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Crisi e organizzazione. Dichiarazione processuale di Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi militanti per il PC P-M. Processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”

Diamo un significato alla nostra presenza in questo nuovo e imprevisto processo. Alla luce del nuovo contesto generale e dei significativi cambiamenti nella nostra esperienza, riprecisiamo alcune questioni di orientamento generale.

Partiamo dalla constatazione dello stato di generale arretratezza e incapacità dell’area rivoluzionaria, pur di fronte alle grandi possibilità apertesi con questa crisi generale storica del capitalismo.

È urgente affrontare le contraddizioni in campo per quello che veramente sono e cercare una sintesi progettuale adeguata ai compiti della fase. Purtroppo non si può non rilevare che, da molti anni, le contraddizioni si sono accumulate piuttosto che risolte.

Non si riesce ad andare oltre la riproposizione degli schemi ideologici generali, dei principi fondamentali del marxismo-leninismo-maoismo,  spesso ponendoli  con  pretesa di  autosufficienza e certezza di vittoria (davvero grottesche). Quando la vera questione da affrontare, e risolvere via via nella verifica di nuove esperienze e concreti passaggi politici, è proprio la ricerca di superamento di limiti, errori e contraddizioni che ereditiamo dal passato. Quel passato, soprattutto recente, che ha visto un pesante arretramento del movimento comunista, in generale nelle aree centrali imperialiste, fra cui l’Italia; una caduta verticale della sua credibilità, nonché dell’idea stessa di Rivoluzione.

Si continuano ad usare toni perentori e pretenziosi, ed a proporre modelli ideologico-politici come fossero indiscutibili verità storiche, laddove invece dobbiamo rendere conto delle degenerazioni della prima ondata rivoluzionaria socialista, e dell’incapacità, più particolarmente qui nelle aree centrali, di ricostituirci come significative forze rivoluzionarie a seguito delle sconfitte degli anni ’80. Ciò che peraltro grava pesantemente sulle possibilità di una nuova ondata mondiale di rivoluzioni proletarie.

Tutto ciò richiederebbe un approccio ben diverso. Richiede capacità autocritica e un salto di qualità nel metodo politico, per saper cogliere quegli elementi di novità che ci arrivano dalle dinamiche sociali, incanalandole in una dialettica autentica con le esperienze e le nuove leve di classe.

Perché, se l’impianto ideologico e di partito sono essenziali, lo sono però in relazione ad un processo rivoluzionario che è un movimento d’insieme della classe; e quindi più livelli di coscienza ed organizzazione, che devono essere posti in condizione di contribuire e sentirsi partecipi. Ciò che richiede appunto una dialettica articolata, ed una organizzazione comunista viva ed aperta nel rapportarsi con le dinamiche sociali; al contrario di quel dogmatismo autoritario basato sulla presunzione di verità assolute di linea, sull’unilateralità della sua formulazione e sulla gerarchizzazione burocratica.

La dimostrazione storica dei danni provocati da quest’ultimo è sotto gli occhi di tutti e, ultimo lascito, nel persistere di questa impronta deleteria nella gran parte dei gruppi.

Pertanto basterebbe rifarsi ai passaggi più brillanti della storia rivoluzionaria, nelle loro sintesi potenti come “Stato e rivoluzione” di Lenin (scritto nel pieno del ’17). Per cogliere una visione ben più ampia, viva ed articolata del processo rivoluzionario. In cui certo il Partito ha il suo ruolo fondamentale, ma in funzione di una dinamica complessiva che trova nei Soviet, nelle

Comuni, la forma concreta e partecipata del potere proletario; di quello Stato proletario “che non è già più Stato nel senso proprio del termine”.

Insomma una visione ed una impostazione che, non arroccandosi su indiscutibili certezze ideologiche e su conseguenti procedure burocratizzanti, cerchi di sviluppare un processo rivoluzionario nel vivo della crescita e della sperimentazione da parte di settori sempre più ampi del proletariato.

OGGI

D’altronde, rivenendo all’attualità, stiamo vivendo il paradosso di qualche movimento di massa significativo che si sviluppa proprio con queste caratteristiche di consistenza – per quanto ancora ben lontano da una maturazione da fase rivoluzionaria – a fronte della suddetta pochezza e rigidità della soggettività comunista (qui nelle aree centrali imperialiste) verso questa maturazione dei movimenti di massa. L’attuale precipitazione di crisi ha svelato molto del capitalismo, dei suoi meccanismi, e in tutta la loro brutalità. Così i vari movimenti contro la crisi esprimono già una certa determinazione nell’affrontare il capitale finanziario, in quanto nemico principale; e ciò è tanto più significativo poiché è evidente che dire capitale finanziario non vuol dire limitarsi alla critica di quei settori borghesi usurai storicamente più odiosi, bensì toccare il sistema capitalistico nel suo insieme; di cui il capitale finanziario è il vertice piramidale, il motore, la forma stessa del capitalismo nell’epoca imperialista. Infatti nei punti alti dello scontro – come in Grecia, in alcuni paesi arabi o, anni fa in Argentina e America Latina – i movimenti di massa non solo si radicalizzano e vanno allo scontro frontale con il sistema economico-politico-istituzionale (certo nel limite delle loro possibilità), ma cercano dunque anche di fondare un’alternativa di potere nelle loro pratiche sociali e di lotta ed autorganizzazione (in forme di autogestione di fabbriche e servizi, e della sopravvivenza nei quartieri). Dichiarando apertamente che la soluzione va cercata fuori e contro il sistema. Tipico atto fondamentale a riguardo è il rompere i ponti con i maledetti “mercati”, sia rispetto ai famosi debiti (che incombono sulle popolazioni come terribile arma di ricatto e distruzione), sia rispetto al circuito produttivo.

È chiaro che questi atti non possono compiersi fino in fondo ma, giustamente, pongono quel terreno concreto dove le lotte sconfinano sulla questione del potere, su cui la proposta e la strategia rivoluzionaria possono innestarsi, proprio come strumenti e sbocco necessari per sviluppare e realizzare, quelle aspirazioni di trasformazione radicale.

È proprio la dove la lotta diventa cruda lotta per la sopravvivenza, e contro il sistema che la nega, che si può coniugare la dinamica rivoluzionaria di partito con le istanze di organizzazione di massa, trovando infine un terreno comune di sviluppo, e quindi d’innalzamento generale del livello di scontro.

Perciò, ovviamente, noi pensiamo che è sempre d’attualità tutta la costruzione di strategia, programma, e linea, sintetizzata nella formula del PC(P-M). Esso è il polo essenziale, il motore per attivare questa ampia dialettica finalizzata all’apertura del processo rivoluzionario. Secondo quelle forme e caratteri adeguati alla nostra realtà sociale, in parte già “scoperte” e provate dal ciclo di lotta rivoluzionaria degli anni ’70, in parte da scoprire nella concreta sperimentazione di questo nuovo ciclo. E unico modo per concretizzare qui, nelle aree metropolitane imperialistiche, la teoria generale della Guerra Popolare Prolungata. Il processo rivoluzionario può concretizzarsi solo come stretta dialettica fra l’azione politico-militare di partito e i movimenti di massa, in un susseguirsi di salti di qualità, di passaggi politici che sostanzino una maturazione ed un innalzamento reale del livello di scontro fra le classi. Immaginare il processo rivoluzionario al di là di questa concreta corrispondenza è puro elitismo di partito e/o militarista.

PC(P-M) riassume i caratteri acquisiti storicamente della forma partito, nello sviluppo delle fasi storiche dell’affrontamento Rivoluzione/Controrivoluzione. In particolare deve essere

l’assunzione dell’unità del politico-militare; per poter cioè essere quel preciso soggetto politico, il Partito Proletario di lotta per il potere, in grado di interagire con la dinamica di massa.

L’attuale arretratezza del percorso della sua costruzione impone di chiarire e superare tutta una serie di pesanti retaggi.

Dicevamo già del dirigismo autoritario della concezione assolutizzante/unilaterale del partito; concezioni che discendono dall’impostazione dogmatico fideistica sul piano ideologico. Le deviazioni sono note: machiavellismo tatticista, rapporto di tipo strumentale con le altre entità del movimento di classe, riduzione degli organismi di massa ad oggetto del proprio operare; alimentando una doppiezza di fondo fra rigidità dirigista e spregiudicatezza opportunistica sul piano dell’articolazione politica. Insomma, una gretta, meschina visione di potere, e del partito come proprietario del processo rivoluzionario. Ciò che peraltro si riflette pure internamente al partito stesso, nelle sue relazioni interne. Quanto questi retaggi pesino sul movimento comunista è evidente, e tanto più quanto se ne è aggravata l’inconsistenza e la marginalità come qui in Italia e Europa. Bisogna porsi il problema di come superarli, nel mentre si costituiscono le nuove forze.

Di sicuro un autentico processo rivoluzionario si impone con le ragioni della vita (come spesso diceva Lenin) cioè, per quanto ci riguarda oggi, rompendo quelle gabbie (tutte quelle forme politiche parassitarie) che impediscono alle energie vive della classe di prorompere e dispiegarsi.

Infatti non si può non constatare che, proprio per sottrarsi a quelle gabbie, parte significativa di queste energie si orienti attualmente verso il movimento anarchico. Proprio per la sua maggiore vitalità e coerenza nella determinazione allo scontro. È il caso su tutti i fronti più accesi, nei vari paesi europei. Unica eccezione di rilievo, il PCE(r) e i GRAPO di Spagna, che, nonostante le riserve che si possono avere su puntuali questioni di linea, costituiscono una notevole presenza con la loro continuità (e nonostante la pesantissima repressione che reggono da sempre). Unico esempio in Europa di presenza politico-militare comunista di una certa consistenza e di solidità politica ideologica. Perno possibile di importanti sviluppi data la fragilità della Spagna nella crisi e nella catena imperialista europea.

In Grecia si vive oramai una fase di crisi gravissima dove la lotta armata è condotta da gruppi anarchici, o nel migliore dei casi, da “anarco-comunisti” come Lotta Rivoluzionaria. Che appunto citavamo nel documento di ottobre 2011 proprio perché esemplare di questa determinazione coerente nonché di una già apprezzabile impostazione politico-organizzativa da processo rivoluzionario (per quanto insufficiente ma in superamento di quelle tipicamente spontaneiste-“nichiliste” che non possono portare da nessuna parte). Colpisce la capacità di queste aree ad inserirsi nei movimenti attuali nelle dinamiche reali, di diventarne fermenti attivi (come qui è evidente rispetto al movimento NO-TAV, per esempio). Può darsi che abbiamo qualcosa da imparare anche da loro? Di sicuro queste forze sono attualmente portatrici di istanze rivoluzionarie, al contrario dei tanti dogmatici scolastici e opportunisti. Perciò a maggior ragione, per riuscire ad orientare le nuove energie verso una strategia comunista è più che mai urgente l’obiettivo PC(P-M); da articolare nell’immediato di un livello di organizzazione comunista armata, che ponga i termini essenziali da costruire: politica rivoluzionaria come esercizio dell’unità p-m, come pratica di lotta armata su obbiettivi e dimensioni da partito, come ponte con la realtà di classe, e cioè come polo di forza armata per dare sbocco e prospettiva alle stesse lotte e rivolte di massa, viceversa condannate alla disperazione. In questo senso va valutata anche la ripresa di iniziativa p-m entro il conflitto capitale/lavoro.

I NUOVI MOVIMENTI: VERSO L’ANTICAPITALISMO?

Le lotte in Italia si confermano ancora nello stato di frammentarietà ed inadeguatezza rispetto all’attacco globale capitalistico. Non si riescono ancora a trovare quei punti di coagulo e generalizzazione che si stanno verificando in altri paesi; e con caratteristiche di nuovi movimenti che, per contenuti e metodi, costituiscono un grande salto di qualità sul piano delle dinamiche di massa. Il movimento italiano più avanzato e che ha addirittura conquistato un carattere di avanguardia di massa, è ovviamente il NO-TAV. Infatti assomiglia a questi altri nel mondo. Esso raccoglie in sé molta pratica di lotta e molti elementi di crescita e maturazione, ponendolo su quella linea di demarcazione dove dalla semplice rivendicazione, settoriale e negoziale, si passa a mettere in questione le regole economico-sociali di sistema. Qui mette in questione l’assoggettamento dei territori (il loro sconvolgimento, dissesto, inquinamento, la disgregazione delle “comunità” locali, la nuova urbanizzazione disumanizzante, ecc) e i comandamenti di “crescita”, “velocità”, “interesse nazionale”. Nonché la nuova autorità sovranazionale dell’Unione Europea, anche essa presentata come indiscutibile con tanto di potere di vita e di morte economica.

E poi c’è l’aspetto politico del modo in cui il movimento si è costruito: Assemblea Popolare permanente, rifiuto della delega, distanza di sicurezza rispetto ai partiti istituzionali, ricostruzione di senso comunitario, pratiche di “futuro”… Tutto ciò ha dato al movimento grande consistenza riuscendo così a superare dure prove e l’impatto con uno dei più alti livelli di militarizzazione del territorio. Infine realizzando quel salto di qualità nel suo divenire riferimento per tante resistenze popolari, in tutto il Paese. Così si è dato quello slancio solidale, con manifestazioni contro la repressione in tante città, dopo gli arresti di febbraio e il ferimento di un militante. Occasione in cui la bandiera NO-TAV è stata assunta come simbolico fronte di opposizione alle politiche di crisi e di massacro sociale.

In questa sua forza e portata sociale e politica, esso si avvicina ai grandi movimenti contro la crisi, generatisi fra le rivolte arabe e gli “Occupy Wall Street”. Essi hanno in comune di essere delle rivolte contro le politiche (e talvolta contro i regimi stessi) prodotte dalla crisi, certo, ma che risaltano anche fortemente i meccanismi inerenti al sistema capitalistico nel suo insieme, nella sua forma di vera dittatura del capitale finanziario. Si percepisce cioè la consapevolezza diffusa, non solo della grande violenza sociale del sistema (di questa dittatura sostanziale, mascherata dallo spettacolo della democrazia formale borghese), ma anche la ricerca di una strada, di una prospettiva di alternativa sociale al sistema dominante.

Slogan come “siamo il 99% contro l’1%”, “non si esce dalla crisi se non si esce dal capitalismo”, “non pagare debiti – espropriare banche e grandi capitali”, segnano un vero salto in avanti (sopratutto se rapportato a situazioni come gli USA). E si è trovata, infine, una pratica unificante del famoso mondo del lavoro frammentato, precarizzato, che da tempo non poteva più ricomporsi entro territori sociali come la grande fabbrica, dislocata sul mappamondo del dominio imperialista.

Paradossalmente, è sempre il capitale stesso che ci aiuta a risolvere i problemi: esso ha omogeneizzato, trasversalmente alla frammentazione del mondo del lavoro, le condizioni sociali del proletariato e dei maggiori strati popolari. E questo in particolare passando per la lunga fase di “sviluppo” drogato tramite la finanziarizzazione che ha creato queste condizioni di indebitamento di massa. Su due livelli: 1) in quanto singoli cittadini con i mutui, il credito al consumo che, tra l’altro, sono stati il corrispettivo della compressione salariale dagli anni

’90 in poi, 2) in quanto sudditi dello Stato, nella forma di debito pubblico. Qui poi ricongiungendosi di nuovo alle strategie di sfruttamento capitalistico, sia nella enorme rendita realizzata sui titoli pubblici, sia nell’uso del debito come arma per imporre le attuali politiche d’impoverimento e aumento dello sfruttamento del lavoro.

Il debito pubblico, o, in altri termini, l’alienazione dello Stato, che sia esso dispotico, costituzionale, o repubblicano, marca della sua impronta l’era capitalistica. La sola parte della ricchezza nazionale che sia realmente in possesso collettivo dei popoli odierni, è il loro debito pubblico

(Marx, Il Capitale, libro I)

Ora tutto ciò ha raggiunto una soglia quantitativa, una massa critica tale che, esplodendo, permette la sua trasformazione qualitativa in critica antisistemica. “Siamo il 99%…”, “Non siamo noi ad essere indebitati con voi, ma voi che siete dei ladroni”, “Abbiamo la possibilità di cambiare    il mondo. Facciamolo (Do it!)”, ecc. Oakland è stato il punto più alto di questo vasto movimento che ha investito circa un migliaio di città USA. In particolare, nelle giornate fra ottobre e novembre scorsi, a seguito delle ennesime violenze poliziesche contro i manifestanti, venne indetto lo sciopero generale nel distretto. La cosa grandiosa fu che tale proclamazione avvenne ad opera dell’assemblea generale di piazza, i cui 1600 partecipanti erano anche settori rappresentativi di varie categorie e organismi/sindacati già in mobilitazione da tempo. E con una riuscita plebiscitaria dello sciopero stesso, il giorno dopo! Ma anche il contenuto della giornata è molto significativo: la grande massa di scioperanti; senza indugi, al blocco del porto, sia per il peso specifico dei portuali come avanguardia operaia della città, sia perché si volevano attaccare i terminali di un paio di multinazionali agro-alimentari note per le loro speculazioni genocide tra Wall Street e le periferie del mondo affamate… obiettivo davvero ben centrato, al cuore delle contraddizioni imperialiste.

Un orientamento decisamente classista che non rimane alla superficie degli effetti della crisi, ma che va a fondo nei meccanismi e nelle connessioni del sistema. E ancora, l’attacco alla “EGT” e alla “BUNGLE ltd. agrobusiness” cioè alle due Compagnie di assassini, veniva condotto pure in solidarietà alla lotta in corso su un altro porto della Costa Ovest, Longview, dove i portuali subivano una violenta repressione, sempre ispirata da queste Compagnie, e continuavano a lottare.

Altre componenti decisive a Oakland sono alcune grosse fabbriche, un sindacato di base dei carpentieri edili, e gli insegnanti e studenti. Insomma una bella riedizione dell’antica unità di classe, che peraltro deve affermarsi contro una delle legislazioni anti-sciopero più feroci e contro delle centrali sindacali note, per il loro totale asservimento. Tant’è (e anche questo la dice lunga) che questo sciopero generale è paragonabile a quelli del… 1946! Anno culmine di grande fase di scontro di classe che però, sconfitta, vide proprio l’avvio di questa legislazione! Anche questi richiami storici fanno la forza di questo movimento, che scopre le sue potenzialità.

Per concludere, si può rilevare un’altra idea-forza emersa fra gli OWS, che più o meno suona così: “Basta piangere sul pacifismo versato. La questione vera è sul legame indissolubile fra crisi globale del capitalismo e guerra.”

Passo a passo, ci si avvicina alla sostanza dei problemi… C’è poi grossa risonanza reciproca e interlocuzione a distanza fra gli OWS e le piazze arabe. I militanti più avanzati di queste ultime esprimono, con grande maturità, la consapevolezza che la lotta rivoluzionaria è appena iniziata e proseguirà per anni. Danno la massima importanza al proseguimento dell’autorganizzazione alla base, denunciando le elezioni come il classico passaggio di recupero e riassestamento controrivoluzionario (nell’evidente potenza economica capitalistica che manovra i burattini politici, partiti religiosi compresi). E mantengono aperto il fronte principale che è quello contro i regimi militari, sempre in piedi, e il loro alter-ego, la loro carta di sostituzione costituita dai partiti religiosi (regimi e partiti legati dai mille fili della stessa classe di appartenenza e che, talvolta, li porta pure al compromesso, come ora è il caso in Egitto e in Tunisia).

Autorganizzazione che, pur vedendo i suoi momenti forti e critici nelle piazze, è nata e si è sviluppata sotterraneamente anche nelle fabbriche, nel mondo del lavoro. E i militanti giustamente sottolineano la centralità di questo processo che coinvolge i settori operai più sfruttati e cresciuti nella nuova organizzazione capitalistica mondiale. Quindi i ranghi potenzialmente più consistenti di una nuova ondata rivoluzionaria mondiale! È molto forte sentire i loro appelli ai movimenti OWS (ed altri) affinché investano anch’essi la classe operaia. Il tutto prospettando obiettivi antisistemici e di trasformazione sociale, perché si percepisce che ormai il sistema è diventato una morsa schiacciante – basti pensare per loro, in Maghreb, alla morsa del capitale finanziario agente sul mercato mondiale agroalimentare che, a ondate successive, falcidia per fame popolazioni intere e provoca esodi immani dalle campagne alle bidonville metropolitane.

Non ci sono più margini, dicono, bisogna far saltare il sistema, che rende impossibile ogni evoluzione, e che si mantiene su precise forze e connessioni internazionali.

