove, a causa della degenerazione revisionista del PCI (che ha rinnegato del tutto le tesi su cui si era costituito) si è interrotto, o quanto meno si è offuscato, quel filo rosso di continuità nel movimento comunista del nostro paese. Infatti la ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria negli anni ’60 ha subito sin dal suo nascere questa pesante ipoteca ed ha fatto sì che assumessero valore dominante o comunque significativo le teorie operaiste e le concezioni fochiste e tupamaros all’interno del nascente movimento rivoluzionario italiano.
A partire da queste considerazioni molti compagni (noi tra loro) iniziarono quel necessario lavoro di approfondimento tecnico/programmatico che la realtà poneva come non più rinviabile, e di ricostruzione di legami politici/organizzativi che consentissero di arrivare alla fondazione del P.C.C. Questo lavoro, pur tra difficoltà ed errori, è continuato e continua come questa rivista dimostra, coscienti come siamo che la fine della ritirata strategica si darà solo sapendo adempiere a quest’obiettivo.
Per quanto riguarda invece le BR-P.C.C. pensiamo sia a tutti i compagni noto come perseverino, seppur combattendo in modo deciso contro lo Stato, nella concezione antimperialista e della guerra di lunga durata e quindi ripropongano tesi a nostro avviso soggettiviste, incapaci di condurre le masse del nostro paese verso il socialismo.
Vi è invece quel gruppo di detenuti ex U.C.C. interno all’area “amnistia di sinistra” che, viste le difficoltà che tale percorso di ridefinizione e riorganizzazione teorico/strategico richiedevano e richiedono, ha via via abbandonato i principi per cui si era operata la rottura dell’84 nelle BR, arrivando non a un rinnovamento dell’esperienza che ne rappresentasse la continuità e la valorizzazione, ma ad un rinnovamento che la ha storicizzata e ne ha profondamente mutati i principi, giudicandoli troppo ingombranti e quindi dichiarati a parole, ma immediatamente messi ai margini nella pratica, in quanto inconciliabili con l’impianto politico che andava via via delineandosi e con le relative proposte politiche.
I primi sintomi di questa tendenza si sono infatti manifestati con le U.C.C. che, se da un lato si dichiaravano “diretta discendenza della esperienza BR”, nonché la sua componente “realmente M.L.” e quindi, era sottinteso, l’unica in grado di contrastare e dare battaglia politica alle posizioni arroccate e soggettiviste della BR/PCC del dopo 84, nei fatti di contro mettevano insieme ipotesi e tesi fra le più strampalate, senz’altro estranee al ML. In merito basti vedere il documento “Nuove prospettive del movimento rivoluzionario” ed il documento di rivendicazione Giorgieri, dove leggiamo della lotta per la vera pace e gli appelli agli intellettuali onesti su tale terreno (invece di una analisi di classe sugli intellettuali e sulla guerra), il filosovietismo (invece di una battaglia contro ogni imperialismo e di approfondire l’analisi marxista sul social-imperialismo), la proposta di costituzione della base legale della L.A. (invece di una seria analisi che distingua natura e clandestinità del partito e rapporto con la classe, ecc.).
Come la pratica si è incaricata di confermare, invece di operare un passo in avanti, si immettevano nel movimento i primi germi di revisionismo ed avventurismo armato che portavano un anno dopo le UCC, o quanto meno molti tra i suoi più illustri esponenti prigionieri, a dichiararsi a favore dell’amnistia.
Anche in questo caso, con la classica caratteristica del voler utilizzare un linguaggio pseudomarxista, si fa propria questa indicazione (l’amnistia) che viene proposta all’intera sinistra di classe, prendendo atto che in ogni caso l’area curciana e il blocco di potere legato alla DC si pongono su questo terreno.
Per questo motivo pare loro “rivoluzionario” e “sensato” contrapporsi a questi ultimi con una proposta di amnistia “di sinistra” ricercando per questo i propri interlocutori nella sinistra nella sua accezione più ampia e ciò nell’interesse di tutte le forze rivoluzionarie, nonché dei movimenti di massa.
L’amnistia quindi non viene colta per il suo carattere di ennesima operazione tesa al recupero/integrazione di una parte di ex rivoluzionari da giocare contro il futuro del movimento rivoluzionario; ennesima operazione per veicolare un messaggio di resa e, più in generale, l’improponibilità di oggettive trasformazioni radicali della società, nonché dell’abbandono della LA che si dà oggi come il perno centrale dell’attività dei comunisti che rende possibile questa trasformazione.
Essa viene colta solo nell’aspetto dichiaratamente filodemocristiano, proprio dell’area Curcio-Moretti. Il messaggio è quindi abbastanza chiaro: trovare una soluzione che permetta di non “sporcarsi del tutto la faccia”, pur essendo disponibili al progetto amnistia, individuando quindi gli interlocutori nell’area della sinistra revisionista e a essi rapportandosi come il “figliol prodigo” che dopo anni di estremismo e lotta armata ritorna a casa riproponendosi come forza politica di sinistra matura e responsabile.
Come si vede tutto ciò non ha niente a che vedere con il movimento rivoluzionario che ogni mutamento politico, amnistia compresa, affronta sempre tenendo presenti le condizioni politico/sociali presenti, gli interessi in campo in rapporto agli interessi generali del proletariato ed alla strategia rivoluzionaria di ogni singolo paese. Sostenere infatti che tale strumento (l’amnistia) è stato spesso utilizzato dai vari movimenti rivoluzionari, erigere ciò a principio significa non cogliere la differenza tra un’amnistia concessa da un regime in crisi ed un’amnistia come quella attuale, tesa a sancire l’impossibilità della LA nel nostro paese.
Significa porre il problema della prigionia politica come ceto politico, senza capire che essa è parte del generale processo di emancipazione proletaria, quindi un portato della lotta di classe e risolvibile all’interno del decisivo ribaltamento dei rapporti di forza tra le classi.
Come si vede quindi, né le forze rivoluzionarie né il proletariato hanno alcun interesse al progetto amnistia nel nostro paese e nelle condizioni attuali, se non quello di farlo fallire nel modo più deciso possibile.
Che cosa infatti poteva significare la tesi UCC sulla ricerca di un blocco sociale interessato ad una svolta sostanziale nella direzione politica della società che in blocco comprende più classi, se non l’abbandono di categorie marxiste che vedono nei paesi imperialisti solo il proletariato come classe sociale interessata non a una svolta sostanziale ma ad una vera e propria rivoluzione, che modifichi gli attuali rapporti di produzione, abbatta lo Stato borghese, instauri la dittatura del proletariato. Poteva significare solamente inseguire e dialettizzarsi con forze dell’estrema sinistra piccolo-borghese, come DP, forze interclassiste, su cui, per avere un’idea chiara, basta vedere il loro atteggiamento di sostegno alla dissociazione, di politica estera filo-imperialista, di disarmo della classe (rifiuto della violenza, ecc.).
Significa inseguire il movimento sempre più al ribasso, sino a concordare oggi per l’essenziale con le posizioni di “Politica e Classe”, che nel movimentismo e nel rifiuto della LA ha il suo fondamento.

Questioni “piene di buon senso”
Quali sono le questioni in apparenza “piene di buon senso”, anti soggettiviste, anti settarie ecc. che dapprima le UCC in modo ambiguo, e quest’area oggi in modo dichiaratamente revisionista propongono?
Prendiamo ad esempio le più significative: dapprima le UCC e poi quest’area insistono sulla svolta reazionaria avvenuta negli anni 80 nel nostro paese (che loro definiscono reazionario-moderata) e ad essa associano sia la crisi della sinistra istituzionale e dei vari movimenti riformisti (proletari e non) sia la crisi del movimento rivoluzionario, e nell’uscita da questa crisi vedono possibilità-necessità comuni tra la sinistra nella sua accezione più ampia (rivoluzionari e riformisti insieme), senza cogliere la diversa natura e gravità dei vari soggetti politici, confondendo così crisi tattica e crisi strategica.
Se è chiaro infatti che il processo di ristrutturazione imposto dalla crisi, ed il conseguente attacco subito dal proletario e della sua avanguardia rivoluzionaria nel nostro paese agli inizi degli anni 80, come ogni fenomeno economico-sociale, ha informato e ridefinito il ruolo delle varie forze sociali e politiche e dei vari partiti, e quindi vi è uno stretto legame tra questa situazione determinatasi e l’eventuale crisi della sinistra “nella sua accezione più ampia”, per dei rivoluzionari si tratta però di definire i motivi e la natura di questa crisi che per quanto riguarda il movimento rivoluzionario consideriamo tattica e dovuta all’incapacità di adeguarsi alle condizioni attuali, ma di contro strategica per quanto riguarda il partito comunista e le varie forze vecchie e nuove di stampo riformista e socialdemocratico, in quanto si è dimostrata impossibile ed utopica la loro strategia di via pacifica al socialismo nel nostro paese.
Con la crisi infatti sono crollate le illusioni borghesi di un capitalismo che sapesse garantire a tutti nei paesi imperialisti, seppur a scapito dei paesi del Terzo Mondo, il diritto ad una casa, un lavoro, a dei servizi decenti ecc.
È crollato quindi il modello del welfare su cui si basavano le social-democrazie europee e lo stesso PCI, in questa fase di crisi infatti l’intervento statale si attua sempre più a sostegno delle imprese private e deve per contro tagliare sempre più la spesa sociale.
La lotta “per gli asili nido, la lotta per la scuola di massa”, la lotta quindi pacifista e democratica di un polo progressista-riformatore, che con questa sua pressione intende modificare l’intervento dello Stato (senza mettere in discussione la sua natura di classe) si trova quindi di fronte al venir meno di un surplus che concedeva a queste stesse forze uno spazio di mediazione tra le esigenze della borghesia e del capitale e le esigenze immediate dei proletari nella fase di sviluppo economico. Su questa capacità di mediare si è infatti retta, e solo oggi inizia a sgretolarsi, la direzione dei partiti e sindacati riformisti sui movimenti di massa. La fine delle condizioni economiche che rendevano possibile questa mediazione coincide con la perdita di ruolo, credibilità e strategia di queste ipotesi riformiste, riducendosi, dove sono nell’area governativa a gestire in prima persona il taglio dell’occupazione, la ristrutturazione ed il taglio delle spese sociali (come ad esempio il partito socialista e quello comunista francesi), sia spostandosi sempre più a destra e sostenendo la politica dei sacrifici, le campagne antiguerriglia ecc. , o mantenendo una posizione “responsabile” come il partito comunista ed i sindacati in Italia, abbandonando quindi via via ogni idea di trasformazione socialista della società (seppur per via pacifica) come dimostrato dalle tesi del PCI.
Il venir meno delle possibilità di mediazione tra gli interessi borghesi e proletari e quindi la crisi strategica della sinistra riformista.
Come si vede niente a che vedere con la crisi tattica del movimento rivoluzionario che della crisi della sinistra riformista, al contrario, ha tutto da guadagnare.
Per dei comunisti non è possibile alcuna confusione a questo proposito (come pare faccia spesso e volentieri l’area politica che stiamo criticando), salvo ricadere nel peggior riformismo.
La crisi strategica della socialdemocrazia e dei partiti revisionisti va infatti analizzata con estremo interesse, non certo per aiutarli a superarla (cosa peraltro impossibile, in quanto essa, come abbiamo visto, ha origini oggettive, sulla base di precise leggi economiche nel rapporto di capitale), ma per cercare di acutizzarla e di denunciare alle masse l’impraticabilità del progetto revisionista, lavorando a scalzarne la direzione nei movimenti di massa. Oggi infatti, in presenza dell’enorme crisi e delle laceranti contraddizioni che attanagliano il PCI e la CGIL, illuderli di poter costruire alleanze con quella parte (cossuttiani, bertinottiani ecc.) che rendendosi conto della crisi di progettualità degli stessi e dell’abbandono totale sia delle richieste di socialismo (sia pur per via pacifica), sia il sindacato “conflittuale”, rilanciano l’ipotesi riformista degli anni passati (il PCI di Togliatti, o il sindacato anni 70), significa non capire come la crisi attuale stia proprio alla base degli impianti strategici di queste forze e sia proprio alla base del togliattismo e del sindacato anni 70, che trovava la sua legittimazione nelle capacità di mediare e contenere la conflittualità di classe.
Il referente e la posizione che i comunisti devono assumere di fronte a questa crisi non può essere quindi un’alleanza con gruppi politici e apparati burocratici “riformisti tradizionali” contro la destra del PCI o del sindacato (questi giochi li lasciamo fare all’onorevole Ingrao). Quello che invece ci deve interessare ed a cui bisogna lavorare è, da un lato, un lavoro dal basso (da ciò l’importanza di essere presenti con i propri militanti in tutte quelle organizzazioni di massa, seppur a direzione riformista e socialdemocratica, come i sindacati confederali in cui comunque le masse ancor oggi si riconoscono) per fare il massimo di chiarezza sulle origini di questa crisi e sull’improponibilità delle soluzioni proposte dalla cosiddetta “sinistra PCI o sindacale”, costruendo un ampio fronte dal basso su problemi concreti capaci di unificare nella lotta i vari proletari al di là delle tessere di partito di appartenenza, masse che solo nell’esperienza pratica quotidiana riusciranno sempre di più a verificare l’inconsistenza e l’inconseguenza dei gruppi revisionisti vecchi e nuovi; dall’altro, rappresentando dall’alto nel rapporto con i partiti, col governo e con le forze della borghesia la vera opposizione comunista attraverso una politica rivoluzionaria che inserendosi con puntualità e con decisione nella vita politica del paese e difendendo con intransigenza gli interessi di classe sappia rappresentare una valida alternativa alla crisi della sinistra.
Quando invece l’area del “realismo politico” propone alleanze ibride tra i vari rottami della estrema sinistra, con i cossuttiani, con DP, ecc., sostenendo che solo in questo modo è possibile ricostruire un’organizzazione rivoluzionaria adatta alla situazione attuale, in realtà non fa altro che creare un’ulteriore confusione, proponendo un cartello sotto il quale dovrebbero convivere le posizioni più disparate, forse accumunate da un solo odio comune, quello contro la LA per il comunismo.
Le motivazioni che costoro danno per il formarsi di tale cartello è la necessità di superare i limiti del settarismo, del minoritarismo, della subalternità politica, dell’avventurismo ecc.
Concordiamo senz’altro con loro sul fatto che questi limiti sono stati presenti più o meno in grande misura in tutte le forze del M.R. in Italia, ma non pensiamo certo che si risolvano associando le più svariate tesi, tantomeno scendendo a compromessi sul piano dei principi tra marxisti rivoluzionari e riformisti.
Come possono infatti convivere nella stessa struttura organizzativa forze che hanno tolto dalle proprie tesi la necessità della dittatura del proletariato, come ad esempio DP, forze che sostengono il social-imperialismo ed ancor peggio il processo di liberalizzazione dell’economia avviato recentemente in URSS, forze che negano il partito leninista o comunque che intendono rinnovarlo in modo da renderlo irriconoscibile, forze che sostengono l’ipotesi togliattiana del partito nuovo ecc., con forze rivoluzionarie?
Inoltre all’interno di queste stesse forze rivoluzionarie quante tesi, ipotesi ed orientamenti diversi esistono?
L’ipotesi quindi di unificare tutto questo in un solo cartello, unificato forse nel trovarsi d’accordo per mobilitarsi su singole questioni della lotta di classe, ci sembra una vera e propria follia, peraltro un dibattito per niente nuovo, ma già tentato più volte negli anni passati con risultati ogni volta catastrofici.
Pensare di risolvere i problemi prodotti dalla sconfitta tattica dell’ 82, ricostituendo il “movimento”, questo grande ombrello sotto cui possono convivere le più disparate posizioni è in ogni caso una tesi opportunista e revisionista che ha come conseguenza pratica lo sviare il dibattito dai temi propri dell’avanguardia comunista, primo tra tutti il ruolo centrale che assume la L.A. nella politica rivoluzionaria dei comunisti oggi. Ciò significa svilire e non comprendere il significato né del partito né della necessaria lotta politica che si deve fare nel costituirlo.
Prima di unificarsi i comunisti devono demarcarsi, confrontarsi sui problemi di tattica, di strategia ecc. L’unità dei comunisti infatti si può dare solo nel partito e significa il prevalere delle idee giuste su quelle sbagliate, unità tra le avanguardie più avanzate per esercitare egemonia su quelle più arretrate (non certo per scendere sul piano dei principi a compromessi con esse): quindi costituzione di un punto di riferimento generale.
Il fatto che oggi il punto di vista rivoluzionario possa essere minoritario e controcorrente, non modifica di una virgola il problema.
Pensare di risolvere questa situazione con i compromessi sopra citati, significa solo annacquare il punto di vista rivoluzionario e rimandare all’infinito la risoluzione dei problemi di fondo di questa crisi.

La riaggregazione dei movimenti di massa
In stretto legame con l’ipotesi del cartello quest’area sostiene che la riaggregazione rivoluzionaria si dà solo dopo una riaggregazione dei movimenti di massa.
Ancor più, in questo caso, ci si allontana dal leninismo, che ha sempre separato con estrema chiarezza il problema dell’aggregazione rivoluzionaria (decisione soggettiva) dall’aggregazione dei movimenti di massa, che da un lato ha leggi propriamente oggettive e che in modo durevole non può darsi che sul terreno politico, che non nasce certo spontaneamente dalle lotte. In questa ipotesi, da un lato la politica diventa secondaria, la riaggregazione intorno alla politica è messa da parte, la costituzione del partito, la definizione della strategia e della tattica necessaria per il processo rivoluzionario nel nostro paese, viene ricercata nelle espressioni spontanee delle masse. I comunisti invece di portare la coscienza dall’esterno e invece di adempiere al ruolo di direzione politica delle masse nel rapporto dialettico masse/partito/masse, vanno a cercare una soluzione ai problemi teorico/politico/organizzativi dell’avanguardia nel movimento spontaneo.
Secondo queste ipotesi i comunisti si troverebbero così a costituirsi in organizzazione rivoluzionaria in funzione dei flussi e riflussi della lotta di classe, invece di intervenire per lavorare alla riaggregazione dei movimenti di massa, attenderebbero di intervenire in funzione di questa avvenuta aggregazione.
Come si è visto un tale impianto si allontana sempre più dai principi del M.L. (che svende nel mercato della politica), come dalla più importante acquisizione di questi ultimi 20 anni : l’unità politico-militare nell’agire del partito. Coloro che dall’esperienza della L.A. arrivano ad adottare un’ipotesi di tale tipo non possono infatti far altro che utilizzare questa esperienza per imbalsamarla, sia in cambio di una mobilitazione di questa aggregazione di forze in favore dell’amnistia, sia come riconoscimento di lealtà “democratica e progressista” all’interno di questo cartello.
Cercare infatti di mettere insieme le forze più disparate impone questi scambi, inoltre in un tale progetto la L.A. non avrebbe alcun senso rivoluzionario, come infatti ha dimostrato l’esperienza UCC. Il venir meno dei principi ML, il cercare strane alleanze neo frontiste tra proletariato, ricercatori onesti e piccola borghesia rovinata dalla crisi, tenendo insieme all’interno della stessa organizzazione le posizioni più disparate, non può che portare da un lato all’avventurismo e ad una pesante sconfitta militare, dall’altro a rendersi conto che in un tale impianto sconfusionato e revisionista la L.A. diventa più un ingombro che altro.
Vediamo infatti (anche se era già chiaro da tempo) come nel numero 2/3 della rivista “Politica e Classe”, sia un raggruppamento di prigionieri, sia il contenuto della rivista insistono decisamente sulla necessità di considerare chiusa l’esperienza della L.A. nel nostro paese, per poterla tranquillamente storicizzare e renderla inoffensiva.
Un passo dei prigionieri ci sembra significativo a tale proposito:
“ Gli obiettivi di una simile svolta storica (si riferiscono all’abbandono della L.A.) sono il contribuire a rimuovere il ricatto della prassi emergenziale nei confronti dei movimenti di massa e rivendicativi e, al contempo, l’apertura di una più matura riflessione unitaria nella sinistra di classe tale da favorire l’incontro tra la nostra e le altre esperienze di lotta”.
Nelle prime appare chiaramente la presunzione e l’illusione ben poco materialistica che vede la fine dell’ “emergenza” o del ricatto emergenziale in relazione con la cessazione dell’iniziativa combattente nel nostro paese, ignorando completamente come l’emergenza sia la conseguenza di un patto sociale ormai irrimediabilmente interrotto, di quella mediazione tra interessi proletari e interessi borghesi che la crisi non rende più possibile.
Porsi come forza politico-operativa significa, per contro, articolare la proposta politica di fondazione del PCC sul piano della tattica, della politica congiunturale: analisi concreta ed indicazioni di massima sulle grandi questioni al centro dell’attenzione nella fase, come mezzi, ponti, per “agganciare” nuove avanguardie ed avvicinarle alla proposta di partito e, quanto meno, per allargare, approfondire le nostre capacità di conoscenza reale sullo stato del M.R. e della classe: sarà banale, ma non inutile, sottolineare l’importanza dell’inchiesta e della prassi politica (unità di teoria-pratica) come strumenti di interazione con la realtà. La conquista delle migliori avanguardie comuniste può darsi nella misura in cui si offre anche un punto di vista tempestivo ed articolato, convincente, almeno sulle grandi questioni di congiuntura e degli sbocchi politico-organizzativi che non siano solo quello finalistico della fondazione.
L’attacco al diritto di sciopero, le nuove proposte di legge anti-droga, la repressione contro i lavoratori stranieri, la pratica quotidiana dell’emergenza sia in fabbrica che nella società, sono per l’appunto la conseguenza di quella crisi economica che l’assenza dell’attività politica dei comunisti, che l’assenza della L.A. come asse centrale di questa attività, rendono più facilmente realizzabili, non certo il contrario.
Il ragionamento si fa più evidente e pienamente conforme a quanto da noi detto e da tanti altri compagni sostenuto, sia dall’apparire della proposta “amnistia di sinistra”, ovvero che i giochi in merito alla realizzazione della stessa, la dialettica aperta tra questa area di prigionieri e le forze della sinistra nella sua accezione più ampia non potevano che vertere su un assunto di fondo, la rinuncia alla L.A., che, come scritto nel testo sopra citato, serve appunto a favorire tale dialogo.
La proposta di riportare l’esperienza B.R. sul terreno “della lotta politica, aperta di massa” è l’asse portante che segna l’alleanza tra la sinistra e quest’area di prigionieri, che dimenticano facilmente ciò che loro stessi hanno spesso detto in questi anni, cioè che la L.A. è per l’appunto il modo che assume la lotta politica dei comunisti e pertanto che rinunciare alla L. A. significa proprio rinunciare alla lotta politica. Per l’occasione viene scomodato il parallelo esempio del “movimento de liberacion nacional-tupamaros” uruguaiano ed il suo riciclaggio come formazione politico-legale, dimenticandosi però di dire che tale formazione negli ambienti della sinistra rivoluzionaria uruguaiana è considerata una formazione revisionista e che recentemente, in un comunicato stampa, questa formazione ha dichiarato: “Il movimento di liberazione nazionale tupamaros ribadisce la sua decisione e volontà di convivenza pacifica, di lotta politica chiara per una democrazia piena e partecipativa“.
In questo contesto si inserisce altresì la proposta di raggruppamento dei prigionieri politici di sinistra in un solo carcere, come dicono gli stessi autori della proposta “senza discriminanti relative alla diversità delle posizioni politiche e giuridiche”. Il neo frontismo proposto all’esterno del carcere con tutti i vari gruppi revisionisti, viene riproposto all’interno del carcere in una grande ammucchiata neo corporativa, estremamente legata al progetto stesso di amnistia, teso all’ulteriore isolamento e differenziazione dei comunisti dentro le carceri creando invece per i cosiddetti “prigionieri politici di sinistra” , “ragionevoli” aggiungiamo noi, condizioni di privilegio nella detenzione e di maggiori spazi al fine di elaborare meglio la loro posizione di delegittimazione della L. A., e formando così un luogo fisico dove far confluire le nuove reclute di questo fronte.
Si tratta, come si vede, di un’operazione per niente nuova, se non per la fraseologia pseudo marxista che utilizza, ed il coinvolgimento di molti ex dirigenti del movimento rivoluzionario (ed è ciò che la rende estremamente pericolosa), operazione per niente nuova in quanto ripropone il vecchio minestrone riscaldato delle aree omogenee nel contesto di un carcere omogeneo, e ciò al di là delle varie enunciazioni sul non porre alcuna discriminante che, come la pratica insegna, varranno solo per le diverse sfumature dei vari soggetti portatori del progetto di liquidazione o storicizzazione della L.A. in Italia. Per contro, porterà all’interno delle carceri ad una maggiore differenziazione ed al peggioramento delle condizioni di detenzione verso tutti i proletari rivoluzionari che di tale progetto sono acerrimi nemici.
Come abbiamo visto seppur in modo schematico e per l’essenziale, la proposta politica “amnistia di sinistra” è una pura espressione di revisionismo ed opportunismo, sia per quanto riguarda gli assunti di fondo della teoria M.L., sia per quanto riguarda la sua azione politica concreta.
Il loro allontanarsi dai principi del M.L. li ha portati via via a sostituire gli interessi generali del proletariato con gli interessi particolari e perciò corporativi dei prigionieri, ponendosi così come ceto politico; a sostituire con il politicantismo e i compromessi senza principi, la tattica dei comunisti che concepisce le mediazioni solo se queste avvengono senza mettere in discussione i principi stessi; a sostituire il necessario lavoro di bilancio, valorizzazione e riorganizzazione dei comunisti a partire dall’esperienza rivoluzionaria degli ultimi venti anni con la proposta di unità dell’intera sinistra sia rivoluzionaria che riformista, ecc.
Lasciando in questo modo irrisolti tutti quei problemi, tutti quei nodi politici dalla cui soluzione solo può riprendere l’iniziativa comunista con una proposta che come abbiamo visto ben lungi dal risolverli, svia unicamente il dibattito conducendolo in un vicolo cieco al fondo del quale non si può fare altro che consegnare l’esperienza della L. A. ad uso e consumo dei revisionisti e riproporre se stessi in forma di partitino o organizzazione legale completamente impotente, insomma ricacciarsi in quel pantano da dove con duri sforzi e col contributo e la stessa vita di molti compagni, il movimento rivoluzionario, ed in particolare le B.R. , oltre 20 anni fa erano uscite.
Ma, se tale è la deriva opportunistica raggiunta da questa posizione, non di meno e proprio per sconfiggerla è necessario affrontare con chiarezza le questioni di fondo tuttora irrisolte del movimento rivoluzionario, che permettono in un certo qual modo il prevalere di queste posizioni revisioniste nello stesso.
Se infatti la chiave di lettura principale di queste posizioni si evidenzia nell’abbandono graduale dei principi M.L. e nella liquidazione/storicizzazione della L.A., si tratta allora per noi di cogliere le interconnessioni tra questi due elementi al fine di ridefinire un progetto ed un’ impianto politico rivoluzionario nel nostro paese.
La lotta armata e la questione dei principi
Un bilancio dell’esperienza di questi ultimi 20 anni ci dimostra che senza una solida base di principi non vissuti come dogma, ma come guida per l’azione, la L.A. e l’intervento dei rivoluzionari viene svilito, diventa incomprensibile e porta inevitabilmente alla sconfitta.
La L.A. senza questi solidi principi viene intesa come strumento di pressione contrattuale e come dimostrazione della propria, o come tante altre cose, tranne per quello che è, lo strumento centrale della politica rivoluzionaria comunista nella metropoli imperialista.
In una prima fase (quella che da più parti è stata definita fase della propaganda armata) la L.A. ha potuto evitare di affrontare sin da subito questo problema, in quanto segnava la rottura definitiva con l’eredità revisionista che aveva ormai imputridito i partiti comunisti dei paesi imperialisti usciti dal Comintern e diventava il vettore fondamentale, il mezzo di rappresentazione più efficace della determinazione di una nuova leva di avanguardia proletaria e ripercorrere la via rivoluzionaria, dava voce all’antagonismo proletario, ne amplificava la portata, ne esaltava i contenuti più avanzati, indicava uno sbocco politico e tracciava, pur faticosamente e tra molte contraddizioni, un percorso per porre di nuovo la questione del potere politico.
In questa fase quindi indubbio è stato il suo valore nel discriminare in modo chiaro tra il campo che si poneva conseguentemente la questione rivoluzionaria, ed il tempo “extraparlamentare” che scivolava via via nel parlamentarismo e nel pacifismo. All’interno di essa vi erano però diversi limiti teorici e deviazioni estranee all’impianto M. L., in particolare il peso di alcune influenze internazionali, come il guevarismo ed i tupamaros, determinava un fondamentale eclettismo teorico, e dall’altro l’influenza dell’operaismo. L’ibrida composizione del movimento rivoluzionario, la forte presenza di settori d’aristocrazia proletaria influivano su molte future degenerazioni. Tra le quali la stessa generale sopravvalutazione di lotte operaie che, per quanto radicali e massificate, erano ancora espressioni di un ciclo capitalistico espansivo e quindi di un’autonomia proletaria relativa. Sopravvalutazione che portava ad anticipare i tempi di una situazione rivoluzionaria ancora di là da venire ed a fare un grosso errore di soggettivismo. È il contesto stesso in cui matura la scelta della L.A. a spingere verso certe deviazioni. L’esigenza di farsi largo tra varie posizioni del M.R. determinava, in ultima istanza, una sua assolutizzazione. Così la L.A. diventava la principale discriminante (che, se necessaria, non era e non è per questo sufficiente), su cui si cercava il consenso e si aggregava: solo così si può capire il formarsi di un vero e proprio coacervo di posizioni politiche ed ideologiche dietro questa comune discriminante e le aperture verso formazioni europee che, pur praticando questo terreno di lotta, sono motivate da programmi e prassi molto diversi.
Il periodo di “accelerazione concorrenziale della fine anni 70”, senza dar risposta all’esigenza che la realtà imponeva di agire soggettivamente da partito, dopo aver agito oggettivamente da partito con la campagna di primavera ed il sequestro Moro, innescava anche nelle B.R. una spirale inarrestabile per cui l’aspetto militare prevaleva sempre più a scapito della complessità necessaria, nonché del rapporto con la classe, con cui pure si erano raggiunti buoni rapporti di dialettica.
Parole d’ordine come “la conquista delle masse alla L.A.” o “la guerra sociale totale” o “l’organizzazione del contropotere sul territorio” sopravvalutano la disponibilità delle masse che, per quanto radicalizzatesi nelle lotte, non erano certo sul punto di mettere conseguentemente in discussione la vivibilità nel MPC.
Al tempo stesso le organizzazioni non davano risposta a quella richiesta di direzione politica che dalle stesse masse emergeva. Il non aver saputo dare risposta a questa richiesta, il non aver saputo rapportarsi con la nuova situazione politico/sociale che da un lato lo sviluppo della crisi, e dall’altro la stessa esperienza di 10 anni di lotte operaie e proletarie e di L.A. dei comunisti nel nostro paese (soprattutto con la sconfitta del progetto di solidarietà nazionale) avevano creato, portarono alla sconfitta dei primi anni 80.
Con il dibattito apertosi in seguito nelle B.R., con la polemica sulla strategia della guerra di lunga durata, si rimetteva al centro della giusta dialettica tra le condizioni soggettive del processo rivoluzionario e condizioni oggettive, su cui non si può incidere e che esprimono caratteri diversi nelle fasi storiche, definendo le possibilità ed i limiti dell’iniziativa soggettiva. Cioè l’impostazione leninista, laddove definisce tre presupposti oggettivi fondamentali caratterizzanti una situazione rivoluzionaria e la concezione dell’insurrezione come punto di incontro eccezionale, all’interno delle tre precedenti condizioni, tra l’iniziativa politico/militare del partito e l’attività delle masse.
In altre parole l’aspetto militare prevale e diventa decisivo nella dinamica della lotte di classe solo in periodi relativamente brevi, mentre nei periodi non rivoluzionari, la L.A. assume un altro peso e significato.
Significato e peso di una più precisa e dialettica visione del processo storico che porta all’insurrezione, all’interno di una visione del processo rivoluzionario per tappe in cui va ribadita prima di tutto la centralità del partito e dell’impianto teorico M.L. che, soli, possono permettere la conduzione di un corretto rapporto avanguardia-masse e più in generale del processo rivoluzionario.
La necessità di riprendere il filo storico dei fondamentali principi M.L. è dimostrata proprio dalle ultime esperienze che ne hanno riconfermato in modo eclatante la validità e vitalità nei movimenti in cui essi ci permettono di basare scientificamente il processo di costruzione del proletariato in classe per sé, indipendente, cioè, ed armata ideologicamente, politicamente e militarmente, mentre il loro abbandono o travisamento riporta verso le più svariate deviazioni già sofferte in altri cicli di lotta.
Come abbiamo visto nell’ipotesi UCC ecc., questi principi non possono essere concepiti solo come statuto e, peggio, come materiali d’archivio, sorta d’icone da rispolverare di tanto in tanto, ma ben altrimenti come sostanza viva, scheletro e cuore intorno ai quali solamente può ricostruirsi l’organizzazione di classe rivoluzionaria. Nel loro insieme costituiscono un tutt’uno indivisibile, una visione unitaria, un contenuto ed un metodo che, attivati nella prassi politica, possono renderla più scientifica ed aderente alla realtà. Attivazione nella prassi politica significa il far vivere i principi in relazione alle mutevoli forme del M.P.C. alle sue particolarità storiche e geografiche, ben tenendo presente che, per quanto mutate e “complessificate”, queste rimangono forme di un contenuto immutato da quanto esiste il M.P.C.
In questo senso i principi (come fissazione dei nessi economico/politici del M.P.C. nel loro divenire storico e nel processo del loro superamento e come fissazione del relativo processo politico di accelerazione e direzione di questo processo), rimangono la chiave di lettura fondamentale ed imprescindibile, capace di centralizzare, omogeneizzare e unificare le avanguardie delle più disparate e lontane situazioni di classe contro la puntuale tendenza centrifuga e disgregatrice insita nella prevalenza delle forme particolari e specifiche di singole esperienze, per quanto di vasta portata. Proprio perché essi costituiscono la lettura profonda della nostra epoca, nel suo divenire, la loro mediazione con una realtà specifica e parziale non può mai essere che “dall’alto in basso”.
La tattica da praticare non è neutra, indifferente, ma organicamente legata alla nostra visione del processo storico rivoluzionario, dunque discende dai principi. Solo ponendosi su questo terreno si può affrontare, seppure con i dovuti rischi, il campo della tattica: con sufficienza chiarezza sui risultati che si vogliono ricavare dalla situazione particolare, per consolidare il percorso strategico. Significa subordinare in via di principio e nella pratica l’iniziativa politico/militare di congiuntura agli obiettivi strategici, verificare costantemente la compatibilità di iniziative locali o parziali con la finalità massima, raccogliere i risultati politici in vista di quest’ultima.
Generalmente lo scadimento verso deviazioni “tatticistiche” si dà nel momento in cui questa finalità massima, questi obiettivi strategici, pur formalmente riconosciuti, vengono accantonati lasciando il posto centrale alla campagna congiunturale di turno, i cui obiettivi e caratteristiche finiscono per informare gli sviluppi successivi della forza politica che se ne fa carico, in una spirale auto-alimentantesi.
Il bilancio ampiamente svolto in questi anni della recente esperienza italiana, la sua collocazione dentro la tradizione del movimento comunista internazionale (MCI), la sintesi operante per ricavarne i contenuti validi e generalizzabili, oltre lo specifico periodo della sua esistenza, ci hanno condotto alla riconferma ed alla ripresa dei principi M.L., coniugandoli all’unica fondamentale “innovazione” costituita dalla forma combattente del partito.
Questi principi vertono attorno ad una precisa visione della crisi generale storica del M.P.C., ed i suoi passaggi obbligati per il proletariato ai fini della fuoriuscita dal M.P.C. stesso: costituzione in classe per sé, partito, presa del potere politico, dittatura proletaria.
Porre al centro questi principi significa che ad essi deve riferirsi il risultato di qualsiasi soluzione tattica, dell’agire congiunturale, che ovviamente si sostanzia di parole d’ordine parziali, del fare politica in generale.
L’ordine di priorità/subalternità stabilito tra principi e tattica, tra principi e politica rivoluzionaria, dipende dalla scelta a monte che ogni forza politica fa e, gli esempi non mancano, le varie deviazioni nascono già nell’impianto teorico, di principio, a monte. Lo stesso riconoscimento formale dei principi M.L., seguito dal loro accantonamento, è la realtà scelta di altri obiettivi centrali, che poi finiscono gradualmente per esautorare totalmente anche quel simulacro di principi formali.
Ed in questo abbandono dei principi si trovano infatti sia coloro che negano la LA, sia coloro che la propongono come strategia. Entrambi, infatti, negano il ruolo politico della LA, negano la necessità di fare politica per il partito nella fase non rivoluzionaria, riproponendo una vecchia deviazione della sinistra comunista italiana degli anni 20 a proposito della partecipazione al parlamento, sostenendo che o la situazione è rivoluzionaria, e allora i mezzi legali sono inutili, oppure la situazione non è rivoluzionaria e quindi la stessa partecipazione al parlamento è inutile in quanto il partito non si pone sulla scena politica come forza agente e che la determina in prima persona, ma si limita alla propaganda teorica ed alla formazione dei propri militanti.
Questa tesi aspramente combattuta e sconfitta da Lenin e dalla Internazionale Comunista, come si vede ci viene riproposta oggi in relazione alla L.A. Noi al contrario pensiamo che il partito comunista deve fare politica sia nella fase rivoluzionaria sia in quella non rivoluzionaria, utilizzando ogni forma di lotta in rapporto ai livelli politico istituzionali del paese ed a livello di conflittualità e di autonomia di classe espressi nella realtà al fine di rappresentare gli interessi di classe nella scena politica determinata, scompaginando i progetti della borghesia, orientando e facendo crescere la coscienza di classe nei movimenti di massa, e aprendo spazi crescenti all’autonomia proletaria.
La L.A. quindi come azione politica del partito che contribuisce a scompaginare i disegni politici della borghesia, rendendone problematica l’attuazione, evidenziando ed acutizzando le contraddizioni del fronte borghese, individuando il progetto borghese che assume la valenza di nemico principale in quella congiuntura, al fine di farlo fallire e realizzare l’interesse congiunturale della classe, aprendo spazi all’autonomia proletaria ed elevando la consapevolezza delle masse dalla lotta difensiva, alla capacità offensiva, in un rapporto costante con l’agitazione/propaganda che svolge “dal basso” con la presenza dei suoi militanti nei movimenti di massa.
Il PCC quindi, come un qualsiasi partito, entra nell’arena politica e nella vita del paese per come essa è, e non come ci piacerebbe che fosse, gradua quindi il combattimento ed il suo agire complessivo in funzione della situazione reale come si presenta e degli obiettivi politici che il partito si pone in funzione di questa ultima analisi della realtà, che per non cadere nel politicantismo devono però essere sempre legati alla sua linea politica ed alla sua strategia. La critica al soggettivismo e la sconfitta del neo revisionismo rinascente, la sconfitta delle varie ipotesi di liquidazionismo e storicizzazione della L.A. in Italia, sono parte integrante e non rinviabile del percorso alla costituzione del PCC, in quanto la dialettica marxista ci insegna che le posizioni giuste si affermano solamente combattendo quelle sbagliate.
A partire da questi assunti di fondo, la validità dei principi M.L., la L.A. come asse centrale della politica rivoluzionaria, la necessità oggi di costruire il partito, va allora affrontato il problema tra comunisti per uscire dalla crisi del movimento rivoluzionario, solo questa è la base di partenza di ogni dibattito che non voglia cadere nell’opportunismo, ricercando improbabili alleanze con riformisti, confondendo così la necessaria unità dal basso nei movimenti di massa, con l’unità tra proposte politiche differenti. Si tratta allora di dedicare tutti gli sforzi e tutte le energie per questo scopo, da un lato approfondendo tutti gli aspetti teorici e programmatici relativi, definendo quindi: linea politica, linea di massa ecc., attualizzando l’analisi economica sulla società, capendo quali siano i cambiamenti veri, per esempio nella composizione di classe, e quali le apparenze, ecc. Dall’altro ricostruendo presenza, rapporti, strutture logistico/organizzative che permettano al partito di agire come tale.
Senza questi cambiamenti obiettivi, indipendenti dalla volontà, non soltanto di singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione – di regola – è impossibile. L’insieme di tutti questi cambiamenti obiettivi si chiama situazione rivoluzionaria. Una tale situazione si presentò in Russia nel 1905 e in tutte le epoche rivoluzionarie in occidente; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e nel 1859-1861 in Russia, sebbene in questi casi non vi sia stata una rivoluzione. Perché?
Perché la rivoluzione non nasce da tutte le situazioni rivoluzionarie, ma solo da quelle situazioni nelle quali, alle trasformazioni obiettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, in un periodo di crisi, non “cadrà” mai se non lo “si farà cadere”.

Nota 1) Lenin ha affrontato in diversi testi il problema della definizione della “situazione rivoluzionaria” la citazione che noi riportiamo è tratta da: (il fallimento della seconda internazionale), Opere, vol. 21, Editori Riuniti
“Per il Marxista non v’è dubbio che la rivoluzione non è possibile senza una situazione rivoluzionaria e che non tutte le situazioni rivoluzionarie sboccano nella rivoluzione. Quali sono, in generale, i sintomi di una situazione rivoluzionaria? Certamente non sbagliamo indicando i tre sintomi principali seguenti: 1) l’impossibilità per le classi dominanti di conservare il loro dominio senza modificare la forma; una qualche crisi negli “strati superiori”, una crisi nella politica della classe dominante che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che (gli strati inferiori non vogliano), ma occorre anche che (gli strati superiori non possono) vivere come per il passato; 2) un aggravamento, maggiore del solito, della angustia e della miseria delle classi oppresse; 3) in forza delle cause suddette, un rilevante aumento della attività delle masse, le quali, in un periodo “pacifico” si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi (strati superiori), ad una azione storica indipendente.

PER IL DIBATTITO NEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO EUROPEO

Nel marzo 82 il PCE(r) – Partito Comunista di Spagna (ricostituito) – ha pubblicato un opuscolo intitolato: “Textos para el debate en el movimiento revolucionario europeo” che ci fornisce una buona occasione per esporre il nostro punto di vista su alcune questioni importanti, per evitare confusioni con linee e pratiche politiche di altre organizzazioni europee, e per fornire elementi di dibattito al movimento in Italia ed in Europa, in vista di una ripresa della iniziativa rivoluzionaria nella situazione presente.

1
Il contenuto dell’opuscolo
L’opuscolo si divide in tre parti. Nella prima (in tre articoli dell’85/86) il PCE(r) esprime il suo punto di vista sugli argomenti del partito e della lotta armata. Nella seconda (in tre articoli dell’85/87 il PCE(r) svolge una polemica mirata contro la politica del c.d. “fronte antimperialista” ed in particolare contro la RAF. Nella terza parte sono pubblicati un articolo di F. Oriach (85), uno delle CCC belghe (85) ed due articoli di Azione Proletaria (Germania Occidentale) dell’85 e 86, articoli che i compagni spagnoli ritengono in sostanziale accordo con la loro posizione.
Ci soffermeremo sulla prima parte, dato che le altre due presentano un minore interesse ai nostri fini. Quindi cercheremo di sviluppare il più chiaramente possibile il nostro punto di vista.
Fin dalla breve prefazione viene posto in evidenza che per i compagni spagnoli la strategia della guerra di lunga durata costituisce uno degli assi portanti intorno a cui realizzare momenti essenziali di unità all’interno del movimento rivoluzionario in Europa. Sempre nella prefazione si chiarisce che ad avviso dei compagni spagnoli, l’obiettivo della insurrezione va inserito entro la strategia della Guerra di Popolo di Lunga durata (pagg. 3 e 4). Su questi temi concentreremo essenzialmente la nostra attenzione.
Il primo articolo, del novembre 86, è costituito da un attacco contro l’articolo di un certo P.B. Becker pubblicato dall’organo del MRI (in Italia nel 1985) con il titolo: “La falsa via della guerriglia urbana in Europa Occidentale”. Nel punto 2 di questa nota esamineremo particolarmente l’argomentazione contro Becker. Ora ci interessa soprattutto evidenziare quanto emerge da questo articolo sulla concezione propria dei compagni spagnoli della lotta armata.
A p. 5 si afferma che il dibattito/polemica in corso negli ambienti rivoluzionari dell’Europa Occidentale coinvolge in modo crescente operai, studenti e altri democratici a causa della persistenza e grande estensione del c.d. “fenomeno terrorista”, e cioè della incapacità degli Stati imperialisti di annientare il movimento di resistenza popolare che si innalza da ogni parte contro i loro mezzi di sfruttamento ed oppressione.
Ciò vorrebbe dire che da ogni parte si sviluppa (nov.86) la lotta armata (il c.d. “fenomeno terrorista”) come manifestazione di resistenza popolare allo sfruttamento ed all’oppressione, coinvolgendo l’interesse crescente di operai, studenti ed altri democratici. Sviluppo della L.A. che gli Stati imperialisti non riuscirebbero ad annientare.
Due osservazioni: che la L.A. in Europa Occidentale abbia mai avuto (dopo la fine della resistenza partigiana) il carattere di una resistenza democratica allo sfruttamento e all’oppressione, è una pura invenzione. Che a parte ciò, la L.A. in E.O., nel novembre 86 ed a tutt’oggi si stia innalzando da ogni parte, è una pura fantasia. Se la seconda affermazione (quella dello sviluppo da ogni parte della L.A. nei nostri giorni) fa parte di una ben nota retorica trionfalista, sulla quale non merita soffermarsi, la prima affermazione, quella sul carattere della L.A. in Europa di lotta di operai, studenti e altri democratici contro lo sfruttamento e l’oppressione, ci sembra importante perché estremamente caratteristica delle posizioni dei compagni spagnoli che assumono, come in seguito vedremo confermato, che la L.A. in E.O. è una continuazione della resistenza antifascista (che ha degli obiettivi suoi propri, di necessità, distinti da quelli del partito comunista).
Nel secondo articolo (marzo 85, scritto dai prigionieri di Soria), si afferma esplicitamente (in questo contesto si parla particolarmente della Spagna) che il conflitto odierno fra masse popolari e Stato è la continuazione della distruzione da parte del fascismo del potere popolare nel 1936 (p.17) e che la strategia della guerra di popolo di più lunga durata (inaugurata in Spagna negli anni 70) è una continuazione della esperienza della lotta quotidiana del movimento rivoluzionario da quando il fascismo si è imposto con le armi (p.18). (Nell’Italia del secondo dopoguerra si sarebbe parlato di una visione politica tipo quella della Volante Rossa o, negli anni 70, di una visione politica tipo quella dei Gap/Feltrinelli).
Questa conclusione è coerente con quanto si dice del “blocco sociale” su cui poggerebbe oggi il processo rivoluzionario in Spagna. Pag.21: “tutti quei settori della popolazione che oggi si scontrano col fascismo e lo sfruttamento monopolistico, difendendo i propri interessi di fronte al fascismo e al monopolismo… i contadini, i piccoli commercianti, i settori popolari delle nazionalità oppresse dello Stato spagnolo, gli intellettuali democratici e progressisti e la gioventù lavoratrice e studentesca, le donne lavoratrici e le grandi masse popolari, insieme alla classe operaia…”.

È naturale che la contraddizione principale avendo oggi questo carattere, sia su questo terreno che, secondo i compagni spagnoli, si legittima il più alto livello di antagonismo, quello espresso dalla lotta armata. Pag. 25 “In Spagna il carattere fascista del regime monopolista, imposto con le armi al popolo nel 39 e mantenuto col terrore per più di 40 anni, ha legittimato l’uso della lotta armata rivoluzionaria, come complemento essenziale del movimento di massa; grazie a questa lotta violenta il movimento popolare ha potuto e può svilupparsi e avanzare verso la conquista dei suoi obiettivi.” Vale la pena di sottolineare che recentemente, anche in Italia, specialmente da parte della UCC, una tesi sul “blocco sociale” e sul carattere di “basso profilo” della iniziativa politica “rivoluzionaria” nel nostro paese, sono state più o meno chiaramente avanzate. Nella nota precedente abbiamo cercato di disegnare il quadro politico generale in cui queste posizioni si sono venute collocando. Infine nel terzo articolo (del febbraio 86, sempre dei prigionieri di Soria), si affronta tematicamente la questione del rapporto fra politico e militare.
Fin dalle primo righe dell’articolo (pag.33) emerge il concetto fondamentale, pienamente coerente con tutto quanto esposto: “la forma superiore di organizzazione politica del proletariato rivoluzionario è il Partito Comunista.
Ad altro livello si trova la organizzazione militare che, nella sua forma attuale di guerriglia urbana, gioca un ruolo di prima importanza nel Movimento Politico di Resistenza delle grandi masse operaie e popolari.” Subito dopo si aggiunge che il Partito deve esercitare un ruolo di direzione politica sulla guerriglia. Dal che deriva la netta distinzione fra il politico (ruolo del Partito) e il militare (ruolo delle organizzazioni del Movimento Politico di Resistenza).
Ma cos’è questo M.P.R.? qui l’analisi dei compagni spagnoli estende a tutta l’Europa Occidentale gli elementi già identificati per la Spagna. Infatti (pp. 35/36): “Ciò che è più caratteristico di questo nuovo movimento rivoluzionario che si estende per tutta Europa è di aver acquisito la forma di Movimento Politico di Resistenza: una combinazione originale di movimento di massa e azioni guerrigliere che sono fra loro complementari e che di giorno in giorno confluiscono sempre più l’uno nell’altro…”. Questo movimento ha imposto “metodi di lotta violenti, scioperi radicali, manifestazioni fuori dal controllo dei sindacati e partiti riformisti, picchetti per estendere la lotta e il sabotaggio, la disobbedienza civile e altri tipi di resistenza…”
“In questa situazione generale si sviluppa la lotta armata nella forma della guerra di guerriglia, di piccoli gruppi o distaccamenti di combattenti che mettono in scacco più di una volta il potente Stato dei monopoli.” La tesi della continuità fra le forme di violenza di massa e la L.A. è palese ed applicata a tutta l’Europa Occidentale.
Pag. 38: “Guerra di lunga durata e insurrezione sono due concetti complementari che non si escludono.” “Possiamo dire che la nostra rivoluzione passerà per due fasi: quella della difensiva strategica, dello sviluppo della guerra di popolo di lunga durata, e la fase della insurrezione.” “Poiché (p.42)”la guerra di guerriglia è una forma di guerra civile che, per quanto larvata, è presente e matura. Dunque la guerra civile è in atto – una guerra civile antifascista, in tutta Europa. Questa sarebbe l’analisi dello stato attuale del conflitto di classe. Dall’esempio spagnolo (PCE-r e GRAPO) si ricaverebbe la regola generale che il partito deve dirigere politicamente (ed in certa misura, anche militarmente) organizzazioni guerrigliere che si costituiscono a livello di massa, esprimono la contraddizione tra il popolo e il fascismo e (e si spera) si pongono all’orizzonte l’obiettivo del Governo Democratico Rivoluzionario (come previsto dal programma minimo del Partito del 1975). La distinzione fra il politico e il militare non è perciò solo una questione di funzioni, ma di livello politico diverso su cui si pongono da una parte il partito, dall’altra le organizzazioni della guerriglia. Si tratta molto di più di una teorizzazione della distinzione fra partito e suo “braccio armato”, stante che la organizzazione armata si costituisce su obiettivi politici che le sono propri e non si identificano con quelli del partito. Che a questa “teoria” corrisponda poco la realtà, lo confessano gli stessi compagni, quando dicono (p.45): “fino ad ora, il maggior numero di adesioni alla guerriglia è provenuto dalle file del PCE(r) e, in minor misura da altre organizzazioni democratiche antifasciste.” Ma, tant’è. Questa teoria dovrebbe interpretare il movimento rivoluzionario in tutta Europa.
Questo il contenuto della parte principale dell’opuscolo. Il secondo e terzo articolo si trovano in italiano rispettivamente a p.173 e p. 289 del volume “Dalla Spagna la voce del PCE(r) e dei GRAPO” – Maj Editore – Milano 1987.
La nostra numerazione delle pagine si riferisce alla edizione spagnola. Ugualmente dei tre articoli contro la RAF, due si trovano tradotti nel libro ora citato, rispettivamente a p. 263 e p. 317 (quest’ultimo in versione un po’ differente).