La stessa considerazione vale per la gigantesca operazione in corso, combinata fra capitale finanziario e governi nazionali e sovranazionali (BCE, UE, USA, FMI…). L’operazione di ripresa in mano della montagna di debiti, della macchina dell’indebitamento, attraverso le varie articolazioni politiche locali, porta ovunque agli stessi obbiettivi/risultati: un nuovo colossale drenaggio di ricchezza dalla base sociale produttiva verso l’oligarchia capital-imperialistica, la demolizione dei residui sistemi di sicurezza-previdenza pubblica, e una nuova feroce intensificazione dello sfruttamento. L’ultima trovata è l’istituzione del “pareggio di bilancio” persino nella Carta Costituzionale! Sorta di blindatura al massimo livello concepibile unitamente ai ferrei vincoli UE, ad impedire di fatto qualsiasi politica di aggiustamento-regolazione economico-finanziaria che non sia agendo sulla compressione salariale (in tutte le sue voci: salario diretto, differito e imposte). In questa accezione è proprio vero che il debito (sia quello sovrano, sia la massa di quelli privati) è diventato “una linea del fronte”: evidentemente le masse in rivolta non si sbagliano poi tanto. Perciò, più che mai, ben detto Marx:

Se i democratici esigono la regolazione del debito pubblico, la classe operaia deve esigere la bancarotta dello Stato!”

(discorso alla Lega dei comunisti, 1850)

IN FABBRICA

Questa colossale operazione ricade pesantemente sugli stessi rapporti di forza in fabbrica, in produzione. Amplificando quello che è già diventato un rapporto terroristico, basato sui vari ricatti che il Capitale agisce. Non si può non vedere la perfetta sintonia, corrispondenza fra i grandi registi governativi (nazionali e sovranazionali) e l’oligarchia capitalistica (i vari Marchionne); in un ulteriore salto di quel processo di cosidetta “esecutivizzazione” e di ulteriore allontanamento/distacco dalla sfera di  mediazione e legittimazione “democratiche”. I governi tecnici e la loro organicità ai centri dei potere sovranazionali e al Capitale Finanziario, rendono davvero tangibile quello che giustamente venne definito Stato Imperialista delle Multinazionali.

Ma anche qui, segnali di un nuovo risveglio, adeguato al livello dello scontro: dalle rivolte operaie in Cina e in Maghreb, fino agli appelli degli operai FIAT di Polonia e Serbia all’unità internazionalista per spezzare il gioco al massacro concorrenziale e fare fronte unito contro gli stessi padroni. Questa è visibilmente l’unica prospettiva per affrontare la terribile macchina capitalistica, e per ridare forza e incisività alle lotte operaie: il Capitale, strappati tutti i veli, gioca spudoratamente al ricatto, alla divisione concorrenziale, al potere terroristico sulle stesse possibilità di vita. Il proletariato può rovesciare questi diktat in unità internazionalista e organizzazione della sua forza (su tutti i piani, militare compreso) per dispiegare lo scontro di potere. Accettare la guerra o essere sconfitti!

D’altronde è la stessa forza delle cose a spingere in questa direzione. In Cina-che va sottolineato è diventata “la fabbrica del mondo”, e cioè lo zoccolo duro dello sfruttamento, utilizzato dal Capitale Multinazionale per cercare di risollevare quel tasso di profitto che tanto lo ossessiona e che ne provoca la crisi – le lotte operaie impattano immediatamente la repressione violenta ed esse stesse perciò ricorrono all’uso della forza. È chiaro che le sorti del capitalismo mondiale dipendono molto dal permanere di questa cappa di piombo che, finora, riesce ad impedire la generalizzazione e l’unificazione di un movimento operaio antagonista. Ma è altrettanto chiaro, prima o poi, salterà e finirà per sprofondare il capitalismo nella crisi più abissale. Mentre dal nostro punto di vista, di classe operaia internazionale, visto il peso vivo dell’eredità maoista fra la popolazione cinese ed il confinante processo rivoluzionario in corso in India, si può prevedere facilmente uno sviluppo potente della tendenza rivoluzionaria. E date le dimensioni asiatiche, la sua ripercussione a “tsunami” fin su tutte le altre rive continentali. Non è questione di lanciarsi in profezie e grandi visioni, ma più banalmente di rilevare che gli squilibri capitalistici così profondi e irrigiditi, in cappe di piombo a contenerne le contraddizioni, non possono che provocare esplosioni devastatrici… Concretamente e immediatamente dobbiamo tessere nuove relazioni di unità internazionalista di classe, per poter incidere nella lotta e per rompere le maglie del potere terroristico- ricattatorio.

ORIZZONTE GRECO

Sempre la forza delle cose ha portato la Grecia, sull’orlo dell’abisso, ma anche di una fase da maturazione rivoluzionaria. La crescita e la radicalizzazione del movimento di massa è continua e si intreccia ad esperienze di lotta armata organizzata. I contenuti e gli obiettivi sono sempre più di potere: rigettare i debiti, espropriare banche e capitali, uscire dall’UE, attacco al sistema parlamentare, assemblee generali e autorganizzazione di massa. Obiettivi che vengono concretizzati, in qualche modo, nelle pratiche di lotta, con gli attacchi a banche e palazzi del potere, con l’occupazione di case, edifici, con gli espropri di merci, con il boicottaggio di imposte e di altri pagamenti.

Insomma, c’è poco da inventarsi, la realtà parla da sé e, semmai, impone l’assunzione delle sue logiche conseguenze da parte dell’Organizzazione politica di classe.

Pensiamo sia importante e possibile sviluppare un Fronte di classe, trasversale alle nostre varie lotte, e con connessioni internazionali; la cui autenticità e vitalità è in rapporto ai suddetti contenuti, obiettivi e pratiche organizzative, tendenzialmente di potere. Fuori e contro i partiti istituzionali e anche contro quei ceti politici di “movimento” che funzionano da ultimo argine proprio a contenere il processo di autonomia di classe. Insomma il Fronte di classe come terreno di reale differenziazione e polarizzazione, di crescita di autonomia nei successivi salti di intensità dello scontro, fino alla fase decisiva di trasformazione in Soviet, in Comuni. Processo cui è necessario, ovviamente, il concorso del piano di iniziativa rivoluzionaria di Partito.

CONCEZIONE DEL FRONTE

La concezione del Fronte non è unica e pone vari problemi. Diciamo che, in generale, è un terreno e al tempo stesso un obiettivo che richiedono una certa elasticità tattica; è un tipico campo di sviluppo della tattica. Quindi richiede una costante attenzione al succedersi di eventi e situazioni, che possono modificare le stesse esigenze tattiche. Richiede verifiche e tentativi, esperienza pratica e capacità di bilancio e ridefinizione.

Ricca e controversa è stata l’esperienza storica di Fronte Unito di classe, dal basso e dall’alto. La dialettica viva delle situazioni prestandosi a diverse combinazioni, ma globalmente è chiaro che è il Fronte dal basso che può davvero sostanziare il processo di unità di classe è di sua maturazione rivoluzionaria e mettendo ai margini proprio quelle forze e partiti opportunisti e riformisti che invece preferiscono il Fronte dall’alto come strumento per ingabbiare e snaturare il suddetto processo.

Impostazioni che si riflettono pure sull’altro versante di pratica di Fronte, quello dell’antimperialismo. Qui la diatriba è ancora più accesa poiché la questione imperialista si presta a stemperarne il carattere di classe. A perdere di vista l’imperialismo in quanto “superstruttura del capitalismo”, in quanto sua forma storica, per concentrarsi sui suoi aspetti di dominio politico-militare, sul suo carattere di moderno “impero” (che poi molti identificano quasi esclusivamente negli USA). Si arriva così a perdere di vista il carattere di classe e l’autenticità dei movimenti di liberazione, facendosi abbagliare pure da movimenti reazionari o addirittura da stati borghesi pur che siano in “contrasto” con l’imperialismo dominante. E a concepire il Fronte con tali forze. Talvolta pure incondizionato.

Si sostituisce, nelle priorità, questo piano di “real-politik” con presunte forze antimperialiste (spesso super reazionarie) all’obbiettivo di costruzione delle forze rivoluzionarie di classe. Costruzione essenziale per praticare poi le mediazioni possibili con altre forze antimperialiste (e con certune, non con tutte). Certo, nella dialettica viva non ci sono dei prima e dei poi rigidamente separati, ed il flusso fra i soggetti in campo è continuo, e nei due sensi. Però ci sono delle soglie minime necessarie, al di sotto delle quali si scade a fare altro (pur non volendo): in questo caso data la debolezza/inconsistenza delle forze rivoluzionarie, si finisce a rendersi subalterni a forze borghesi e reazionarie e dentro uno scontro che non è antimperialista, bensì piuttosto scontro interno al campo imperialista per la ridefinizione del suo ordine, dei suoi vassallaggi. Certi movimenti sono talmente fondati storicamente nell’oppressione e sfruttamento dei propri popoli, e altrettanto i loro legami con l’imperialismo – al di là di transitorie fasi di scontro (basti pensare al torbido intreccio tra Talebani, potere pakistano, USA) – che non ci si può aspettare nulla di buono. L’imperialismo può perdere un po’ di presa su un dato paese o regione, sa di recuperarla per altre vie e anzi, strategicamente quelle forze reazionarie sono per esso fondamentali per mantenere sottomessi i popoli e per impedire vere insorgenze rivoluzionarie.

Mentre con i movimenti borghesi-popolari con cui sia possibile il Fronte, è necessario comunque un certo livello di forza e indipendenza dei rivoluzionari. Ciò che si dimostrò in Cina, in Vietnam, e oggi nell’avanzante guerra popolare in India. In Cina il fronte anti-giapponese fu fatto in condizioni particolari e favorevoli – contesto di guerra mondiale e peso favorevole del campo imperialista occidentale, grossa forza ormai accumulata dal CPC e dall’Esercito Rosso, ampie zone liberate – e, ciò nonostante, esso fu nei fatti molto aleatorio, a debita e ostile distanza con un Kuomintang nazionalista che continuava a perpetrare aggressioni e doppio gioco. Non fu mai vera alleanza, ognuno sviluppando il proprio campo in funzione dell’immediata resa dei conti, una volta sconfitto l’imperialismo giapponese. In Vietnam l’egemonia dei comunisti orientò in senso decisamente progressista le componenti borghesi e popolari. E nell’India moderna, benché essa sia un vero e proprio continente comprendente varie nazioni e popoli, e con uno Stato che pratica la guerra interna “coloniale” contro alcuni di essi, il CPI (Maoist) non coinvolge forze nazionaliste reazionarie nel fronte e precisa, sul piano internazionale, che per quanto ci si debba alleare con tutti quelli che combattono l’imperialismo, non si debba rinunciare alla lotta contro il loro eventuale carattere reazionario, per scalzarne l’influenza sulle masse (riferendosi in particolare al problema diretto che hanno con i movimenti islamici confinanti).

Per cui, anche qui nelle metropoli imperialistiche l’urgenza è alla costruzione di forze comuniste nei termini politico-militari necessari anche per un antimperialismo conseguente. E questo è sicuramente il vero aiuto che possiamo portare ai popoli del Tricontinente. Non quello di sostituirlo con surrogati tatticisti, per supplire spesso alle nostre incapacità e incoerenze, e che portano solo a pericolose subalternità e a deformare l’orientamento rivoluzionario. È la nostra arretratezza, la nostra assenza talvolta, dalla scena dello scontro rivoluzione/controrivoluzione internazionale che lascia spazio alla manipolazione borghese-reazionaria della rivolta dei popoli. Questo è il problema che abbiamo da risolvere, e contro quella manipolazione.

VERSO I SOVIET E L’ORGANIZZAZIONE POLITICO-MILITARE

Lo sprofondamento di questa crisi epocale ha il grande merito di spazzare via finzioni, margini di manipolazione e concertazione, illusioni legaliste. Il capitalismo si presenta con il suo volto autentico, feroce; accetta solo sottomissione e alienazione brutale dalla propria umanità, valida solo in quanto merce forza-lavoro; in una spirale di sfruttamento crescente e di eliminazione sociale, una volta spremuti.

Schiaccia i movimenti di resistenza sotto compatibilità di sistema sempre più blindate, indiscutibili. Ma proprio ciò li spinge a maturare, li spinge a porsi gli inevitabili problemi per poter avanzare. Problemi riassumibili in una parola: potere!

Pur se la geografia, la consistenza delle lotte di massa è diversificata, a seconda dei paesi, ovunque si vede una dinamica di crescita dell’autonomia di classe, nel senso di tendenza a contare sull’autorganizzazione e ad allontanarsi dal sistema politico-istituzionale. Percepito a ragione per quello che è: apparato di servitori dei padroni, a questi infeudati e con loro partecipi nei profitti estorti sulla devastazione sociale. Anche laddove la lotta è assente, e perciò si manifesta ancor più la crudeltà delle ferree leggi del sistema in crisi, si può cogliere facilmente che il passaggio “di potere” è la porta obbligata per aprirsi una prospettiva. In tutti i campi sociali:

  • In fabbrica, e nella complessa rete della produzione capitalistica, dove si esercita al più alto grado la dittatura e lo sfruttamento. Dove il Capitale usa il mondo intero, la concorrenza ed il ricatto, per aggravarli senza
  • Nella distruzione delle strutture sociali, di quei diritti acquisiti storicamente dal movimento operaio; per ridurre di nuovo il proletariato in povertà cronica, a classe di mendicanti.
  • Nella condizione abitativa, con l’uragano dei “subprimes” e le conseguenti espulsioni e sfratti di
  • Nel saccheggio di risorse e territori, disumanizzati da infrastrutture di puro uso e consumo
  • E ancor più nella violenza imperialistica storica, contro tutti i popoli delle periferie, con l’indotto fenomeno delle migrazioni/deportazioni.
  • Nelle condizioni sociali generali degradate brutalmente dalle miserie della crisi, avvelenate dai valori tossici dei rapporti sociali borghesi. Degradazione che investe con massima violenza i rapporti di genere, la condizione

E si potrebbe continuare…

Il nodo politico, quello che riassume le varie esigenze e quello che può raccogliere e sviluppare adeguatamente le nuove resistenze ed il loro porsi, oggettivamente, sul terreno del potere, è appunto il piano dell’Organizzazione Comunista strategica (tendenzialmente nella forma di PCP-M). Che solo può concretizzare la volontà di scontro di potere; a cominciare dal ricostruirsi dell’identità del proletariato come classe antagonista e potenzialmente rivoluzionaria. E perciò ristabilire un piano di scontro politico generale, che possa, via via avvicinarci alla prova di forza definitiva di rovesciamento di Stato e Capitale.

Ciò che è possibile solo nella sua forma politico-militare. L’uso delle armi come modo preciso, storicamente determinato e necessario, di essere della politica rivoluzionaria del partito proletario. La lotta armata di partito come modo preciso e incisivo di intervenire nel vivo dello scontro e della crisi in corso; in quanto modo di costruire da subito l’Organizzazione ed il suo rapporto con la classe. Come strumento essenziale, infine, per poter porre concretamente e coerentemente la prospettiva di potere, la possibilità dell’alternativa sociale che solamente potrà farsi strada nel processo di demolizione del modo di produzione capitalista e del dominio imperialista.

Nel contesto di questa battaglia politica situiamo, naturalmente, il processo in corso che come sempre, è occasione di confronto fra i militanti rivoluzionari e lo stato nel suo tentativo di piegare, ridurre, devitalizzare l’istanza rivoluzionaria, riconducendola entro i margini della semplice manifestazione di malessere e protesta sociale.

Gioco sottile, giocato con sbarre di ferro, in cui è importante essere il più chiari possibili ed evitare ambiguità. Perciò anche in seguito alle evoluzioni che si sono date con la rottura del nucleo militante alla base di questo percorso, pensiamo sia utile affermare con ancora più chiarezza il rapporto con la giustizia borghese e le sue diatribe: non abbiamo nulla da cui difenderci, né da giustificare. Rivendichiamo l’essere stati parte di un’Organizzazione Comunista armata finalizzata allo sviluppo di una politica rivoluzionaria.

E ne riaffermiamo l’esigenza attuale e urgente.

SVILUPPANDO LA RESISTENZA PROLETARIA COSTRUIAMO I TERMINI POLITICO-MILITARI PER LA SUA PROSPETTIVA RIVOLUZIONARIA!

TRASFORMIAMO LA CRISI STORICA CAPITALISTICA NELLA GRANDE OCCASIONE!

CONTRO LA CRISI E L’IMPERIALISMO GUERRA DI CLASSE PER IL COMUNISMO!

 

DAVANZO Alfredo
SISI Vincenzo militanti per il PCP-M

Milano – 15 maggio 2012

12 dicembre 2007: Lo STATO delle STRAGI – Contro la RIVOLUZIONE PROLETARIA. Udienza preliminare processo “Partito Comunista politico-militare Pc(p-m)”. Dichiarazione di Davide Bortolato, Alfredo Davanzo, Claudio Latino, Vincenzo Sisi militanti per la costituzione del PC(p-m)

Ma che bella coincidenza questa data.

Così qui si vorrebbero processare dei presunti terroristi, proprio nella data simbolo di quello che è vero terrorismo: quello di stato!

Sì, perché c’è qualcosa di veramente malsano nell’isterismo anti-terrorista istituzionale: questo epiteto è imposto sempre e solo alla violenza delle classi subalterne, sfruttate, e delle nazioni oppresse.

Eppure il semplice buon senso dovrebbe riconoscere che chi si ribella, come classe o come nazione, lo fa per conquistare le masse alla lotta. E lo fa in base ad obiettivi e ideali di liberazione e trasformazione sociale.

Colpire indiscriminatamente tra le masse popolari è un semplice controsenso. Infatti (e questo nessuno ce lo può negare), il movimento rivoluzionario in Italia (e dappertutto nel mondo) ha sempre rivendicato e spiegato la propria lotta e le proprie azioni. Che sono sempre state indirizzate al sistema di dominio e sfruttamento: padroni, imperialisti, casta politica, forze repressive.

Lo stesso buon senso vuole, invece, che chi vive dello sfruttamento e dell’inganno delle masse, vede in queste anche un oscuro pericolo.

Cominciano a resistere, a non farsi più trattare da pecore e poi, non si sa mai, possono arrivare a pensare ad un mondo nuovo, senza servi né padroni… oddio, suprema bestemmia! Ecco allora che i padroni ed il loro Stato sono capacissimi di colpire le masse e le loro organizzazioni: le bombe stragiste si spiegano perfettamente. Ma quali misteri?! Ma quali verità da ricercare?! (I motivetti agitati dall’apparato mediatico di Goebbels).

Le prove sono schiaccianti: generali, servizi segreti, eminenze grigie di Stato, CIA, NATO-Gladio, truppa fascista ecc. E la più grande prova è nell’inconcludenza delle inchieste, dei processi, e nell’impunità.

Forse che dal lato nostro della barricata si può dire lo stesso?

Circa 50.000 (!) anni di carcere scontati (e si continua), per circa 6.000 militanti o semplici proletari coinvolti!

E mentre il movimento rivoluzionario ha rivendicato la morte di circa 130 persone (errori compresi), lo Stato, solo con le stragi, ne ha ammazzate più di 140; più altre decine ad opera delle forze di repressione nelle piazze o negli agguati ai militanti; più altre decine ad opera degli sgherri fascisti, agenti all’ombra dello Stato.

Mai lo Stato ha avuto la dignità della rivendicazione, sempre la viltà del depistaggio, fin verso l’avversario politico (come per Piazza Fontana)! Infine, ricordiamo che quest’uso malsano dell’epiteto “terrorista” ha un promotore: il nazismo. Questo affiggeva i manifesti, chiamando i Partigiani “banditen-terroristen”!

Noi non ce ne stupiamo: nazifascismo e democrazia formale borghese sono appunto figliati dallo stesso padre, l’imperialismo (i fili che li legano sono innumerevoli, e soprattutto i soldi).

 

Con il processo ai comunisti arrestati il 12.2.2007, ancora una volta si contrappongono nei tribunali borghesi due classi: borghesia e proletariato. L’una, la borghesia, che detiene il potere (cioè che nel tempo ha costruito in sua funzione un apparato repressivo e giuridico) accusa l’altra, il proletariato che, nella figura di alcuni militanti comunisti, cerca di costruire la propria autonomia politica di classe, cioè rivoluzionaria, cioè il Partito Comunista della classe Operaia. Proprio questa tendenza è il grande spauracchio per la classe dominante, ancor più oggi quando si trova impegnata nella grande competizione per la nuova spartizione del mondo, battezzata “guerra infinita”, e fatta di sedicenti “missioni di pace”.

È un cammino di morte e distruzione, gravido di contraddizioni, che si acuiscono fin dentro le formazioni sociali imperialiste. Un cammino che mostra, agli occhi delle grandi masse, la crisi del sistema e mette drasticamente in luce la necessità del suo radicale superamento.

Il capitalismo ha una logica interna mostruosa, l’aggressività concorrenziale porta inevitabilmente a guerre. E quando, per di più, si trova in crisi cronica di sovrapproduzione di capitale (ciò che ha determinato l’esplosione del fenomeno creditizio e di un consumismo drogato), non c’è altra soluzione che il grande scontro inter-imperialistico.

Sul campo di macerie altrui, i gruppi imperialisti e gli stati vincenti potranno ripartire con l’accumulazione.

Le evidenti ragioni economiche e di dominio mondiale della “guerra infinita” la configurano come fase di guerra mondiale strisciante.

Perché da questo genere di crisi-generale e storica il capitalismo non esce con mezzi ordinari. Non vi riesce nonostante trent’anni di attacchi alle conquiste della classe operaia e del proletariato, nonostante un aumento dello sfruttamento ed un arretramento delle condizioni di vita e lavoro epocali.

E anche qui, lo Stato delle stragi, operaie: a migliaia ammazzati nei Petrolchimici, alla Eternit, nei cantieri edili (e magari buttati via per strada come rottami..).

Quanti padroni sono finiti in carcere?! Eppure la morte di un operaio per cancro è spesso lenta ed orribile, ma i vostri pornografi del dolore (sempre stipendiati da Goebbels) sono troppo occupati con i padroni di ville e con i missionari di guerra imperialista.

Anche se i lavoratori sono diventati la merce che costa di meno, tutto ciò non basta. Il capitalismo in crisi è una belva feroce, mai paga, e la crisi si ripresenta sempre più acuta ad ogni curva della spirale.

Il vero limite alla barbarie che contraddistingue quest’epoca storica di putrefazione delle formazioni sociali imperialiste, è ancora la Rivoluzione Proletaria.

“O la Rivoluzione impedisce la guerra, o la guerra scatena la Rivoluzione”, Mao Tse-Tung.

 

La Rivoluzione Proletaria non si processa! Essa stessa è un processo storico, l’unica via possibile per l’emancipazione dell’umanità dalla barbarie capitalistica. La via democratica per la trasformazione sociale non è mai esistita, le classi che hanno il potere non lo cedono mai democraticamente, ma sempre in seguito a lotte rivoluzionarie.

A noi comunisti resta il compito di indicare, tracciare oggi questa via, la via della Rivoluzione Proletaria.

Possiamo farlo solo costruendo il Partito Comunista della Classe Operaia, che diriga, sviluppando la sua pratica rivoluzionaria, la lotta per il potere.

Noi ai proletari non facciamo promesse, non diciamo “vi daremo ..”, ma “Questa è la via. Combatti! Libertà e felicità si conquistano solo con la lotta e nella lotta, dentro un lungo processo rivoluzionario”.

 

I limiti e gli errori del passato, dei precedenti tentativi rivoluzionari, non sono un motivo per buttarli via (come la canea borghese urla in continuazione, invocando la morte del comunismo). Limiti, errori, contraddizioni sono la linea di frontiera da cui ripartire; sono da risolvere nei nuovi tentativi e facendo forza sulle grandi acquisizioni compiute. Come la pratica e la teoria della Guerra Popolare Prolungata, che tanti successi ha conseguito nel secolo scorso.

Una politica rivoluzionaria si può fare solo con l’unità del politico-militare, in un partito che raccolga le migliori forze della classe operaia e del proletariato, che unisca le rivendicazioni particolari, economiche e sociali, alla necessità dell’abbattimento dell’ordinamento capitalistico in una giusta dialettica partito/masse.

Per questo bisogna affrontare i diversi piani dello scontro, nel senso dello sviluppo dell’autonomia politica della classe: promuovere la crescita di organismi di massa dentro le lotte, e costruire il Partito Comunista Politico-Militare per dirigere la lotta per il potere. Il che vuol dire, naturalmente, rompere il cordone ombelicale opportunista, con il gioco politico istituzionale, sviluppando le lotte nel senso dell’accumulazione di forze entro una precisa strategia di lotta rivoluzionaria: la strategia della Guerra Popolare Prolungata universalmente valida per le classi ed i popoli oppressi dell’epoca imperialista.

 

– L’UNICA GIUSTIZIA È QUELLA PROLETARIA

– COSTRUIRE IL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE DELLA CLASSE OPERAIA

– UTILIZZARE LA DIFESA PER ORGANIZZARE L’ATTACCO

– COSTRUIRE IL FRONTE POPOLARE CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA

– MORTE ALL’IMPERIALISMO, LIBERTÀ AI POPOLI

 

Bortolato, Davanzo, Latino, Sisi militanti per la costituzione del PC P-M

Rivoluzione o controrivoluzione. Processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”. Dichiarazione dei militanti per la costituzione del Partito Comunista politico-militare PC(p-m)

Ai comunisti, alle avanguardie operaie, ai proletari che lottano, alle donne oppresse e ribelli

Con il processo ai comunisti/e arrestati/e il 12.2.07, ancora una volta, si contrappongono nei tribunali borghesi due classi: borghesia e proletariato.

L’una, la borghesia, che detiene il potere (cioè che nel tempo ha costruito in sua funzione un apparato repressivo e giuridico), accusa l’altra, il proletariato che, nella figura di alcuni/e militanti comunisti/e, cerca di costruire la propria autonomia politica di classe, cioè rivoluzionaria. L’obiettivo è sempre lo stesso: far sì che il capitalismo sopravviva alle sue crisi, alla sua barbarie e che possa, indisturbato, continuare a distribuire lussi e privilegi ad un’esigua minoranza sulle spalle e sulla pelle della maggioranza. Per questo, dove non arriva l’inganno della loro falsa democrazia, arrivano la repressione e la giustizia borghesi.

L’attacco repressivo mostra la faccia del revisionismo 1 che, per servire i padroni, si è fatto Stato e che oggi trova la sua espressione nell’asse D’Alema-Napolitano-Bertinotti, principale supporto alla politica anti-proletaria del governo Prodi e che ha in una componente della magistratura uno dei suoi principali centri di potere. La Procura di Milano ne è la migliore rappresentazione.

È un processo politico! Un processo in cui la pubblica accusa e gli imputati sono soggetti politici, il principale reato contestato – “associazione sovversiva” – è politico, e gli obiettivi di tutte le parti sono politici. L’obiettivo principale che la borghesia persegue con questo processo è di togliere legittimità alla lotta rivoluzionaria del proletariato, riducendola ad episodi criminali. Operazione necessaria per propagandare la legittimità della repressione ed incutere timore nei confronti delle aree proletarie sensibili alle istanze rivoluzionarie. Soddisfacendo così l’esigenza primaria di contenere la tendenza all’autonomia politica della classe.

Questo sul piano strategico.

Sul piano tattico, invece, l’inchiesta prima ed il processo poi, puntano a rafforzare il traballante governo di “centro sinistra”, espresso dall’attuale equilibrio di interessi interni alla borghesia imperialista italiana. Il perseguimento di questi obiettivi è oggi necessità vitale per i nostri padroni. La loro classe, infatti, si trova sempre più nella condizione di vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro negli scontri che la crisi generale del modo di produzione capitalistico determina. La strategia della “guerra infinita” promossa dagli imperialisti USA ha aperto una nuova fase di destabilizzazione globale e rilanciato la lotta per la nuova spartizione del mondo tra le potenze imperialiste. Ora principalmente ai danni delle nazioni oppresse del Tricontinente (Asia, Africa, America Latina) iniziando dai popoli i cui regimi hanno cercato uno sviluppo auto-centrato, svincolato dalla tutela e dal rapporto semicoloniale che gli imperialisti impongono.

Questa è una china che già si configura come terza guerra mondiale strisciante.

La borghesia imperialista italiana è impegnata in prima persona in questo sistema di guerre come mostrano chiaramente le sedicenti missioni “umanitarie” prima in Iraq, poi in Afghanistan e in Libano. È un cammino di distruzione e morte, gravido di contraddizioni che si acuiscono fin dentro le formazioni sociali imperialiste. Un cammino che mostra agli occhi delle grandi masse la crisi del sistema, e mette drasticamente in luce la necessità del suo radicale superamento.

Per crisi del sistema non intendiamo solo crisi economica, nel suo senso corrente del termine. Intendiamo quel fenomeno complessivo, economico-sociale-politico, originato dalle leggi di funzionamento del modo di produzione capitalistico (come “la legge del plusvalore”, cioè la legge dello sfruttamento del lavoro e che, guarda caso, “non risulta” alla “scienza economica” ufficiale, cioè all’ideologia dominante).

Parliamo della “crisi da sovrapproduzione di capitale” che su scala mondiale è cronica: ci sono troppi capitali che cercano profitti, le occasioni di investimento non bastano, la concorrenza è sempre più feroce e degenera spesso in conflitto armato. Questa sovrapproduzione di capitale determina quel fenomeno, pazzesco e criminale, per cui “si sta male, perché si produce troppo!” La sovracapacità produttiva, invece di essere utilizzata socialmente, porta alle continue ristrutturazioni e miseria per il proletariato. E ancora, è essa la causa più vera ed implacabile delle guerre imperialiste: non solo per l’aggressività concorrenziale che scatena ma anche perché, a termine, non c’è altra soluzione (per questo demenziale modo di produzione) che la distruzione di eccedenti. Sul campo di macerie altrui… i gruppi imperialisti e gli Stati vincenti possono ripartire con l’accumulazione. È la storia degli USA in Europa e Asia dopo il ’45, ed è l’attuale storia con Iraq, Afghanistan,…

Da questo genere di crisi – generale e storica – il capitalismo non esce con mezzi economici ordinari. E, infatti, non vi riesce nonostante trent’anni di attacchi alle conquiste della classe operaia e del proletariato: aumento dello sfruttamento, arretramento delle condizioni di vita e lavoro. Nonostante i salti tecnologici, ed il crollo dei regimi revisionisti che avevano preso il sopravvento nei paesi socialisti e spianato la strada alla restaurazione capitalistica.

Nel campo delle contraddizioni di classe, infatti, gli attacchi si sono ripetuti senza soluzione di continuità soprattutto dall’abolizione della scala mobile in poi: attacco al posto di lavoro fisso, ripetute “riforme” delle pensioni e tagli ai servizi sociali, limitazioni al diritto di sciopero, flessibilità e precarizzazione, furto del TFR a profitto del capitale finanziario, così come le privatizzazioni del patrimonio pubblico (costruito con i soldi dei lavoratori). Anche se i lavoratori sono diventati la merce che costa di meno, tutto ciò non basta. Il capitalismo in crisi è una belva feroce, mai paga, e la crisi si ripresenta sempre più acuta ad ogni curva della spirale; come nel recente caso della crisi finanziaria sui mutui immobiliari negli USA. L’elemento di novità è, in questo caso, nell’incapacità dell’imperialismo dominante a scaricare la crisi sulle formazioni sociali dipendenti come è successo nel recente passato nei casi delle crisi finanziarie scaricate sulle economie di Messico, sud-est asiatico, Russia o Argentina.

Questa incapacità testimonia la gravità della crisi e dà nuovo impulso alla politica dei cannoni, non tanto per il carattere soggettivamente criminale della borghesia imperialista ma, anche perché, nell’ambito di questo sistema, la guerra è l’unico mezzo che gli imperialisti hanno per registrare i nuovi rapporti di forza, contendersi e spartirsi le sfere d’influenza ed i super-profitti derivanti dalla dominazione coloniale e semi-coloniale.

Il vero limite alla barbarie che contraddistingue quest’epoca storica di putrefazione delle formazioni sociali imperialiste è ancora la Rivoluzione Proletaria. “O la Rivoluzione impedisce la guerra, o la guerra scatena la Rivoluzione” – Mao Tse Tung. Questo dato è acquisito storicamente nell’essenza stessa degli stati imperialisti che dalla Rivoluzione d’Ottobre in poi, si sono strutturati come stati della controrivoluzione preventiva 2. Una costruzione statale che è rafforzata dalla cooptazione, a ondate successive, dei vari ceti politici revisionisti (post-socialisti, post-comunisti, post-extraparlamentari, pentiti e dissociati di vario genere). Questi bubboni opportunisti, alimentati dai padroni all’interno della classe, incarnano l’assunto ideologico per cui l’epoca imperialista sarebbe “la fine della storia” e di conseguenza non ci sarebbe alternativa all’imperialismo. Si cimentano nell’arduo compito assegnato loro di nascondere la realtà che la storia procede in base a contraddizioni e alla lotta di classe e che “finirà” solo nella società senza classi.

Ne consegue l’altro loro compito di illudere le masse sull’utilità della partecipazione alle istituzioni borghesi ed a compagini governative che non possono essere che di chiara marca capital-imperialista. Questi traditori della classe operaia ripetono come pappagalli il verbo dei loro padroni: sul dio-mercato, sulla mondializzazione del capitale che darebbe pace e progresso ai popoli. Cercano maldestramente di nascondere le feroci lotte tra i diversi gruppi imperialisti ed il loro reale contenuto, cioè la nuova spartizione del mondo; accodandosi alle peggiori ipocrisie anti-proletarie e colonialiste, come la mistificazione delle “missioni di pace” e delle “guerre umanitarie”.

Ma il procedere stesso delle contraddizioni li smaschera, come mostra la vicenda del governo Prodi. Qui i “pacifisti” siedono con i guerrafondai, votano crediti di guerra e partecipano alle manifestazioni contro la guerra. Approvano la costruzione di basi strategiche dell’imperialismo USA o investimenti prettamente capitalistici, come la TAV, e vogliono partecipare alle lotte che in conseguenza si sviluppano.

Accondiscendono al proseguimento dell’attacco alle condizioni di lavoro, alla precarizzazione (ratifica legge Biagi), e poi cercano di cavalcare la protesta che questa politica padronale suscita. Questa vera e propria schizofrenia ha come unica spiegazione la debolezza della prospettiva imperialista e, quindi, la necessità di svolgere un lavoro di recupero, demoralizzazione, sfiancamento dall’interno dei movimenti di massa. Per compensare questa debolezza di prospettiva, serve la semina di disillusione e sfiducia, servono i “sinistri radicali” ed il loro bagaglio di imbecillità ideologiche, quali il “pacifismo”.

In stretta dialettica con queste attività demolitoria delle dinamiche di massa c’è l’attacco repressivo all’opzione rivoluzionaria, perché la mistificazione ha qualche possibilità di reggere fintanto che nessuno dica, con teoria e pratica rivoluzionaria, che “il Re è nudo!”. Cioè che il capitalismo è prigioniero delle proprie leggi e contraddizioni, sprofondando la società nel baratro di miserie, violenze, guerre. Ma è anche gravido della Rivoluzione Proletaria e, solo queste, possono affrontarlo e vincerlo.

La stessa debolezza li spinge a portare a fondo quest’attacco mobilitando tutte le loro risorse ideologiche, politiche, militari, giudiziarie. Tutto ciò per impedire la costituzione del proletariato in forza ideologico-politico-militare indipendente.

L’azione di controrivoluzione, che ha espresso questo processo, risponde essenzialmente a questa esigenza. Come il processo mediatico, orchestrato dopo il blitz del 12 febbraio risponde all’esigenza di denigrare la possibilità della Rivoluzione Proletaria e di qualificare come provocatori infiltrati le avanguardie reali della classe operaia che lotta.

Non siamo qui per dichiararci colpevoli o innocenti. Queste sono categorie vostre. Noi non possiamo che dichiarare che la nostra giustizia non è la vostra giustizia. La vostra è quella che assicura l’impunità ai padroni massacratori di operai, come alla Eternit (3.000 operai uccisi, solo quelli accertati!), nei petrolchimici, nei cantieri edili e navali o tra le fiamme delle acciaierie; l’impunità agli stragisti di Stato, alle violenze poliziesche e repressive; nonché, e soprattutto, base legale alla sistematica rapina capitalistica sul lavoro operaio e sociale.

La nostra giustizia considera: la fine dello sfruttamento e l’eguaglianza sociale ed economica; l’eliminazione definitiva della logica del profitto e delle sue conseguenze come le guerre di rapina e le distruzioni ambientali; la fine dell’oppressione imperialista e la solidarietà fra i popoli; la dittatura del proletariato come unica forma istituzionale con cui sia possibile imporre tutto ciò alla classe degli sfruttatori, e costruire una società socialista.

L’unica soluzione giuridica che lo Stato pone è la rinnegazione dell’antagonismo di classe. È il punto più alto dell’ipocrisia della giustizia borghese dal momento che questo processo e la sua sentenza sono chiaramente atti della guerra di classe.

 

La Rivoluzione Proletaria non si processa!

Essa stessa è un processo storico, l’unica via possibile per l’emancipazione dell’umanità dallo sfruttamento feroce e dalle guerre devastanti a cui la putrefazione dell’epoca imperialista del capitalismo la sta costringendo. La via democratica per la trasformazione sociale non è mai esistita, le classi che hanno il potere non lo cedono mai democraticamente, ma sempre in seguito a lotte rivoluzionarie. A noi comunisti resta il compito di indicare e tracciare oggi questa via, la via della Rivoluzione Proletaria.

Possiamo farlo solo costruendo il Partito Comunista della classe operaia che diriga, sviluppando la sua politica rivoluzionaria, la lotta per il potere.

Noi ai proletari non facciamo promesse, non diciamo “vi daremo …”, ma “questa è la via, combatti! Libertà e felicità si conquistano solo con la lotta e nella lotta, dentro un lungo processo rivoluzionario.” I limiti e gli errori del passato, dei precedenti tentativi rivoluzionari non sono un motivo per buttarli via (come la canea borghese urla in continuazione, invocando la morte del comunismo). Limiti, errori, contraddizioni sono la linea di frontiera da cui partire; sono da risolvere nei nuovi tentativi e facendo forza sulle grandi acquisizioni compiute.

Come la pratica e la teoria della Guerra Popolare Prolungata che tanti successi ha consentito nel secolo scorso.

Una politica rivoluzionaria si può fare solo con l’unità del politico-militare in un partito che raccoglie le migliori forze della classe operaia e del proletariato, che unisce le rivendicazioni particolari, economiche e sociali alla necessità dell’abbattimento dell’ordinamento capitalistico in una giusta dialettica partito/masse.

Per questo bisogna affrontare i diversi piani dello scontro, nel senso dello sviluppo dell’autonomia politica della classe: promuovere la crescita di organismi di massa dentro alle lotte, e costruire il Partito Comunista Politico-Militare per dirigere la lotta per il potere.

Il che vuol dire, naturalmente, rompere il cordone ombelicale opportunista con il gioco politico istituzionale sviluppando le lotte nel senso dell’accumulazione di forze entro una precisa strategia di lotta rivoluzionaria: la strategia della Guerra Popolare Prolungata, universalmente valida per le classi ed i popoli oppressi nell’epoca imperialista.

 

L’UNICA GIUSTIZIA È QUELLA PROLETARIA COSTRUIRE IL PARTITO COMUNISTA DELLA CLASSE OPERAIA

NELL’UNITÀ DEL POLITICO-MILITARE UTILIZZARE LA DIFESA PER ORGANIZZARE L’ATTACCO

COSTRUIRE IL FRONTE POPOLARE CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA

MORTE ALL’IMPERIALISMO – LIBERTÀ AI POPOLI

 

Marzo 2008

 

I MILITANTI PER LA COSTITUZIONE DEL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE PC P-M

 

Note

 

  • Revisionismo: indichiamo con questo termine la revisione in senso negativo del patrimonio teorico e pratico del movimento comunista internazionale. Esso consiste nella revisione dei principi marxisti fondamentali: alla Rivoluzione armata, come passaggio obbligato per la trasformazione sociale, sostituisce la “via pacifica e parlamentare al socialismo”; alla teoria dello Stato, macchina di classe per l’oppressione di classe, sostituisce l’impostura dello “Stato di tutti i cittadini, al servizio dei cittadini”. A queste falsità e tradimenti nel campo politico corrisponde l’abbandono degli obiettivi finali del Comunismo: abolizione di capitale e lavoro salariato, estinzione delle classi, delle leggi mercantili, della proprietà privata, infine pure dello

A questi obiettivi programmatici, il revisionismo sostituisce il compromesso con il sistema capitalistico. Sempre più al ribasso (come la recente, squallida storia degli ex-PCI insegna), fino a diventare tutt’uno con il sistema.

Questa deviazione si affermò agli inizi del 1900, e portò la Socialdemocrazia europea a giustificare e schierarsi con la Grande Guerra imperialista, distruggendo così la Seconda Internazionale. Si affermò ancora con Krusciov ed il 20° Congresso del PCUS (’56), aprendo la strada alla restaurazione del capitalismo, e facendo degenerare gran parte del M.C.I (come il PCI, appunto). Furono principalmente Mao e la Rivoluzione Culturale in Cina a guidare il rilancio del MCI.