2
La questione fondamentale
I documenti del PCE(r) polemizzano essenzialmente contro due diverse posizioni: da una parte contro la posizione dello emmellismo più stantio che attribuisce significato strategico alla L.A. e nella sola forma dell’insurrezione nella situazione rivoluzionaria e nei paesi del centro imperialista, o nella successione “lotta armata delle masse – insurrezione” nei paesi della periferia, e nega di conseguenza ogni ruolo alla L.A. nella situazione non ancora rivoluzionaria. Il riferimento attuale è al MRI (più che al PCP peruviano di cui il MRI si pretende espressione, non si sa con quale legittimità); da un’altra parte nei confronti degli “antimperialisti” europei, per i quali la L.A. ha un valore strategico anche nella fase non rivoluzionaria, come espressione di una contraddizione che non è più e non sarà probabilmente mai più quella di classe. Il riferimento principale è alla RAF.
Il PCE(r) intende affermare (con i richiami alle posizioni di Oriach, delle Cellule Comuniste Combattenti –CCC– belghe e di Azione Proletaria):
1) che la L.A. ha attualmente in Europa un significato strategico nella fase non ancora rivoluzionaria, come espressione di una contraddizione che tende ad identificarsi con la contraddizione di classe.
2) che essa di fatto da diversi decenni si manifesta come momento avanzato della lotta contro il fascismo, lotta della quale il conflitto di classe è il momento centrale, benché coinvolgente strati popolari più ampi che non il proletariato in senso stretto.
A nostro parere sono errate, su questo punto, sia le posizioni del PCE(r) che quelle del tipo MRI o del tipo RAF. La nostra posizione su questo tema è, da molti punti di vista importanti, diversa e l’occasione fornita dalla pubblicazione dei “Textos” ci sembra utile per metterla in chiaro.
Giustamente i compagni del PCE(r) attaccano duramente l’articolo di Becker pubblicato dalla rivista del MRI nel 1985. L’emmellismo “stantio” (a prescindere dai dubbi sull’onestà politica e personale di Becker) si è andato caratterizzando in modo netto da ormai un ventennio, e con le sue caratteristiche tipiche è ben riflesso nell’articolo in questione.
Si tratta di quanto segue: a) contrapposizione corretta alla propaganda revisionista nei confronti delle masse, in merito a possibilità/necessità della instaurazione del socialismo, carattere necessariamente violento del processo rivoluzionario, necessario coinvolgimento delle grandi masse proletarie in questo processo; b) ma, d’altra parte, abbandono, implicito od esplicito, causa di gravi violazioni di questioni e di drammatiche inefficienze, dell’insegnamento leninista circa la necessità per il partito comunista di fare politica in prima persona (ed a prescindere dall’indispensabile opera di propaganda, agitazione e organizzazione tra le masse) anche nella fase che precede la situazione rivoluzionaria, nella quale ultima lo scontro di classe assume tendenzialmente la forma insurrezionale. Poiché in effetti le iniziative di carattere offensivo (ma anche difensivo) dei comunisti rivoluzionari in Europa, in questa fase storica, hanno assunto la forma della lotta armata, questo abbandono ha significato, da parte degli emmellisti stantii, essenzialmente il rifiuto della L.A. e della organizzazione clandestina del partito.
Non stiamo qui a discutere quale nesso ci possa essere tra questo emmellismo “stantio” del MRI e la teoria e la pratica del PCP a cui si richiamano. Questo è un problema che riguarda essenzialmente il PCP, e chi vivrà, vedrà. Intendiamo chiarire che il modo in cui i compagni del PCE(r) criticano l’articolo di Becker (e l’emmellismo stantio del MRI), a nostro parere, è fuorviante.
Becker afferma che la L.A. in Europa negli anni 70 non è stata espressione delle masse proletarie, ma di gruppi della piccola borghesia, e pone questa “constatazione” alla base della condanna di questa esperienza (ancor più se riferita agli anni 80). I compagni del PCE(r) rispondono sostenendo che la lotta armata degli anni 70 (e oggi) in Europa è stata espressione delle masse popolari (con al centro le masse proletarie), contro la continuità fascista dei regimi della borghesia europea, dopo la seconda guerra mondiale.
Naturalmente il loro riferimento particolare è alla Spagna, ma come abbiamo visto estendono questa interpretazione a tutta l’E.O. Noi riteniamo che questa interpretazione sia sbagliata. È senz’altro vero che la resistenza antifascista armata in Europa fino alla II guerra mondiale è stata espressione popolare, e principalmente proletaria e che questa realtà nella Spagna franchista ha avuto una propria continuità fino a metà degli anni 70 (come in Grecia e Portogallo). È anche vero che le divaricazioni interne ai partiti comunisti rispetto al problema della portata della L.A. antifascista ed al seguito da dare alla politica dei “fronti popolari” dopo il VII congresso del IC, sono stati elementi importanti nel dibattito per la formazione delle avanguardie comuniste combattenti degli anni 70 in Europa. Ma è arbitrario stabilire una continuità senza soluzione, fra la L.A. antifascista (la resistenza) e la L.A. dell’avanguardie comuniste combattenti degli anni 70 in Europa. E ciò in modo particolare per quanto concerne l’Italia. Innanzitutto per quanto riguarda gli obiettivi. Le avanguardie comuniste armate degli anni 70 in Italia hanno avuto fin dall’inizio avanti a sé chiaro l’obiettivo dell’abbattimento dello Stato borghese e si sono qualificate per organizzazioni rivoluzionarie comuniste e non genericamente antifasciste, nelle componenti più importanti (BR) esplicitamente dirette a costituirsi in partito comunista e combattente. Non può essere messa in discussione la partecipazione di significativi strati di massa, basterebbe fare riferimento a quantità e qualità sociale degli arrestati. Ovviamente non è particolarmente rilevante, per il problema che qui ci interessa, la questione del numero in assoluto. La tesi del carattere “antifascista” (o non) di questo ciclo di lotte non si risolve attribuendogli (o non) un carattere più o meno vasto di massa. Quello che ci interessa è di evidenziare la qualità politica offensiva espressa dalle avanguardie rivoluzionarie e dalle avanguardie comuniste, come parte integrante della lotta politica del partito dei comunisti. Dove Becker sbaglia (in buona o cattiva fede) non è nel giudizio sul carattere più o meno di massa della L.A. degli anni 70, ma nel non riconoscere il carattere che essa ha avuto di parte integrante della lotta politica del partito dei comunisti, quanto meno da parte delle avanguardie comuniste che si muovevano in una prospettiva offensiva, in contrapposizione all’immobilismo impotente dell’emmellismo “stantio” di cui egli si fa portavoce. Negli esempi non solo della Spagna, ma anche della Grecia e del Portogallo, dove la L.A. “resistenziale” antifascista si è prolungata fino a metà degli anni 70, dopo la caduta dei regimi di Franco, Caetano e Papadopulos, le forze combattenti antifasciste hanno avuto la più grande difficoltà a riconvertirsi nei loro obiettivi politici ed anche nei loro metodi di lotta. In Italia, non a caso, esperienze come quelle dei GAP degli anni 70, si sono dissolte in quanto proposte politiche, di fronte alla maturazione delle nuove esperienze delle avanguardie rivoluzionarie che andavano formandosi. La soluzione semplicistica dei compagni spagnoli, per i quali nulla è cambiato dopo Franco e tutto continua come prima, ci sembra inaccettabile ed incapace di dare frutti concreti. Non è verosimile dire che Gonzales e Franco, Soarez e Caetano, Papandreu e Papadopulos sono la stessa cosa. Come era assurdo dire che Adenauer e Hitler, De Gasperi e Mussolini, erano la stessa cosa nell’immediato secondo dopoguerra. Gli strumenti di governo sulle masse, beninteso negli interessi di classe di sempre, cambiano (fra la repressione più pura, la manipolazione del consenso, la depoliticizzazione di massa, ecc.) e di conseguenza le forme politiche del dominio di classe, della resistenza di classe, della offensiva rivoluzionaria di classe, cambiano anche essi.
Dopo la caduta dei regimi fascisti in Europa, la resistenza armata antifascista ha perso di senso, e la L.A. ha assunto un nuovo senso come strumento decisivo (non come unica espressione dell’attività del partito, ma come fondamentale discriminante fra rivoluzionari ed opportunisti) dei partiti dei comunisti rivoluzionari nella lotta per il socialismo ed il comunismo. Questa differenza è oggi essenziale. Milagros Caballero dei GRAPO (la organizzazione che conduce la lotta armata oggi in Spagna sotto la direzione politica del PCE(r)) dice (al suo processo a Parigi il 21.5.87): “L’organizzazione (GRAPO) non ha un’ideologia definita. Essa è composta di comunisti, anarchici, democratici, antifascisti” (Bollettino dei Comitati contro la Repressione n. 28). Attribuire alla L.A. questa dimensione politica (il che non vuol dire ovviamente, disarmare le masse) comporta di privarla oggi del suo ruolo decisivo di strumento della lotta politica di partito. Altra questione è quella posta dalla L.A. di ETA e IRA, che in un quadro di lotte di liberazione nazionale, ha effettivamente carattere di massa, e che pone problemi che qui non possono essere sviluppati e per i quali rimandiamo ad altra occasione.
Più incisivi sono i compagni del PCE(r) nella loro polemica con il “fronte antimperialista” ed in particolar modo con la RAF. Nell’insieme ci sembra corretta la critica al concetto di “sistema unificato” (gesamtsystem) dell’imperialismo che caratterizza la RAF. Del pari corretta la critica all’estremismo soggettivista degli “antimperialisti”, per i quali ogni contraddizione di classe nel centro metropolitano si riduce alla inimicizia insanabile fra i soggetti coscienti (quale che sia la loro collocazione sociale) e la macchina criminale del sistema unificato dell’imperialismo. Questa concezione ha fatto strada anche in Italia, dopo la disgregazione delle principali organizzazioni combattenti, presso quei militanti che non hanno ceduto alla tentazione della resa, ma che non hanno saputo ridefinire il ruolo della avanguardia comunista nel contesto di una analisi di classe del presente momento storico. È tipico che questo estremismo soggettivista abbia avuto origine in Germania (non per nulla con echi in Francia dopo il disfacimento della “Sinistra Proletaria”, naufragata proprio sullo scoglio della L.A.), dove la tradizione comunista era stata brutalmente sradicata dal nazismo e dal postnazismo (comunismo=pericolo di aggressione da Est), e dove la ricerca di una decente identità nazionale occupa dal dopoguerra in vari strati di piccola borghesia e di proletariato privilegiato, una posizione “ideale” più o meno esplicita, privilegiata rispetto alla ricerca di una identità di classe. Così lo sdegno contro gli elementi di continuità nazista e contro la integrazione della Germania nel quadro dell’imperialismo americano (fatti strettamente legati fra loro) si costituiscono in “coscienza rivoluzionaria radicale” con riferimento al conflitto Nord/Sud. La L.A. in questo contesto vuole essere esempio destinato ad espandersi nel quadro di un “fronte”, esplicitamente neutrale rispetto a prospettive ideologiche più determinate eventualmente patrimonio delle sue componenti. La estrema semplificazione del meccanismo di identificazione degli obiettivi che questa concezione della L.A. comporta, la assenza di qualsiasi esigenza di verifica nel movimento di classe, la varietà delle possibili forme organizzative che consente (come, nell’insieme, i compagni del PCE(r) notano giustamente) avvicinano queste esperienze più a quelle dell’anarchismo rivoluzionario che a quelle del comunismo. Si spiega così la estensione di questo esempio fra i compagni dispersi delle OCC in Italia dopo la sconfitta dell’82,che hanno rifiutato la prospettiva della resa, ma hanno abbandonato l’analisi M.L. della realtà senza fare i conti col soggettivismo. Per noi questo orientamento è completamente fuorviante e dovrà essere riassorbito, in senso marxista, solo da una riaffermazione nei fatti delle prospettive di una iniziativa comunista, essendo altrimenti destinato a stagnare endemicamente nell’area del ribellismo destinata ad estendersi nella società borghese in disfacimento.

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Sintesi della nostra posizione

La nostra concezione della lotta armata è dunque diversa. Per noi non si può parlare di significato strategico della L.A. in se stessa, in quanto la strategia dei comunisti si definisce nell’obiettivo dell’abbattimento dello Stato borghese, della istituzione dello Stato della dittatura proletaria per la costruzione del comunismo, in un processo rivoluzionario ininterrotto per tappe, delle quali la prima tappa nel nostro paese è la rivoluzione proletaria condotta attraverso la L.A. delle masse contro lo Stato della borghesia, nella fase rivoluzionaria. La lotta armata delle avanguardie comuniste, nella fase che precede la situazione rivoluzionaria (fase che può durare più o meno a lungo) ha un carattere marcatamente diverso ed attribuirle un carattere strategico, non significa praticamente nulla. Non si tratta della L.A. delle masse proletarie (sempre non nel senso della quantità, ma del livello politico), benché nessuno ignori che esistono livelli di violenza spontanea delle masse (che come abbiamo visto per es. i compagni del PCE(r) confondono deliberatamente con la L.A. delle avanguardie) la cui importanza non può essere sottovalutata. Si tratta della lotta armata del partito ed ha come obiettivi propri gli obiettivi che caratterizzano la lotta politica in generale del partito nella fase che precede la fase rivoluzionaria. Cioè scompaginare i disegni politici della borghesia, rendendo più acute le contraddizioni che la attraversano al di là di qualsiasi intervento soggettivo, rendendo più o meno inefficiente l’uso della macchina statale (il che non dipende dal volume di fuoco, ma dalla qualità politica del combattimento); orientare, dirigere ed organizzare il movimento di massa in qualunque forma esso si esprima, ed in definitiva aprire spazi alla crescita dell’autonomia proletaria. Contribuendo così (insieme alla attività di propaganda, agitazione ed organizzazione fra le masse) alla maturazione di quegli elementi soggettivi che andranno costituendo una delle componenti determinanti della situazione rivoluzionaria. L’abbattimento dello Stato borghese, nel senso leninista di distruzione della macchina statale della borghesia (vedi Lenin di “Stato e rivoluzione”), nei paesi del centro imperialista, non può essere realizzato, nella fase rivoluzionaria, che attraverso la lotta armata delle masse proletarie dirette dal partito e non può avere altro scopo che quello della sua sostituzione con lo Stato della dittatura proletaria.
La concezione che attribuisce un significato strategico alla L.A. in sé e per sé, tende a cadere nel vero e proprio “terrorismo”, avente per scopo quello di creare disordine, con l’inevitabile risultato di aprire spazi di credibilità alle ipotesi più autoritarie. Le grandi masse non chiedono disordine, ma una nuova organizzazione sociale. Le grandi masse, anche proletarie, di fronte al puro disordine, rischiano di farsi mobilitare in senso reazionario. La L.A. del partito, nella fase non rivoluzionaria, è quindi finalizzata, nei paesi imperialisti, al conseguimento di obiettivi politici determinati, che naturalmente mutano nel tempo, a seconda della situazione politica concreta. Non può essere ripetizione di azioni simboliche di antagonismo astratto ed assoluto, destinate (secondo i loro autori) a moltiplicarsi per virtù dell’esempio, ed a realizzare così gradualmente l’attacco allo Stato. Concezione quest’ultima che avvicina paradossalmente i compagni spagnoli, i compagni tedeschi e, come abbiamo visto, anche certi compagni italiani. La L.A. del partito, momento centrale della sua lotta politica, ha lo scopo di scompaginare i disegni politici della borghesia, smascherando il loro significato agli occhi delle masse e rendendone problematica la realizzazione, colpendo quei rapporti politici, quei quadri politici dirigenti concreti, nei quali le forze contraddittorie della borghesia trovano provvisori equilibri e connivenze (quello che è stato definito il cuore dello Stato). Così facendo evidenzia ed acutizza le contraddizioni del fronte borghese (che obiettivamente esistono), alza la consapevolezza delle masse e ne orienta il movimento, sviluppando contraddizioni nello stesso disegno repressivo, naturalmente anche con i metodi tradizionali del movimento rivoluzionario, che consistono nella eliminazione di spie e torturatori e nella distruzione di strutture della controrivoluzione. Innalza cioè il livello dell’autonomia proletaria. È ovvio che la lotta armata non è l’unico strumento di lavoro politico del partito. Abbiamo detto e ripetiamo che in questa fase storica e qui è però il metodo decisivo. Per comprendere la portata di questa affermazione bisogna considerare quella che Lenin chiamava la differenza fra azione dal basso e azione dall’alto del partito. Se è vero che dal basso, legalmente e/o clandestinamente, il partito educa attraverso la propaganda e mobilita ed organizza attraverso l’agitazione le masse, dall’alto il partito, come qualsiasi partito, attacca il partito avversario, i partiti avversari, le condizioni politiche, le solidarietà politiche della borghesia che la costituiscono in forza capace di governare lo Stato al servizio dei suoi interessi. Come conduce questo attacco dall’alto? La storia fornisce numerosi esempi che vanno dalla campagna scandalistica, all’azione parlamentare, al controllo delle autonomie locali, all’infiltrazione nei gangli più sensibili dello Stato (per es. le forze armate). Non esistono principi in proposito, ma solo scadenze concrete. Nessun metodo è stato, è o sarà adottato una volta per tutte. La scelta dipende da un’analisi della situazione storica e sociale, condotta sulla base dei principi del marxismo-leninismo.
L’antiparlamentarismo della “sinistra comunista” italiana è stato una linea errata di rifiuto dell’azione dall’alto, e come tale criticato da Lenin. Qui ed in questa fase storica il metodo di importanza decisiva dell’azione dall’alto del partito è la lotta armata. Non intendiamo escludere che si possano insieme ad esso impiegare altri metodi, ma quello che ci preme e ci discrimina è che quello della L.A. viene da noi assunto come metodo decisivo, nel senso che è quello che decide della capacità di sviluppare lo scontro di classe a partire da quel livello offensivo, che nella sua sostanza e nelle sue forme, si è andato determinando, al di là dei contingenti flussi e riflussi.
Nella fase dell’imperialismo lo scontro di classe si approssima sempre più al suo momento decisivo, e logicamente la controrivoluzione alza di conseguenza il tiro cercando di prevenire l’offensiva proletaria (e solo episodicamente manifestandosi come “conseguenza” degli attacchi subiti). Il modo tradizionale di fare politica per un partito comunista rivoluzionario – attraverso un accumulo di forze con metodi “pacifici”- trova spazi sempre più esigui. Prenderne atto e trarne le conseguenze è d’obbligo.
Non si tratta solo né principalmente di rispondere (cioè di reagire ad una repressione sofisticata) ma di tenere quel terreno che logicamente ed inevitabilmente deve essere tenuto, dato l’attuale sviluppo storico del conflitto di classe. Non ci sono perciò “spazi democratici” da recuperare con le armi, ma c’è da portare ancora più avanti il livello di scontro quale si è venuto storicamente determinando.
Dunque la nostra concezione della L.A. del partito non ha nulla a che vedere con la L.A. spontanea delle masse, con la L.A. delle avanguardie di massa contro il fascismo e la repressione, con la L.A. delle anime belle contro i criminali vecchi e nuovi, dell’imperialismo USA e/o europeo/asiatico, ecc. Non abbiamo nulla a che vedere neppure con le concezioni che dividono politico e militare e che sboccano in strutture tipo partito e suo braccio armato. Non nella versione dei compagni spagnoli, dove è palese la diversa valenza politica tra un PCE(r) e i GRAPO, ma neppure in diverse versioni che vorrebbero il “braccio armato” strettamente subordinato, come una pura funzione “tecnica” al partito. Dubitiamo che la L.A. possa essere considerata una funzione “tecnica” (semmai tal genere di funzione esistesse in generale) e siamo convinti che l’esperienza ha sufficientemente dimostrato (per es. nella resistenza antifascista, ma anche nelle guerre di liberazione) che la pretesa di dirigere dall’esterno una tale “funzione”, non potrebbe in definitiva che condurre al suo abbandono al livello più basso del movimento di massa, quello egemonizzato politicamente da riformisti e revisionisti. Con l’inevitabile effetto di “rimbalzo” di dare legittimità e forza a questo livello per pretendere alla direzione delle strutture politiche.
Nulla abbiamo ovviamente infine a che vedere con l’extraparlamentarismo di quei gruppi che o, fatalmente, finiscono nel parlamentarismo più bieco (vedi DP), oppure restano in un extraparlamentarismo acefalo, nel quale il rifiuto della lotta parlamentare null’altro ha prodotto di diverso perché il partito non solo possa agire dall’alto, ma possa in definitiva anche agire coerentemente dal basso in mezzo alle masse (vedi MRI e proposte tipo “Politica e Classe”). Nel dibattito europeo, come presentato dal libro dei compagni spagnoli, la nostra è una posizione diversa, che intendiamo confrontare con tutte le esperienze politiche rivoluzionarie in Europa ed in particolare con tutti quei comunisti che oggi in Italia si pongono il problema della fondazione del P.C.C. al fine di realizzare la massima unità nella chiarezza dei principi, che ci permetta, attraverso un confronto dialettico teorico e pratico, di giungere quanto prima a realizzare, attraverso il contributo di tutti questi gruppi o singoli compagni, il comune obiettivo.

IN TEMA DI PROGRAMMA COMUNISTA

L’argomento della continuazione della lotta di classe sotto la dittatura del proletariato.
Le esperienze storiche e qualche considerazione di attualità

La necessità di giungere alla costituzione del partito impone non solo un bilancio delle esperienze del movimento comunista in Italia, limitandosi alle sue pretese originalità, ma deve inserirsi all’interno della tradizione del movimento comunista internazionale, e da esso trarre tutti gli insegnamenti che si sono prodotti, sia nelle esperienze positive che negative. Fingere che questo processo si sia svolto in modo lineare e senza arretramenti e sconfitte, e quindi non discutere di questi problemi prodottisi per superarli, è un modo ben strano di porsi per dei marxisti che non hanno mai avuto paura dei propri errori ed hanno sempre operato col metodo della critica ed autocritica. Solo un tale metodo può permettere di rilanciare oggi il programma dei comunisti senza falsi ottimismi sul “paradiso di bengodi” o di lasciare alla borghesia la descrizione della società socialista, come di un immenso “gulag”. Data la complessità del problema, questo vuol essere solo un primo contributo. Siamo ben consapevoli che esso è carente nell’analisi dei problemi della struttura economica di fondamentale importanza necessita certamente di un ampio approfondimento. Tutta questa grande questione potrà trovare una sua forma definita solo all’interno del partito e nel dibattito del movimento comunista internazionale. Questo non vuol dire che oggi possa essere ignorata.
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Ci sembra importante porre all’attenzione del dibattito il fatto che le rivoluzioni proletarie in Russia e in Cina hanno subito dei gravi rovesci sul terreno stesso della lotta di classe; cioè che attualmente sia in Russia che in Cina le conquiste politiche del proletariato, cioè il suo potere, sono state rovesciate, e che la borghesia sia in Russia che in Cina ha restaurato il suo potere. Non si tratta di sclerotizzazioni burocratiche di Stati operai, né di deviazioni di linea, più o meno gravi, di “partiti comunisti” nei due paesi. Ciò ci impedisce di usare ancora il concetto di “campo socialista”,come invece molti compagni continuano a fare. Inutile dire che nello stesso tempo assumiamo che in questi paesi la lotta di classe continua su livelli più elevati di prima e che nutriamo la più ferma convinzione che il proletariato, anche grazie alle lezioni derivate dai rovesci subiti, ribalterà nuovamente la situazione a suo vantaggio e riprenderà il potere nelle sue mani.