A questa deviazione, ed all’incapacità dei comunisti a farvi fronte, è da imputare principalmente la sconfitta del socialismo. E ai ritardi del proletariato dei paesi imperialisti nell’esprimere una propria rappresentanza politica autonoma dagli interessi della borghesia.

La lotta al revisionismo ed al riformismo (come sua appendice pratica) è dunque una condizione essenziale per la ripresa del movimento rivoluzionario.

  • Controrivoluzione preventiva: indichiamo con questa categoria l’essenza cui è giunto lo Stato nell’epoca dell’imperialismo. Sin dalla sua nascita, il capitalismo ha usato lo Stato come sovrastruttura finalizzata a mantenere la sottomissione della classe lavoratrice e proletaria, a sancire la proprietà privata dei mezzi di produzione. Con l’avvento dell’imperialismo ma anche delle vittoriose Rivoluzioni Proletarie in molti paesi, lo Stato si è sviluppato essenzialmente in funzione controrivoluzionaria. Utilizzando riformismo e fascismo come due facce di una stessa medaglia, per ingannare e reprimere il proletariato nella sua strada verso l’emancipazione, per scongiurare preventivamente l’insorgenza rivoluzionaria.

Contro la militarizzazione e la repressione della lotta di classe Resistenza – Rivoluzione. Dichiarazione dei Militanti Comunisti imputati al processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”

I cambiamenti avvenuti in Italia sono molto importanti: la borghesia è riuscita a dotarsi di un governo forte. Governo dotato di maggioranza solida e ben più omogenea che la precedente e, novità assoluta, con l’estromissione dei residui di sinistra riformista-revisionista dal parlamento, la riduzione della rappresentanza ai due grandi partiti borghesi, di destra e di centro. In effetti, questo “terremoto” è ancor più comprensibile nella strategia collaborativa che i due grandi partiti hanno proclamato ed avviato: oggi in Italia la borghesia è riuscita a dotarsi di un governo forte e di un parlamento di semplice supporto! Non siamo certo noi a piangere su questa semplificazione istituzionale che, al contrario, può rendere più facilmente riconoscibile la natura di classe delle istituzioni, dello Stato. Che può permettere, più facilmente, di liberare i movimenti di massa dall’eterna illusione sull’alternanza governativa.

L’estromissione della sinistra riformista – revisionista, in questo senso è molto positiva: drasticamente ridimensionata, prima che nei voti (1 milione sui 3 precedenti!), dal discredito accumulato nel suo immondo doppiogiochismo, concludente sempre in capitolazione e subordinazione alla politica antiproletaria ed imperialista del governo Prodi. Difficile sarà ora svolgere il suo ruolo di recupero e sabotaggio, dall’interno dei movimenti di massa. Perché questi, in crescita da tempo, si stanno pure radicalizzando in contenuti e forme di lotta. D’altronde lo scenario che si prospetta sta ancora evolvendo e, dalla sua entrata in carica, il governo insieme a Confindustria hanno dato chiaramente la direzione: attacco su tutti i fronti contro il proletariato e, all’esterno, contro i popoli oppressi. Obiettivo immutato: aumentare il tasso di sfruttamento, aumentare i profitti, conquistare posizioni nella competizione mondiale. Uno dei primi provvedimenti è così il salto di qualità repressivo rispetto ad una lotta popolare in corso da lungo tempo. La lotta delle popolazioni della Campania contro il saccheggio capitalistico del territorio (perché questa è la sostanza e la causa della crisi dei rifiuti), verrà affrontata con la militarizzazione, con la minaccia aperta di incarcerazione e pesanti condanne per chi si oppone! Mentre, sul fronte della guerra imperialista, l’ora è alla “revisione delle regole di ingaggio” cioè all’aumento della partecipazione alle operazioni militari dirette da parte delle truppe italiane. Per non parlare dei tanti altri piani di collaborazione con il padrone USA, già avanzati con il precedente governo ed ora destinati ad ulteriore accelerazione: in particolare lo sviluppo dello “scudo stellare”, ed i preparativi di aggressione all’Iran (nuova tappa della neo-colonizzazione del “Grande Medio Oriente” e di dominio delle rotte del petrolio). Questo breve e sintetico quadro per dire che il caso italiano conferma drammaticamente le previsioni: l’aggravamento della spirale di crisi capitalistica (di cui il crack finanziario-immobiliare è la punta dell’iceberg) non poteva che spingere alla recrudescenza della guerra interna e della guerra esterna!

Infatti:

–          Analoga tendenza è in atto nei paesi europei, in particolare nei due “motori dell’UE”: Francia e Germania. In quest’ultima si assiste al tentativo di contenere la rinascita del movimento rivoluzionario, con strategia e mezzi simili alla controrivoluzione italiana. Strumento principe ne sono i reati associativi. Come qui imperversa l’uso dell’articolo 270 (codice fascista), così in Germania è il bismarckiano articolo 129 (ideato per la repressione anti-marxista); e, come qui si colpiscono principalmente i tentativi di dare concretezza al processo rivoluzionario ed al suo strumento fondamentale – cioè il Partito Comunista armato del proletariato – così in Germania vengono colpiti i nuclei militanti che concretamente si pongono, quanto meno, nella prospettiva rivoluzionaria (processo “Militant Grupp”).

–          L’escalation militarista ed oppressiva che, in Euskal Herria, il Movimento di Liberazione Basco affronta coraggiosamente e ad un grande livello politico-militare. E in fronte unito con il PCEr e la Resistenza antifascista (tra cui i Grapo), nella Spagna intera.

–          L’escalation similare in Turchia e Kurdistan, rispetto alla forte Resistenza delle forze rivoluzionarie, indipendentiste e comuniste; per altro come aspetto del più generale scontro attorno ai suddetti piani imperialisti di “Grande Medio Oriente”.

–          In America Latina l’imperialismo Usa, rabbioso per la relativa perdita di controllo, moltiplica aggressioni, provocazioni, manovre. Tra cui le più pesanti mirano a liquidare le potenti guerriglie in Colombia e Perù, ad impedire l’approfondimento del processo rivoluzionario, la sua estensione ad altri paesi.

 

Ci fermiamo a queste realtà, che sono numerose in tutto il Tricontinente. Come già dicemmo anni fa, la questione da comprendere a da tradurre nella prassi è che l’irresolubilità della crisi capitalistica, generale e storica, alimenta irreversibilmente i caratteri autoritari e militaristi dell’imperialismo e la tendenza alla guerra inter-imperialista. E che, l’ungi dal rifugiarsi in lamentele garantiste e di invocazioni alla democrazia e al diritto violati (che politicamente fanno il paio con tattiche opportuniste e neo-revisioniste), bisogna affrontare lo scontro per quello che è. Anzi, farne occasione per imparare a lottare e combattere, terreno di crescita del movimento di classe verso l’unica prospettiva concreta: la lotta di potere, per il rovesciamento del sistema. Questa maturazione, questo processo rivoluzionario si danno trasversalmente su più piani. Evidentemente sono diverse le esperienze di organizzazione territoriale o di fabbrica, ed ancor più i percorsi di Organizzazione rivoluzionaria tendenti al Partito, ma oggi si intravedono preziose possibilità di muoversi tutti insieme, parallelamente. Per esempio, nella lotta contro la repressione ed in sostegno ai prigionieri/e politici/e, perché, più di ieri si comprende che, al di là delle loro posizioni politiche, attraverso essi/e si gioca quello che è interesse generale di classe e del movimento di classe rivoluzionario nel suo insieme. Perché, più di ieri si comprende che le forme avanzate di repressione – isolamento, la carcerazione speciale: 41 bis in Italia, Fies in Spagna, Tipo F in Turchia, ecc – tendono a quella militarizzazione della lotta di classe; sono vere e proprie armi puntate contro il movimento rivoluzionario. All’avanguardia di questa internazionale del terrore chi altri se non gli Usa? È chiaro che Guantanamo, Abou Ghraib, le prigioni segrete, sono l’orrenda punta di lancia della macchina terroristica dell’imperialismo. Che esse informano e conformano l’arsenale di tutti gli altri Stati imperialisti, a gradi diversi però. Non bisogna fare un indistinto amalgama demagogico tra livelli ben diversi di repressione e/o annientamento; mentre è vero che il filo che li attraversa e li unisce è lo stesso: il filo nero dell’oppressione del proletariato e dei popoli. Perciò la lotta intorno al carcere, ai prigionieri/e, ed il fronte unito dei movimenti di classe contro la tendenza alla militarizzazione è, oggi più che mai, trasversale, necessario, e terreno su cui costruire una nuova e più avanzata unità.

 

CONTRO LE PRIGIONI DELL’IMPERIALISMO!
CONTRO L’IMPERIALISMO PRIGIONE DEI POPOLI!
AFFRONTARE LA REPRESSIONE, PREPARANDO LA RIVOLUZIONE!

19 giugno 2008

Militanti Comunisti imputati al processo PC(p-m) di Milano.

 

Al momento di spedire questo intervento veniamo informati del grave attacco contro alcuni compagni/e belgi/e, fra cui alcuni/e impegnati/e nel Soccorso Rosso da anni. Esprimiamo loro tutta la nostra solidarietà e fraternità! Viva l’unità internazionalista proletaria – uniti si vince!

La rivoluzione non si processa. Processo “Partito Comunista Politico-Militare (PCp-m)”. Dichiarazione di Claudio Latino, Alfredo Davanzo, Davide Bortolato, Vincenzo Sisi

Innanzitutto vogliamo ribadire che non riconosciamo la giustizia borghese che viene esercitata in quest’aula, perché essa è espressione del più generale sistema capitalista, fondato sull’oppressione e sullo sfruttamento delle masse proletarie. Abbiamo deciso di partecipare a questo processo nel preciso intento di dare voce agli interessi generali e storici della nostra classe, la classe operaia ed il proletariato, che oggi sta subendo per prima i pesanti effetti della crisi economica del sistema di cui voi siete i tutori giuridici.

La crisi del capitalismo è scoppiata in tutta la sua virulenza.

Ottenebrati dalla loro stessa propaganda ideologica, i partiti borghesi per anni hanno negato questa realtà, finendo per credere alle proprie barzellette sulla “fine della storia”, sulla “morte del comunismo”, sulla “eternità del capitalismo”… Eccoli lì oggi, sconvolti e increduli di fronte alle oscene devastazioni economico-sociali prodotte dal loro “incantevole” sistema!

Qualcuno arriva a chiedersi se il marxismo non ci avesse visto giusto…

In effetti, la violenta caduta attuale è una manifestazione particolarmente acuta ma pur sempre manifestazione di quella spirale di crisi strutturale che travaglia il capitalismo da ormai tre decenni. E che non trova, non può trovare, soluzione per ordinarie vie economiche.

Il marxismo, oltre ad aver indicato le cause della crisi nelle stesse leggi proprie del modo di produzione capitalistico, ha anche dimostrato che essa non può che incancrenire la realtà economico-sociale fino a portare sull’unica soluzione compatibile al sistema capitalistico: la guerra inter-imperialista per la ripartizione del mondo, la sconfitta dei concorrenti strategici, le immani distruzioni e l’approfondimento dello sfruttamento necessarie al rilancio dell’accumulazione di capitali.

La profondità della crisi si manifesta anche nel grande impulso ai movimenti di massa. Già da anni questi si stanno intensificando: dalle numerose lotte operaie in Europa, alla rivolta delle banlieu e degli studenti contro la precarietà in Francia, alla formidabile esplosione in Grecia in risposta alla violenza poliziesca. O allo stesso movimento studentesco qui in Italia e, di nuovo, in Francia (dove il governo è corso ai ripari, temendo una ripetizione del 2006). Per non parlare della molteplicità di lotte territoriali che vanno intensificandosi, come risposta immediata e spontanea della classe agli effetti della crisi.

Molte di queste lotte si caratterizzano per crescente radicalità, perché nei fatti toccano una fondamentale contraddizione di interessi. Nel contesto della crisi restano ben pochi margini per mediare, tutti i conflitti e le contraddizioni del sistema si acutizzano: fra capitale e lavoro, fra merci e bisogni sociali, tra profitto privato e bene comune, tra guerra imperialista e guerra di liberazione dei popoli, ecc.

D’altronde, lo si vede bene in Palestina cosa valgono la “democrazia borghese” ed i “trattati di carta”, per i criminali sionisti, alleati dei nostri padroni: ai popoli viene concessa la libertà di scegliere i propri cani da guardia al guinzaglio dei potenti. Altrimenti sono bombardamenti, strangolamento economico, ricatti e terrore imperialista.

Allo stesso modo, sul fronte interno del nostro paese si vede bene quale sia la ricetta per affrontare la crisi: cassa integrazione e licenziamenti per centinaia di migliaia di salariati, e bastonate agli operai che si ribellano come alla INSEE di Milano o alla FIAT di Pomigliano.

Oltre alla repressione, governo e ausiliari aizzano le masse popolari verso la mobilitazione reazionaria, alimentando campagne mediatiche che puntano a dividere e contrapporre settori di massa. Terreno strategico per la borghesia, tanto che a Roma viene preposto all’organizzazione delle “ronde civiche” niente meno che il gen. Mori, ex capo del SISDE.

Ma ancor più strategico per gli apparati repressivi dello Stato è il monitoraggio, la prevenzione e la repressione di percorsi politici di costituzione in politico-militare del proletariato; di costruzione dell’unico strumento in grado di creare una prospettiva positiva di uscita dalla crisi capitalistica, e cioè di sostenere il processo rivoluzionario che porta all’uscita e al superamento del capitalismo stesso. Passando per la decisiva tappa di scontro per il potere, condizione basilare per avviare il processo di edificazione del socialismo. La costruzione cioè di un Partito Comunista basato sull’unità del Politico-Militare.

Questo è il contesto politico in cui si colloca questo processo.

Perché il nostro percorso politico-organizzativo, i nostri arresti e la seguente vicenda giudiziaria e carceraria fanno pienamente parte dello scontro di classe e della sua tendenza più coerente e necessaria: lo sbocco nello scontro per il potere, tramite lo sviluppo di un processo rivoluzionario.

Tutte le parti in causa lo sanno.

E se la parte che lo accusa non lo ammette esplicitamente, se anzi cerca di mistificarlo, è il suo agire che lo rivela. Così, dal giorno degli arresti si è dato un dispiegamento mediatico da “grande avvenimento”. Ora, la cosa è pure in stridente contrasto con la realtà dei fatti: purtroppo la ripresa del processo rivoluzionario è ancora lenta, agli stadi iniziali. Ma c’è!

Ed è questo pericolo che lo Stato vuole scongiurare, stroncando sul nascere ogni embrione di organizzazione rivoluzionaria che si doti degli strumenti politico-militari necessari a sviluppare conseguentemente lo scontro di classe. Il tutto nel solco dei grandi cicli di lotte del Movimento Comunista Internazionale storico; passando necessariamente nel nostro paese anche per l’ultimo “assalto al cielo”, degli anni ’70/‘80.

Perciò la campagna mass-mediatica è stata una vera offensiva politica tesa a delegittimare i compagni arrestati: “terroristi, infiltrati nella classe operaia, gente dalla doppia vita, isolati…”

Campagna, però, che ha dovuto fare i conti non solo con i prigionieri e gli imputati, anche quelli estranei al nostro progetto politico, determinati comunque a difendere la propria identità e a sostenere la prospettiva rivoluzionaria per cui si lotta, ma anche con un’ondata di solidarietà che da subito si è sollevata su tutto il territorio nazionale e in alcuni ambiti europei (tanto da sconcertare l’allora Ministro dell’Interno, preoccupato per le 200 e più azioni di solidarietà riscontrate nei soli due primi mesi). Fin da subito dopo gli arresti, alla manifestazione nazionale di Vicenza contro la nuova base USA (febbraio 2007), molti compagni e proletari hanno rivendicato l’identità dei prigionieri e l’internità al movimento di classe, facendo conoscere la loro militanza d’avanguardia nel territorio e sul lavoro. Così è stato in seguito, ai cortei del 25 Aprile e del 1° Maggio; così in numerose e forti iniziative in Europa.

Assemblee, cene di solidarietà, raccolta di fondi nei luoghi di lavoro e tra amici e parenti, fino a culminare nella prima forte manifestazione di sostegno all’apertura della stagione processuale (il 12 dicembre ’07) con l’udienza preliminare e con le nostre prime dichiarazioni collettive in tribunale. E anche con l’inizio del primo sciopero della fame contro l’isolamento, nostro e in generale come campagna internazionale (incentrata sulla ricorrenza del 19 dicembre, giorno del massacro dei prigionieri in Turchia, in lotta contro le carceri speciali).

Nella strategia dell’accusa, il trattamento carcerario è ovviamente parte integrante dello scontro. Lo si è usato per attaccare il diritto alla difesa, con la dispersione in diversi carceri durante tutto l’arco del processo e con l’allontanamento a Catanzaro (a 1200 km di distanza) durante le pause. Così si è reso pressoché impossibile il contatto con gli avvocati. Tramite giochetti burocratici si è cercato di impedire pure i contatti telefonici con loro, e ci si è impedito sistematicamente di portare in aula i nostri testi, da concordare assieme e da leggere pubblicamente.

Ma il perno del trattamento carcerario è consistito nell’arbitraria imposizione di lunghi periodi di isolamento, fino al massimo di un anno. L’isolamento (considerato forma di tortura pure secondo alcuni organismi borghesi internazionali) è praticato in tutto il mondo come arma repressiva contro i movimenti rivoluzionari e di liberazione.

Arma impiegata assieme alle classiche intimidazioni e pestaggi, come quello avvenuto presso il carcere di Rebibbia, ed all’interno del più generale circuito di trattamento differenziato (culminante nel regime del 41 bis, vera e propria tortura legalizzata), al preciso scopo di piegare, spezzare la resistenza dei militanti ed estorcere capitolazione e dissociazione.

Ma proprio su questo terreno si è data una prima positiva verifica: quasi tutti i compagni hanno fatto fronte dignitosamente alla repressione, pur nella diversità di posizioni e di investimento militante. Il disegno repressivo volto a disarticolare e disunire è stato ribaltato in occasione di unità e riaffermazione delle ragioni rivoluzionarie, fra gli imputati e fra questi e la mobilitazione solidale esterna. Un’unità che ha permesso di contrastare efficacemente l’isolamento con gli scioperi della fame promossi dai prigionieri, sostenuti dalle iniziative esterne davanti alle carceri.

Conquistando la fine dell’isolamento stesso.

L’avvio del dibattimento, il 27 marzo ’08, esplicitava tutti i termini dello scontro: la militarizzazione del tribunale, l’accanimento del P.M. ad impedire, a tutti i costi, l’espressione politica dell’istanza rivoluzionaria, hanno dato il tono sin dall’inizio.

Trovando però la nostra determinazione a fare di questo processo politico quello che è: un momento di scontro all’interno della lotta di classe, per l’affermazione e lo sviluppo della tendenza rivoluzionaria.

Invece, la giustizia borghese tenta sempre la carta della criminalizzazione; arma fondamentale che la classe degli oppressori usa per isolare e screditare chiunque si ribelli e si sottragga all’ordine imposto. Si indica alla “pubblica indignazione” il proletariato che, per sottrarsi alla miseria cui viene condannato, va a rubare; nascondendo così la realtà di un sistema basato su quel crimine legalizzato che è l’appropriazione del prodotto del lavoro sociale. Furto, rapina e persino omicidio continuati e reiterati ai danni della classe operaia e del lavoro sociale nel suo insieme. Un sistema di cui la presente esplosione di crisi fa emergere il profondo ed immanente carattere criminale, basato sullo sfruttamento, il taglieggiamento, la spoliazione di masse enormi di popolazione.

Ma la giustizia borghese si è spinta a peggiori bassezze: non solo ha letteralmente falsificato alcune prove, artefacendo trascrizioni ed intercettazioni, essa ha pure convocato contro di noi il peggior squallore del loro sistema. Da Forza Nuova, tra le principali organizzazioni di stampo fascista, protagonista in questi giorni di aggressioni razziste e antiproletarie, alle squallide figure di infami come Maniero. Fino alla provocatoria presenza dell’on. Ichino, tra i principali studiosi ed architetti dell’incessante smantellamento del sistema di tutele e di diritti conquistati con le lotte storiche del movimento operaio.

A queste meschine congetture e provocazioni abbiamo risposto e ribadiamo che il movimento rivoluzionario del proletariato ha sempre rivendicato le proprie pratiche – fra cui l’esproprio proletario, come legittimo atto di riappropriazione nei confronti del grande rapinatore sociale, cioè il Capitale – così come rigetta tutte quelle pratiche che, ispirate da pura avidità e disprezzo per le masse popolari, diffondono miseria e autodistruzione.