È di fondamentale importanza esaminare con la massima cura le contraddizioni attraverso le quali si è sviluppato il processo rivoluzionario in questi paesi, per trarne i dovuti insegnamenti per la rivoluzione nel nostro paese. Benché la situazione nella quale il processo rivoluzionario si è sviluppato in questi paesi sia molto diversa dalla nostra situazione, come traiamo gli insegnamenti positivi ed utili a noi da queste esperienze, così dobbiamo essere capaci di trarre anche gli insegnamenti derivanti dai limiti oggettivi e dagli errori soggettivi di queste esperienze. Sarebbe infatti criminale imboccare una strada che ciecamente ci portasse alle stesse tragiche conseguenze che oggi si possono osservare nel processo rivoluzionario in Russia e in Cina.
Cercheremo quanto meno di delineare le questioni fondamentali che il movimento comunista deve affrontare. Queste questioni sono:
➢    attualità della tesi sul “socialismo” e la “dittatura proletaria”
➢    la continuazione della lotta di classe sotto la dittatura proletaria
➢    lo Stato in transizione, ovvero il processo di estinzione dello Stato
➢    qualche insegnamento dalle esperienze storiche
➢    particolarità maggiori della nostra situazione attuale
Attualità della tesi sul socialismo e la dittatura proletaria
La tesi secondo la quale la “fuoriuscita” (come oggi si suol dire) dal capitalismo verso la società comunista deve avvenire attraverso una fase di transazione caratterizzata dallo Stato della dittatura proletaria, fase detta da Lenin “socialismo”, è già una tesi di Marx (vedi specialmente “Critica al programma di Gotha”). Essa si fonda sulla seguente elaborazione teorica: per costruire la società comunista è necessario trovarsi in presenza di un altissimo livello di sviluppo delle forze produttive e di una trasformazione soggettiva a livello di massa del proletariato, sia nel senso della acquisizione a livello di massa di una completa coscienza del ruolo di governo della natura (e non più di una classe sull’altra) che la società comunista implica per l’intero proletariato, sia nel senso della acquisizione a livello di massa di grandi capacità tecniche-scientifiche (elemento fondamentale dello stesso sviluppo delle forze produttive). La crisi capitalistica, crisi di carattere generale e storico, che implica un blocco ed a periodi sempre più ravvicinati una distruzione di massa delle forze produttive è destinata ad intervenire (e non può che essere così dato che è lo stesso processo di valorizzazione del capitale che ingenera la crisi, col conseguente processo progressivo di distruzione delle forse produttive), quando lo sviluppo delle forze produttive non sarà ancora al livello richiesto dalla società comunista, benché questo sviluppo sarà già relativamente elevato, all’interno del sistema capitalistico mondiale nel suo complesso, benché con sempre più profondi dislivelli all’interno dei singoli paesi e nelle diverse aree del globo, a seconda del modo in cui è avvenuta la penetrazione e la valorizzazione del capitale. Parimenti la crisi capitalistica interverrà in un momento in cui il proletariato come massa non avrà ancora raggiunto uno sviluppo soggettivo, nel senso sopra detto, quale la società comunista richiede, benché una consistente sua avanguardia (i comunisti) disporrà di un bagaglio culturale ricco e di una coscienza politica avanzata. Così il problema della fuoriuscita dal capitalismo si porrà prima che le condizioni per la costruzione della società comunista siano completamente presenti. Da ciò la necessità della fase di transizione, del “socialismo”.
Che nei casi concreti della Russia e della Cina questo fosse lo stato delle cose al momento dell’abbattimento dello Stato della borghesia, non vi è alcun dubbio. Anzi in questi paesi la prima fase del processo rivoluzionario consiste in una successione rapida di rivoluzione democratica e rivoluzione socialista. Il nostro problema è di verificare se un tale stato di cose si presenti anche oggi nei paesi a capitalismo avanzato, e particolarmente nel nostro paese.
Per quanto concerne lo sviluppo delle forze produttive anche nei paesi a capitalismo avanzato, ed ancor più nel nostro paese, esso non è oggi tale da consentire la immediata applicazione del principio “a ciascun secondo i suoi bisogni”. È da una parte evidente che la semplice redistribuzione fra i proletari della ricchezza sociale consumata dai ceti abbienti, non innalzerebbe di molto il livello di vita complessivo dei proletari (chiunque può fare dei semplici calcoli). Anche da questo solo punto di vista si dimostra pericolosamente errata quella versione della tesi sulla “maturità del comunismo” che ha avuto ed ha ancora qualche popolarità, secondo la quale oggi nei paesi a capitalismo avanzato, il problema del soddisfacimento dei bisogni proletari sarebbe una pura e semplice questione di distribuzione, risolubile nella anticipazione costituita dal saccheggio delle salumerie e dei negozi di dischi. Ma da un’altra parte sta l’aspetto più complesso della questione. È stato detto sarebbe sufficiente riconvertire il processo produttivo, cambiando la natura dei prodotti (p. es. – ma gli esempi possono essere tanti – trasformando l’industria bellica in industria di pace) per dar luogo ad una vera e propria abbondanza di beni di consumo proletari, tale da costituire dal punto di vista della capacità produttiva, una solida base per l’edificazione della società comunista. Tale affermazione è errata perché fondata sul noto sofisma della “neutralità delle forze produttive”. Questo sofisma vorrebbe che la “semplice” volontà politica fosse in grado di riconvertire l’uso delle forze produttive presenti, le quali sarebbero perciò neutrali rispetto al sistema politico che le ha prodotte e organizzate. In realtà le forze produttive presenti nel sistema capitalistico sono essenzialmente informate alle finalità proprio del sistema, cioè la produzione di profitto. La loro riconversione al fine di produrre per il soddisfacimento dei bisogni proletari, implicherebbe (ed implicherà) un alto livello di distruzione della loro capacità produttiva (è molto difficile riconvertire una fabbrica di siluri in una fabbrica di formaggini). Ed ancora più lo sviluppo delle forze produttive in un paese a capitalismo avanzato è condizionato da un particolare tipo di “vincolo esterno” che è costituito dal fatto di essere funzionale al super sfruttamento imperialista della periferia, super sfruttamento attraverso il quale una buona parte dei bisogni proletari nei paesi a capitalismo avanzato, viene attualmente soddisfatta. Cessato il legame di super sfruttamento imperialista, buona parte della produzione orientata allo scambio con la periferia dovrà essere riconvertita. Il che richiederà un certo tempo.
Questione importante, poiché dalla possibilità di stabilire un rapporto di corretta collaborazione economica con i paesi progressisti ed antimperialisti dipenderà in buona parte la possibilità per il nostro paese di approvvigionarsi di materie prime e di prodotti alimentari, dei quali è (e certo resterà) deficitario. Tutto ciò senza considerare la facilmente prevedibile distruzione di forze produttive che un conflitto mondiale, lo stesso processo rivoluzionario, ed il sabotaggio interno ed internazionale della borghesia, provocherà. Non c’è dunque da farsi soverchie illusioni sullo stato del sistema produttivo che la rivoluzione si troverà dinnanzi. In special modo considerato il livello richiesto dalla edificazione di una società comunista. Per quanto concerne lo sviluppo della soggettività proletaria, l’aspetto della diffusione a livello di massa della conoscenza tecnico-scientifica (aspetto che ha molto a che vedere anche con lo sviluppo delle forze produttive, ed in particolare della forza-lavoro come la principale delle forze produttive) lascia molto a desiderare, poiché la scuola capitalistica e gli altri strumenti di diffusione della cultura nel capitalismo hanno come scopo principale la formazione di una umanità docile, duttile e polivalente, passivamente orientabile nei consumi e nei comportamenti: qualcosa che è l’esatto contrario di un altro livello di diffusione della conoscenza tecnico-scientifica, la quale ultima è invece riservata a ceti ristrettissimi di selezionati agenti del capitale. La coscienza proletaria di massa degli interessi storici della classe e del ruolo che il proletariato è chiamato a svolgere nella società comunista, benché a tratti presente e stabilmente presente nell’avanguardia comunista, a livello di massa non è per niente radicato e diffuso e non va confuso con la diffusa e radicata insoddisfazione nei confronti dello stato di cose presente e con lo spirito di ribellione che vi è connesso. Infine non bisogna dimenticare che il proletariato dei paesi capitalisti avanzati è abbastanza profondamente diviso in strati diversi sia dal punto di vista economico che culturale; una divisione che pone gravi problemi già nella fase pre-rivoluzionaria e che continuerà a porre gravi problemi nella transizione al comunismo.
Dunque anche nei paesi a capitalismo avanzato, ed in particolare nel nostro, la crisi del sistema capitalistico si verificherà fatalmente in circostanze in cui le condizioni per la edificazione della società comunista saranno ancora immature e sarà perciò necessario un periodo di transizione, il periodo della società socialista. In questo periodo il potere sarà esercitato dalle avanguardie del proletariato, in stretto legame con l’intera massa del proletariato ed all’interno di un processo orientato alla più ampia diffusione delle responsabilità di direzione politica e di gestione amministrativa ed economica fra tutti i proletari. In questo periodo di transizione lo Stato avrà la forma della dittatura proletaria. Sarebbe un errore considerare che la dittatura sia una forma del potere resa necessaria di per sé dall’arretrato livello di sviluppo delle forze produttive e dell’arretrato livello di sviluppo della soggettività proletaria a dimensioni di massa. Tali condizioni, benché possano dar luogo a contraddizioni nella società, non danno però luogo necessariamente a contraddizioni di tipo antagonista. Ciò che, come già Marx ed ancora più Lenin hanno messo in evidenzia, ed ancor più l’esperienza storica dalla Comune di Parigi ai nostri giorni, rende indispensabile l’esercizio della dittatura proletaria dopo la conquista del potere da parte del proletariato sotto la guida della sua avanguardia, è il fatto inevitabile che la borghesia non solo non scompare istantaneamente nella società, ma anzi si arrocca su posizioni di resistenza e di controffensiva, appoggiata da potenti alleati internazionali. Nei confronti della borghesia alla controffensiva, interna ed internazionale, si sviluppa una contraddizione altamente antagonista, che può facilmente evolversi in guerra civile (o anche esterna) più o meno prolungata. Il governo di questa contraddizione altamente antagonista è affidato alla dittatura del proletariato, il quale è diventato l’aspetto principale della contraddizione. Ma la dittatura del proletariato si rende necessaria anche per un’altra ragione. In tutto il periodo del socialismo non solo la lotta di classe continua contro i residui della borghesia reazionaria, ma anche contro le tendenze assolutamente prevedibili di formazione di nuovi strati di una nuova borghesia, come risultato delle contraddizioni che permangono nella società socialista e che possono facilmente degenerare in contraddizioni di classe, come la storia ha dimostrato.

La continuazione della lotta di classe sotto la dittatura proletaria

La lotta di classe continua dunque sotto la dittatura proletaria contro i residui della borghesia reazionaria e la dittatura del proletariato è, appunto, strumento di questa fase della lotta di classe che vede il proletariato divenuto l’aspetto principale della contraddizione. Ma ancora, contraddizioni proprie della società socialista (manifestazioni particolari del marchio borghese da cui non si è ancora liberata, come diceva Marx) possono diventare contraddizioni di classe. In particolare il rapporto fra proletariato e la sua avanguardia presenta diversi aspetti contraddittori. Innanzitutto tutto non si può identificare formalisticamente l’avanguardia del proletariato con il suo partito, il partito comunista. Il partito comunista è una struttura organizzata e formalizzata. L’avanguardia del proletariato è invece un concetto che allude agli strati del proletariato più avanzato politicamente, organizzati o no nel partito, benché per definizione il partito tenda razionalmente ad organizzare tutti gli elementi più avanzati del proletariato dotati di coscienza comunista. Nella società socialista partito, avanguardia e massa proletaria (come del resto anche nella società capitalista, sia nella fase pre-rivoluzionaria che nella fase rivoluzionaria), non sono concetti identici. Si tratta di realtà diverse fra le quali intercorrono dei rapporti. Il carattere contraddittorio di questi rapporti è costituito dal fatto che la direzione del lavoro politico, amministrativo ed economico è svolto dalla avanguardia del proletariato ed in particolare dal suo partito, che dirige politicamente gli organi dello Stato. Questa direzione ha, fra i suoi scopi principali, quello di innalzare le capacità tecniche e culturali e la coscienza politica del proletariato tutto intero, per farne il protagonista della società comunista, nella quale lo Stato stesso e con esso ogni forma di potere di uomini su uomini si sarà estinta. Dirigere a non essere più diretti costituisce un rapporto che contiene una palese contraddizione. L’evoluzione razionale e dialettica di questa contraddizione porta alla società comunista, dove non vi sono più dirigenti e diretti. Ma poiché non solo la borghesia mantiene delle posizioni economiche rilevanti nella società socialista (non fossero che quelle residuate dal monopolio della conoscenza tecnica e scientifica), ma mantiene anche delle forti posizioni nella cultura ed una grande capacità di diffondere la ideologia dell’individualismo e che influenze di questo genere vengono costantemente dal circostante mondo capitalistico, nonché dalla tradizione culturale borghese massicciamente presente nello stesso proletariato (il quale neppure da un punto di vista economico costituisce un tutto unico ed omogeneo), nulla è più facile che questa contraddizione invece di evolversi in senso razionale e dialettico, mostri tendenze anche assai pronunciate a trasformarsi in contraddizione di classe, in contraddizione antagonista. Non si tratta del fatto che le avanguardie proletarie che gestiscono il potere si possano trasformare in burocrazia pigra ed inerte. Questo sarebbe il meno e sarebbe un male ancora rimediabile in modo non troppo difficile, dato che la pigrizia può essere difficilmente ideologizzata. Il fatto è che nella realtà si verifica una tendenza di queste avanguardie a trasformarsi in classe che gestisce il potere nel suo proprio interesse, cioè in una nuova borghesia, che interiorizza e propaganda ideologicamente la vecchia e consolidata ideologia della classe borghese, con appena qualche modesto abbellimento. Non vale essere membri del partito per essere vaccinati da questa tendenza. Si tratta, ed in concreto in Russia ed in Cina si è trattato, di una tendenza concretamente emersa, fino agli esiti drammatici che conosciamo. Non esiste come abbiamo detto, un vaccino contro questa “malattia”. Alle avanguardie proletarie, dentro e fuori dal partito, consapevoli di questo pericolo, spetta il compito di condurre una lotta, che è lotta di classe, contro la vecchia e nuova borghesia, sia che essa costituisca le sue posizioni di potere fuori o dentro il partito. Su questa linea mobiliteranno le masse svolgendo appieno in senso razionale e dialettico il loro ruolo di dirigere a non essere più diretti, rinnovando il partito quando ciò si renda necessario. Il partito è strumento necessario alla lotta di classe, ma la sua integrità comunista non è garantita da nulla se non dalla capacità delle avanguardie proletarie che lo compongono e anche da quelle che si formano al suo esterno, di sottoporlo costantemente ad un processo di critica e rinnovamento, attraverso la mobilitazione delle masse. Così il martello è indispensabile per piantare i chiodi, ma nulla garantisce che col martello non ci si possa anche schiacciare le dita. Questa concezione della politica comunista è quell’elemento del patrimonio della cultura di classe che consente di tenere sempre aperto lo spiraglio della lotta di classe anche nelle situazioni più difficili, e che perciò deve essere oggetto di costante insegnamento. Cercheremo di vedere, per sommi capi, come storicamente questi problemi siano stati in concreto affrontati. È comunque preliminarmente evidente che questi problemi hanno un modo caratteristico di evidenziarsi. Questo modo è quello che riguarda il processo di transizione che investe lo Stato nella fase del socialismo.

Lo Stato in transizione, ovvero il processo di estinzione dello Stato

Nella società comunista lo Stato si estingue. Ma evidentemente non si estingue da un momento all’altro, per suo proprio decreto. Questo significa che lo Stato in senso proprio, organo dell’esercizio della dittatura di una classe su un’altra (e perciò caratterizzato dal diritto e dalla giustizia, da organi deputati alla repressione delle attività reazionarie, da costituiti livelli di centralità nella formazione delle decisioni politiche, amministrative ed economiche), è anche Stato in un senso speciale. La società socialista non corrisponde ad una formazione economico-sociale particolare, a fianco della società feudale, capitalista, comunista. La società socialista è soltanto una società di transizione dal capitalismo al comunismo. Dunque lo Stato nella società socialista, e fin tanto che essa rimanga tale, è caratterizzato dal essere uno Stato in costante trasformazione. In ogni momento di sviluppo della società socialista si deve evidenziare questa trasformazione in corso. Questo vuol dire che in ogni momento si deve vedere l’organo centrale al lavoro per costituire e rafforzare istanze periferiche sempre più articolate alle quali trasferire i suoi compiti, mano a mano svuotando se stesso. Questo vuol dire che in ogni momento si deve vedere l’organo centrale, per garantire il processo di cui si è detto, promuovere e rafforzare funzioni ed organismi di controllo dal basso del suo operato.
Gli organi della giustizia e della repressione professionali devono man mano trasformarsi in tribunali popolari ed in milizie proletarie non professionali ecc. O questo processo di trasformazione è concreto e visibile o non si tratta di una società socialista in transizione verso il comunismo. È chiaro che nello specchio costituito dalle strutture statuali si riflette nel modo più chiaro quella contraddizione di cui sopra si parlava fra funzione del dirigere ed obiettivo di superare l’esigenza stessa di direzione. Le strutture dello Stato socialista sono materialmente costituite da uomini: gli elementi di avanguardia del proletariato, e fra questi, in posizione di massima responsabilità politica, dai militanti del partito comunista. A questi uomini compete la grande responsabilità di guidare la transizione, che andrà avvenendo man mano che le grandi masse proletarie verranno portate alla assunzione delle responsabilità della direzione politica, della gestione amministrativa ed economica della società. Questo processo è contemporaneo, anzi strettamente intrecciato allo sviluppo delle forze produttive (nel senso di una reciproca dipendenza dei due elementi), su di un punto centrale (oltre che ovviamente sul contestuale sviluppo centralizzato della ricerca scientifica e tecnica, della pianificazione economica ecc.): lo sviluppo della forza produttiva principale: il lavoro umano, man mano emancipato dalla forma di forza-lavoro mercificata, e messo in condizione di dominare e sviluppare al livello più ampio e diffuso il processo produttivo, controllandone in modo determinante modalità e finalità.
È ovvio che questo tipo di trasformazione va contro senza sfumature agli interessi della vecchia borghesia, il cui potere è stato rovesciato, contro gli interessi del mondo capitalistico in generale, ma anche contro gli interessi che premono per costituire gli uomini che partecipano agli organi del potere politico della società socialista, in nuova borghesia, in nuova classe sfruttatrice. Sul terreno di queste trasformazioni si svolge dunque la lotta di classe nella società socialista. Nulla può garantire a priori l’esito di questa lotta.
Le esperienze storiche lo dimostrano in modo drammatico.

Qualche insegnamento delle esperienze storiche

Richiamiamo l’attenzione innanzitutto su alcuni passaggi dell’esperienza sovietica.
All’incirca fino alla fine degli anni 20, la società uscita dalla rivoluzione proletaria appare come un “capitalismo di Stato diretto dalla dittatura proletaria” (l’espressione è di Lenin). Ciò significa che l’economia è in parte nazionalizzata ed in parte controllata da uno Stato nel quale il potere è nelle mani dell’avanguardia del proletariato. Nel caso concreto gli organi di questo Stato sono rappresentati dai soviet elettivi (degli operai, soldati e contadini) che si centralizzano nel Congresso panrusso dei Soviet, il quale a sua volta esprime uno o più organi esecutivi centrali. Il partito svolge il ruolo politicamente dirigente in questi organi, in quanto per così dire “avanguardia dell’avanguardia”. Le imprese economiche, sia quelle nazionalizzate che quelle private, sono controllate dall’alto da un organismo centrale (Consiglio Nazionale dell’Economia) e dal basso dai comitati (operai e impiegati) di fabbrica, a loro volta centralizzati da un Congresso panrusso (apparato costituente nel suo insieme l’apparato del c.d. “controllo operaio”). Anche in questi organismi il ruolo di direzione politica spetta al partito. In sostanza si vede bene come lo schema fondamentale del potere, sia in campo più strettamente politico che in quello economico, è costituito da un rapporto dialettico fra un polo centrale ed una diffusione periferica di poli di base ai quali partecipano direttamente i lavoratori addetti alla produzione. Il partito raccoglie le avanguardie comuniste e dirige politicamente l’evoluzione di questo rapporto dialettico. Nel senso di una progressiva estensione del potere degli organismi di base e periferici. Questo processo si è verificato nella realtà? La risposta non può che essere negativa. Anche mano a mano che l’emergenza della ricostruzione economica veniva superata e che le forme giuridiche della proprietà privata venivano del tutto abolite (specialmente a partire dalla fine degli anni 20) e che un impetuoso sviluppo delle forze produttive veniva realizzato, non solo questo processo non si è verificato, ma si è verificato il contrario: gli organi del potere centrale si sono rafforzati e quelli periferici e di base si sono quasi completamente svuotati, se non sono del tutto scomparsi (come gli organi del c. d. “controllo operaio”, scomparsi ancora Lenin vivente). Un ultimo tentativo di promuovere una spinta di controllo dal basso, attraverso una struttura di vertice, fu tentato da Lenin nell’ultimo periodo della sua vita, attraverso un apposito ministero (il Commissariato all’Ispezione operaia e contadina, poi fuso con la Commissione Centrale di Controllo del Partito), esperienza fallita alla nascita.
A questo punto l’unico canale di esercizio del potere proletario è divenuto quello rappresentato dal ruolo dirigente del partito comunista, in quanto costituito dall’avanguardia comunista del proletariato. In questa situazione il partito ha manifestato da una parte la tendenza ad identificarsi con tutta l’avanguardia proletaria (con la conseguenza di un abbassamento del livello politico del partito) e dall’altra la tendenza ad identificarsi con gli organi del potere statale. Questa soluzione ha avuto il merito di evitare in un primo momento che la società socialista regredisse al capitalismo, attraverso l’ampliamento e la istituzionalizzazione della NEP ed anzi che nazionalizzazione e collettivizzazione dell’economia ed instaurazione della sua gestione pianificata, fossero portati a compimento (meriti particolari di Stalin).
Ma è certo anche che la trasformazione della società socialista in società comunista ha subito un pericoloso stallo, nel quale sono andate maturando le condizioni per una vittoriosa controffensiva della borghesia. In sostanza il partito, invece di promuovere la mobilitazione delle masse proletarie contro le classi reazionarie vecchie e nuove, elevandone la coscienza ed allargandone il ruolo dirigente sull’intera società (dirigendo così la lotta di classe nel socialismo), ha condotto la lotta contro la borghesia vecchia e nuova attraverso la occupazione dei gangli fondamentali del potere politico ed economico, con metodi prettamente amministrativi. Ammalandosi così della stessa malattia che pretendeva di curare. La arretratezza dello sviluppo delle forze produttive ereditata dal regime zarista, le distruzioni della guerra, l’accerchiamento internazionale ed il permanere di rapporti di produzione basati sulla piccola proprietà, sono stati i fattori materiali decisivi che hanno determinato questa situazione. La principale ragione soggettiva che ha condotto a questo risultato è stata la grande arretratezza politica del proletariato e degli strati inferiori delle campagne nella Russia della rivoluzione e la conseguente debolezza dello stesso partito bolscevico fuori dai grandi centri urbani. Questo fatto ha reso, specialmente nel primo decennio, estremamente difficile, se non impossibile, la mobilitazione di classe di grandi masse proletarie.
Ma si è trattato anche di ragioni dovute ad errori politici soggettivi del partito, ed al prevalervi di deviazioni economiciste più o meno esplicite (come quello che ha tenacemente affermato che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato ad un automatico adeguamento dei rapporti di produzione), con la conseguenza che poca o nulla attenzione fu posta allo sviluppo della coscienza politica proletaria anche quando le condizioni oggettive (cioè unificazione, generalizzazione e ed elevamento della condizione proletaria) andavano maturando (cioè durante gli anni 30). A correggere tali errori nessun contributo è venuto dalle varie “opposizioni di sinistra” degli anni 20, le quali si sono tenacemente arroccate su concezioni autogestionarie, corporativiste, particolariste ed in sostanza non meno economiciste di quelle della maggioranza, oscillando fra una difesa sindacalista degli interessi economici operai ed una concezione autogestionaria delle unità economiche, proprio e totalmente in contrapposizione frontale all’esigenza di portare l’avanguardia proletaria alla direzione di tutta la società. Il risultato inevitabile è stato il consolidamento di un forte strato di nuova borghesia nello stesso partito (oltre che in maggior misura nell’apparato statale) che, dopo la morte di Stalin, sarà in grado di imporsi apertamente come la nuova classe detentrice del potere.
La conclusione principale che ne possiamo trarre è che anche sotto la dittatura proletaria il ruolo del partito non può essere quello di rappresentare gli interessi proletari al posto del movimento proletario di massa, ma che il suo compito principale è proprio quello di suscitare il movimento proletario di massa sul fronte della lotta di classe.
Vediamo ora brevemente quali lezioni sono state tratte dai comunisti cinesi, ed in particolare da Mao, dalla evoluzione negativa del processo rivoluzionario in Unione Sovietica.
A metà degli anni 50 gli esiti verso i quali si dirigeva la situazione in URSS erano chiari per tutti. In quel periodo in Cina le strutture del potere politico ed economico ed il ruolo del partito comunista erano sostanzialmente modellati sul tipo sovietico, comportante perciò gli stessi rischi di degenerazione. Sotto l’impulso di Mao si scatenano, sotto la direzione di una parte del partito e contro un’altra parte, due grandi movimenti di massa sulla frontiera della lotta di classe: il primo è il Grande Balzo in Avanti (seconda metà degli anni 50), il secondo è la Rivoluzione Culturale (seconda metà degli anni 60). È completamente errato ritenere che si sia trattato di movimenti sociali di riforma economica o “culturale” in senso stretto. Si è trattato di autentici episodi di lotta di classe che hanno mobilitato imponenti masse proletarie, si sono svolti attraverso scontri anche assai cruenti ed hanno scosso tutto l’apparato del potere statuale e della gestione economica, coinvolgendo in profondità lo stesso partito. La caratteristica principale del Grande Balzo in Avanti è stata la costituzione delle Comuni Popolari nelle campagne e la lotta in tutti i campi contro il burocratismo ed i privilegi, in particolar modo quelli nascenti dalla separazione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, sia negli aspetti economici che soprattutto politici.
Senza entrare in dettagli si può limitarsi a sottolineare che la costituzione delle Comuni Popolari ha conciso con un vero e proprio capovolgimento della politica economica in merito alla priorità da attribuire allo sviluppo dei diversi settori, nel contesto di un processo di rapida collettivizzazione nelle campagne. Secondo il modello sovietico la priorità andava data alla industria pesante a scapito dell’agricoltura e dell’industria leggera. I cinesi decidono di capovolgere il modello dando luogo ad una spunta alla collettivizzazione nei campi nello stesso tempo in cui tentano di stabilire un rapporto equilibrato fra industria e agricoltura. Le Comuni Popolari sono strutture di gestione economica di unità cooperative molto grandi, altamente integrate di funzioni amministrative e dotate di larga autonomia rispetto al potere centrale.
Nello stesso tempo una forte campagna investe anche le città contro i burocrati staccati dalle masse e potenziali, se non già, elementi di una nuova borghesia. A ondate successive questa lotta continuerà fino a che nel 65 si scatenerà la Rivoluzione Culturale, conseguenza diretta del precedente movimento che porterà l’attacco della classe lavoratrice contro le strutture politiche più alte dello Stato, presidente della Repubblica compreso, comportando con la sua vittoria nei primi anni 70, una modifica della Costituzione dello Stato e degli stessi statuti del partito. Il carattere principale del movimento di lotta è costituito dal fatto che la frazione del partito diretta da Mao mobilita le masse proletarie, normalmente di senza-partito, contro i borghesi a tutti i livelli, ivi compresi i militanti di partito su posizioni reazionarie, destituendoli dalle loro funzioni e dando vita a nuovi organismi dirigenti delle unità economiche e di tutte le strutture politiche, a carattere elettivo e revocabili dal basso, detti Comitati Rivoluzionari, generalmente costituiti da un buon numero di quadri rivoluzionari senza partito. La frazione del partito diretta da Mao, mantiene sempre una funzione di direzione. Fino al 71 la vittoria della Rivoluzione Culturale e della frazione maoista appare completa. Ma all’interno stesso della frazione maoista andava maturando una grave contraddizione. Anche in questo caso (come già abbiamo visto in URSS), le difficoltà di mobilitare su un terreno di classe le grandi masse, specialmente contadine, è stata grande. Molti dei nuovi quadri non sono stati politicamente troppo solidi, mentre i vecchi quadri sinceramente (e non opportunisticamente) maoisti,  non devono essere stati proporzionalmente troppo numerosi.
Nello stesso quadro della Rivoluzione Culturale perciò si era creato uno spazio per delle tendenze opportunistiche mascherate dall’estremismo verbale più spinto, che fecero leva su errori di soggettivismo idealistico diffusi fra i nuovi quadri rivoluzionari. Queste tendenze si personalizzarono in Lin Piao (massimo dirigente del movimento) il quale, evidentemente non da solo, tentò di cristallizzare la Rivoluzione Culturale in una formalità rituale dietro la quale costruire una rigida gerarchia di potere di tipo burocratico, intorno alla quale coagulare nuovi e vecchi strati privilegiati, formalmente “riformati” dal culto della personalità di Mao. Fra il 71 e il 73 la frazione maoista si trovò in gravi difficoltà. Attaccata al suo interno, cercò una tregua con la vecchia frazione di destra sconfitta dalla Rivoluzione Culturale  (p. es. Deng Xiao-Ping) per liberarsi di Lin Piao. La probabile tendenza della vecchia destra a cercare una confluenza col bonapartismo linpiaoista fu così efficacemente spezzata, ma il prezzo pagato ai vecchi nemici della Rivoluzione Culturale era stato alto. Subito dopo la morte di Mao (76), la borghesia vecchia e nuova, non del tutto veramente sconfitta, riprende in mano le redini del potere. La principale conclusione che si può trarre da questi avvenimenti è che Mao ha certamente visto giusto nella necessità di mobilitare le grandi masse e di promuovere le avanguardie proletarie nella lotta di classe anche sul terreno della sovrastruttura ma, da parte degli stessi dirigenti comunisti a lui più vicini (come il cosiddetto gruppo dei quattro), è stata sviluppata una pericolosa deviazione che, non tenendo conto dei limiti oggettivi entro i quali il processo rivoluzionario andava svolgendosi, ha portato a sottovalutare l’impreparazione tecnica e la scarsa capacità politica di molti quadri rivoluzionari, l’arretratezza in genere delle forze produttive e il permanere di rapporti di produzione arretrati specialmente nelle campagne, consegnando così la soggettività volontaristica dei nuovi quadri nelle mani di opportunistici rappresentanti di frazioni della nuova borghesia, del tipo Lin Piao.
La rottura dello schieramento rivoluzionario ha lasciato via libera alla restaurazione borghese e la vittoria su Lin Piao si è rivelata alla fin fine una vittoria di Pirro.
L’insegnamento generale che possiamo ricavarne è che il partito anche nel condurre la lotta di classe nel socialismo, benché giustamente debba mobilitare le masse e non sostituirsi ad esse, promuovere le avanguardie ecc., non può prescindere da una progressiva e relativamente prudente formazione di quadri nella sovrastruttura politica, tenendo conto che la trasformazione dei rapporti di produzione diretta dalla sovrastruttura politica rivoluzionaria non può verificarsi senza un complesso sviluppo di capacità tecniche e politiche, le quali non possono essere sostituite da una generica “buona volontà”, da cui deriva più una tendenza all’inquadramento autoritario che una vera tensione alla crescita politica costante del movimento di massa nel suo complesso. In questo senso il “soggettivismo” non è un errore teorico, ma rappresenta la espressione di interessi di classe borghesi e piccolo borghesi tendenti a saldarsi in un fronte antiproletario. La differenza di classe, così, fra “ribelli” e “rivoluzionari” risulta illustrata in un esempio storico ricco di insegnamenti.

Particolarità maggiori della nostra situazione
Nei paesi a capitalismo avanzato, ed in particolare nel nostro paese, appaiono a vista d’occhio delle particolarità rilevanti, rispetto alle condizioni della rivoluzione sovietica e cinese.
Due sono particolarmente importanti: 1) il proletariato urbano, con tutte le sue stratificazioni anche rilevanti, è la classe sfruttata di gran lunga maggioritaria e dotata di un protagonismo politico consolidato da decenni, seppure di norma sotto l’egemonia dei suoi strati più privilegiati e della loro espressione politica, la socialdemocrazia ed il revisionismo; 2) il sistema produttivo ed il sistema politico che lo governa sono di gran lunga più complessi, già fortemente centralizzati ed internazionalmente collegati di quanto non fossero in Russia o in Cina al momento delle rispettive rivoluzioni. Nonostante queste differenze, dalle esperienze delle rivoluzioni sovietica e cinese dobbiamo e possiamo ricavare molti insegnamenti.
Da una parte alcuni insegnamenti relativi alla applicazione del programma comunista alla nostra realtà concreta dei nostri giorni. Innanzitutto in merito al ruolo del partito nel promuovere e condurre la lotta di classe nel campo della sovrastruttura attraverso una permanente mobilitazione delle masse proletarie.
Fare ciò, sotto la dittatura del proletariato, non significa solo (benché si tratti di un compito necessario) diffondere una formale e verbale adesione alla teoria marxista-leninista nell’ambito della letteratura, dell’arte, della scienza, dell’analisi politica, della morale (cioè nella cosiddetta “cultura” costituita da puri pensieri e pure parole), nel che consiste l’essenza stessa del linpiaoismo, fondamento di una struttura sociale autoritaria, che è l’esatto contrario della promozione del processo di estinzione dello Stato nella società comunista. La sovrastruttura è costituita da concreti rapporti che costituiscono il potere politico. I rapporti di produzione (elementi della struttura) si riproducono in forma capitalistica quale che sia lo sviluppo delle forze produttive, se la lotta di classe non aggredisce attraverso la mobilitazione delle masse i rapporti di produzione capitalistici. Quali sono questi rapporti politici che caratterizzano la sovrastruttura in paesi a capitalismo avanzato, come il nostro, e che costituiranno inevitabilmente l’obiettivo della lotta di classe, dopo l’abbattimento dello Stato della borghesia (abbattimento al quale necessariamente sopravvivranno)? Innanzitutto la professionalità del lavoro politico, riflesso dialettico (cioè reciproco) della divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale nella struttura. Paradossalmente la società socialista erediterà una struttura politica d’avanguardia (il partito) fatta in gran parte di professionisti della rivoluzione, nel cui ceto si cristallizza in certo modo esemplarmente la divisione tra lavoro manuale e intellettuale. Questa struttura non è stabile nel corso della trasformazione della società socialista. Il partito, nella fase che precede la rivoluzione e nella fase rivoluzionaria, è essenzialmente costituito da uno strato relativamente selezionato di avanguardie. Nel socialismo si allarga ad esempio il numero di avanguardie che sono nella produzione e che in questo processo acquisiscono coscienza comunista. Ugualmente lo Stato della dittatura del proletariato che eredita certi caratteri dello Stato della borghesia, come l’esistenza di un ceto di funzionari professionali, li abolisce progressivamente (e fin dall’inizio tende ad abolirne i privilegi a partire da quelli salariali), compatibilmente con i livelli di sviluppo economico e tecnico, per sostituirli con strutture collettive costituite da proletari della produzione. In generale le funzioni svolte da intellettuali di professione della società capitalista, vengono man mano trasferite ai lavoratori della produzione, la cui formazione intellettuale viene costantemente accresciuta. Gli intellettuali ricevono una nuova formazione inseriti nella produzione. È evidente che questo processo incide nello stesso tempo nell’apparato della burocrazia dello Stato (e del Partito), nella scuola, nelle forze armate, negli organi della ricerca scientifica e nella stratificazione delle funzioni nel processo produttivo. Dalla eliminazione di queste differenze dipende la eliminazione di una delle più potenti sorgenti di formazione della nuova borghesia. D’altra parte una pericolosa fonte di formazione di una nuova borghesia si trova anche nella complessa stratificazione dello stesso proletariato addetto al lavoro prevalentemente manuale, diviso fra addetti alla grande impresa ed alla media e piccola impresa, dell’industria e dei servizi, ecc., con livelli retributivi sensibilmente diversi, diversi sistemi di retribuzione, diversi livelli di intensità di sfruttamento e diversi contesti di vita comportanti livelli di consumo diversi per quantità e qualità. Questa stratificazione non potrà essere abolita immediatamente e “per decreto”. E neppure si può immaginare una immediata scomparsa delle diverse attività economiche basate sulla piccola proprietà.
Da queste differenze nascono dinamiche che spingono fatalmente all’ampliamento dello spirito individualista ed alla cristallizzazione dei privilegi. I meccanismi sovrastrutturali che conservano ed ampliano queste differenze devono essere attaccati, come quelli che riproducono la differenza fra lavoro manuale e intellettuale. A livello della contemporanea integrazione mondiale dell’economia e della società intera, nuove differenze e complessità funzionali alla riproduzione del privilegio dei nuovi strati borghesi, si presentano nella forma del caratteristico razzismo contemporaneo che investe ampiamente lo stesso proletariato dei paesi industrializzati. Si tratti del razzismo nei confronti degli immigrati o nei confronti dei proletari sfruttati nelle aree più povere del mondo. Si tratta ovviamente di differenze che trovano sede nel rapporto dialettico fra struttura e sovrastruttura e non di fenomeni meramente “culturali” in senso stretto, ma la cui aggressione deve avvenire anche a livello sovrastrutturale, in modo da contribuire in modo deciso alla ricomposizione del proletariato, sotto ogni aspetto. Dunque la lotta contro la divisione tra lavoro manuale ed intellettuale, la lotta per l’egualitarismo, contro il razzismo ed il sessismo, sono aspetti essenziali (anche se non esclusivi) della lotta di classe nella sovrastruttura sotto la dittatura del proletariato quale si presenterà nei paesi a capitalismo avanzato, dopo la sconfitta della borghesia. Altro insegnamento derivato dall’esperienza storica, pienamente valido in paesi come il nostro è naturalmente quello della necessità di condurre questa lotta sempre attraverso la mobilitazione di massa e mai con metodi amministrativi.
Da un’altra parte degli insegnamenti possono essere ricavati per quanto concerne l’azione del partito nella fase attuale, che pur non essendo nel nostro paese una fase rivoluzionaria, è tuttavia una fase in cui il partito agisce in vista della maturazione di una situazione rivoluzionaria. Non vi può essere contrasto insanabile fra il modo dell’azione del partito nella fase non ancora rivoluzionaria, nella fase rivoluzionaria e nella fase successiva alla presa del potere. Benché differenze e contrasti da superare (a costo altrimenti di fallire lo scopo) si presentino senza dubbio. Accenniamo a quegli aspetti di questa necessaria “continuità dialettica” che ci sembrano i più importanti e che danno qualche luce sui problemi della situazione più particolarmente attuale. Da una parte vi è una questione di primordiale importanza che riguarda il carattere clandestino e combattente, oggi, del partito ed il rapporto tra il partito e le masse proletarie. L’avanguardia comunista organizzata in partito fa politica in prima persona, prima, durante e dopo il processo rivoluzionario. Agisce direttamente (cioè non solo orientando l’iniziativa di massa, benché faccia ciò in ogni caso) nei modi e coi mezzi adatti al momento e alle circostanze. In questa fase l’esperienza storica nei paesi a capitalismo avanzato ha dimostrato che la forma clandestina e combattente del partito è la sola a consentire questa azione in prima persona del partito. Ciò non vuol dire naturalmente che nella società socialista il partito mantenga la forma clandestina e combattente. In questa fase il partito è legale e l’uso della forza è attribuito agli organi della dittatura proletaria. Per quanto concerne il rapporto tra il partito e le masse, in ogni caso e in ogni fase, il partito non dimentica mai che uno dei punti cardine di ogni disegno politico della borghesia (che è l’obiettivo che il partito attacca per scompaginarlo) è quello di condizionare il consenso o almeno la passività e la rassegnazione del proletariato come massa e di isolarne le avanguardie. È sempre ben conscio che l’intervento delle masse a livelli di consapevolezza man mano crescenti è condizione indispensabile perché si attraversino i momenti decisivi del processo rivoluzionario. Anche al livello più basso non vi è confronto di classe, se non nella misura in cui vi sono protagoniste le masse.
La distruzione dello Stato borghese nella situazione rivoluzionaria non avverrà mai se non in virtù della mobilitazione delle masse. La lotta di classe sotto la dittatura proletaria o coinvolge le grandi masse o di fatto finisce col non esistere proprio.
Dunque il partito nel suo fare politica deve avere in ogni momento presente la necessità di misurarsi col livello di mobilitazione di massa che il suo fare politica comporta. Questa mobilitazione di massa che il fare politica del partito comporta è sempre determinato da due lati. Da una parte il lato oggettivo, rappresentato dal livello raggiunto, momento per momento, dalla struttura (forze produttive e rapporti di produzione) realmente presente. Qui compresi i vincoli internazionali che sulla struttura incidono inevitabilmente, rendendo utopica la prospettiva del comunismo in un paese solo e di conseguenza decisiva politicamente la parola d’ordine dell’unità internazionalista del proletariato. D’altra parte il lato soggettivo, rappresentato dalla capacità del partito di saldare in una visione razionale del mondo gli interessi storici (e cioè obiettivi) del proletariato come classe, con il progetto politico portato avanti per tappe dal partito stesso. La possibilità di un tale rapporto dipende dal fatto che il partito comunista è esso stesso una parte (la parte più avanzata) del proletariato, e si costituisce per rispondere alle esigenze che obiettivamente e storicamente il proletariato si pone nella fase che porta verso la situazione rivoluzionaria e la società della dittatura proletaria prima e verso l’edificazione della società comunista, dopo. E non è – per contro – né una associazione blanquista, né – ancor peggio – anarchica, che rappresenti gli ideali e i progetti di se stessa. Sarebbe completamente errato ritenere che gli sviluppi qualitativi e quantitativi nella struttura, prima e dopo la rivoluzione, producano meccanicamente (come per riflesso) coscienza rivoluzionaria, costituzione del proletariato come classe per sé (autonomia proletaria) e coscienza dell’obbiettivo della ininterrotta trasformazione della società socialista in società comunista. Senza cioè un autonomo intervento di mobilitazione da parte dell’avanguardia nel campo della sovrastruttura. Intervento che costituisce in definitiva la messa in questione culturale dei rapporti di produzione, i quali informano in quantità e in qualità lo sviluppo delle forze produttive. Come del pari sarebbe completamente errato ritenere che questa messa in questione possa avvenire senza considerazione delle tappe che, invece, è necessario attraversare, sia prima che dopo la rivoluzione, tenuto conto di tutte le condizioni oggettive, interne ed internazionali, come se si trattasse di un processo continuo (o, peggio, istantaneo). Il primo errore corrisponde alle innumerevoli varianti dell’ economicismo-movimentismo, il secondo alle altrettanto innumerevoli varianti del volontarismo idealista.
Non è questa la sede per illustrare le deviazioni che la perdita di questa prospettiva comporta per l’azione del partito. Numerosi e attuali esempi sono sotto gli occhi di tutti. Da un’altra parte alcune considerazioni di primordiale importanza si pongono circa la qualità dei quadri chiamati a formare il partito comunista. Bisogna sempre tenere ben presente il carattere di struttura di massima responsabilità che il partito ha fino alla realizzazione della società comunista, e nello stesso tempo il carattere di struttura destinata ad estinguersi nella società comunista per la cui realizzazione esso stesso fortemente opera. Questa contraddizione costituisce per le avanguardie che lo formano un problema di identità, grave, un punto di equilibri permanentemente instabile che non consente per così dire “posizioni di riposo”.
La più grande cura nel selezionare i militanti del partito tra le avanguardie proletarie, non sempre negli esempi storici che abbiamo brevemente esaminato ha dato i risultati sperabili e sperati. Stalin (e prima di lui Lenin) fu costretto ad istituzionalizzare periodiche purghe del partito da elementi che vi si infiltravano, sempre più numerosi, con l’intento (più o meno evidente e persino più o meno consapevole) di costruirsi una situazione sociale privilegiata, almeno per il suo presunto carattere di stabilità. Ciò non toglie che questi elementi potessero ben essere delle avanguardie proletarie, nel senso limitativo di proletari capaci di comprendere l’importanza e di perseguire realmente le finalità di breve periodo poste dal partito. Ma d’altra parte del tutto impreparati a considerare il marxismo come un patrimonio di principi, un metodo, che implica la massima elasticità rispetto alle finalità di breve periodo e soprattutto una totale consapevolezza della direzione verso cui questa mutevolezza si orienta. Direzione che implica la stessa messa in questione del ruolo di direzione proprio del militante. Oggi si può riuscire ad ottenere l’adesione di militanti di ottima fede e ottima qualità che non riescono tuttavia ad andare al di là della identificazione di un obiettivo parziale e/o di breve periodo, caratteristico di una situazione relativamente temporanea, nel quale identificare la realizzazione di una propria socialità attraverso l’adesione all’ organizzazione rivoluzionaria. Una certa parte dei consensi più marcatamente proletari alle OCC in Italia negli anni 70 ha avuto questo carattere negativo. Il fenomeno può facilmente riprodursi ed in misura anche più grande in una situazione rivoluzionaria e post-rivoluzionaria. Il partito ne risulta sclerotizzato e facile preda di disegni reazionari. Da un’altra parte, specialmente negli strati proletari più privilegiati, meno sensibili alle finalità di carattere parziale o immediato, l’ insofferenza verso lo stato di cose presente può manifestarsi come adesione verbale (ma anche allo stesso tempo di “spiritualità profonda”) a identità di cittadinanza utopica, la cui attualità è puramente predicatoria e le cui attuali realizzazioni si manifestano come testimonianze personali, capaci anche di grande spirito di sacrificio individuale, ma dal punto di vista della politica comunista, totalmente nulle. Anzi perfino tendenti più o meno consapevolmente al loro contrario, cioè alla realizzazione di piramidi gerarchiche moltiplicate all’ infinito e costituite (nella apparenza) sul grado di fedeltà ed abnegazione ad un’idea e (nella sostanza) sul grado di servitù a strutture sociali privilegiate. Nel caso del linpiaoismo storico abbiamo trovato un esempio (drammaticamente cresciuto all’interno di un gigantesco episodio di lotta di classe) che, nella nostra storia recente in misura più limitata, si è verificato nelle aree influenzate da OCC più marcate da una collocazione di piccola borghesia proletarizzata, tipo PL. È chiaro che da una religione all’altra il passo è breve e che il dissociazionismo ne è una pratica connaturata. La pericolosa vicinanza di questi generi di ribellismo di sinistra al ribellismo di destra è del tutto naturale e l’uso che la borghesia ne ha fatto nel passato non è facilmente dimenticabile. Anche attualmente si potrebbe con una certa facilità ottenere l’adesione di avanguardie proletarie o semiproletarie verbalmente “comuniste” di questo genere. Il partito che ne risulterebbe sarebbe una debole struttura che rapidamente si disgregherebbe sotto la pressione del’uso reazionario che la borghesia ne farebbe. I rischi presenti in certi filoni di antimperialismo, ecologismo, antinuclearismo attuali in Europa, caratterizzati dal più spinto ribellismo ed anche da un disinvolto uso delle armi, non dovrebbero essere fuori dalle nostre preoccupazioni. In ogni caso, ed in particolare nei confronti delle avanguardie in lotta inserite nella produzione, compito del partito non è quello di respingere i militanti che si avvicinano alla organizzazione, ma per contro quello di elevarne il livello con un lavoro di propaganda.
Il compito a cui non possiamo sottrarci, di delineare il nostro progetto futuro, che (inutile dovrebbe essere ripeterlo) in nulla si distingue dalla realizzazione dell’interesse storico del proletariato, ci obbliga al costante paragone con le esperienze storiche della rivoluzione proletaria, nei suoi successi e nei suoi fallimenti, ed al compito di trarre dalla esperienza storica gli insegnamenti qui ed oggi rilevanti. Le argomentazioni sopra esposte vogliono essere un contributo al dibattito su questi temi.
RISTRUTTURAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO, LOTTE PROLETARIE, INTERVENTO DEI COMUNISTI.
In questi ultimi anni, a partire dalla fine del periodo di espansione economica, con il manifestarsi della crisi mondiale dovuta alla sovrapproduzione assoluta di capitale, in ogni paese capitalista si è manifestata una precisa tendenza alla ridefinizione in senso reazionario dei rapporti economico/politico/sociali che regolano le democrazie borghesi. Ciò si evidenzia nel processo di accentramento dei poteri da parte dello Stato, nello svuotamento progressivo delle tradizionali forme di democrazia di base che la classe ha conquistato con anni di dure lotte, come il diritto all’organizzazione orizzontale nei luoghi di lavoro, nello smantellamento di una certa “rigidità” nell’organizzazione, nel mercato del lavoro, ecc.
Proprio in questo ultimo campo si assiste sempre più alla messa in discussione dei criteri che sino ad oggi hanno regolato la compravendita della forza lavoro ed alla loro riformulazione in senso ben preciso, consono alla tendenza generale dell’ involuzione reazionaria della società.
Entrando nel merito della questione, vediamo ad esempio che nel mercato del lavoro le leggi, i criteri e le condizioni che lo regolano, stanno progressivamente eliminando tutti quegli elementi di “rigidità” e tutte quelle conquiste ottenute dalla classe operaia e dal proletariato più in generale, con anni di lotta.
Infatti, se nel periodo di “espansione economica”, esistendo per i padroni relativi margini economici dentro cui fare concessioni (comunque sempre al di sotto delle rivendicazioni proletarie) lo scopo di leggi, accordi, ecc., era principalmente quello di “contenere” lo scontro sociale cercando di ingabbiare le grandi lotte proletarie sul terreno istituzionale, facendo a questo scopo concessioni atte a conseguire un se pur relativo “consenso” (è questo il caso dello statuto dei lavoratori); nei periodi di crisi, mancando questo margine di manovra, la mediazione tra interessi borghesi e interessi proletari diviene problematica ed il “consenso” lascia sempre più il posto alla coercizione, nonché ad un generale attacco sul piano ideologico ai valori di classe.
Questo processo di ristrutturazione del mercato del lavoro rende evidente il fatto che, in periodi di crisi, per la borghesia occorre ristabilire le regole del gioco in generale e nel particolare di questa questione, in quanto la concorrenza spietata tra capitali richiede un mercato del lavoro flessibile che permetta di aumentare costantemente la produttività ed abbassare i costi (in particolare quelli relativi alla forza lavoro); il capitalismo dal “volto umano” va allora messo in soffitta, i principi di egualitarismo eliminati ed in loro vece va posta l’esaltazione del profitto, dell’individualismo e della meritocrazia.
La crisi impone infatti sia ai singoli padroni che agli stessi Stati capitalisti, di adeguarsi a questa necessità, pena la perdita di competitività e la possibilità stessa di restare sul mercato mondiale.
Ciò comporta sia in rapporto al mercato del lavoro, che al processo lavorativo una tendenza a livello mondiale basata su un’accresciuta mobilità occupazionale e geografica della forza lavoro, adattamento della forza lavoro alle fluttuazioni della domanda (calcolo del tempo di lavoro su base annua, stagionale, ecc.), una liberalizzazione totale nell’assumere o licenziare, un’erogazione salariale legata al rendimento ed ai profitti, ecc.
Le conquiste operaie del precedente ciclo economico, le regole stabilite in una fase di espansione economica, quindi incompatibili con la fase in corso, diventano un intralcio alle esigenze di valorizzazione del capitale in questa fase, e vanno quindi spazzate via; questa situazione fa sì che la “garanzia” di un posto di lavoro per tutti (se pure ottenuto a spese dei popoli oppressi), grande miraggio dell’utopia capitalista e base di consenso della socialdemocrazia e dei revisionisti dei paesi occidentali, si dimostri irrealizzabile per lungo tempo all’interno del processo di valorizzazione del capitale e che ,in conseguenza della crisi mondiale, venga quindi messa in discussione “la possibilità di un lavoro per tutti”, dimostrando come sia impossibile sottostare alle leggi oggettive del movimento di capitale e garantire a tutti una casa, un lavoro, un diritto alla salute, ecc., come quindi le conquiste momentanee di un ciclo di lotte non garantiscano dei punti fermi, ma per garantirsi ciò, diritto al lavoro, alla casa, ecc., per il proletariato sia necessario prendere il potere, organizzare la produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza sulla base del proprio potere e delle contraddizioni di sviluppo date, in un processo rivoluzionario ininterrotto per tappe sino al comunismo.
La situazione sopra descritta, la tendenza mondiale alla flessibilità, evidentemente, non è uguale in ogni paese, essendo essa il prodotto delle condizioni economico/sociali all’interno della crisi in ogni singolo paese, nonché dei rapporti di forza tra le classi all’interno dello stesso, ma assume alcune caratteristiche simili che fanno sì che nei vari paesi capitalistici si possano delineare alcune caratteristiche comuni che rappresentano già una triste realtà per milioni di lavoratori condannati ad una condizione di lavoro sottopagata e precaria, alternata a veri e propri periodi di disoccupazione. Alcuni dati in proposito ci dimostrano infatti che negli ultimi 15 anni nei paesi dell’area OCSE la disoccupazione è passata da circa 10 milioni di unità a circa 35 milioni, con una crescita costante al di là delle oscillazioni “tra ripresa e ricaduta” dovuta alle controtendenze all’interno della crisi. Tale tasso di disoccupazione dopo oltre 5 anni di costante salita non discende sotto l’11%.
In Italia negli ultimi 10 anni i disoccupati sono aumentati dell’84%: nel 1977 erano infatti poco più di un milione e mezzo, nel 1987 sono circa tre milioni.
Nel periodo tra il marzo 1982-1988 in Francia circa un milione di lavoratori ha perso il lavoro stabile, mentre altrettanti si sono trasformati in lavoratori precari, comprendendo in quest’area contratti determinati, lavoro occasionale, part-time, il “falso lavoro indipendente”, che comprende per lo più lavoro in appalto, ma per un cliente “dominante” che spesso è l’ex datore di lavoro. In Germania Federale nell’87 un terzo della popolazione attiva lavora part-time, a tempo determinato o in “proprio” (tenete presente l’esempio, sopra esposto, sul falso lavoro in proprio). In Gran Bretagna dall’81 all’87 i lavori a tempo pieno sono diminuiti di 1.070.000 unità, gli altri lavori sono aumentati di 1.700.000 unità rappresentando il 36% della manodopera. In Italia secondo il Censis due milioni di lavoratori hanno un lavoro discontinuo e irregolare, tenendo presente che tali dati sono al ribasso non contando i lavoratori stranieri, i minori e le “casalinghe” che ogni anno perdono e trovano il lavoro, contando i quali il numero si raddoppia. L’attuale situazione occupazionale nei paesi OCSE verte infatti sull’alternarsi di due fenomeni: precarizzazione generale del posto e delle condizioni di lavoro e aumento del numero dei disoccupati. Nel complesso i due fenomeni producono flussi di entrata e di uscita dal mondo del lavoro, che sono in realtà una mobilità forzata da una sottoccupazione all’altra, in un mix tra lavoro precario ma con i libretti, lavoro nero, extra legalità, ecc., con livelli sia di stagnazione nello stato di disoccupazione, nei confronti della forza lavoro più adulta e meno qualificata (con progressivo aumento dei disoccupati di lungo periodo per i quali non resta che il lavoro nero), sia con una elevazione dell’età in cui si accede al lavoro, con relativo impoverimento generale delle famiglie proletarie costrette a provvedere al mantenimento dei figli. Ed è proprio in virtù di questa doppia situazione che il fenomeno disoccupazione non ha ancora assunto la caratteristica di “esplosione sociale” che ci si attenderebbe, sebbene tale situazione prolungata nel tempo non può che acuire le contraddizioni di classe nella società. Questa situazione non è però dovuta come i padroni, i revisionisti, ed i ricercatori prezzolati del Ministero del Lavoro vorrebbero far credere da un’eccessiva rigidità delle regole del mercato del lavoro, (che impediscono un flusso regolare tra domanda e offerta), dall’espulsione oggettiva che sempre producono le nuove tecnologie, o errori in materia di politica del mercato del lavoro; in realtà essa è la conseguenza della crisi di valorizzazione del capitale, e la conseguenza di questa crisi delle controtendenze che la borghesia e i vari Stati attuano per restare nel mercato mondiale, e che vedono nell’utilizzo precario della forza lavoro, e nella disoccupazione di lunga durata, nella creazione di una fascia secondaria del mercato del lavoro con condizioni di sottosalario, (il sweat-shop americano) un loro cardine. Sia per attuare una produzione basata sulla flessibilità, sia attraverso un uso capitalistico delle nuove tecnologie che cercano di rendere sempre più manipolabile l’intero processo lavorativo con l’eliminazione dello stoccaggio, delle scorte, sviluppando un modello lavorativo legato alla variabilità delle differenti gamme richieste dal mercato, per cui il prodotto deve essere pronto nella quantità e nel momento richiesto, per cui in ogni ramo della produzione e dei servizi prevale la “filosofia” del meglio un lavoratore fisso in meno che uno in più, rispondendo alle esigenze produttive con aumento degli straordinari, assunzioni a termine, subappalto e lavoro nero, aumento delle prestazioni, degli orari, ecc.
Queste misure messe in atto dalla borghesia e dai vari Stati non servono però a superare la crisi ed a rilanciare un nuovo periodo di sviluppo, ma solo ad ingenerare (in alcuni casi per breve periodo) riprese circoscritte all’interno del periodo di crisi generale, amplificando così ogni qual volta la contraddizione iniziale; non è questa la sede per un esame approfondito della questione, ne basti un accenno per mettere in risalto che la logica con cui vengono messi in atto determinati processi di ristrutturazione, risulta in ultima istanza inutile a contrastare la tendenza di fondo della crisi.
In questa sede si vuole invece, alla luce di quanto sopra scritto affrontare nel particolare la questione delle modificazioni che sono avvenute e stanno avvenendo nel nostro paese nell’ambito del mercato del lavoro, nelle condizioni di lavoro e la loro connessione con l’atteggiamento dei padroni, del governo, dei sindacati e del proletariato in rapporto a queste modificazioni in corso.
Per cercare le origini di questa ristrutturazione, dobbiamo risalire all’incirca alla metà degli anni settanta (nei primi anni della crisi) allorché inizia a manifestarsi una certa inversione di tendenza nei criteri che regolano il mercato del lavoro; in questi anni, infatti, l’introduzione di nuove tecnologie nel processo produttivo comporta notevoli modificazioni sia rispetto all’organizzazione del lavoro, caratterizzati dalla segmentazione della catena, tramite il disaccoppiamento delle fasi di lavorazione con creazione di polmoni di scorte intermedi che consentono una certa autonomia delle diverse fasi di lavoro, razionalizzazione o il decentramento dei singoli segmenti, dell’automazione, ecc., che alle condizioni entro cui avviene la compra-vendita della forza lavoro: espulsione massiccia di forza lavoro; utilizzo sfrenato della Cassa Integrazione; blocco del “turn-over”, ecc.
A queste manifestazioni della tendenza che inizia a delinearsi in questi anni, il sindacato accettando i criteri di compatibilità , di fatto contribuì con l’adozione della cosiddetta “politica dei sacrifici”, la stipulazione degli accordi che concedevano ai padroni il massimo di disponibilità su mobilità, festività, ferie, ecc. e, più in generale, con l’accettazione del criterio padronale che vuole il salario operaio “variabile dipendente” dei profitti padronali e che si sviluppa anche sul piano ideologico con la sudditanza all’utilizzo strumentale dei nuovi processi innovativi in chiave sostanzialmente reazionaria che la borghesia fa (attacco ai valori egualitari da sempre patrimonio del movimento operaio, propaganda massiccia dei valori borghesi della meritocrazia, dell’individualismo, ecc.).
A proposito di questi processi innovativi negli ultimi anni si è fatto un gran parlare su un presunto venir meno della centralità della classe operaia e contemporaneamente su di una (sempre presunta) trasformazione qualitativa dell’organizzazione del lavoro in seguito alla introduzione delle nuove tecnologie.
Si rende perciò necessaria una breve parentesi, in realtà; Primo: la innovazione tecnologica non ha significato maggior professionalità per la maggioranza dei lavoratori, ma solo specializzazione per una cerchia ristretta di tecnici e sprofessionalizzazione per la stragrande maggioranza della forza lavoro, che poi questa oggi abbia maggiori titoli di studio, è dovuto alla scolarizzazione di massa, ma non riflette la mansione svolta. L’automazione cioè ha prodotto nuovi mestieri altissimamente qualificati (quali progettisti, analisti, ecc.) che interessano una parte minoritaria della forza lavoro impiegata, mentre per la stragrande maggioranza dei cosiddetti “nuovi lavori” si tratta di mansioni di operatore o controllore a basso livello di qualificazione. Le stesse esigenze di mobilità aziendale e di polivalenza interfunzionale di produzione (in cui tutti devono fare di tutto), la diminuzione degli aspetti di professionalità basati sul mestiere, dimostrano proprio questa avvenuta dequalificazione.
Si può quindi affermare che la sprofessionalizzazione, dovuta ai processi innovativi, allarga le file del proletariato industriale coinvolgendo professioni che godevano privilegi nella fase precedente.
Secondo: l’innovazione tecnologica che ha determinato l’espulsione di un gran numero di lavoratori, indebolendo la capacità di contrattazione di chi restava al lavoro, ha prodotto solo in parte un aumento di produttività, che è stato invece ottenuto (ancora una volta) con il peggioramento delle condizioni di lavoro ed il maggior sfruttamento della forza lavoro restante. Nell’ottantasei, ad esempio, l’aumento di produttività ha battuto ogni record superando il 4,5% ed in due anni più del 10%, questo dato è omogeneo a tutta l’industria, coinvolgendo perciò anche i settori non interessati, o interessati solo marginalmente all’automazione della produzione e dell’informatizzazione.
Alla Fiat la produzione è aumentata, ad esempio in tutte le aree anche nei reparti solo sfiorati dall’innovazione tecnologica, con aumenti del 30%, 50%, 80%. Come si vede, dunque, l’aumento di produttività è stato dovuto solo in parte ai processi di innovazione tecnologica, ma tale innovazione ha comportato una tale “rivoluzione” del processo produttivo, da determinare un aumento dello sfruttamento operaio tramite l’aumento dei carichi di lavoro, della mobilità interna ed esterna, dell’arbitrio dei quadri, con l’imposizione del recupero del tempo perduto anche in caso di guasti o carenze nell’organico (imposizione cioè di fornire la produzione “in ogni caso”), determinando oltre al notevole peggioramento delle condizioni di lavoro, un aumento considerevole degli infortuni a causa dei ritmi massacranti, nonché di macchinari spesso degradati, ecc. (si pensi che nel solo 1985 sono stati denunciati – dati INAIL – 2.012 casi di morte sul lavoro con una media di 6 al giorno; 905.088 infortuni “ufficiali” dato che la portata reale è spesso superiore di 4-5 volte quello ufficiale come rivelano per esempio chiaramente le varie denunce operaie sulle pressioni della Fiat affinché non si denuncino infortuni o li si declassi a malattia). Così come l’uso massiccio dello straordinario sia contrattato che selvaggio (giornate lavorative di 10/12 ore, compresi sabato e domenica e 3° turno), nonché l’attivazione dei premi salariali e dei “circoli di qualità” (aree con lavorazioni omogenee che vengono messe in competizione con altre del medesimo settore) sottoposte ogni mese ad una vera e propria gara di qualità “con premio finale”.