Rivolgiamo invece al potere borghese le sue stesse accuse: che spieghi a chi sono funzionali quelle forze reazionarie che aizzano guerre fra poveri, proprio nel momento in cui è necessario nascondere i veri responsabili della crisi. Spieghino a chi sono funzionali gli “infiltrati” (questi sì, visto che non hanno mai conosciuto un’ora di lavoro in fabbrica) che stanno dentro al sindacato, lavorando a scardinare il sistema di diritti acquisiti e di organizzazione operaia, a subordinare rigidamente la classe operaia al Capitale. Spieghino dove conducono i fili del grosso traffico internazionale di droga, di chi sono amici, o meglio servi, i narco-regimi di Colombia, Afghanistan, Thailandia, Turchia, Kosovo, ecc.

La pratica del movimento comunista rivoluzionario è una pratica nota a tutti. Altrettanto non si può dire dello Stato borghese e delle sue svariate bande armate, che hanno costellato la storia del nostro paese di stragi, massacri, repressione, per sottomettere le masse popolari e garantire ai capitalisti l’egemonia sociale.

Per quanti limiti ed errori ereditiamo dal passato delle rivoluzioni realizzate e poi degenerate, crediamo sia necessario, impellente, e soprattutto possibile, riprendere il cammino. E proprio risolvendo quei limiti ed errori che, ne siamo coscienti, furono sfruttati ed alimentati dall’imperialismo proprio per far degenerare le rivoluzioni e riassorbirle.

Non si tratta solo di limiti, però! Le rivoluzioni realizzate ci hanno lasciato un enorme patrimonio ed avanzamenti, che infatti vengono impiegati nei processi rivoluzionari e nelle guerre popolari ora in corso nel Tricontinente. È quell’insieme di acquisizioni che si riassumono nel Marxismo-Leninismo-Maoismo e nella teoria della Guerra Popolare Prolungata. In effetti, se si vuole uscire dai recinti istituzionali in cui il conflitto sociale viene addomesticato, bisogna dotarsi dei mezzi necessari per diventare una forza autonoma, capace di proporre un’alternativa sociale.

Mezzi che sono anche il risultato di un’“analisi concreta della situazione concreta”, in base all’obiettivo di trasformare le forze espresse dalla resistenza dei movimenti di massa in vera forza d’attacco, in forza capace di progettare e sostenere lo sviluppo di un processo rivoluzionario. Obiettivo che si può realizzare solo nell’unità del politico-militare, come concretizzazione di queste esigenze e possibilità.

Mezzi che permettono la costruzione di una politica che riesca a coniugare l’espressione dell’autonomia di classe con movimenti di attacco capaci di incidere sui rapporti di forza generali, concretizzando nell’unico modo serio e conseguente il rapporto con Stato e padroni: l’attacco.

In sintesi: la politica rivoluzionaria come realizzazione, portato, del Partito Comunista Politico-Militare.

Dall’intento di impedire tutto ciò scaturisce l’attenzione repressiva da parte dello Stato, che concentra il peso del suo apparato soprattutto contro le istanze comuniste impegnate nel suddetto percorso di costruzione.

È una questione strategica sia per la borghesia imperialista e la sua sopravvivenza, sia per il proletariato e la sua emancipazione dalle catene dello sfruttamento: la partita decisiva, nello scontro di classe, per aprire (o, viceversa, impedire) il processo rivoluzionario, si dà attorno alla costruzione del Partito, in quanto organizzazione adeguata alla guerra popolare di lunga durata.

Questa è la partita, questo è il nodo attorno a cui verte lo scontro.

Modestamente, e con tutti i limiti del caso, i comunisti presenti in questo tribunale borghese, firmatari di questo testo, lo sono per queste ragioni, per queste esigenze della via rivoluzionaria, qui ed oggi.

Il nostro contributo politico-ideologico-organizzativo è così motivato, si fonda in queste inderogabili esigenze per la lotta rivoluzionaria.

Per questo ci troviamo qui a confrontarci con la giustizia borghese, quale momento del più generale scontro e nell’interesse generale della nostra classe.

Questo processo, come tutti i processi politici, oltrepassa la stretta questione giudiziaria. Anche perché la parte in causa esiste in quanto ipotesi di attacco all’ordine costituito, e affermazione di un “nuovo ordine possibile”: il socialismo.

Non è perciò nel quadro giuridico, pilastro di questo stesso sistema, che vi può essere la soluzione. Il quadro giuridico fa parte del problema non certo della soluzione. In altre parole, storicamente affermate: “Non riconosciamo l’ingiustizia borghese, la combattiamo!”. Questo grido è risuonato nelle aule di tribunale dove si intendeva giudicare i militanti della Resistenza al nazifascismo, i militanti africani, asiatici, sudamericani, della liberazione anti-coloniale, ed i combattenti dei partiti comunisti e organizzazioni dei giorni nostri.

Al diritto borghese, espressione dell’ordine di oppressione e sfruttamento di classe, si oppongono l’idea e la prassi rivoluzionaria per dare voce e corpo alle aspirazioni di libertà delle classi oppresse.

Ribadiamo il nostro essere qui presenti per affermare le ragioni, le possibilità della rivoluzione proletaria, e la necessità del Partito come suo strumento essenziale.

  • LA RIVOLUZIONE NON SI PROCESSA
  • È GIUSTO RIBELLARSI
  • DEMOCRAZIA È IL FUCILE IN SPALLA AGLI OPERAI
  • CONTRO L’IMPERIALISMO, PRIGIONE DEI POPOLI, TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN GUERRA RIVOLUZIONARIA DI CLASSE
  • COSTRUIRE, NELLA PRASSI RIVOLUZIONARIA, IL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE

 

Allegato agli atti del 4/5/2009

I militanti per la costituzione del Partito Comunista Politico-Militare PCp-m: Claudio Latino Alfredo Davanzo Bortolato Davide Vincenzo Sisi

 

 

 

Firenze, processo alla Brigata “Luca Mantini” – Comunicato letto in aula da Maria Cappello e Fabio Ravalli

Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente siamo qui unicamente per rivendicare la giustezza dell’attività rivoluzionaria svolta dalle BR in questi venti anni, in stretta dialettica con i contenuti più avanzati dell’autonomia politica di classe; conseguentemente ribadiamo la validità dell’impianto politico-organizzativo delle BR e il complesso degli avanzamenti teorico-pratici maturati nel vivo dello scontro in specifico durante il processo di riadeguamento iniziato con l’apertura della Ritirata Strategica.

È all’interno della Ritirata Strategica, nel quadro della relativa difensiva nelle posizioni di classe e rivoluzionarie, che le BR hanno posto le basi della Ricostruzione come una fase rivoluzionaria in cui l’agire della guerriglia, a partire dal combattimento sulle contraddizioni centrali tra classe e Stato, è volto alla ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie e delle condizioni politico-militari per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato.

Su questa direttrice di movimento le BR hanno intrapreso il processo di riadeguamento per potersi misurare con i mutati caratteri assunti dallo scontro, in primo luogo con l’approfondimento del rapporto tra rivoluzione e controrivoluzione. Malgrado la durezza delle condizioni di scontro e il ripiegamento avvenuto, le BR hanno potuto portare l’attacco allo Stato e all’imperialismo, colpendone i progetti centrali contrapposti al proletariato, contribuendo al loro relativo inceppamento e, conseguentemente, contribuendo alla tenuta del campo proletario dentro al confronto con le politiche antiproletarie e controrivoluzionarie attuate dallo Stato.

In questo processo materiale effettuato dalle BR per intero nel vivo dello scontro in stretta relazione a quanto espresso dal campo proletario, si sono dati i margini politici necessari per l’avanzamento del processo rivoluzionario, ovvero nella capacità di valorizzare e riproporre in avanti nella pratica tutto il percorso rivoluzionario messo in campo a partire dagli assi strategici fondamentali e cioè: l’unità del politico e del militare, la strategia della lotta armata, la guerra di classe di lunga durata, la costruzione del Partito Comunista Combattente, l’attacco al cuore dello Stato, l’internazionalismo e l’antimperialismo come impostazione stessa del processo rivoluzionario, la clandestinità e la compartimentazione come principi offensivi dell’agire della guerriglia e dell’organizzazione di classe sulla lotta armata.

In questo modo le BR hanno potuto acquisire gli ulteriori insegnamenti che consentono di precisare meglio modalità e leggi di movimento relativi alla conduzione della guerra di classe nella metropoli, ma soprattutto hanno posto i termini concreti e prospettici per costruire lo sviluppo in avanti del processo rivoluzionario.

Uno sviluppo in avanti del processo rivoluzionario che proprio nel contesto delle attuali condizioni di scontro, a fronte dell’acutizzarsi di tutti i fattori di crisi della borghesia imperialista si riafferma più che mai necessario e possibile, dato che solo la lotta armata è in grado di riportare sul terreno del potere le istanze più mature che produce l’antagonismo di classe, organizzandole e ricomponendole sul piano più avanzato posto dallo scontro; la strategia della lotta armata, cioè, si impone continuamente come la discriminante su cui si coagulano, in un processo necessario di rotture soggettive, le avanguardie che intendono effettivamente misurarsi con i nodi posti dal terreno rivoluzionario, più precisamente l’assunzione soggettiva di questo terreno deve necessariamente relazionarsi ai contenuti maturati dalla prassi rivoluzionaria sviluppata dalle BR come solo modo di essere adeguati a misurarsi con lo scontro in atto, in particolare a misurarsi con i compiti che sono emersi con la fase di Ricostruzione, in quanto passaggio ineludibile su cui si dà avanzamento e rilancio alla guerra di classe di lunga durata e che per questo è obiettivamente il quadro entro cui vengono a collocarsi quelle avanguardie che intendono confrontarsi con il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria.

All’interno di questa condizione generale sosteniamo l’iniziativa dei Nuclei Comunisti Combattenti fatta a Roma il 18/10/’92 alla sede della Confindustria «Contro il patto Governo-Confindustria-Sindacato, concretizzatosi con l’accordo sul costo del lavoro del 31 luglio», «Come un primo momento del più generale e complesso rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria che le avanguardie comuniste combattenti devono saper operare all’interno del processo di guerra di classe di lunga durata aperta a suo tempo con la proposta a tutta la classe della strategia della lotta armata».

La necessità del rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria è perciò posta all’ordine del giorno proprio dallo stesso andamento dello scontro perché è già dimostrato che è il solo modo per il proletariato di attrezzarsi per sostenerlo e confrontarsi con il livello di offensiva statale in atto. Un’offensiva che sulla base degli attuali rapporti di forza in favore della borghesia imperialista cerca di far passare, decreto dopo decreto, l’impoverimento generalizzato e la compressione delle conquiste politiche e materiali del proletariato col fine di garantire ai gruppi dominanti del capitale monopolistico i margini di recupero dei profitti e della competitività sui mercati internazionali. Tutto ciò mentre si va concretizzando l’attuale delicato passaggio di rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato, passaggio che ha nei lavori della bicamerale la sua sede istituzionale di rappresentazione politica, ma nello scontro di classe il terreno concreto che ne determina la fattibilità. Da qui il clima politico intimidatorio suscitato dall’Esecutivo, fatto di veri e propri attacchi politici e materiali al proletariato e di rafforzamento degli strumenti coercitivi e repressivi quali elementi da far pesare sulle relazioni politiche classe/Stato, relazioni dalle quali dipendono in ultima istanza i reali equilibri per la materializzazione o meno della svolta alla Seconda Repubblica.

Una svolta che è il progetto centrale su cui lo Stato punta per far fronte alla grave crisi in cui la borghesia ha precipitato il paese e che nelle sue velleità dovrebbe dare soluzione all’instabilità politica, economica e sociale. È questa instabilità che mette a nudo una volta di più i limiti politici della borghesia imperialista e del suo Stato a gestire la crisi, poiché approfondisce la divaricazione degli interessi di classe contrapposti e accentua i caratteri controrivoluzionari dello Stato borghese, a malapena mascherati dalle campagne ideologiche orchestrate di volta in volta per spostare dal reale portato delle contraddizioni in campo e dalle conseguenze delle scelte antiproletarie, controrivoluzionarie e guerrafondaie operate in questa fase.

Così dietro la lotta alla “criminalità” e ai decreti liberticidi che l’accompagnano si creano i presupposti per la restrizione delle libertà generali come strada per la criminalizzazione dello scontro di classe; dietro alle mistificanti “operazioni umanitarie” si organizzano i preparativi di guerra, nell’attiva partecipazione alle aggressioni imperialiste. In questo senso l’occupazione della Somalia, prima ancora che una spedizione alla “riconquista d’Africa” segna un ulteriore passaggio di quella progressione bellica che dal dopo Iraq è necessaria alla maturazione delle condizioni politico-militari per sfondare la barriera yugoslava. È questo infatti il vero banco di prova della catena imperialista, USA in testa, per lo sbocco di guerra sulla direttrice Est-Ovest, e su cui anche la borghesia imperialista nostrana punta maggiormente, nelle sue velleità revansciste e guerrafondaie.

L’attuale quadro di crisi economica, politica e istituzionale nel paese definisce le scelte della borghesia imperialista e, tra queste, la stesa preparazione alla guerra si impone all’ordine del giorno. Scelte queste che riversandosi nello scontro non possono che complessificarne i caratteri odierni, tenuto conto che questi caratteri sono anche il risultato dei mutamenti avvenuti nell’ultimo decennio segnati in modo principale, per parte dello Stato, dai sostanziali passaggi nell’accentramento dei poteri all’Esecutivo, nell’ambito di una ridefinizione avvenuta su tutti i piani, delle relazioni classe/Stato in senso fortemente antiproletario e controrivoluzionario; ma, il recupero nei rapporti di forza a favore della borghesia imperialista, non ha comunque consentito a tutt’oggi di saldare stabilmente gli equilibri generali tra le classi in suo favore, questo per la difficoltà di governare le contraddizioni di classe e di neutralizzarne l’istanza rivoluzionaria, nella impossibilità di istituzionalizzare il conflitto dentro ai reticoli della democrazia rappresentativa borghese, se non in modo puramente formale e divaricato dallo scontro reale. Questo nonostante la “pacificazione” che lo Stato ha perseguito con la controffensiva degli anni ’80 contro la guerriglia e il movimento di classe, ma che lontano dalle sue velleità non ha potuto sradicare il portato strategico della lotta armata, né azzerare le espressioni di autonomia politica di classe, risolvendosi piuttosto nell’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. Si è cioè dimostrata l’impossibilità di rimuovere dai caratteri dello scontro quello che la prassi combattente vi ha immesso in venti anni di processo rivoluzionario aperto e sviluppato sulla strategia della lotta armata e questo nonostante i colpi militari inferti dallo Stato alla guerriglia. Una prassi rivoluzionaria che inserendosi sempre al punto più alto dei momenti di scontro succedutisi nel paese ha potuto praticare gli interessi generali del proletariato, una prassi rivoluzionaria che, proprio perché è in grado di pesare sui termini dello scontro, si è sedimentata nelle condizioni politiche generali tra classe e Stato e tra rivoluzione e controrivoluzione fino a maturare un vero e proprio punto di non ritorno; questo per la capacità della guerriglia di incidere sul terreno dei rapporti di forza a partire dall’attacco ai progetti dominanti della borghesia imperialista, sui criteri di centralità, selezione e calibramento dell’attacco, e sullo spazio aperto dalla disarticolazione, disponendo e organizzando le forze rivoluzionarie e proletarie sul terreno della lotta armata in ogni fase dello scontro. Se questi sono gli elementi specifici di radicamento della lotta armata in Italia, la sua valenza generale e strategica risiede nell’essersi imposta come l’adeguamento della politica rivoluzionaria alle mutate condizioni storiche dello scontro nella metropoli imperialista e che, nel confronto che si è determinato tra rivoluzione e controrivoluzione, imperialismo e antimperialismo si è affermata come il grado più avanzato della scienza proletaria della rivoluzione possibile e necessaria per abbattere lo Stato, instaurare la dittatura proletaria e costruire una società comunista.

Rispetto a questa sede di tribunale, coerentemente con la nostra identità politica il nostro atteggiamento non può non tenere conto del reale rapporto che intercorre tra noi militanti delle BR prigionieri e questa sede giuridica, perché anche qui si riproduce pur in forma particolare il rapporto di guerra stabilitosi tra la guerriglia e lo Stato nel corso del processo rivoluzionario. Per questa ragione non riconosciamo nessuna legittimità a questo rito giuridico e dei nostri atti politici rispondiamo solo alle BR e con esse al proletariato di cui sono l’avanguardia rivoluzionaria.

18/1/1993

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Maria Cappello, Fabio Ravalli.

Fonte: senzacensura.org

Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila – Comunicato di Nadia Lioce

Le ragioni per garantire che il prigioniero rivoluzionario sia tenuto in un “regime di carcere duro” in cui possa essere, in astratto, “speso” nello scontro di classe in funzione deterrente e di disorientamento, col passare degli anni non scemano affatto, anzi si rafforzano.

Del resto come potrebbe essere altrimenti se – è sotto gli occhi di tutti e ancor di più lo sarà nei prossimi anni – dal 2007 ad oggi, tutte le promesse neoliberiste di eterna crescita economica e di miglioramento progressivo delle condizioni di reddito e sociali generali sono state clamorosamente smentite e purtroppo con drammatiche conseguenze per vasti strati sociali e numerosi popoli? È insieme a queste premesse che, forte degli esiti di processi controrivoluzionari, ha preso piede la negazione ideologica dello scontro tra le classi e addirittura l’esistenza stessa delle classi e delle ragioni storico-sociali e politiche dello scontro rivoluzionario considerato dalla borghesia e dai suoi pensatori incidente storico, prodotto ideologicamente arbitrario del secolo scorso.

Il riferimento ad una “crescita”, ovvero ad una riproduzione allargata del capitale senza soluzione di continuità, salvo aggiustamenti ciclici e strutturali specifici, è stato un elemento tipico del paradigma della progettualità politica della borghesia e dell’operato degli esecutivi dei paesi capitalistici di questi decenni, tanto quanto quello della massima ricattabilità e del crescente sfruttamento del lavoro salariato che avrebbero dovuto assicurarla e che a loro volta ne vengono giustificati. Le condizioni e i passaggi di rimodellamento economico, sociale, politico e giuridico costruiti negli ultimi trent’anni sono stati funzionali a favorire l’affermarsi di un sistema di produzione che, in una dinamica di crisi/sviluppo del capitale per la quale quanto più è elevato il grado di concentrazione e centralizzazione del capitale stesso tanto più esso volge verso l’approfondimento della sua crisi, punta a recuperare quote di plusvalore relativo ed anche assoluto a fronte della caduta tendenziale del saggio di profitto e, perciò convoglia quote di plusvalore sociale crescenti a sostegno dello sviluppo della formazione monopolistica ed al rafforzamento del suo ruolo dominante nell’accumulazione del capitale e in direzione di quei nuovi mercati che la ricerca dell’innovazione tecnologica continua e il movimento del capitale finanziario dovrebbero essere in grado di creare all’infinito. Condizioni costruite da quelle politiche e misure nel complesso denominate neoliberiste che, avviate dal polo statunitense e per il ruolo dominante che con il suo capitale monopolistico svolge nei mercati e nelle relazioni economiche internazionali, sono state adottate a diversi gradi, autonomamente o no, da ogni paese.

Esse, in funzione dei livelli di sfruttamento crescenti imposti da un modello di produzione che, subentrante al fordismo, ha la saturazione dei mercati come suo presupposto strutturale, hanno spinto verso la precarizzazione generalizzata del lavoro salariato e la riduzione dei salari sotto la soglia del valore storico della forza-lavoro ed hanno garantito la massima ricattabilità del lavoro salariato. Con i salari agganciati a “produttività” e “redditività” la forza-lavoro viene ridotta a variabile dipendente del capitale e della sua crisi mentre avanza l’attacco e l’erosione fino all’abbattimento, lì dove c’erano, di diritti del lavoro secolari, conquistati dal movimento operaio del novecento al prezzo di lotte durissime e sanguinose, e riconosciuti e istituiti a suo tempo, soprattutto nel continente europeo, anche come risposta politica della borghesia ad un pericolo rivoluzionario avvertito incombente. In questo quadro viene ad essere ridefinito anche il ruolo economico sociale dello Stato.