Gare e premi salariali, collettivi e legati ai vari indici tra cui la presenza, hanno l’evidente scopo di ingenerare una competizione continua all’interno dell’area e di creare una collaborazione nelle squadre contro l’assenteismo, spingendo gli operai a diventare “poliziotti” gli uni degli altri al fine di armonizzare automazione, flessibilità e lavoro operaio nella contraddizione controllo gerarchico e consenso. Ripristinando i reparti confino per i “meno prestanti” (le tristemente famose UPA del gruppo Fiat) come invalidi, ecc., e per gli operai più combattivi, allo scopo di isolarli dal resto dei lavoratori e col massiccio uso dei licenziamenti e dell’induzione “all’auto-licenziamento”, in particolare per quei lavoratori considerati dall’azienda improduttivi (in realtà di quegli operai che mostrano maggior resistenza all’offensiva padronale, basti ricordare il caso Fiat del 1980, che ha agito da capofila nel settore).
Sviluppando infine una tendenza al decentramento di fasi decisive del ciclo produttivo con il diffondersi di piccole e piccolissime aziende in cui il tasso di occupazione è di difficile controllo, operando per lo più al nero e con, nel contempo, un aumento delle ditte appaltatrici che lavorano all’interno delle grandi fabbriche, con ulteriore disgregazione degli operai.
I dati sopra riportati sinteticamente, su cui sarà necessario tornare in altri articoli per ragionare sull’attuale processo lavorativo in fabbrica, possono aiutare a comprendere come la classe operaia continui quindi a costituire il cuore della produzione capitalistica, il luogo in cui avviene l’estrazione del plusvalore, nonostante le riorganizzazioni e la ristrutturazione dell’organizzazione del mercato del lavoro: la sua centralità non è quindi messa in discussione da questi processi, ciò che invece lo è, è il modo entro cui avviene lo sfruttamento operaio. Questa riorganizzazione ha infatti determinato un peggioramento delle condizioni di lavoro e di quelle entro cui avviene la compra-vendita della forza lavoro. 
Riportando il discorso alla fine degli anni 70 e sino al 1983, si può dire che questi processi ristrutturativi si sviluppano sul terreno delle modifiche inerenti il processo lavorativo, i licenziamenti, la Cassa Integrazione ed il blocco del turn-over; l’attacco è portato in prima persona dal grande padronato (Fiat in testa) con un ruolo indiretto dello stato (mediazioni, finanziamenti alle aziende, ecc.) e la convivenza suicida del sindacato. Il sindacato infatti, dalla fatidica svolta dell’EUR, posto di fronte alla crisi, reagisce riconoscendo appieno le compatibilità capitaliste, le esigenze di mercato, ecc., allontanandosi sempre più dalla difesa, anche minima, degli interessi della gran parte del proletariato, sempre più burocratico e verticistica (esautora, cioè, in modo autoritario le strutture di base, i consigli di fabbrica, ecc.) inserito in organi collegiali pubblici e dunque sempre più ammanicato con il potere; illuso di poter cogestire le scelte di politica economica del grande padronato e dello Stato.
Un sindacato non solo riformista dunque, ma sempre più rivolto a compiacere governo e padronato, dando la sua disponibilità alla partecipazione della gestione della crisi a livello sociale, ricercando la propria legittimazione da parte dello Stato e dei padroni, e non in rapporto con i lavoratori. Un sindacato che all’interno della crisi economica non può più conciliare difesa del sistema e difesa delle condizioni operaie seppur al ribasso, e sceglie come strategia l’idea di conciliare difesa dell’economia nazionale e politica di sacrifici dei lavoratori nell’immediato, in compenso di un recupero futuro sia dal punto di vista economico, che politico. Come queste fossero pie illusioni la crisi attuale del riformismo e delle confederazioni che nel migliore dei casi cercano nelle teorie del “liberal Dahrendorf” nuovi orizzonti strategici, sta a dimostrarlo. L’originaria politica dei cedimenti si è infatti rivelata via via giustificazione per ulteriori cedimenti, ed in quanto a recuperi economici e politici per i lavoratori, il salario medio operaio e le discriminazioni sindacali alla Fiat la dicono lunga sul come ciò non è avvenuto.
Il 1983 rappresenta un anno di svolta nel processo di controriforma del mercato del lavoro in Italia, in quanto da un lato è l’anno in cui avviene una vera e propria svolta nell’utilizzo della cassa integrazione sia ordinaria che straordinaria, da allora in poi massicciamente adoperata da gran parte delle aziende italiane sia come forma di ammortizzatore sociale, (dal momento che garantisce un reddito se pur ristretto ai lavoratori, senza il quale il conflitto sociale tenderebbe a radicalizzarsi), sia come forma di ricatto sui lavoratori (se scioperi rischi la cassa integrazione) ed ancora come forma per espellere le avanguardie di lotta ed i lavoratori considerati poco produttivi (anziani, invalidi ecc.) e limitare il potere sindacale, ed infine come regolatore della produzione in funzione delle esigenze del mercato (è questo soprattutto il caso della cassa integrazione ordinaria).
Ma ancor più è un anno di svolta poiché lo Stato entra direttamente nel conflitto tra capitale e lavoro, tramite l’accordo Scotti dell’83 e con la legge 869 dell’84 di conversione dei vari decreti e di attuazione di altre clausole dell’accordo che sancisce il “diritto” dei padroni alle libere assunzione riducendo inoltre il salario e, più in generale, gli spazi di agibilità conquistati con anni di lotta.
Tale manovra governativa realizza questi obiettivi attraverso la revisione del meccanismo della scala mobile ed il contenimento degli aumenti retributivi (che con l’accordo Scotti taglia del 20% la contingenza sui salari e col decreto Craxi di tre punti cioè di un altro 40% la scala mobile); attraverso la definizione della durata minima di 3 anni e mezzo dei contratti nazionali contro i due precedenti, ed il blocco della contrattazione aziendale per un periodo di 18 mesi, ancora attraverso lo scardinamento dell’articolo 5 dello statuto dei lavoratori (controlli sulle assenze malattia) con l’imposizione di quella specie di “arresti domiciliari” che rappresenta l’obbligo di restare al proprio domicilio durante le fasce orarie, pena la sanzione disciplinare (anche nel caso venga riconosciuta la reale malattia) e la perdita di indennità di malattia per l’intero periodo di assenza: con la limitazione della cassa integrazione, per cui da “licenziato” con una forma di reddito si diventa licenziato a tutti gli effetti con reddito zero, infine con l’affossamento della chiamata numerica che costituisce un pesante attacco al “diritto al lavoro”, in quanto reintroduce una forma più palese di discriminazione nelle assunzioni, cioè in base alla discrezionalità dell’azienda; tramite la facoltà di assunzione nominativa per il 50% delle richieste numeriche, con i “contratti di solidarietà” e con i contratti di formazione e lavoro, questi ultimi permettono alle aziende il rinnovo del turn-over, con 2 anni di prova sul lavoratore, salario d’ingresso e una regalia di circa 2 mila miliardi l’anno da parte dello Stato e perciò non a caso sono diventati oggi la maggior forma d’assunzione (nota 1) riducendo nel complesso le assunzioni numeriche al 5% della totale forza lavorativa avviata al lavoro.
Inoltre l’ampliamento della possibilità di ricorrere al part-time ed alle assunzioni a tempo determinato, e le basi di una nuova legge sul mercato del lavoro che in seguito dovrà sancire anche in forma di principio ed attraverso determinati organi di gestione, la cosiddetta “deregulation” (osservatorio, agenzia del lavoro, ecc.).
L’accordo Scotti e la legge 863 si pongono perciò come secondo momento di attacco (nella fase di ristrutturazione del mercato del lavoro) delle conquiste proletarie ed indicano chiaramente i successivi passaggi a cui lo Stato e grande padronato si apprestano. L’approvazione della legge 56 del febbraio 87 (nota2) ed i vari provvedimenti presentati dal governo Craxi e poi ripresi in alcuni punti nel programma del governo De Mita rappresentano questo sviluppo.
Tutti i provvedimenti sinora accennati, gli organismi istituiti ed i processi di ristrutturazione messi in atto, rappresentano una vera e propria modifica del mercato del lavoro e del collocamento in particolare che, da organismo con funzioni assistenziali, clientelari, mediatrici, diviene tendenzialmente strumento di controllo-orientamento del mercato del lavoro a puro uso padronale. Ognuno di questi organismi ha infatti funzioni specifiche, ma tutte funzionali a questo riordino del mercato del lavoro; le commissioni e sezioni circoscrizionali (strutture mobili per il controllo immediato e capillare della forza lavoro) sono preposte innanzitutto alla razionalizzazione ed al coordinamento della miriade di uffici di collocamento, premessa di una più funzionale schedatura dei proletari senza lavoro, per la gestione della chiamata domiciliare dopo aver ormai ovunque eliminato la chiamata pubblica, considerata fonte di “disordine sociale” in quanto momento di aggregazione dei disoccupati.
La meccanizzazione del collocamento avviata in alcune regioni italiane e sbandierata come conquista dal sindacato, è al contrario lo strumento necessario a rendere funzionali questi organismi per effettuare la schedatura di massa.
Nota 1: Nel solo gruppo Fiat nel 1988 si sono avute 14.000 assunzioni soprattutto con contratto di Formazione e Lavoro.
Nota 2: La legge 56 prevede un adeguamento alle nuove esigenze padronali, degli organi di gestione del MDL, con l’istituzione di  commissioni e sezioni circoscrizionali, una Commissione Regionale per l’Impiego, gli osservatori sul MDL generale e regionale, le agenzie del lavoro.
Le Commissioni Regionali per l’Impiego sono un organismo di governo del mercato del lavoro locale (composto da componenti del potere centrale e locale, padroni e sindacato) ed hanno ampi poteri di stabilire, anche in deroga alla legge nazionale, ulteriori assunzioni con chiamata nominativa di disoccupati di altre circoscrizioni, possono esprimere pareri sulla cassa integrazione straordinaria, proporre corsi professionali, stabilire convenzioni con imprese. Hanno quindi lo scopo di canalizzare la forza lavoro a seconda delle esigenze capitalistiche (dei piani di sviluppo, investimenti, ecc.) creando casti bacini di forza lavoro regionale flessibile.
Gli Osservatori Regionali e l’Osservatorio Generale che centralizza l’opera svolta da quelli regionali funzionano da centri di rilevazione ed elaborazione dati sull’andamento del mercato del lavoro, di centralizzazione della schedatura dei disoccupati, che fanno anche con scheda propria, oltre a quella già compilata dai disoccupati al momento dell’iscrizione al collocamento.
Questi osservatori sono il centro di elaborazione dati della forza lavoro e sul suo utilizzo, il luogo in cui vengono ulteriormente elaborate le politiche tese a far conciliare (finché possibile) esigenze padronali e necessità del “consenso”, nonostante questo risultato sia sempre meno perseguibile e la loro azione resti perciò sempre più tesa ad orientare i flussi di forza lavoro verso i settori più produttivi per il capitale e di fornire indicazioni sulle cosiddette “zone e situazioni a rischio” rispetto alle quali si tende sempre più ad operare con il bastone in mancanza della “carota”, con buona pace dei trattati sociologici sfornati da vari osservatori (militarizzazione dei quartieri, degli uffici di collocamento, comunità alloggio, ecc.).
Le Agenzie del Lavoro sono il luogo in cui l’attività di ricerca degli osservatori e degli altri organismi si trasforma in atti concreti ed in provvedimenti operativi: sponsorizzate in questi anni dal sindacato come “organi tecnico-progettuali capaci di creare nuovi posti di lavoro” (e così presentati dalla legge 56) sono in realtà l’ente che farà da intermediario tra domanda e offerta di forza lavoro, canalizzando la forza lavoro più debole verso forme di lavoro fittizie e precarie (i cosiddetti “lavori socialmente utili”: i cantieri per disoccupati, ecc.).
Se questi sono gli organismi che dovranno gestire il nuovo mercato del lavoro, gli aspetti più rilevanti delle leggi che definiscono il nuovo mercato del lavoro sono: A) la facoltà di allargare la percentuale di contratti a termine. B) la concessione di ulteriori deroghe alla già misera percentuale di chiamate numeriche. Concessione questa già sancita da varie convenzioni regionali (padroni-sindacato) e dal recente accordo Sindacati Confindustria che oltre a riconfermare i contratti di formazione e lavoro (peraltro peggiorandoli, definendo cioè norme che prima non lo erano, e facendolo al livello più basso, ha reso più difficile o chiuso del tutto possibilità di contrattazione a livello decentrato) ha inserito la possibilità per le aziende di assumere il 10% dell’organico con contratti a termine di durata da 4 a 12 mesi, contratti che per essere attuati non hanno bisogno di rispondere a nessuna esigenza di ordine produttivo, ma che sono il ricatto che i padroni impongono per assumere giovani sotto i 29 anni e bassa scolarità e disoccupati di lungo periodo oltre i 29 anni. Si noti bene che per stabilire il 10% non si contano gli altri contratti a termine richiesti invece dall’azienda per esigenze produttive. C) l’eliminazione delle chiamate numeriche nell’apprendistato, perché l’elevazione sino a 29 della qualifica di apprendista e l’assunzione degli stessi per lavori stagionali nell’artigianato. D) l’instaurazione della clausola che prevede in caso di rifiuto per due volte consecutive da parte del disoccupato del lavoro propostogli (qualsiasi lavoro: nocivo, massacrante, ecc.) la perdita del diritto ad ogni tipo di indennità di disoccupazione e la cancellazione dalle liste di collocamento.
Come si vede si tratta di un’ulteriore passo avanti di quell’opera di definizione dello strapotere padronale, nonostante sia stato stralciato (per il momento) il provvedimento relativo alle chiamate numeriche che costituiscono, congiuntamente alla possibilità di poter licenziare su cui insistono in ogni occasione i padroni oggi, una delle principali conquiste operaie da abbattere, sebbene più come principio che altro, in quanto come si è già visto oggi, in base alle varie leggi e deroghe, nei fatti sono pressoché inesistenti.
Questo decreto-legge (di riforma delle chiamate) rappresenta uno dei provvedimenti del governo De Mita che si differenzia dall’impostazione padronale solo per il fatto che prevede la generalizzazione della chiamata nominativa ed una quota minima di chiamate da una lista per le “fasce deboli” (una sorta di “lista dei disperati”) seppur sempre con chiamata nominativa e su questa impostazione incontra l’assenso sindacale, mentre il mondo padronale spinge maggiormente per l’abolizione di qualunque obbligo di assunzione tout-court lasciando i problemi dei disperati allo Stato, questi due diversi atteggiamenti si spiegano col ruolo che deve svolgere lo Stato nella ricerca della maggior “stabilità, governabilità” possibile, conseguibile tramite la mediazione di interessi diversi.
La riforma della Cassa Integrazione è un’altra questione sulla quale il governo ha nefaste proposte tese a porre fine alla Cassa Integrazione a lunga scadenza, e che sono esplicate nel progetto del ministro Formica.
Il principio è molto chiaro in materia; infatti prevede dopo un periodo di Cassa Integrazione (che in ogni caso non potrà superare i tre anni salvo ulteriori proroghe) la possibilità per il padrone di mettere in mobilità i lavoratori.
Le forme che poi vengono proposte per “ricollocare” i medesimi, sfiorano il ridicolo; essendo basate su un tentativo di armonizzare liste di mobilità e liste di disoccupazione che, vista l’attuale situazione costituirebbero di fatto un’unica lista di disoccupazione, costante. La messa in mobilità, prevede inoltre una notevole diminuzione di reddito, prevedendo un’indennità di 30 mesi inferiore al trattamento salariale d’integrazione ed il cui importo dopo i primi sei mesi viene progressivamente ridotto ogni 5 mesi; come si può ben capire, ciò significa la perdita di ogni forma di reddito nel giro di due anni e mezzo.
Ma oltre l’aspetto salariale/economico, vi è quello più propriamente politico dal momento che perdendo con la messa in mobilità, la titolarità del posto di lavoro viene di fatto indebolita la capacità contrattuale dei cassaintegrati ed ostacolate le lotte per la difesa del posto di lavoro, con una perdita complessiva dell’identità del collettivo. La messa in mobilità assume quindi due connotazioni ben precise: l’isolamento e la progressiva perdita di reddito fino a trovarsi in breve tempo nell’ampia schiera dei disoccupati, insomma, in definitiva se la Cassa Integrazione è sempre stata l’anticamera dei licenziamenti, la proposta di riforma della stessa è il licenziamento immediato e di massa, teso a troncare ogni legame con chi resta al lavoro o chi viene messo in mobilità, e tra i cassaintegrati stessi spinti a cercare soluzioni individuali.
Sempre in questo campo vale la pena di ricordare inoltre quell’ennesimo provvedimento anti proletario che è costituito dalla proposta “dell’irriducibile” Giugni rispetto alla riforma del meccanismo che regola il licenziamento individuale, questa riforma sposterebbe da 15 a 19 il limite numerico al di sotto del quale il padrone non è tenuto a motivare il licenziamento (una vera e propria beffa nei confronti dei proletari che da anni lottano per eliminare ogni limite numerico e ottenere che in tutti i casi il padrone motivi il licenziamento); per le aziende con non più di 80 dipendenti eliminerebbe l’obbligo di riassunzione in caso di licenziamento illegittimo (introducendo una sorta di penale a titolo di risarcimento); concederebbe inoltre al padrone la possibilità di sospendere il lavoro a tempo indeterminato facendo ricorso alla magistratura affinché sia il giudice ad intimare il licenziamento. Nel periodo compreso sino al passato ingiudicato della sentenza (premesso che il giudice abbia ritenuto validi i motivi del licenziamento, ma possiamo essere sicuri che questo non avverrà per almeno il 90% dei casi), periodo che dura almeno 4 o 5 anni, il lavoratore resterebbe così privo di salario, che gli verrebbe corrisposto in seguito solo se riconosciuti infondati i motivi del licenziamento. Questo ultimo dato rappresenta tra l’altro un incentivo all’auto licenziamento, dato che è ben difficile che dei proletari possano resistere 5 anni senza salario.
Come si può ben capire da quanto sopra esposto, le misure già attuate e quelle in via di attuazione, non ultime le proposte di ristrutturazione del pubblico impiego, tendono ad eliminare le conquiste più significative del movimento operaio e proletario del nostro paese in merito all’uso e alla vendita della forza lavoro. Questa vera e propria ristrutturazione del mercato del lavoro in senso reazionario, iniziata a partire dalla metà degli anni 70, ha avuto e ha tutt’oggi essenzialmente due scopi strettamente collegati tra loro: da una parte creare le condizioni per una costante diminuzione del costo del lavoro e per il massimo di discrezionalità da parte padronale rispetto all’utilizzo della forza lavoro, cercando di creare la competizione tra occupati e non, tra chi ha un lavoro stabile e chi precario.
Dall’altra, eliminare tutte quelle espressioni di rigidità operaia, l’egualitarismo e la contrattazione collettiva, nonché tutte quelle forme di organizzazione proletaria che permettono ai proletari di sentirsi parte integrante di un’unica classe e non individui isolati di fronte ai padroni; insomma, sconfiggere ancora una volta il proletariato del nostro paese sul piano politico.
Tuttavia, se queste sono le intenzioni del governo e del grande padronato, bisogna pur dire che la realtà non si svolge esattamente come i loro desideri. Se oggi come oggi possiamo dire che si è avuta una certa restaurazione dei rapporti di forza tra borghesia e proletariato a favore della borghesia, dobbiamo comunque riconoscere che essa non si è svolta con la linearità che potrebbe dedursi da quanto sinora esposto. Come tutti i fenomeni ed i mutamenti sociali, essa si è infatti svolta nel vivo della lotta di classe, il proletariato del nostro paese ed in particolare la classe operaia ha infatti intuito i reali termini dello scontro ed ha combattuto duramente contro questa ridefinizione del mercato del lavoro, che iniziava per linee generali circa dieci anni fa, ed a tutt’oggi ben lungi dall’essersi affermata e consolidata, proprio a causa di questa capacità di lotta e di resistenza del proletariato. La pesantezza dell’attacco, l’avversità degli interessi della stragrande maggioranza del proletariato da parte delle direzioni sindacali, la messa in campo da parte della borghesia di una serie di strumenti tesi a far “accettare” in qualunque modo la “validità” del capitalismo (da quelli coercitivi a quelli di propaganda ideologica), della meritocrazia e dell’individualismo suoi corollari, (utilizzando a tale scopo i soliti pennivendoli del regime, ex rivoluzionari, ecc.); l’assenza o la presenza incostante dell’avanguardia rivoluzionaria nello scontro sociale, non hanno impedito momenti di mobilitazione e di lotta sia in singole aziende che più in generale a livello nazionale, dalla lotta dei 35 giorni alla Fiat nell’80, a quelle dei cassintegrati e disoccupati in più parti d’Italia, dalle grandi mobilitazioni contro il taglio della scala mobile, sino alle grandi lotte dei portuali di Genova ed alla bocciatura degli accordi sindacali in merito ai contratti nelle maggiori roccaforti del movimento operaio, per giungere sino alle recenti lotte dei Cobas, degli operai di Bagnoli, dell’Alfa di Arese e Pomigliano, ecc.
L’insieme di queste lotte ha messo in evidenza come in questa fase le mobilitazioni proletarie (che pure hanno avuto il limite di essere essenzialmente difensive), a differenza degli anni 70 in cui si individuavano essenzialmente la controparte nel padrone di ogni singola azienda, oggi proprio a causa del maggior intervento a cui in questa fase è chiamato lo Stato (ed in particolare il governo tramite le politiche congiunturali), individuino sempre più non solo il padronato, ma anche il governo e le politiche da questo messe in atto, come diretti responsabili delle condizioni proletarie.
Questo fatto caratterizza queste lotte, pur nella semplice difesa delle passate conquiste, come lotte oggettivamente antigovernative.
Anche per ciò che concerne questo aspetto delle politiche antiproletarie messe in campo dal governo e dal grande padronato, il proletariato italiano ha dunque mostrato la capacità di individuare non solo i diretti responsabili ma il terreno su cui occorre contrapporvisi, quello più propriamente politico nonostante ciò si affermi più come dato oggettivo che come coscienza acquisita, e questo costituisce un importante elemento di cui i comunisti devono tener conto nel proprio agire.
Un altro significativo elemento è dato dal fatto che tutte le questioni generali inerenti il mercato del lavoro, interessando di fatto tutti i settori del proletariato (occupati e non) stabiliscono oggettivamente un legame tra essi e mostrano come questa classe pur nella frammentazione delle varie figure che la compongono, sia accomunata da un interesse unico sulle questioni generali.
Non è un caso che proprio questo dato sia oggetto di mistificazione da parte della borghesia e che essa cerchi di contrastarlo in ogni modo. A questo proposito il ricatto occupazionale, oltre a rispondere a precise esigenze di produzione, funziona a meraviglia allo scopo di dividere il proletariato tra occupati e non; tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri, nonché all’interno della stessa fabbrica, per ottenere un certo grado di “pace sociale”.
Nello specifico di quanto sinora trattato (ristrutturazione del mercato del lavoro e lotte in merito) possiamo vedere che i “contenuti più avanzati”, quelli che possono essere considerati politicamente qualificanti perché contribuiscono ad accomunare i vari settori di classe favorendone così la riunificazione sul piano politico e perché rispecchiano l’interesse generale del proletariato, sono rappresentati dalla opposizione al processo di “deregulation” in atto in questo campo: dalla lotta, cioè, ai vari provvedimenti tramite cui oggi si concretizza questo processo, come la chiamata “nominativa”, i “contratti a termine”, di “formazione-lavoro”, l’istituzione delle agenzie di lavoro, la riforma della cassa integrazione guadagni speciale. Così come l’opposizione più generale a considerare il salario variabile dipendente dall’andamento dei profitti aziendali, la forza lavoro a completa disposizione delle esigenze produttive (vedi l’idea di una “flessibilità selvaggia”) ecc.
Temi ed obiettivi come quelli appena accennati infatti, riaffermando il diritto proletario alla “rigidità” dell’organizzazione e del mercato del lavoro e più in generale al lavoro, pur mantenendo un carattere difensivo (tendendo più ad opporsi allo smantellamento delle conquiste passate che non alla rivendicazione di nuove), acquistando un notevole significato politico se si pensa che proprio questo genere di conquiste hanno consentito negli anni al proletariato italiano di porsi all’avanguardia della lotta di classe a livello internazionale.
Il proletariato del nostro paese ha già dunque individuato in questa contro riforma un nuovo attacco alle condizioni proletarie, un loro peggioramento per ciò che riguarda la compra-vendita della forza lavoro, che accentua la divisione nel suo seno e concede alla borghesia maggiori possibilità di manovra. Ha capito insomma, che tramite questa ristrutturazione vengono messe in discussione la conquiste di anni di dura lotta.
Per i comunisti si tratta allora di operare affinché da questa prima consapevolezza si giunga a quella più generale che mette in relazione le condizione proletarie contingenti con la natura stessa del sistema sociale, e come questo processo di acquisizione e crescita della coscienza di classe, questo percorso cosciente che scaturisce dalla dialettica tra movimento antagonista di massa e avanguardia comunista, non possa avvenire in modo automatico, né darsi da un giorno all’altro. Esso è un processo graduale che può compiersi solo se la soggettività comunista riesce a svolgere correttamente il proprio ruolo: individuando costantemente i temi e gli obiettivi che occorrono ad unire i vari settori di classe ed a farli partecipi della coscienza di essere una classe unica, con un interesse generale medesimo, ed approntando su questo gli elementi del programma politico attraverso cui passa il rapporto (politico) con la classe.
Nello specifico delle questioni sinora affrontate va considerato il modo in cui i comunisti possono articolare il loro intervento politico in merito alla ristrutturazione del mercato del lavoro, sia per ciò che concerne al cuore dello Stato (linea politica), sia per ciò che riguarda il rapporto (dialettico) con la classe (linea di massa) e quello più specifico teso a rafforzarvi, estendervi e radicarvi la presenza del partito tramite la costituzione di proprie strutture (lavoro di reclutamento e costituzione di cellule). Nel passato, ad esempio, da parte dell’avanguardia comunista combattente a questo problema sono state date risposte diverse e quasi sempre errate, allorché da una parte essa disperdeva il proprio intervento politico nell’attacco alle strutture periferiche in cui vengono resi operanti i provvedimenti che regolano la compra-vendita, della forza lavoro (uffici collocamento, ecc.), dall’altra, sottovalutando l’importanza del lavoro di organizzazione, propaganda ed agitazione che la presenza costante dell’avanguardia comunista nelle situazioni proletarie deve garantire, identificandolo in più casi (e quindi sostituendolo) con il lavoro di reclutamento, finendo così per non risolvere correttamente alcuno degli aspetti su cui deve articolarsi la politica rivoluzionaria (lotta politica, lotta di massa, lavoro di reclutamento). Oggi si tratta perciò di rivedere (anche alla luce della riflessione autocritica della passata esperienza), il ruolo dei comunisti nello contro sociale anche per ciò che riguarda questo aspetto particolare delle politiche antiproletarie messe in atto dal governo e dal grande padronato, e delle lotte proletarie in merito.
In base ai criteri generali precedentemente fissati possiamo allora dire che nello specifico della questione “ristrutturazione del mercato del lavoro”, rispetto alla “lotta politica” va affermata la necessità di indirizzare l’offensiva al centro politico in cui determinati provvedimenti vengono elaborati. Non più, dunque, iniziative “diffuse” che di fatto “disperdono” e sviliscono il carattere ed il significato politico che deve assumere l’iniziativa armata, ma azioni “centralizzate” dal partito ed indirizzate contro il personale responsabile a livello politico di detti provvedimenti.
Per ciò che riguarda la lotta di massa, i temi e gli obiettivi consoni all’interesse generale del proletariato che l’intervento del partito tramite il combattimento contro il progetto politico dominante della borghesia contribuisce a rendere evidenti, vanno sostenuti nella classe tramite il programma politico e per mezzo della presenza costante dell’avanguardia comunista alle lotte proletarie in merito.
Questi temi e questi obiettivi sono rappresentati da quelli su cui la classe si sta già mobilitando (opposizione al processo di “deregulation” in atto) e di cui si è detto, Ma anche in questa situazione, nel lavoro quotidiano nella classe cioè, i comunisti devono far di più del limitarsi a sostenere i contenuti già espressi dalla classe. Essi devono innanzi tutto mettere in evidenza il carattere peculiare costituito dal fatto che concorrono ad unire in una sola lotta i vari settori di classe e, contemporaneamente, rilanciare costantemente su di un piano politico, perché dall’individuazione di questo governo come responsabile delle odierne condizioni proletarie, si giunga a quella più generale che vuole il governo come organo ed espressione della classe dominante.
Alla coscienza, perciò, della sua estraneità alla necessità della classe proletaria, alla trasposizione, in definitiva, del conflitto sociale in atto sul piano (politico) della lotta tra due classi antagoniste.
In questo lavoro la continua denuncia della svendita sindacale e revisionista degli interessi della maggioranza del proletariato della loro strategia suicida e inconcludente, è fondamentale affinché la classe proletaria si liberi da queste paralizzanti influenze, ricerchi forme proprie autonome di rappresentanza e le ricerchi su un piano non prettamente economico.
Perché, infine, sia messo in grado di individuare nel partito ( che i comunisti devono necessariamente fondare, il PCC) il rappresentante reale dell’interesse proletario nei confronti dello Stato borghese e dunque nel corso dello scontro sociale, (tendenzialmente) ne riconosce la direzione politica.
Infine, per ciò che concerne l’ultimo aspetto dell’intervento politico del partito (lavoro di reclutamento) va detto che esso tanto non può essere considerato avulso dal contesto politico-sociale in cui viene effettuato, tanto non deve essere frammischiato e sovrapposto al lavoro più generale di propaganda e agitazione che i comunisti svolgono nel proletariato per farvi maturare la coscienza di classe.
I comunisti devono al contrario cogliere, per così dire, ogni “occasione” che si presenti nei momenti di lotta e di aggregazione proletaria, per svolgere (contemporaneamente al lavoro inerente alla lotta di massa), il reclutamento di quelle singole avanguardie di lotta che abbiamo dimostrato di possedere non solo la coscienza dei propri interessi immediati, ma di quelli più generali di classe, una coscienza comunista, perciò, che permetta loro di costituirsi in struttura di partito (cellule), tramite cui dirigere politicamente la classe nello scontro sociale.
La costituzione di strutture di partito nella classe va dunque considerata come un processo distinto (seppur in rapporto dialettico) da quello in cui la classe in quanto tale si auto organizza in strutture politicamente autonome (oggi, ad esempio, i COBAS/autoconvocati, ecc.).
Al contrario, i comunisti ricadrebbero nell’errore passato di “spaccare” i vari momenti di aggregazione proletaria per costituire strutture di sole avanguardie rivoluzionarie (nell’esperienza passata “le brigate del collocamento”).
Questa logica gruppettara va assolutamente rigettata ed è tempo che ne venga acquisita una molto più dialettica, che sappia tener conto di tutti gli aspetti sui cui deve articolarsi una politica rivoluzionaria senza sovrapporli o (al contrario) non considerarli nel loro reciproco rapporto dialettico.
Una logica, insomma, da partito, quale necessariamente oggi l’avanguardia comunista combattente deve possedere.