Con i processi di privatizzazione e liberalizzazione, in particolare con la privatizzazione e finanziarizzazione di sanità, previdenza, istruzione, ecc., lo Stato è andato e va ritraendosi da ambiti di produzione di beni e servizi sociali o dalla gestione di risorse naturali, aprendo queste attività all’intervento del capitale, dove più, dove meno, dove con vincoli, dove no, offertegli come nuovi mercati e per ciò stesso garanzia di efficienza… così che con la trasformazione di tali ambiti in campi di appropriazione privata di ulteriori risorse produttive, umane, naturali, in poche parole in occasioni di allargamento della riproduzione del rapporto di capitale, la fruizione di tali beni e servizi non va più a dipendere da scelte politiche e atti amministrativi, ma è stata sempre più sottomessa alle necessità di valorizzazione del capitale a scapito della loro funzione nella riproduzione sociale.

Lo Stato, il “soggetto pubblico” è andato quindi consumando il suo ruolo di regolatore sociale svolto su un parziale riequilibrio – tramite atti politici, assetti giuridici ed atti amministrativi – del rapporto capitale/lavoro, teso a frenare la crescita esponenziale delle diseguaglianze e la divaricazione incolmabile degli interessi antagonistici in seno alle formazioni economico-sociali capitalistiche. E dunque si è anche ritratto progressivamente da quei compiti di redistribuzione dei redditi la cui assunzione nella fase precedente, politicamente condizionata dagli equilibri generali tra proletariato internazionale e borghesia imperialista in senso meno favorevole a quest’ultima, era finalizzata a sostenere l’estensione della produzione accrescendo i consumi di massa.

Compiti che nei paesi capitalistici erano stati determinabili su quel terreno di mediazione materiale tra interessi sociali conflittuali che dava fondamento alle politiche di riformismo economico-sociale e alle evoluzioni delle forze che le hanno perseguite e, in generale, a una mediazione politica connotata dall’inclusione e dall’istituzionalizzazione del conflitto sociale nel quadro delle moderne democrazie rappresentative a contenuto politico più o meno corporativo e, se non altro, dal governo delle contraddizioni e disuguaglianze sociali tramite l’impiego delle risorse pubbliche nazionali.

Successivamente, invece, nel contesto strutturale e sovrastrutturale rimodellato dalle politiche neoliberiste, con i processi generalizzati di compressione salariale e di tagli alle tutele sociali e con le politiche monetarie espansive, la mediazione materiale tra interessi in conflitto si è trovata sempre più affidata al “mercato” dove sono venuti costruendosi dei legami concreti – la cosiddetta coesione sociale – tra interessi borghesi e interessi proletari particolari in parte propri a fasce di aristocrazia proletaria, con i secondi catapultati sul mercato spesso dalle “riforme” e naturalmente in posizione subordinata ai primi, mentre il lavoro salariato è rimasto sempre più schiacciato da una pressione ricattatoria potenziata anche dai debiti contratti per rispondere ai bisogni storicamente ordinari.

Specialmente nel polo dominante dove storicamente è massimo il potere e il peso della BI e viceversa marginalizzato sul piano storico il ruolo politico del proletariato, e in generale in relazione a come l’andamento dello scontro rivoluzione/controrivoluzione struttura o disperde termini di autonomia politica nello scontro di classe, la “coesione sociale” è arrivata anche ad intrappolare politicamente e sul lungo periodo la conflittualità di classe che corrispettivamente è stata vincolata da normative atte a limitarla e depotenziarla politicamente nel quadro di complessive strategie controrivoluzionarie sviluppate dalla soggettività politica della BI, andando a pesare sugli equilibri tra le classi a favore della progressiva realizzazione delle riforme strutturali e della trasformazione della rappresentanza e degli assetti politico-istituzionali delle democrazie borghesi nel senso dell’indiscutibile centralità degli interessi della BI negli indirizzi delle forze politiche e nei programmi degli esecutivi, del rafforzamento degli esecutivi stessi, e di una sempre maggiore riduzione in direzione dell’esclusione della rappresentanza politica delle classi subalterne.

Processi economici e politici maturati nel centro imperialista contemporaneamente alla crescente penetrazione del capitale monopolistico non solo nel sud del mondo ma, dagli anni ’90, anche nell’ex campo socialista che, con lo smantellamento delle economie pianificate, veniva integrato nel mercato capitalistico. Questo movimento e l’enorme depredamento che ha reso possibile – ha dato respiro al capitale in crisi, ha favorito la formazioni di capitali monopolistici autoctoni e di economie esportatrici il cui sviluppo a sua volta ha contribuito alla crescita delle attività economiche mondiali e il cui basso prezzo della forza-lavoro ha determinato una discesa dei prezzi dei beni di sussistenza importati dai paesi capitalistici, e infine ha dato luogo a livelli di integrazione e di interdipendenza economica internazionale assai superiori e più profondi che in passato, e al formarsi di equilibri finanziari peculiari connotati dalla separazione tra ruolo finanziario e monetario dominante da una parte, e accumulazione monetaria, dall’altra. In questo quadro, la crisi finanziaria avviata dal credito costruito soprattutto negli USA sulla garanzia fornita da una merce quale la forza-lavoro destinata al deprezzamento in una via strutturale nell’attuale modello di produzione, credito pertanto inesigibile per definizione, in virtù del ruolo dominante della finanza e moneta statunitensi, e in un ambito economico così integrato e interdipendente, si è propagata “in tempo reale” e contemporaneamente ovunque, trasformandosi in una crisi economica generale che, stante l’irresolubilità delle contraddizioni antagoniste insite nella natura stessa del capitale, riprodotte, estese ed approfondite dallo sviluppo del capitale stesso, imbriglia la capacità del polo dominante e della BI di governare la crisi accrescendo le quote di plusvalore sociale di cui si appropria ed impedendo così il precipitare dei paesi a capitalismo avanzato in una lunga e complessa fase di contrazione economica che, per altro, rischierebbe di spingere la classe operaia e il proletariato del centro imperialista nel baratro di un impoverimento e di un arretramento di condizioni complessive di lavoro e di vita di portata storica e di dare un duro colpo alla coesione sociale. Ovvero ciò che si dispiega è, in conclusione, l’enorme potenziale distruttivo per l’umana società maturato nel divario storicamente raggiunto tra livello di sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione capitalistici.

Pertanto ogni passo compiuto dalla soggettività politica della BI per governare la crisi finisce inevitabilmente per alimentare la spinta guerrafondaia dell’imperialismo, nonostante la sconfitta subita dalle strategie di guerra e controrivoluzione dell’amministrazione USA uscente e i consolidamenti limitati e incerti ottenuti nei teatri di guerra nei conflitti aperti dallo schieramento imperialista, essendo il piano bellico l’unico che può convogliare il potenziale distruttivo della crisi del capitale in direzione di eccessi di capacità produttiva delimitabili intorno ad interessi nazionali e paesi non assoggettati alla gerarchia della catena imperialista. Questo per un verso. Per l’altro verso la spinta bellica si traduce in ulteriori oneri per i bilanci pubblici dei paesi dello schieramento imperialista già alle prese con i buchi aperti dagli aiuti al sistema finanziario o con i vincoli UEM, rendendo ancor più critica sia la definizione di precise linee di politica economica, che la semplice tenuta di posizioni imperialiste nei teatri di guerra e nelle aree di crisi che, alle attuali condizioni politiche e militari siano senza sbocchi risolutivi.

Ho cercato sin qui di tratteggiare, davvero in estrema sintesi e senza riguardo per specificità e contingenze, i processi economici e politici di questi ultimi decenni, sotto il profilo dei nodi storici che il rapporto sociale dominante stesso pone all’umanità e, in essa, alla classe che ha la necessità di spezzarlo e di liberarsene, e il ruolo sociale e l’interesse per farsi carico di superarlo storicamente. E, naturalmente, è l’esperienza maturata dalla rivoluzione nello scontro con la controrivoluzione a mettere a disposizione del proletariato e delle sue avanguardie gli strumenti teorici, politici, di progettualità strategica, ecc. per scioglierli, per trasformare i rapporti di forza e politici per conquistare il potere politico, realizzare la socializzazione dei mezzi di produzione e di sussistenza e lavorare alla costruzione del comunismo. Ora, dal momento che è in rapporto a tali nodi storici che si qualifica una militanza rivoluzionaria, ho ritenuto essere il caso di ristabilire termini e dimensione della responsabilità politica da me assunta verso l’Organizzazione a cui appartengo, le BR PCC, e la classe che rappresentano.

La militante BR PCC
Nadia Lioce

Fonte: procedimento 2008/1433 SIUS , udienza del 09/12/2008

Firenze, processo di primo grado “Lando Conti“ – Documento di Maria Cappello, Antonino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli, Daniele Bencini, Marco Venturini

Nella nostra qualità di militanti delle BR per la costruzione del PCC e di militanti rivoluzionari prigionieri intendiamo ribadire in quest’aula la valenza della linea politica e dell’impostazione strategica delle BR rivendicandone tutta l’attività politico-militare messa in campo, il loro ruolo di direzione e organizzazione del processo rivoluzionario nel nostro paese. Un ruolo svolto all’interno dei nodi centrali che hanno contrassegnato lo scontro intervenendo di volta in volta con l’attacco nelle contraddizioni che oppongono la classe allo Stato. Questa attività rivoluzionaria, operata in stretta dialettica con i contenuti espressi dall’autonomia di classe dentro all’indirizzo della strategia della lotta armata per il comunismo, costituisce l’alternativa di potere del proletariato al fine di conquistare il potere politico, instaurare la dittatura del proletariato per una società comunista.

Nello specifico del processo che qui si celebra, rivendichiamo ancora una volta la giustezza dell’iniziativa politico-militare contro il repubblicano Lando Conti. Con essa le BR hanno colpito le posizioni filo atlantiche e filo sioniste di quella frazione di borghesia imperialista nostrana che il PRI ha da sempre rappresentato. Più precisamente, l’iniziativa ha colpito lo specifico attivismo di cui Lando Conti si faceva carico, come sottolineato dall’Organizzazione nella rivendicazione:

«Infatti è stato instancabile animatore delle forzature politiche per una più diretta partecipazione dell’Italia, anche in senso militare, nell’Alleanza Atlantica. Lo ritroviamo costantemente a fianco del Ministro della Guerra, attivizzato a promuovere e sostenere apertamente la posizione americana nel Mediterraneo».

Unitamente a questo, non era da meno l’appoggio dato ai sionisti israeliani, che se è una costante nelle posizioni repubblicane, non è certo estranea alla politica portata avanti nella sostanza dallo Stato italiano in Medio Oriente e questo al di là della facciata neutralista che prevaleva soprattutto in quel periodo.

Allo stesso tempo, con questo attacco le BR hanno colpito anche gli interessi legati agli armamenti. Ancora dalla rivendicazione: «Il ruolo svolto da Lando Conti sia nel consiglio di amministrazione della SMA, sia come esponente di rilievo del PRI, nonché nel panorama del potere politico locale, è indicativo per comprendere fino in fondo le interconnessioni di interesse politico, economico e militare assunte oggi dal settore bellico (…). La SMA, piccola e agile azienda per autodefinizione, partecipa ai più importanti sistemi d’arma e principalmente al programma USA delle Guerre Stellari SDI, attraverso il consorzio italiano per le tecnologie strategiche (CITES) promosso dall’Augusta. Essa fa parte del “Club Melara”, circolo che racchiude il meglio della produzione bellica italiana, controlla diverse aziende del settore, con diramazioni anche all’estero. La sua produzione spazia dai sistemi radar alle componenti elettroniche per missili». All’interno di questa attività, Lando Conti non disdegnava di fare il mercante d’armi, tra l’altro con i sionisti israeliani, i golpisti NATO della Turchia, il regime segregazionista del Sud Africa, il regime filippino del dittatore Marcos e i vari regimi sudamericani, per citarne alcuni soltanto. Politicamente le BR con questa iniziativa antimperialista hanno inteso dare impulso al processo concreto d’autentica connotazione dell’internazionalismo proletario nella metropoli, da sempre parola d’ordine della guerriglia europea e che in quel periodo andava materializzandosi nella campagna per la costruzione del Fronte Rivoluzionario messa in campo da AD e RAF come primo momento di unità soggettiva nell’attività rivoluzionaria e nella lotta antimperialista. L’azione contro Lando Conti si inserisce in questo contesto e segna un importante passaggio nell’approccio politico inerente alla tematica del Fronte. Un approccio che attraverso la ricerca del confronto attivo con altre Forze Rivoluzionarie, ha posto le basi per l’intesa unitaria raggiunta nell’88 con la RAF, sintetizzata dall’attacco ai progetti di coesione dell’Europa occidentale sul piano delle politiche economiche con l’azione Tietmayer.

Un’azione politico-militare tesa a colpire le scelte del capitale finanziario tedesco nel contesto della definizione delle normative concertate atte a favorire quella liberalizzazione del mercato europeo in cui la RFT si pone come polo forte. Più in generale tali normative rientrano negli accordi CEE tesi a formalizzare gli istituti comunitari, primo fra tutti la Banca Europea, che favoriscono l’ambiente adeguato alla formazione monopolistica europea; accordi che prevedono livelli di concertazione economica in grado di stabilire vincoli per ogni Stato, a cominciare dai bilanci statali, tassi, cambi, ecc., nonché vincoli sulle condizioni di compravendita della forza-lavoro, attaccando le conquiste acquisite dai lavoratori di ogni paese.

Nel testo comune RAF-BR vengono individuate le direttrici su cui si sostanzia la coesione europea e cioè sul piano delle politiche economiche, su quello politico-militare e diplomatico, su quello controrivoluzionario. Si evidenzia nel contempo come questa sia strettamente legata agli interessi ed alle esigenze della catena imperialista, per i caratteri stessi della crisi e per la stretta interrelazione dell’economia tra i paesi capitalisti, cosa che li obbliga ad adottare le medesime controtendenze tra cui il riarmo si impone come principale, non a caso in Europa centralizzato in sede NATO. La coesione europea, perciò, è inserita nei processi di maggiore integrazione della catena, in relazione stretta con la nuova strategia politico-militare imperialista nel confronto con l’Est e, su un altro piano, con l’intervento politico-militare integrato in ogni angolo del mondo, principalmente verso l’area di crisi mediorientale.

L’evoluzione avvenuta nell’attuale fase dell’imperialismo, all’interno dell’approfondimento della tendenza alla guerra, segnata politicamente dai mutamenti negli equilibri internazionali che si sono verificati a partire dall’asse Est-Ovest, si è riflessa sulla coesione europea accentuandone il dispiegamento seppure con il permanere di contraddizioni. Questo si è delineato già quando la RFT ha annesso la DDR, favorita dal progressivo indebolimento dell’Est europeo, segnando così un passaggio traumatico nelle relazioni gerarchiche europee, dato dal rafforzamento materiale della posizione tedesca. Fatti che, riversandosi nel processo di coesione, imprimono allo stesso un andamento per salti e nel contempo una direzione sempre più netta verso le spinte belliciste che l’imperialismo nel suo complesso tende a concretizzare, come dimostrano gli sviluppi di questi ultimi tempi fino alle manovre di destabilizzazione da parte dell’Europa occidentale della Federazione yugoslava.

Una nuova fase questa che mette in luce come l’Europa sia il teatro su cui si concentrano per ragioni storiche, politiche e geografiche le contraddizioni dell’imperialismo, Est/Ovest, Nord/Sud, Stato/classe.

Il contesto che risulta da questo quadro lascia pochi dubbi sulla volontà della borghesia imperialista di rideterminare condizioni di dominio e di sfruttamento per il proletariato metropolitano che implicano la sua subordinazione completa alla logica del profitto, questo nel tentativo di affrontare una crisi che per profondità e acutezza non lascia margine che all’esplicitazione massima della natura controrivoluzionaria degli Stati verso lo scontro di classe.

Un contesto che per parte proletaria e rivoluzionaria mette più che mai in risalto la valenza strategica della guerriglia, essendosi essa già imposta nel corso di questi venti anni come l’adeguamento della politica rivoluzionaria alle caratteristiche di dominio dell’imperialismo in questa epoca storica e per questo l’unica prospettiva di potere del proletariato metropolitano, il solo modo di incidere nei rapporti di forza tra le classi, costruire l’organizzazione armata del proletariato per sviluppare la guerra di classe di lunga durata. In sintesi, soprattutto a fronte degli evidenti processi di guerra messi in atto dall’imperialismo, USA in testa, la contrapposizione possibile e necessaria in grado di affermare l’alternativa proletaria alla crisi ed alla guerra della borghesia imperialista è rappresentata dal terreno strategico della guerra di classe, nella sua dimensione nazionale ed internazionale, al cui interno la promozione ed organizzazione del Fronte Combattente Antimperialista ne è tappa sostanziale.

Scopo del Fronte è l’indebolimento dell’imperialismo per provocarne la completa crisi politica.

Questo per favorire le rotture rivoluzionarie, perché non sono date a questo stadio di sviluppo dell’imperialismo rotture rivoluzionarie in un singolo paese del centro imperialista senza una sua più generale crisi politico-militare.

Il Fronte Combattente Antimperialista trova un momento qualificante (come la prassi concreta ha dimostrato) nell’unità di intenti tra Forze Rivoluzionarie dell’Europa occidentale. Ciò è dato dal ruolo della guerriglia nello scontro nella metropoli imperialista e per altro verso dalla rilevanza che assume l’Europa occidentale negli interessi dell’imperialismo, due fattori questi che danno alla politica di Fronte un portato strategico che va ben oltre l’unità oggi realizzabile e praticabile.

Per le BR il Fronte si colloca su un piano politico di alleanza con altre Forze Rivoluzionarie, il cui terreno di praticabilità è definito dall’analisi concreta della situazione concreta, cioè riferita alle dinamiche della crisi e della tendenza alla guerra, alla controrivoluzione ed alle Forze Rivoluzionarie presenti, attive e attivabili dentro al Fronte, ma soprattutto alla sua funzione nei confronti del nemico comune.

Una politica di alleanze perché è necessario relazionarsi con Forze Rivoluzionarie che possono essere caratterizzate da criteri e particolarità specifici alle proprie esperienze e condizioni di sviluppo. Prendere atto di questa realtà ha significato per l’Organizzazione mettersi nelle condizioni migliori per lavorare con giusta flessibilità a costruire i passaggi necessari al fine di concordare una linea di attacco comune, dando così avanzamento concreto alla costruzione del Fronte Combattente Antimperialista.

Per le BR l’internazionalismo proletario non è mero atteggiamento solidaristico, ma la prassi adeguata per sostanziare una concezione costituente l’impostazione stessa del nostro processo rivoluzionario, il suo essere fin dall’inizio internazionalista ed antimperialista.

Nella Risoluzione della Direzione Strategica del ’78, le BR affermano:

«(…) la guerriglia è la forma di organizzazione dell’Internazionalismo Proletario nella metropoli. È il soggetto della ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale (…)».

Una concezione che è complemento del primo dovere internazionalista, e cioè: fare la rivoluzione nel proprio paese. All’interno di questa visione generale le BR hanno perseguito l’obiettivo dell’azione comune fra le Forze Rivoluzionarie combattenti nell’area a partire dal terreno unificante dell’attacco all’imperialismo, senza scambiare la costruzione soggettiva del Fronte come la fase inferiore dell’Internazionale Comunista o un suo surrogato. La ricerca dei punti unitari per l’unità internazionale dei comunisti, basata sulla lotta armata per il comunismo e lo sviluppo della guerra di classe, è un dovere che le BR perseguono fin dalla loro nascita, quale obiettivo strategico irrinunciabile per ogni forza rivoluzionaria comunista combattente, un obiettivo che non è precluso dal lavoro del Fronte, anzi quest’ultimo ne è uno dei presupposti.

La dimensione che assume l’internazionalismo proletario è obiettivamente data dalle caratteristiche dell’imperialismo in questa epoca storica. Questo per il livello di internazionalizzazione e interconnessione economica, nonché per il grado di integrazione politica e militare che la catena imperialista ha raggiunto soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, definendo un sistema di relazioni imperialiste altamente gerarchizzato a dominanza USA.

L’ulteriore internazionalizzazione dei capitali e della produzione nell’ultimo decennio ha accelerato i processi di integrazione dando luogo proprio in Europa occidentale allo specifico processo di coesione politica come riflesso della formazione monopolistica intereuropea. Processi che evolvono in modo contraddittorio e conflittuale poiché avvengono in ambito capitalista. Una dinamica che per le BR non dà luogo ad una “omogeneizzazione politica dell’Europa occidentale”. I livelli di concertazione politica oggi esistenti tra gli Stati obbediscono alla necessità di affrontare unitariamente gli interessi comuni e perciò generali della catena, non risolvibili per la loro interconnessione dal singolo Stato, e gli organismi sovrannazionali costituitisi non sussumono il ruolo dello Stato, il quale deve fare gli interessi del capitale multinazionale che ha radice nel proprio ambito nazionale e, per altro verso, deve relazionarsi con le connotazioni politiche della lotta di classe nel paese, ragioni queste per cui la funzione politica degli Stati non viene sminuita, al contrario esaltata all’interno degli organismi sovrannazionali. Più precisamente i processi di coesione non possono prescindere dai caratteri che sottostanno alla formazione economico-sociale nazionale che si sono sviluppati nel lungo processo storico di affermazione della borghesia e del capitalismo. In questo senso non è data dalla coesione europea un’unica borghesia imperialista ed un unico proletariato internazionale.

Nemmeno vanno confuse le similitudini fra le forme di dominio negli Stati della catena con la formazione di un ambito imperialista omogeneo, perché queste similitudini sono il riflesso sovrastrutturale delle condizioni strutturali dell’imperialismo che nel suo movimento di crisi/sviluppo si integra determinando una generalizzazione delle condizioni di produzione che porta a caratteristiche simili in primo luogo nel rapporto classe/Stato e cioè nelle politiche di controrivoluzione preventiva, nelle forme istituzionali di governo del conflitto di classe, nel neocorporativismo come modello nei rapporti sociali. In questo senso le concezioni che si basano sulla sussunzione fenomenologica delle similitudini che a ogni livello si evidenziano soprattutto nello specifico europeo, portano a subordinare e sminuire l’importanza rivestita dalle caratteristiche nazionali della lotta di classe che in particolare sul piano antagonista e rivoluzionario sono il risultato del suo patrimonio storico e politico scaturito dal rapporto col proprio Stato. Sul piano rivoluzionario si è reso ben evidente che se l’affermarsi stesso della guerriglia negli Stati a capitalismo maturo si è dato sulla base del carattere generale relativo alle forme di dominio dei paesi della catena imperialista, le peculiarità che essa ha assunto nelle singole nazioni sono prodotto delle specifiche caratteristiche dello scontro di classe che ne definiscono la relativa originalità e più precisamente definiscono come si sviluppa il processo rivoluzionario, il contesto di riproduzione delle forze rivoluzionarie stesse e il diverso impatto delle politiche controrivoluzionarie sul campo proletario.

Da questo insieme di fattori risulta evidente come i processi di coesione in Europa occidentale non possono comportare la semplificazione del quadro di scontro e dell’iniziativa rivoluzionaria sul solo piano internazionale, non potendo questo esaurire il lavoro che ogni organizzazione combattente porta avanti relativamente ai suoi obiettivi nel paese in cui opera. A partire da questa analisi le BR lavorano alla costruzione del Fronte in stretta dialettica con i termini di sviluppo del processo rivoluzionario nel nostro paese, in unità programmatica cioè con l’attacco allo Stato.

Per le BR l’organizzazione del Fronte Combattente Antimperialista deve tendere a costruire alleanze con i movimenti di liberazione che combattono l’imperialismo nella nostra area geopolitica (Europa occidentale-Mediterraneo-Medio Oriente). Questo per due fattori: il primo favorire il più vasto schieramento combattente all’imperialismo, per ricomporre sul piano politico e rivoluzionario l’unità oggettiva tra movimenti di liberazione nazionali e antimperialisti della periferia e la guerra di classe nelle metropoli del centro; il secondo, perché la politica imperialista in questa area geopolitica ci riguarda direttamente per il ruolo che ha al suo interno l’Europa occidentale. In questa area geopolitica, che si riconferma essere quella di massima crisi nel mondo, il punto cruciale è rappresentato dalla regione mediterranea-mediorientale per i fattori di grande instabilità che vi sono presenti, fattori che subiscono nella fase attuale un’ulteriore tensione, dal momento che ha avuto luogo proprio in questa regione il primo momento di attuazione della nuova strategia politico-militare dei centri imperialisti con l’aggressione delle loro forze coalizzate contro l’Iraq. Un atto di guerra che porta in evidenza come nelle intenzioni dell’imperialismo si intenda rideterminare più approfonditi termini di subordinazione ed asservimento della regione, una “normalizzazione” dell’area in funzione dei suoi obiettivi, immediati e strategici, che nella pratica è rivolta immediatamente contro quelle esperienze, seppur diversificate, delle rivoluzioni nazionalistiche, perché nel mondo arabo sia annullata qualsiasi prospettiva che non sia funzionale agli interessi ed agli equilibri imposti dall’imperialismo, perché sia dato lo sfruttamento assoluto della regione in termini di risorse e potenzialità, ma soprattutto per farne un retroterra stabile per le sue manovre strategiche, dove “Israele”, il corpo estraneo della regione avamposto degli interessi imperialisti, mantenga indiscusso il ruolo di unica potenza effettiva. Una “normalizzazione” del mondo arabo che in primo luogo significa impattare con le aspirazioni di autodeterminazione del popolo arabo che, confrontandosi già da tempo con gli interventi controrivoluzionari dell’imperialismo, ha maturato un lungo processo di lotta guidato dalle sue forze nazionaliste, rivoluzionarie, antimperialiste, con qualificati momenti di combattimento e di resistenza popolare che attestano il suo livello più avanzato nel movimento di liberazione del popolo palestinese.

Da questo confronto scaturisce il carattere controrivoluzionario degli interventi dell’imperialismo, che nel contesto di questa aggressione non possono che approfondirsi dati i fini di pacificazione che intende ricavare dalla vittoria militare ottenuta. Dalla necessità di consolidare sul piano politico i risultati ottenuti sul terreno militare scaturisce l’egida americana sulla conferenza di pace in Medioriente che ha per oggetto la “soluzione” del nodo palestinese, da sempre baluardo contro i progetti imperialisti di normalizzazione della regione. In altri termini nelle intenzioni di USA e Israele questa conferenza dovrebbe costituire la cornice politica al tentativo di dare sanzione alla volontà di ricacciare indietro la rivoluzione del popolo palestinese e da qui ridefinire i termini del più generale conflitto arabo-sionista.

Ed è per la difficoltà di tradurre l’esito militare in risultato politico sul piano della stabilità, a causa della complessità dei fattori in campo relativi alle contraddizioni che scaturiscono da un tale conflitto, che gli obiettivi americani sulla conferenza di pace perdono consistenza a partire dall’impossibilità di ridimensionare la stessa rivolta nei territori occupati, che, al contrario, tende ad evolvere verso alti livelli di resistenza popolare e di combattimento delle sue Forze Rivoluzionarie. In sintesi, il fine americano di andare oltre Camp David si rivela ancora una volta difficile da conseguire, malgrado l’aggressione contro l’Iraq, come in parte ha dimostrato a suo tempo l’arretramento di Camp David stesso nonostante le sue velleità di progetto centrale da estendere a tutta la regione. Un disegno che è arretrato per la resistenza messa in campo dal popolo palestinese, libanese e arabo più in generale, le cui Forze Rivoluzionarie sono state in grado di cacciare, in uno dei momenti più alti di questa resistenza, le truppe sioniste ed USA che, sotto la copertura delle “forze multinazionali di pace”, avevano occupato Beirut.

Contro questa strategia imperialista nella regione va riferita l’iniziativa antimperialista e internazionalista delle BR che, nell’84, colpirono il garante degli accordi di Camp David e direttore delle forze multinazionali in Sinai, l’americano L. Hunt. In questo obiettivo le BR hanno attaccato una struttura garante e agente di un equilibrio funzionale agli interessi strategici USA e NATO in Medioriente, inserendosi in questo modo nella più vasta campagna combattente antimperialista condotta in quel periodo sia dalla guerriglia europea che da forze rivoluzionarie arabe.

Gli equilibri internazionali scaturiti dai mutati rapporti di forza Est/Ovest confermano come questa regione, e l’aggressione all’Iraq sta a dimostrarlo, presenti le condizioni per caratterizzarsi come detonatore di un conflitto che ha motivazioni generali e spinte riconducibili alla necessità di risoluzione bellica della crisi capitalistica, all’interno cioè di un passaggio critico che dalla tendenza alla guerra matura l’apertura di una fase di effettivi eventi bellici, facendo assumere concretamente alla regione le caratteristiche di ambito preliminare e di retroterra per la strategia politico-militare dell’alleanza imperialista che ha potuto verificare nel contempo il suo grado di compattamento, ma soprattutto è potuta intervenire come NATO dentro a schemi di guerra che vanno ben oltre gli obiettivi che si sono dati nello scenario regionale. Che questa aggressione abbia costituito solo una prima rottura finalizzata a determinare le condizioni politiche e militari per un ulteriore inasprimento della pressione imperialista, lo dimostrano le manovre destabilizzanti per innalzare il terreno di confronto militare contro i paesi che di volta in volta nella regione diventano obiettivi da “normalizzare”, dentro ad un contesto in cui il tallone imperialista, in primo luogo americano, che schiaccia i popoli, riceve l’investitura della cosiddetta legittimità internazionale con copertura ONU, in una fase in cui, di riflesso ai mutati equilibri internazionali, questo organismo è divenuto lo strumento ideale per le manovre imperialiste guidate dagli USA, mentre nel concreto si fa sentire nella regione il peso del fianco Sud della NATO che ha già attivato i suoi avamposti, infatti le manovre militari sono da allora divenute permanenti, sottofondo di sostanza per gli obiettivi strategici dell’imperialismo.

Questo complesso quadro ha rideterminato giocoforza tutti i rapporti e gli equilibri esistenti nella regione, ciò comporta che il popolo arabo, nel movimento di resistenza che a vari livelli esprime, dovrà confrontarsi con un più profondo livello di controrivoluzione, proprio per il ruolo che gioca questa regione negli interessi imperialisti.

La lotta del popolo palestinese, di quello libanese e arabo più in generale, ma anche kurdo e turco, dovranno confrontarsi, come si stanno eroicamente confrontando, non solamente con sionisti, regimi reazionari e imperialisti americani, ma anche con l’intera alleanza dato che sul confronto in termini generali peserà l’insieme della catena imperialista ricompattata dai medesimi fini guerrafondai. L’importanza rivestita da quest’area geopolitica nel complesso delle contraddizioni prodotte dall’imperialismo che evolvono sulla direttrice di crisi-tendenza alla guerra, fanno dell’attività antimperialista in quest’area e della ricerca delle alleanze tra la guerriglia europea e i movimenti di liberazione nazionale un compito imprescindibile. Alleanza che può portare ad una maggiore qualificazione dell’attività antimperialista, a partire dall’unificazione dei due livelli del processo rivoluzionario tra cui c’è unità ma non identità per le oggettive differenze relative all’essere originate l’una, la guerra di classe, dalla contraddizione proletariato/borghesia, l’altra, la guerra di liberazione nazionale, dalla contraddizione dello sviluppo ineguale tra centro e periferia.

Malgrado in questa fase internazionale prevalga l’iniziativa politico-militare dell’imperialismo capeggiato dagli USA, i suoi fini di potenza sono minati alla radice dalle profonde contraddizioni di cui è portatore. Gli attuali rapporti di forza in suo favore sono in parte il risultato di una strategia complessiva messa in campo a partire dalla fine degli anni ’70, come reazione alla crisi generale che, dagli USA, si allargava a tutto l’occidente capitalistico; alla crisi di valorizzazione del capitale si aggiungeva la crisi di egemonia, data in modo determinante dalla serie di rotture antimperialiste avvenute nella periferia, le quali, riflettendosi sui rapporti di forza internazionali incidevano sulle posizioni globali tra Est e Ovest. Questi due fattori hanno reso evidente il limite storico dell’imperialismo e per questo essi non possono che pregiudicare alle fondamenta ogni tentativo di stabilire un duraturo dominio nel quadro mondiale tale da garantire l’agibilità per lo sfruttamento dei monopoli, neppure al prezzo della barbarie che già nel corso della storia ha fatto ricadere tanto sui popoli come sul proletariato. L’imperialismo reagisce dunque alla perdita di posizioni attraverso un complesso di interventi economici e politici per un verso, ma anche soprattutto militari e controrivoluzionari. Sono gli USA che necessariamente in prima persona dispiegano questa strategia fatta di rotture progressive operate a tutto campo, tali da modificare a proprio vantaggio i rapporti internazionali.

All’intervento nettamente controrivoluzionario nelle aree di crisi periferiche, per erodere e sovvertire i paesi che hanno operato rotture antimperialiste, o in corso di operarle, in parallelo, non cessa la costante opera di pressione ad Est, imperniata principalmente sulla strategia di confronto NATO. Questo complesso di interventi fatto per assestare equilibri politici e zone di influenza in tutto il mondo, preme e forza sulle relazioni concrete che il quadro storico ha definito intorno alla contraddizione Est/Ovest; per questo non può che trovare convergenza critica proprio nella nostra area geopolitica, in particolar modo nel cuore dell’Europa influendo sulla maturazione dei fattori di crisi e di contraddizione.

Una dinamica che soprattutto in questa fase evolve in un approfondimento della tendenza alla guerra, come stanno a dimostrare per un verso l’annessione della DDR da parte della RFT, per l’altro, l’aggressione imperialista all’Iraq: due fatti che, sebbene avvenuti su piani distinti, solo apparentemente sono slegati, poiché costituiscono due aspetti della medesima contraddizione e segnano inequivocabilmente i caratteri dell’attuale fase internazionale.

Il fatto che la guerra sia il mezzo con cui storicamente la borghesia imperialista affronta le sue crisi generali poiché consente, oltre che una distruzione di capitali e dei mezzi di lavoro sovrapprodotti, una spartizione dei mercati e delle sfere di influenza a vantaggio dei vincitori, rimanda alla natura imperialista della tendenza alla guerra, ai meccanismi insopprimibili della crisi capitalistica che la alimenta oggettivamente, fino a che questa si intreccia con la maturazione di condizioni politiche e, nei rapporti di forza tra le parti contrapposte, tali da far diventare la tendenza una scelta politica realizzabile. Affinché la guerra stessa possa rispondere alle esigenze capitalistiche, la sua dinamica tende a dirigersi in tempi, modi e fasi successive, verso l’assoggettamento di quell’ambito economico che presenta quelle caratteristiche di complementarietà a livello di strutturazione e sviluppo economico, in grado di dinamizzare e rilanciare in avanti il livello raggiunto dall’avanzamento tecnologico produttivo dell’economia capitalistica, quando cioè questo stesso avanzamento si trasforma in crisi a causa della sovrapproduzione.

Se questa è la dinamica economica della tendenza alla guerra, i poli contrapposti della contraddizione su cui si svilupperà il conflitto sono riferiti giocoforza alle relazioni che storicamente l’imperialismo ha stabilito, a partire cioè dai concreti rapporti che si instaurano tra le forze in campo in un dato quadro storico.

Con l’esito della seconda guerra mondiale i rapporti internazionali sono caratterizzati dalla presenza di due campi contrapposti, quello imperialista con al centro gli USA, fronteggiato dal dispiegarsi del nuovo fattore storico rappresentato dallo schieramento dei paesi socialisti, la cui presenza, proprio per la sua natura di classe, non potrà che imprimere a questo quadro anche una forte connotazione ideologica definendo uno scenario di scontro relativamente inedito. Proprio la presenza di due sistemi di relazioni diversi e contrapposti non ha potuto che condizionare la stessa politica imperialista finalizzata all’accerchiamento e all’indebolimento del campo avverso, influendo sulla stessa integrazione politico-militare della catena imperialista a partire dalla fondazione della NATO. Con il procedere dell’approfondimento della crisi dell’imperialismo è emerso chiaramente come i paesi dell’Est, presentando distintamente caratteristiche economiche, in termini di infrastrutture e di produzione, complementari all’area capitalistica, sono stati visti da quest’ultima come uno spazio economico la cui dimensione prospetta risoluzioni di ampio respiro, sempre che l’imperialismo possa instaurarvi le condizioni perché sia dato il grado di sfruttamento e di valorizzazione richiesto dallo sviluppo capitalistico. È all’interno di queste linee portanti che l’imperialismo ha adottato di volta in volta strategie di contenimento e pressione, sia di carattere strettamente militare che a livello di manovre destabilizzanti economiche e politiche. Un rapporto di scontro permeato dalla connotazione schiettamente anticomunista che, con l’involuzione del carattere socialista dei paesi dell’Est, ha visto per paradosso la dominanza della contraddizione Est/Ovest ammantarsi dell’involucro della contrapposizione ideologica, aspetto reso particolarmente chiaro in questo ultimo periodo quando, muovendosi proprio su questo terreno mistificante, si è mirato a rappresentare la disintegrazione del Patto di Varsavia come la sanzione della morte del comunismo.

Tutto questo non ha potuto certo mascherare l’ordine degli interessi materiali che spingono l’imperialismo ad assoggettare i paesi dell’Est, interessi che, proprio a causa della crisi, divengono pressanti e rimandano in modo palese alle strategie di penetrazione definite in questa fase.

Queste sono agevolate come non mai dall’attuale grado di rottura delle contraddizioni proprie di questi paesi, fatto che contraddistingue l’attuale disgregazione di quell’area, ex-URSS in testa, facendone il possibile terreno di saccheggio da parte dell’imperialismo.

Sulla base delle attuali condizioni politiche che questi paesi presentano, l’imperialismo è mosso da un intenso attivismo teso a ridefinire le relazioni a suo vantaggio. Sul terreno principale dei rapporti politici da stabilire, il filo conduttore dentro cui vengono formalizzati gli accordi possibili si svolge sostanzialmente tramite gli organismi integrati dell’imperialismo, siano essi la CSCE (1), la NATO, la CEE, la UEO, ecc.; un terreno di cui gli USA tengono fermamente la direzione e ciò è reso chiaro negli atti politici da essi svolti, tra cui, non secondario, è l’obiettivo del controllo sull’armamento atomico strategico che perseguono e, più in generale, nel loro sovraintendere a tutte le decisioni più importanti che nell’ambito imperialista vengono prese rispetto a questi paesi, così da riaffermare, per altro, la supremazia sugli altri partners della catena.

Sul piano prettamente economico, ogni Stato imperialista è impegnato a prendere le migliori posizioni nella corsa all’accaparramento e penetrazione economica di questi mercati che, in questa fase, si dà principalmente sul modello di destrutturazione-espropriazione sperimentato dalla Germania sulla DDR: cioè mirare ad una spoliazione nei fatti della base produttiva, forza-lavoro compresa, da parte dei gruppi dei monopoli produttivi e finanziari dominanti. In questo modo si pongono le basi potenziali dei possibili terreni di spartizione di questo enorme e ricco mercato, su cui già prevalgono nettamente le posizioni di USA e Germania, essendo i primi nelle condizioni più vantaggiose per “mettere le mani” sugli sviluppati sistemi tecnologici in campo spaziale e militare, mentre la Germania ha potuto stendere una fitta rete di investimenti ed acquisizioni industriali soprattutto nei paesi ad essa confinanti e, più in generale, determinando con il suo intervento un reale rapporto di dipendenza e assoggettamento.

Le attuali condizioni di crisi dell’imperialismo, da un lato, e i concreti margini di agibilità politica in questi paesi, dall’altro, delimitano precisamente il livello di penetrazione economica, in primo luogo perché a questo stadio della crisi di valorizzazione la sola e semplice penetrazione/espansione dei mercati non è in grado di dargli superamento duraturo, traducendosi nel breve-medio periodo in un ulteriore fattore di instabilità per l’economia capitalista, come già dimostrano gli effetti dell’annessione nella stessa Germania. Pertanto solo la guerra può prospettare all’imperialismo le circostanze che, a partire dalla distruzione, possono rilanciare la produzione al livello dato dallo sviluppo del capitale, e molto materialmente la tendenza alla guerra si indirizza verso l’ambito che si è definito in questo quadro storico come quello idoneo a rilanciare in termini dovuti la produzione capitalista. Seppure apologeti vecchi e nuovi dell’imperialismo legano alla fine della mistificante contrapposizione ideologica tra Est ed Ovest il depotenziamento delle tensioni belliciste, vagheggiando di un futuro di pace sotto l’ordine imperialista, l’obiettivo della sottomissione dei paesi dell’Est Europa, ex-URSS in testa, matura da questi fattori strutturali e non è certo legato a puri motivi ideologici, e i mutamenti in atto in questi paesi nel facilitare la penetrazione economica dell’imperialismo, non possono significare la risoluzione “lineare” delle sue contraddizioni economiche.