SUPERARE IL SOGGETTIVISMO E ABBATTERE IL REVISIONISMO
AFFERMARE LA TEORIA MARXISTA LENINISTA!
VALORIZZARE L’ESPERIENZA DELLA LOTTA ARMATA
APPROFONDIRE IL DIBATTITO E DEFINIRE IL PROGRAMMA!
LAVORARE CON DECISIONE ALLA FONDAZIONE DEL PCC!

Campagna sulle fabbriche – Opuscolo n. 17 (stralci)

Prospettive strategiche e rilancio della campagna sulle fabbriche.

Premessa indispensabile per un rilancio della campagna sulle fabbriche incentrata sul processo al porco Tagliercio (sic), è mettere in evidenza i caratteri fondamentali che la DS 80 delle B.R. ha lanciato come indicazione generale, che hanno vissuto in maniera diversa all’interno della nostra O. e in altre frazioni del partito in costruzione.

Prima di tutto il concetto di campagna. La campagna di combattimento nella fase della conquista delle masse alla L.A. x il C., non può vivere aldifuori dell’analisi del movimento del capitale, dello stato del partito, dei settori di classe. È dentro l’arco di una intera congiuntura che si consuma questo triplice rapporto e lo riporta ad un livello diverso, superiore della contraddizione e dei rapporti di forza tra le classi. Per questo si è detto che la campagna D’Urso andava a chiudere un intero ciclo di lotte e portava a compimento la battaglia iniziata il 2 ottobre. Dentro questo arco di tempo politico, le determinazioni del Potere Rosso, hanno portato con la conquista della chiusura dell’Asinara, quindi con la conquista di un elemento del programma immediato del PP, alla fine di una congiuntura. Questo intendiamo per congiuntura.

All’interno di essa, muoversi per Campagna significa elaborare un programma in cui attraverso le necessarie battaglie, il partito e gli OMR vanno alla definizione e alla conquista del P.I. Nella campagna Tagliercio, è vissuto un primo momento di tutto questo: cioè l’approccio alla definizione di un programma generale di congiuntura su uno strato di classe centrale, la classe operaria delle grandi fabbriche. È vissuto perché si è posto a partire dai caratteri generali della congiuntura riferiti sia ai movimenti del capitale sia ai movimenti di classe, andando a precisare i contenuti centrali. È stata cioè l’impostazione di partire dalla testa, dai caratteri unificanti, che può permettere di arrivare alla determinazione dello stesso rapporto di potere nelle mille articolazioni delle lotte e dell’organizzazione autonoma della classe.

Come la campagna D’Urso si poneva in termini unificanti rispetto ad un intero strato di classe, i PP, così la campagna Tagliercio (in un rapporto di forza diverso perché diverso è nella classe operaia il livello di accumulo di forza operaia organizzata) rispetto alla classe operaia delle grandi fabbriche. Solo a partire da questi necessari passaggi pensiamo sia possibile determinare il terreno dei Programmi immediati, senza correre in errore di confonderli con obiettivi di lotta espressi da porzioni parziali di ciascun settore di classe. (…)

Per questo riteniamo sbagliata la concezione che definisce la campagna come possibilità di tradurre, trasformare, concretizzare e sviluppare il programma generale di transizione al comunismo in programmi specifici di potere. Dove sta l’errore? Sta nel racchiudere forzosamente all’interno di una battaglia tutti i passaggi necessari che caratterizzano un’intera congiuntura, saltando in modo del tutto arbitrario e soggettivista, il problema di definire un arco politico di tempo le caratteristiche generali in cui la singola battaglia vive, cioè il problema della definizione del programma generale di congiuntura entro cui si danno molteplici battaglie. Proprio perché le campagne si debbono articolare in strati diversi di classe, definire esattamente le contraddizioni dominanti della congiuntura si può evitare l’errore di ripetere nella forma e non nella sostanza, esperienze vincenti diverse. Cioè definire la campagna un “punto di non ritorno”, per evitare di imbalsamarla, significa evidenziare un passaggio fondamentale dell’agire da partito in un specifico strato di classe, in una dinamica precisa del rapporto rivoluzione-controrivoluzione. (…)

Si tratta, per gli altri strati di classe di fare la stessa operazione politica tenendo ben presenti gli effetti immediati e strategici che ogni singola battaglia sviluppa sul doppio terreno dell’attacco al cuore dello Stato e della conquista delle masse alla lotta armata. (…)

Il compito fondamentale in questa congiuntura è la costruzione degli OMR per il passaggio alla fase della guerra civile dispiegata.

Dicono i compagni nella 7° tesi dell’Ape: “Questo passaggio non appare oggettivamente possibile senza che siano stati pazientemente fabbricati tutti gli strumenti organizzativi che la situazione richiede. Senza cioè che il PM abbia conquistato la capacità politico-militare di manifestare la sua forza in maniera unitaria, ma nelle forme molteplici che la sua complessa struttura rivendica”.

Cosa deve sapere il partito per favorire e determinare la “paziente fabbricazione” degli strumenti organizzativi necessari? Deve individuare, in un programma generale di congiuntura le sue forme immediate e congiunturali. Questo lavoro comporta necessariamente un’analisi dei settori di classe (CO, lavoratori dei servizi, proletariato marginale, PP) rispetto alla collocazione che assumono nel MPC. Questa analisi non sopporta quindi arbitrarie approssimazioni, né confusione tra i vari settori, nella individuazione della contraddizioni principali che un programma di partito propone. L’asse centrale, i fili a piombo di questa analisi è la ristrutturazione dell’apparato produttivo che nel suo piano generale provoca profonde modificazioni anche negli strati di PM diversi dalla CO, legati marginalmente o del tutto tagliati fuori dal ciclo produttivo. Aggredire l’aspetto dominante della contraddizione che ogni specifico settore di classe non deve fare mai sì che si spezzi quest’unità dialettica con questo stra    to di classe centrale, la classe operaia occupata. Questa è l’unica condizione che garantisce, nella specificità delle situazioni, di non annegare tutta la proposta nelle particolarità contingenti in cui possono venire a trovarsi porzioni del PM. (…)

Se la crisi ha spostato progressivamente sul terreno rivoluzionario tutte le componenti del PM, se i piani di ristrutturazione tendono principalmente a dividerle e compartimentarle tra di loro e stratificarle al loro interno, è compito del partito unificarle politicamente, dotando tutte le forze dell’antagonismo dell’unica qualità che le trasforma da eversive a rivoluzionarie, la capacità di essere parte della più grande unità politica di classe per la conquista del potere proletario armato. Nel cartello appeso al collo del porco Tagliercio, la parola d’ordine di disarticolare il meccanismo di controllo e di comando che attraversa il cuore della fabbrica, fino al mercato del lavoro, indica una precisa analisi che pur nella specificità, assume il punto di vista unificante entro la crisi del MPC, tiene conto delle scelte principali della borghesia che condizionano il modo di vivere, di organizzarsi e di lottare di tutto il PM. In questo senso SABOTARE QUESTO PIANO NEI VARI SETTORI DI CLASSE, individua qui e subito l’asse portante su cui può dispiegarsi l’offensiva di massa e il terreno di costruzione degli OMR. La campagna Tagliercio si è posta in dialettica con tutta la classe operaia delle grandi fabbriche, partendo da un’analisi dei movimenti generali della ristrutturazione, visti nella loro dinamica evolutiva, individuandone all’interno i punti cardinali contro cui scagliare tutta la forza del partito in costruzione, degli OMR in costruzione, e del movimento di classe: L’ESPULSIONE DI FORZA LAVORO E L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO.

In questo senso tutta l’analisi della multi-nazionalizzazione del capitale, cardine del superamento della divisione tra il capitale pubblico e privato, nel senso “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”. Questa accelerazione da una parte porta il capitale a superare le sue contraddizioni interne, quindi a rafforzarsi, ad una centralizzazione spinta dei livelli decisionali sovranazionali, in cui lo SIM va ad una ulteriore precisazione, dall’altra a ben chiare conseguenze per il proletariato in termini di licenziamenti, stratificazione, perdita di potere, maggior sfruttamento, governo ferreo sul mercato del lavoro. Capire questo salto di qualità nel progetto del nemico, ci aiuta a precisare gli elementi del programma rivoluzionario. (…)

L’attacco delle forze rivoluzionarie al personale imperialista che gestisce la ristrutturazione (processi Sandrucci e Tagliercio) ha toccato, disarticolando, i punti chiave su cui si basa il progetto padronale: espulsione di forza lavoro e nuova organizzazione del lavoro. L’attacco al vice capo dell’ufficio personale dell’ Italsider Ciampi, ha teso ad evidenziare le caratteristiche tutte nuove che l’organizzazione di questa struttura di comando assume nella ristrutturazione. Infatti, come il porco Tagliercio ci ha confermato, l’ufficio personale, assieme a quello di vigilanza oggi viene centralizzato ad un livello superiore della singola azienda, passando nelle scelte strategiche, direttamente sotto il controllo delle direzioni generali. Cioè i padroni, in vista dell’attuazione dei piani di espulsione massiccia di forza-lavoro e di intensificazione dello sfruttamento, danno alle strutture poliziesche di controllo, schedatura, stratificazione della classe, massima importanza. In questi covi si elaborano i piani della controrivoluzione preventiva in fabbrica, i metodi per contenere le tensioni con le collaborazioni sindacali, si studiano i progetti di annientamento militare della classe, si impartiscono le direttive su cui poggiano le scelte di CHI deve essere messo in cassa integrazione, CHI deve essere messo in mobilità, CHI espulso definitivamente dalla fabbrica, CHI consegnato nelle mani della sbirraglia di regime. Non è un caso che il tentativo di corruzione di un’ operaio dell’Alfa Romeo di Arese (100 milioni in cambio di informazioni su possibili “terroristi” in fabbrica) sia stato portato avanti in prima persona dal capo dell’ufficio personale e dal responsabile della sorveglianza.

MA TUTTO QUESTO NON BASTA. L’attacco all’apparato di direzione deve necessariamente legarsi ad un altro compito fondamentale, cioè rendere chiaro qual è il punto più alto di attacco al progetto del nemico DENTRO LA FABBRICA: IL SABOTAGGIO. Quindi individuare il reale terreno di costruzione degli OMR in un programma che facendo perno sul sabotaggio scientifico organizzato permetta la reale disarticolazione della ristrutturazione, di rovesciare a favore della classe il ricatto padronale che si pone come blocco a forme di lotta consumate e spuntate, permette la reale direzione di unificazione da parte dell’avanguardia delle mille articolazioni della lotta e della resistenza spontanea alla ristrutturazione. Solo in questo senso oggi è data la disarticolazione da parte dell’azione di guerriglia: colpire i punti nevralgici su cui poggia il piano nemico e favorire l’organizzazione delle masse conquistandole oggi nell’unica strategia possibile: la lotta armata per il comunismo. Fuori di questa dialettica la critica delle armi si spunta, perde capacità reale di disarticolazione, può essere riassorbita, governata e anticipata dal regime della borghesia. (…)

All’interno dello scontro feroce tra esigenze di ristrutturazione di cui il MPC tenta di ritardare la sua fine e i bisogni politici e materiali della classe vive tutta la possibilità di superare lo stadio dell’antagonismo proletario e trasformare il MPRO in movimento rivoluzionario.

In questo cammino incessante è la lotta alle deviazioni e all’opportunismo che vivono sia nel partito che nelle masse. Nell’offensiva delle forze riv. è emerso con tutta chiarezza un errore di impostazione che può annullare tutti gli effetti dell’attacco guerrigliero. L’errore sta nel fatto che non si tenda a rendere chiari i compiti che le avanguardie di classe debbono NECESSARIAMENTE assolvere in questa congiuntura, cioè il passaggio all’organizzazione clandestina, ma basare tutto il successo dell’iniziativa del partito qualificandolo nel consenso di massa. Battere l’opportunismo che vive nelle masse significa togliergli ogni illusione che fuori dalla costruzione del POTERE ROSSO sia possibile alcuna conquista materiale e politica. Quindi non limitarsi ad esaltare la spontaneità delle masse, ma indicarne anche tutti i limiti, cioè far emergere il NUOVO in un movimento che ha al suo interno anche tutto il vecchio. In questo senso va la proposta dei nuclei clandestini di resistenza, embrioni degli Organismi di Massa Rivoluzionari (OMR).

L’opportunismo che vive nelle OCC sta nel favorire questa falsa coscienza delle masse sostituendosi a loro, assolvendo a tutti i compiti uniti e distinti del sistema del Potere Rosso con la sola azione di partito, lasciando serpeggiare la guerriglia, in definitiva proponendo una sorta di tregua al movimento di resistenza. Non basta affrontare dure battaglie, occorre individuare i punti cardine del progetto del nemico e nello spostamento dei rapporti di forza favorevoli che l’azione di partito determina, individuare il terreno possibile di costruzione dell’organizzazione autonoma delle masse.

Gli OMR non sono diretta espressione del partito, non sono composti solo da comunisti, sono gli strumenti delle masse su cui può fondersi la dittatura proletaria a partire dagli interessi immediati e politici della classe. Per questo la loro nascita e il loro rafforzamento sono indissolubilmente legati alla lotta contro tutto ciò che impedisce e contrasta la ricomposizione della classe attorno ad un programma di potere. Questo in fabbrica vuole dire sabotare, inceppare tutto il meccanismo di controllo e di comando, uomini e macchine, sulla classe, essere in grado di regolare il flusso della produzione in qualsiasi momento, ripristinando un comando operaio sulla produzione, nella parcellizzazione esasperata del lavoro, dell’automazione spinta della definitiva scomparsa dell’operaio professionale.

Solo il sabotaggio di massa, scientifico e organizzato, può oggi attaccare al cuore della produzione i centri nevralgici su cui si basa l’organizzazione del lavoro, dare caratteristica offensiva alle lotte, legare l’azione delle masse organizzate al programma comunista dell’abolizione DEL SISTEMA DEL LAVORO SALARIATO. Ecco perché il sabotaggio dell’ufficio tempista del capannone all’Alfa di Arese dà una chiara indicazione di lotta e organizzazione che può inceppare i delicati meccanismi su cui si basa un momento fondamentale del piano di ristrutturazione nel CUORE DELLA PRODUZIONE, cioè la realizzazione dei progetti elaborati e pianificati ad alti livelli. Il ruolo dei tempisti è oggi quello di realizzare tecnicamente con l’elaborazione a tavolino dei nuovi cartelli del “lavoro”, l’intensificazione dello sfruttamento nella nuova organizzazione del lavoro. (…) Dicevamo nel 2° comunicato della campagna Tagliercio: “La gerarchia di fabbrica si nasconde dietro la pretesa oggettiva di un processo lavorativo governato dalle macchine. L’operaio non ha più davanti il vecchio marcatempo, ma una macchina che funziona a base di tabulati e schede perforate, le cadenze determinate da questa robotizzazione sono elaborate altrove. Ciò significa, semplificando al massimo, che diventa sempre più difficile per gli operai determinare dove risiede la controparte. Lo staff centrale che dà gli impulsi direttivi alla produzione, resta occulto ad un occhio che analizzi in termini semplici e immediati il rapporto che lega la forza-lavoro all’attività produttiva. A partire da questa oggettività, l’organizzazione del lavoro con la collaborazione dei servi berlingueriani e dei bonzi sindacali, mette in atto una serie di strumenti allo scopo di annullare le forme di resistenza che la CO pratica da sempre: dallo sciopero alla microconflittualità, all’assenteismo. Per questo, compagni, per iniziare a costruire gli OMR è necessario sviluppare il terreno di lotta che deve coadiuvare tutto l’antagonismo operaio in forma dirompente e che oggi va individuato nell’apparato di comando e controllo della produzione. Questo attacco deve essere finalizzato alla ricomposizione di interi strati di classe sul terreno della lotta armata il C. (…) Altro punto cardine dell’analisi di un programma di congiuntura riguarda tutte le articolazioni dello Stato nella CO: PCI e sindacati. La costruzione del Potere Rosso passa attraverso l’isolamento politico e l’attacco militare dei peggiori infiltrati della borghesia nella classe operaia; oltre al ruolo di spie e delatori, il compito infame di questi parassiti oggi significa fare passare il piano di ristrutturazione attraverso un piano neo-corporativo che consegna la CO mani e piedi legati agli interessi del capitale multinazionale. Analizzare i progetti, individuare le teste pensanti, il drappello che guida la classe dal suo interno, è premessa indispensabile per il loro definitivo smascheramento e reale possibilità di attacco guerrigliero. E liberare la classe di questi nemici dichiarati che con le menzogne e manipolazioni vorrebbero continuare a tenerla legata alle sorti del capitalismo in putrefazione, significa liberare tutte le energie rivoluzionarie che la lotta di classe esprime e che hanno in sé tutti i contenuti del superamento di questo regime in agonia e della transizione alla società senza classi. (…) Abbiamo detto che il MPC attraversa la sua crisi ultima, che le difficoltà sempre maggiori per il capitale di valorizzarsi ormai sono il dato strutturale di tutta la catena imperialista e che il modo con cui ha sempre tentato di risolvere le sue crisi, la borghesia l’ha sempre trovato nella guerra. Guerra per distruggere mezzi di produzione, merci e forza-lavoro, per mettere in moto il meccanismo di accumulazione, guerra per allargare l’area di influenza e rapina per la conquista di posizioni privilegiate nella catena imperialista.

Oggi il capitale si trova al vertice di una piramide e il problema non è risolvere ad un livello superiore la sua crisi, ma di ritardare il più possibile gli effetti devastanti. La guerra non è una possibilità remota, un’ultima carta da giocare, ma è già presente e non potrà che estendersi. È una guerra interna, controriv. preventiva nella metropoli imperialista, è guerra esterna, di conquiste di aree di mercato sempre più ristrette.

SOLO LA RIVOLUZIONE POTRà FERMARE LA GUERRA IMPERIALISTA.

In questo senso il punto di vista operaio più avanzato, che esca dalle strettoie del pacifismo ipocrita è l’individuazione della base materiale su cui l’opera di distruzione del capitalismo poggia: L’INDUSTRIA DELLA GUERRA. Sabotare con ogni mezzo gli strumenti di genocidi di interi popoli, oggi è un punto irrinunciabile del programma operaio che coniuga con il prog. com. di GUERRA ALLA NATO.

Inoltre è l’individuazione del punto più alto della ristrutturazione dell’apparato produttivo in termini di automazione, di controllo militare della classe, integrazione tra capitale e vertici militari. In questo senso fa modello per tutti gli altri comparti produttivi l’azione delle B.R. Alla Oto-Melara, punta di diamante dell’industria bellica in Italia, non solo un preciso terreno di lotta e di organizzazione per la classe operaia occupata in questo tipo di produzione, ma rende chiaro e indica il punto di vista proletario su questo problema, risponde ad aspettative ed aspirazioni di interi strati di classe, da concrete prospettive di lotta alla resa incondizionata dichiarata dai revisionisti e mai accettata dalle masse. La risposta operaia e proletaria a questa iniziativa l’imbarazzo e l’impossibilità da parte dei berlingueriani ad attaccarla, per contraddizioni nate al loro interno, l’incapacità del sindacato di mobilitare contro il “terrorismo” (tutte le assemblee andate deserte), la calata in massa di tutti i super-generali a La Spezia, i rastrellamenti di interi paesi, dimostra la giustezza dell’indicazione e tutte le possibilità che aprono al movimento di resistenza di inceppare dall’interno questo meccanismo. (…)

I contenuti della campagna Tagliercio sono tutti da sviluppare, quello che qui interessa mettere in rilievo sono i presupposti politici su cui si è fondata con la prospettiva strategica che l’ha animata. A partire dai primi elementi del programma generale di congiuntura (movimento del capitale, analisi dei settori, stato del movimento, progetto neo-corporativo sindacale), si è posta tutta in termini evolutivi, tracciando un percorso, l’unico per quanto ci riguarda, l’unico in cui l’azione di partito può realmente investire la classe dei compiti specifici che gli OMR in costruzione debbono affrontare e sabotare nel cuore della produzione il progetto di ristrutturazione; attaccare uomini e strutture del comando; isolare e colpire i nemici infiltrati in mezzo a noi; dirigere ed unificare il movimento di resistenza; dare il reale contenuto offensivo alle lotte perché tutte interne ad un programma di costruzione e di conquista dei programmi politici mediati. La dialettica che durante la campagna si è instaurata tra le B.R. e il movimento di classe è andata ben oltre la tensione tutta nuova con cui la classe ha dibattuto i contenuti della proposta dell’ O., ma si è concretizzata sopratutto a Marghera dove l’attacco portato era il punto più alto di un percorso preciso in cui correttamente, pur negli evidenti limiti precisi, azione di partito ed espressione degli OMR in costruzione hanno vissuto in stretta dialettica senza confusione di ruoli e unanismi (sic) forzosi. Il riconoscimento di massa nelle sue forme spontanee ed organizzate della direzione delle B.R. sullo scontro di classe rappresenta tutta la forza della campagna ma anche tutti i suoi limiti. Superare questi limiti significa sviluppare la campagna Tagliercio, delineare il programma di congiuntura, costruire e rafforzare gli O., costruire e rafforzare i programmi politici immediati.

OGGI LA COSTRUZIONE DEL PARTITO È UNA RICHIESTA IRRINUNCIABILE DEL MOVIMENTO DI CLASSE È CONDIZIONE INDISPENSABILE PER L’AVANZATA DEL PROCESSO RIVOLUZIONARIO; SULLE FABBRICHE LE B.R. ATTESTANO LA LORO POLITICA E LA LORO PRATICA MILITANTE AFFERMANDOSI SEMPRE PIU’ COME PARTITO CHE COSTRUISCE IL PARTITO.

NEL CUORE DELLA PRODUZIONE, NELLA FABBRICA SI SCATENA LA CRISI CAPITALISTICA; DAL CUORE DELLA PRODUZIONE SI SVILUPPA LA LOTTA ARMATA PER IL COMUNISMO, E SI COSTRUISCONO GLI STRUMENTI DEL POTERE PROLETARIO; IL PCC E GLI OMR.

Agosto 1981

 

Bozza di riflessione sugli arresti di settembre – Documento interno 1989

Per comprendere i passaggi salienti che hanno costituito il processo di riadeguamento dell’O, all’interno della RS fino alla sua attuale situazione vanno considerati due piani:

1) Quello del contesto attuale dello scontro.

2) L’altro relativo alle dinamiche che fanno vivere l’O. in questo scontro. Piani dialetticamente connessi ma che separeremo nell’analisi per meglio individuare, nel processo discontinuo che dall’82 ad oggi ha segnato un percorso di avanzate e ritirate, di sviluppo non lineare nella coscienza che ne ha acquisito l’O.

Analizzare questi passaggi salienti è necessario per entrare nel merito delle contraddizioni e leggi di movimento interne ad una FR. che agisce in un paese capitalisticamente avanzato in modo da non isolare i fatti specifici dal contesto generale che li produce. All’interno va valorizzato per intero il bilancio interno sintetizzato dall’allora Esecutivo in carica.

Lo stato generale dei rapporti di forza usciti dalla controrivoluzione degli anni ’80 determinarono condizioni durissime nel lavoro rivoluzionario, si trattava e si tratta di ricostruire i complessi termini politico-militari della guerra di classe al livello dato dallo scontro all’interno della presa d’atto che l’attività della controrivoluzione oltre a ridisegnare i termini del rapporto politico tra le classi ha materialmente scoperto (scompaginato nel senso di ambiti toccati, conosciuti dalla controriv) l’ambito di riproduzione delle avanguardie (in senso relativo ovviamente e non assoluto) soprattutto nei poli industriali e serbatoi storici di riferimento e di riproduzione delle BR. La necessità di ricostruzione si pone prima che nella coscienza d’O. come esigenza politica impellente oggettivamente dovuta all’approfondirsi dello scontro avvenuto sia sul piano politico generale che rivoluzionario anche perché il dato storico e politico raggiunto dallo scontro di classe in Italia è tale che a fronte della controrivoluzione ha fatto sì che permanessero ampi margini politici di recupero e rilancio dell’attività rivoluzionaria. Il processo Prassi/Teoria/Prassi che si sviluppa all’interno della Ritirata Strategica, per quanto non lineare, permette all’O., misurandosi con lo scontro, di prendere coscienza del tipo di contraddizioni che la controffensiva dello Stato e gli effetti della controrivoluzione nel campo Proletario hanno immesso al suo interno.

È superfluo entrare in questa sede nell’analisi delle condizioni interne che hanno prodotto la logica difensivistica in quanto ampiamente trattata nel Bilancio interno e testimoniata dall’oscillazione nella Teoria/Prassi dell’attività svolta dall’82 fino alla battaglia politica con “seconda posizione” Ci interessa qui mettere in evidenza un aspetto dì quel periodo che solo nel medio periodo ha prodotto i suoi effetti negativi. Ci riferiamo alle modifiche avvenute nel modulo Politico-Organizzativo giustificate dal momento eccezionale e che dovevano essere temporaneamente adottate.

L’incapacità di uscire da questa eccezionalità per le contraddizioni politiche sopraddette ha comportato un impoverimento del corpo militante poiché privato del mezzo e del modo (la strutturazione del modulo) per formarsi e disporsi confacentemente al lavoro politico in regime di clandestinità e compartimentazione. Questo impoverimento ha favorito il verticismo delle sedi dirigenti e il prodursi non governato di dinamiche centrifughe e di gruppo, la perdita in ultima istanza del senso storico e politico della funzione dell’O. Un indebolimento che si ripercuoteva in negativo nel processo di riadeguamento in senso generale e nello specifico del processo di ricostruzione e di ricambio dei quadri dirigenti. Abbiamo messo in rilievo questa contraddizione perché importante dell’acquisizione da parte dell’O. del complesso funzionamento di una forza rivoluzionaria poiché in virtù dell’impianto Politico-Militare si sviluppa e agisce dentro ai criteri di un Esercito Rivoluzionario. Il difficile percorso di riadeguamento subisce una svolta quando insieme al ricentramento dell’analisi del quadro di scontro vengono analizzati questi nodi essenziali a cui l’O. doveva dare soluzione. Inizia così un periodo di commissariamento volto a ristrutturare e ridisporre il corpo militante non solo all’interno del modulo politico-organizzativo fondamentale (Cellule) ma adeguato alla coscienza complessiva che i compiti all’ordine del giorno richiedevano.

Questo processo interno di stretto indirizzo politico e di riorganizzazione necessariamente poteva formarsi solo nella messa in pratica dell’iniziativa d’O. col suo necessario portato, nell’attività di una ferma direzione e di disposizione/organizzazione delle forze che si dispongono sulla linea politica dell’O. A questo punto va tenuto conto che insieme all’approfondimento delle vecchie contraddizioni ereditate dalla sconfitta tattica dell’82 maturavano contraddizioni e problematiche di sviluppo prodotte dal duplice piano di Ricostruzione (interno all’O./esterno di direzione sul campo Proletario) perché il piano rivolto all’esterno implicava ed implica la capacità di effettuare la direzione adeguata alla fase di scontro Rivoluzionario. È evidente che un tale passaggio è divenuto di estrema importanza al fine di assestare il punto di equilibrio necessario affinché il processo di accumulo di contraddizioni e problematiche fosse governato verso la sua risoluzione. Infatti il commissariamento ha svolto questa funzione di governo soprattutto nella fase iniziale del processo avvenuto all’interno di un controllo politico dell’evolvere delle contraddizioni vecchie e nuove. Tutto ciò sino a che il movimento prodotto dalla stessa attività dell’O, non ha posto sul terreno aspettative e scadenze incalzanti. Una dinamica di sviluppo che riversandosi dialetticamente all’interno dell’O. in quel delicato momento di assestamento, ha messo in difficoltà; e punto d’equilibrio tenendo conto del duplice piano di ricostruzione nel lavoro dell’O. Ma non è questo il fattore principale che permette l’errore, il punto critico che ha portato gli arresti di settembre; poiché anche questo movimento era governato seppure dentro una sua maggiore complessificazione, poiché previsto e analizzato dall’allora CE in carica. A questo quadro va aggiunto un altro fattore dell’analisi relativo al doversi misurare con le risposte che lo Stato avrebbe messo in campo sia per contrastare gli effetti politici dell’attività dell’O, sia per il tipo di pressione militare volta a smantellare l’O. Entrambi questi aspetti erano stati analizzati, ma la risposta pratica, le decisioni allora prese non sono state all’altezza di assorbire questo tipo d’urto (come i fatti hanno dimostrato). Quel che importa mettere in rilievo è perché le risposte non sono state adeguate; allora al quadro soprascritto del complessificarsi dei compiti e che ha creato una certa instabilità del punto di equilibrio va più precisamente collocato questo elemento di equilibrio il quale ha a che fare col famoso fattore dell’unità del politico e del militare per quel che riguarda la parte interna all’O.

Sebbene l’ordine di contraddizione sia stato preminentemente di crescita, queste andavano governate tenendo soprattutto conto che implicavano lo sviluppo di una concezione politico militare assai complessa da articolare all’interno (figuriamoci all’esterno in quanto inerente alla definizione delle modalità di sviluppo della guerra di classe). Ovvero non esistono solo risposte politiche o solo militari e organizzative, questi due piani devono vivere all’interno di una stretta interrelazione altrimenti si crea uno squilibrio pericoloso e difficile da ricucire. In parole povere, benché si fossero prodotte molte aspettative politiche, il modo con cui l’O. doveva misurarcisi non poteva solo riferirsi alla capacità di comprensione politica delle problematiche ma il loro affrontamento doveva essere condizionato dai tempi di assestamento militare nel senso più ampio del termine comprensivo anche della capacità di assorbimento organizzativo delle strutture. In questo senso il C..E. in carica pur avendo colto in termini generali il portato dei problemi, venendo meno a questo principio, non è riuscito a governare le risposte e la direzione di movimento soprattutto sul piano della controguerriglia e a fronte dei danni materiali causati dalla trattativa (Soluzione Politica). Era necessario operare un “congelamento” della dinamica di crescita lineare, un tempestivo raffreddamento del processo di riorganizzazione interna compatibilmente a ciò che imponeva i tempi di assorbimento Politico Organizzativo delle strutture anche se ciò avrebbe comportato risposte più lente alle scadenze politiche che l’O. stessa aveva contribuito a maturare. L’aver disatteso a questa realtà è stato nei fatti aver separato il piano politico dall’aspetto militare e organizzativo favorendo la divaricazione del punto di equilibrio tra questi due fattori. Ripercorrendo i passaggi dell’ultimo periodo è chiaro che il governo dello sviluppo dei diversi fattori costituenti l’O. stessa, all’atto pratico é vissuto discontinuamente attraverso successivi strappi in avanti. Il segnale politico che era necessario frenare il movimento era venuto anche dall’esito delle assemblee dei delegati. In quel contesto andava privilegiato l’assestamento delle strutture relativo al reale assorbimento organizzativo, posticipando in un secondo periodo le scadenze politiche della formazione/rinnovamento delle strutture dirigenti. La riflessione che se ne può trarre è che se la ragione di fondo dell’errore che ha favorito gli arresti sta nella rottura di questo punto di equilibrio (nel senso delle decisioni prese che prescindevano da questo) nel contesto del periodo di assestamento e del più generale riadeguamento dell’O., il fattore scatenante, il detonatore che ha acuito questo squilibrio sono state le spinte prodotte dalle scadenze politiche che stavano sullo sfondo. Le scadenze politiche sono dettate da due fattori che interagiscono tra loro: il contesto politico dello scontro tra le classi e l’intervento rivoluzionario in esso dell’O. nel momento in cui è intervenuta in questo modo ha promosso le condizioni per un avanzamento e approfondimento del piano rivoluzionario, posto che va tenuto conto che introno all’attacco l’O. ha lavorato sul duplice piano di costruzione/formazione, il movimento che si è prodotto ha ulteriormente spostato in avanti il terreno che definisce le scadenze politiche sul terreno Classe/Stato. La seconda scadenza sullo sfondo è dettata dalla politica dell’Alleanza sul terreno dell’Antimperialismo e richiede da parte dell’O. il massimo della preparazione politico/militare, il massimo dell’assestamento nella formazione delle forze per le dimensioni dello scontro Antimperialista. Queste scadenze hanno premuto per un loro affrontamento in avanti con tutto quello che ne consegue in termini di modificazioni del piano di scontro e sono maturate nell’attività complessiva dell’O. generando una spinta oggettiva per delle soluzioni linearmente intese. Uno degli errori del C.E. nel definire le direttive di lavoro è stato proprio quello di riferirsi alle scadenze politiche senza concretamente valutare il sopraggiunto livello critico nel processo di assestamento interno dell’O. È bene precisare il senso che bisogna dare al termine “assorbimento organizzativo” in modo da evidenziare la piena valenza politica al di fuori della quale è possibile il rischio di un suo riduzionismo a mero significato tecnico. “L’assorbimento organizzativo” è la cartina al tornasole della capacità della struttura d’O. di saper attivizzare intorno al proprio lavoro tutte le energie proletarie di cui dispone traducendole via via in terreni sempre più stabili di Organizzazione di classe sul terreno della L.A. (reti, strutture, organismi) il tutto all’interno delle indicazioni generali dell’O. Un lavoro deputato a posare la basi, i mattoni fondamentali della fase di ricostruzione. In questo senso l’assestamento logistico e organizzativo nel senso tecnico del termine non esiste in quanto tale ma esso è il prodotto del lavoro politico dell’O. sul campo proletario e quindi di successivi livelli di responsabilizzazione delle Avanguardie verso lo scontro Rivoluzionario. È evidente allora come già nel lavoro delle strutture sia emersa la problematica della qualità della direzione come questione che attraversa orizzontalmente e verticalmente l’O. e che a livello di struttura non poteva che esprimere tutta la contraddittorietà del processo di formazione delle stesse. All’interno di ciò si può comprendere meglio la questione del punto di equilibrio nell’assestamento politico-militare delle strutture e come il complessificarsi dei compiti, i tempi differenti di movimento dell’evolvere delle contraddizioni e delle problematiche hanno creato una “massa critica” con tutto il corollario di errori a catena che ne sono derivati.

Aver analizzato le ragioni politiche ed i piani di contraddizione, non significa annullare nella dinamica di movimento le responsabilità degli errori che ai diversi livelli che si sono manifestati. Al contrario, poiché di volta in volta, seppure in modo frammentato questo quadro era stato focalizzato dal CE, e fatto presente (anche in termini di indicazioni politiche) sono più gravi gli atteggiamenti dei singoli che venendo meno ai compiti e alle direttive hanno fatto prevalere personali modi di condurre il lavoro sino ad episodi di vera e propria indisciplina. Ad un anno dal commissariamento si manifestavano in quasi tutte le strutture contraddizioni e problemi che seppure differenziati su questioni diverse erano originati dal medesimo meccanismo. Il C.E. pensò che fosse dovuto all’eccessivo “accudimento” che il commissariamento esercitava sulle strutture a tal punto da rendere le strutture e i compagni poco responsabili verso il lavoro. Questo perché molte delle contraddizioni si manifestavano anche sul piano politico. In questo senso fu fatto l’errore di una parziale riduzione del commissariamento. Questo fu un errore perché il C.E. si riferì alla manifestazione del problema senza capire che era originato dalla spinta che oggettivamente si era creata dall’attività complessiva dell’O, e che trovava le strutture ancora giovani (problema della giovinezza politica). Quindi conseguentemente il processo di formazione doveva continuare ad essere rigidamente governato misurandolo però sui nuovi termini di riferimento (sicuramente diversi al varo delle strutture).

In tal modo sarebbe stato più facile rapportarsi al grado di “assorbimento organizzativo” in quanto al controllo politico sarebbe risultato immediato e laddove le strutture avevano difficoltà politiche nel lavoro e porre i rimedi opportuni.

Sul piano politico generale a questo stadio del processo Rivoluzionario è necessario elaborare una vera e propria condotta della guerra di classe, per quanto particolare sia, ma anzi a maggior ragione della sua complessità si imponeva questa capacità riferita ovviamente all’atteggiamento tattico da tenere in successivi momenti di sviluppo del processo Rivoluzionario.

 

Tratto dagli atti del processo «Hunt – Prati di Papa»