Allo stesso tempo le contraddizioni che permangono e si approfondiscono all’interno dell’ambito imperialista non si riversano in termini antagonistici dentro la catena, non ci sono cioè le condizioni che possono dare luogo al configurarsi come nel passato della guerra tra paesi del centro imperialista, quale portato dell’acutizzarsi della conflittualità tra questi paesi per la crisi capitalista come riflesso del piano della concorrenzialità tra le frazioni di borghesia imperialista sia nella spartizione delle quote di mercato, sia nella stessa penetrazione ad Est. In altri termini il grado di sviluppo della concorrenza intermonopolistica non inficia lo sviluppo storico fortemente integrato della catena, economico, politico, militare, che muove unitariamente nel suo complesso verso la tendenza alla guerra. Per tutte queste ragioni di fondo l’interesse imperialista ad appropriarsi dei mercati e delle risorse produttive dell’Est Europa e dell’ex-URSS palesa passaggi niente affatto pacifici, attraverso le relazioni politiche e militari che l’imperialismo tende ad imporre a questi paesi, all’interno dei quali i mutati rapporti di forza favoriscono le spinte guerrafondaie dell’imperialismo in quanto costituiscono uno dei fattori politici che le rendono praticabili.

Che l’ordine imperialista non apra ad un’epoca di pace emerge, per altro verso, dagli sviluppi nelle linee strategiche offensive messe a punto dalla NATO con le sue dottrine sulla “presenza avanzata”, che vedono, soprattutto negli ultimi anni, ristrutturarsi gli eserciti europei. Queste linee presuppongono che tra gli eserciti dei vari Stati si formi un certo livello di integrazione, formulata dagli schemi operativi “interforce”, utilizzando i nuovi sistemi d’arma che hanno incorporato i più sofisticati sviluppi tecnologici nel campo dell’elettronica e dell’informatica. Sistemi questi che costituiscono la punta avanzata degli armamenti convenzionali avendo incorporato i risultati utilizzabili ottenuti dalla sperimentazione a suo tempo fatta nello SDI.

Queste dottrine hanno trovato un primo momento di sperimentazione concreta e una verifica, se pur parziale, nell’aggressione contro l’Iraq, all’interno dell’attuale fase caratterizzata dalle spinte belliciste del centro imperialista. In questo quadro, la stessa riformulazione degli eserciti evidenzia come si stia man mano precisando la preparazione di scenari di guerra sempre meno ipotetici, e quella che viene presentata come la nuova funzione della NATO, la cosiddetta “NATO politica”, altro non è che il necessario riadattamento delle modalità d’approccio da mettere in atto in conseguenza ai mutamenti negli equilibri tra imperialismo e paesi dell’Est, a partire dalla maggiore agibilità che tali equilibri consentono all’imperialismo su ogni piano di intervento possibile e in ogni conflitto che si matura nel mondo. Tutto questo nel mantenimento del fine strategico per cui la NATO stessa esiste, che verso i paesi dell’Est ha il suo indirizzo fondamentale.

In questa luce i successivi accordi sul disarmo del vecchio arsenale missilistico della guerra fredda nascondono solo il perseguimento del reale disarmo dell’ex-URSS, la stessa proposta strumentale di un ipotetico, futuribile, “piano Marshall per l’Est” viene brandito come un’arma di ricatto per condizionarne le scelte con l’occhio ben fisso sull’obiettivo principale di un suo indebolimento e disarmo. Ecco allora che strumenti da sempre in mano all’imperialismo, principalmente USA, come FMI e BM, indicano alla Russia l’esigenza, da rispettare nella formulazione del bilancio dello Stato, di tagliare innanzitutto le spese per il settore della difesa come una delle condizioni per poter accedere ad aiuti vasti quanto disinteressati…

Nella stessa ottica la CEE ha destinato un fondo di sessantacinque milioni di dollari per la riconversione a civile di industrie belliche, altrettanto rivelatore il prendere a pretesto la possibilità di incidenti nucleari, sia in campo civile che militare, per prefigurare un intervento finanziario e tecnologico che porti ad una “messa in sicurezza” degli impianti anche tramite il reclutamento a suon di dollari degli scienziati che operano in quei settori.

Tutto questo mentre l’imperialismo ha dato corso al massiccio potenziamento dei suoi armamenti convenzionali. Un potenziamento a cui l’imperialismo è giunto dopo un decennio di riarmo, adottato, se pur a diversi gradi, dagli Stati della catena. Il suo utilizzo come stimolo economico fin dagli anni ’80, in piena recessione, è stato in primo luogo la controtendenza principale alla crisi di valorizzazione, permettendo di immobilizzare i capitali eccedenti in quei settori ad alta composizione organica legati al bellico, a cui storicamente con l’adozione del riarmo da parte dello Stato si accorpa lo sviluppo tecnologico. Sono gli USA, non a caso i più gravati dalla crisi, i primi ad impostare una politica economica basata sul riarmo che per questo si è avvalsa di poderosi investimenti di capitali sulla ricerca e sviluppo delle tecnologie sui sistemi d’arma, cosa che ha avuto i suoi riflessi immediati sul terreno della concorrenza che ruota intorno al controllo di queste stesse tecnologie, rafforzandosi la supremazia USA in questo campo rispetto agli europei. Per la dinamica economica che stimola, il riarmo è ad un tempo cartina al tornasole dell’aggravamento dei fattori strutturali della crisi economica e calmiere nel breve periodo dei suoi effetti, nonché apportatore di ulteriori squilibri economici di cui il principale è ravvisabile nel medio-lungo termine nell’impossibilità di rimettere in circolo i capitali immobilizzati nel riarmo; sintomatica in questo senso la crisi debitoria USA favorita dal dirottamento di risorse finanziarie su questo terreno. Quanto più si fanno consistenti le spinte verso la guerra, tanto più è richiesta l’attivizzazione dei paesi NATO, a partire dall’Europa. Da qui l’assunzione di una più consistente funzione politico-militare dei paesi europei, che presuppone il rafforzamento della UEO con ambito di intervento extra NATO. Una funzione che inoltre risponde al maggior peso dell’Europa che deriva dalla coesione politica che è proceduta al suo interno, la quale sul terreno propriamente militare si è concretizzata tra l’altro nei diversi accordi bilaterali, come quello sulla brigata franco-tedesca. Tali accordi, pure esprimendo la volontà dei singoli Stati di acquisire un proprio spazio di manovra, non portano a travalicare l’Alleanza Atlantica, la quale piuttosto mantiene la direzione sulla direttrice della preparazione alla guerra e le diatribe sul ruolo da dare alla UEO e alla difesa europea, ma manifestano solo l’esigenza dei paesi europei di ritagliarsi un maggior peso negli equilibri gerarchici dentro alla catena.

Le nuove condizioni investono anche i cosiddetti paesi neutrali che nel passato trovavano vantaggiosa questa posizione formale, mentre oggi l’essere all’interno della maggiore integrazione politico-militare diviene vitale per la difesa dei propri interessi. Ecco allora che il primo gennaio ’93, in contemporanea con le scadenze dei paesi CEE, entra in vigore un accordo tra quest’ultima e la EFTA (2) per la creazione di uno “spazio economico europeo”, mentre hanno già fatto richiesta di adesione alla CEE Austria, Svezia e Svizzera. Inoltre la Svizzera indica come inevitabile la partecipazione ad un “Sistema di difesa europeo” e la Svezia, in dichiarato riferimento alla situazione nell’ex-URSS, coopera con l’organismo NATO che coordina la ricerca e lo sviluppo nelle produzione di armi (IEPG).

In sintesi l’appartenenza alla NATO diviene condizione per svolgere ed acquisire un peso internazionale. All’interno di questa la coesione politica europea ha il suo punto di forza nella “difesa comune” e marcia oggettivamente e soggettivamente verso lo sbocco bellico. L’Est europeo è il suo terreno privilegiato di intervento e in questo la crisi yugoslava è il banco di prova dell’Europa occidentale nelle sue mire di conquista di un maggior spazio nel nuovo ordine imperialista da costruire insieme agli USA. Il ruolo preminente è svolto dalla Germania, per riportare sotto la propria influenza i popoli slavi, in questo facendosi promotrice di Stati nei fatti fantoccio. Una politica interventista che nel suo dispiegarsi deve fare i conti con il reale confronto fra le forze in campo, con la resistenza contrapposta alle invasioni che storicamente proprio questi popoli hanno sempre dimostrato.

Nei caratteri di questa fase la NATO, pilastro politico-militare dell’integrazione della catena imperialista a dominanza USA, vede dispiegare tutti i piani e tutte le prerogative su cui si è costituita, e cioè nella duplice funzione di guerra esterna-guerra interna:

– guerra esterna, nella sua funzione di deterrenza prima e successivamente di strategia offensiva contro il blocco dei paesi dell’Est;

– guerra interna, nella sua funzione di indirizzo controrivoluzionario, applicato fin dall’inizio all’interno degli Stati imperialisti per mantenere la stabilità a fronte dello scontro di classe e del suo possibile risvolto rivoluzionario, nella definizione di politiche specifiche a fondamento della controrivoluzione preventiva sviluppata da ogni Stato.

Su un altro piano, diffusione dei metodi controrivoluzionari nei confronti dei contesti rivoluzionari della periferia, come attesta il golpe NATO in Turchia e gli attuali metodi di controguerriglia stabiliti dalla NATO che Ankara sta adottando contro la guerra popolare in Kurdistan e la guerriglia comunista all’interno.

Per la sua natura la NATO è sempre stata oggetto d’attacco della guerriglia europea che in diversi momenti ne ha fatto l’obiettivo del suo intervento. Obiettivo su cui la nostra Organizzazione è intervenuta con la cattura del generale NATO, Dozier. Nel contesto di scontro, in cui si è inserito questo attacco, la NATO sovraintendeva e guidava le scelte di fondo dei paesi della catena, sia nel dispiegamento degli arsenali missilistici lungo il confine con i paesi dell’Est, sia nel rafforzamento del fianco Sud della NATO, riqualificando in quel periodo le sue linee di intervento, dentro l’attiva responsabilizzazione dei paesi europei, in un’ottica di lungo termine.

Un contesto generale che sul piano rivoluzionario faceva risaltare la necessità del Fronte Combattente Antimperialista che nell’attacco ai progetti centrali dell’imperialismo e alla NATO, traccia la linea di riferimento su cui ricomporre quel fronte oggettivo che a vari livelli si contrappone all’imperialismo.

Nel comunicato n. 1 Dozier, le BR affermano:

«(…) le OCC della RAF e delle BR oggi si pongono al punto più alto d’attacco al progetto di guerra incarnato dalla NATO. Al punto più alto della proposta di ricomposizione del movimento di massa europeo contro la guerra imperialista, al punto più alto della proposta di costruzione del Fronte Combattente Antimperialista su tutta l’area europea e mediterranea (…). Su questa base è possibile lanciare con forza il programma di unità con i comunisti e di alleanza con i popoli oppressi dall’imperialismo (…)».

Proprio nel confronto con l’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, imperialismo/antimperialismo, si definisce e si precisa la costruzione del Fronte Combattente Antimperialista; su questo scontro influiscono dialetticamente da un lato l’attività rivoluzionaria della guerriglia, sia per come si sviluppa nel suo contesto nazionale, sia nel salto di qualità rappresentato dal perseguimento del Fronte, dall’altro lato, le risposte controrivoluzionarie degli Stati, non solo su un piano nazionale, ma anche per gli sviluppi della concertazione politica sul piano dell’annientamento della guerriglia e del Fronte, intese che non si limitano ad accordi di polizia ma vertono sulle modalità generalizzabili per contrastarla (modello “soluzione politica”) e facendosi carico nel loro insieme di affrontare il “problema guerriglia” ovunque si presenti, agendo cioè senza “frontiere” e definendo su questo terreno una completa coesione politica tra gli Stati europei.

I momenti di unità di volta in volta raggiunti nel Fronte tra le Forze Rivoluzionarie europee hanno reso esplicito il portato rivoluzionario del Fronte per lo sviluppo presente e futuro della guerra di classe rivoluzionaria nella metropoli e dell’antimperialismo in tutta l’area.

Sul piano interno la guerra contro l’Iraq è caduta in un contesto di scontro e di mutamenti istituzionali che in parte già contengono i presupposti per cambiamenti decisivi nel quadro complessivo delle relazioni politiche e sociali tra le classi e nelle forme di potere che vogliono essere istituite. In questo senso il contesto che si è determinato prelude ad un ulteriore salto in avanti rispetto a quello che si è maturato nel corso della lunga fase di scontro di classe iniziata con la controrivoluzione degli anni ’80, nella necessità di sancire una riformulazione ad un più alto livello dell’assetto e dei poteri dello Stato, nel tentativo illusorio di uscire da quelle secche in cui la “stabilità” è la risultante estremamente labile di continui strappi e lacerazioni su tutti i piani delle relazioni politiche nel paese, così come si è andato a caratterizzare il modo di governare in particolare in questi ultimi anni.

Per comprendere la portata di quanto si profila, va considerato ciò che si è andato a definire nel lungo e contraddittorio processo di rifunzionalizzazione dello Stato che ha assestato mano mano mutamenti di sostanza alle prerogative degli organi e delle figure istituzionali, la progressiva esecutivizzazione che tale processo ha conseguito vede oggi infatti l’assunzione senza precedenti di nuovi e maggiori poteri nella figura del Presidente del Consiglio e di un ristretto ambito dell’Esecutivo. Ciò che è stato raggiunto in termini di esecutivizzazione è il piano più alto a livello istituzionale di un processo materiale che ha le sue cause principali e il suo possibile movimento nei concreti rapporti di scontro tra le classi. Per questa ragione fondamentale la base di forza che ha potuto dare il via al riassetto delle istituzioni va ricondotta alla controffensiva dello Stato negli anni ’80, la quale, proprio per il livello avanzato che si è prodotto nello scontro di classe e rivoluzionario non poteva darsi se non assestando un duro colpo alle BR, per poi dispiegarsi dai settori di autonomia di classe che si collocavano intorno alla proposta rivoluzionaria fino ad attraversare tutto il corpo di classe. Una controffensiva che per modi e tempi in cui si è data, ha assunto carattere di vera e propria controrivoluzione da cui la borghesia imperialista italiana ed il suo Stato hanno potuto modificare a loro favore i rapporti di forza ed iniziare ad operare il corrispettivo riordino dello Stato per rispondere alle esigenze poste dalla concentrazione monopolistica ed alle avvisaglie della tendenza alla guerra. Per questo il primo passo non poteva che assestarsi sul piano capitale/lavoro con i patti neocorporativi. Dai patti neocorporativi in poi il processo di esecutivizzazione che si è configurato dentro ulteriori forzature nei rapporti politici e di forza tra le classi, con l’istituzione del supergabinetto e la legge sulla presidenza del consiglio, hanno visto rafforzate le prerogative del governo intorno al quale il parlamento è stato rifunzionalizzato (con la decretazione d’urgenza e la fiducia usati come strumenti ordinari, il voto palese, ecc., fino ad arrivare ad un diverso iter nel fare le leggi). Un processo che non poteva investire tutti gli istituti e le funzioni dello Stato, in primo luogo la magistratura. L’entità dei mutamenti apportati nel paese e nel quadro istituzionale, in specifico nei salti compiuti in quest’ultima legislatura, per come si sono delineati, già indicano in larga misura gli equilibri e i binari su cui premere per arrivare alla diversa configurazione dei poteri dello Stato. Una svolta che per affermarsi profila la necessità di arrivare ad una ulteriore frattura nelle relazioni classe/Stato e dentro le stesse istituzioni, poiché la dinamica che evolve la Seconda Repubblica, per potersi dispiegare, deve incidere da un lato sull’impalcatura costituzionale post-resistenza che, pur avendo consentito alla borghesia di gestire il potere a fronte dei limiti strutturali e dell’acuto scontro di classe, rappresenta oggi un condizionamento all’ulteriore sviluppo dei termini formali della democrazia borghese, dall’altro, e come dato sostanziale, di incidere su quel piano dei rapporti generali e formali tra le classi che si sono sviluppati in questo quarantennio, condizionati dai processi di lotta del proletariato, dai suoi avanzamenti politici e sociali, nonché dai caratteri di maturità e combattività dell’autonomia politica di classe sui quali ha inciso in termini di sostanza la progettualità rivoluzionaria della proposta della lotta armata per il comunismo.

Un piano generale la cui sostanza e valenza ha un peso specifico sulla relatività dei rapporti di forza, costituendo il limite politico effettivo, sia pure elastico, che la borghesia imperialista a tutt’oggi non ha potuto travalicare; In questo senso nonostante gli anni di controrivoluzione e le posizioni odierne di relativa difensiva del campo proletario e rivoluzionario, non c’è la pacificazione auspicata dalla borghesia imperialista, ma il reale approfondimento del rapporto di scontro sia sul piano politico classe/Stato che sul piano rivoluzione/controrivoluzione nell’inasprimento di tutti i termini della controrivoluzione preventiva.

Sullo sfondo di questo quadro politico di riferimento e nel contesto generale di crisi che si è aperta nel paese, in relazione alla resistenza che a vari livelli il proletariato oppone al peggioramento delle condizioni politiche e materiali, si fanno sempre più forti le spinte per una “soluzione forte” dell’impasse istituzionale in rapporto all’ingovernabilità sociale. Spinte che nascono dalle impellenti esigenze che l’acutezza della crisi pone alla borghesia imperialista nostrana e a cui, indubbiamente, ha contribuito la stessa partecipazione dell’Italia alla guerra contro l’Iraq, spinte oggettive e soggettive, dunque, che rendono quanto mai critica questa peculiare fase politica. Questo mentre lo Stato, pressato da tali scadenze, ha già posto in essere in un crescendo di forzature, il varo dei peggiori programmi a livello sociale e di misure politiche restrittive tese ad intervenire sul corpo di classe, mettendo in discussione perfino quel campo dove sono regolamentati i diritti acquisiti sia in campo economico che sociale e politico. Un insieme di interventi che per la loro portata sono andati ad intaccare il piano stesso delle cosiddette garanzie costituzionali e che ha costituito l’approfondimento di quel terreno materiale nei rapporti politici fra le classi che consentono di avanzare nell’accentramento dei poteri. Su questo sfondo politico e sociale e istituzionale contraddittorio, il Presidente del Consiglio ed il suo Esecutivo ristretto, con il supporto di Cossiga come anticipatore delle forzature fatte, si sono assunti il compito di aprire le premesse politiche alla tanto perseguita “fase costituente” che dovrebbe legittimare le forme di potere nei fatti parzialmente operanti. Ed è in questo obiettivo la rottura profonda con tutta la fase precedente, è in questa direzione che si può collocare quanto avvenuto in particolare nell’ultima legislatura, a partire dal modo in cui è stata interrotta, decisa fuori dalle competenze politiche del Parlamento, per segnare inequivocabilmente come i meccanismi politici decisionali e in particolare il processo di formazione degli equilibri governativi debbano darsi fuori dal ruolo finora avuto dal Parlamento. In altre parole, quello che si è verificato prima, durante e dopo le elezioni, nella crisi extra istituzionali che hanno gravato questo percorso, con un governo rimasto in carica di fatto con le mani libere di legiferare per decreto, dimostra come lo svincolamento delle regole vigenti, la loro ostentata messa al margine, si stata una scelta politica funzionale per condizionare la sostanziale rifunzionalizzazione delle Camere al futuro assetto del potere. Un insieme di modifiche divenute indilazionabili a partire da come è stato accentrato il potere nell’Esecutivo, pena l’acuirsi dello squilibrio tra le sue prerogative e il ruolo attuale del Parlamento, uno squilibrio che alimenta la crisi di “agibilità” politica nel modo di governare. Questo ripropone urgentemente nuove regole nel meccanismo di formazione del governo, come dato principale all’ordine del giorno, su cui poter modellare norme e competenze delle camere, adeguate a sostenere politicamente e sul piano legislativo i caratteri di “governo forte e stabile” a cui mira la “riforma”. Un insieme di modifiche che, implicando una legge elettorale corrispondente al sistema di governo che vuole essere definito, richiedono gioco-forza lo scioglimento dei legacci parlamentari e costituzionali della Prima repubblica, prospettiva questa che pur rispondendo ad un piano di necessità, ha nella sua attuazione pratica e politica le incognite proprie dell’instabilità e dell’ingovernabilità che hanno caratterizzato le tappe percorse da tutti gli esecutivi in questo decennio.

La portata senza precedenti degli atti politici attuali in questo fine legislatura nello scompaginamento degli equilibri preesistenti, nel dettato implicito entro cui viene data la possibilità stessa di aprire alla “fase costituente”, qualifica questa crisi come levatrice delle condizioni che possono dare legittimità costituzionale a quanto con atti di forza si è già imposto nel concreto modo di governare, in questo avvalendosi del consenso e del sostanziale schieramento del più vasto arco delle forze politiche borghesi. Il trapasso che si prefigura, come in parte quello già avvenuto, non potrà darsi al di fuori della cornice della “democrazia rappresentativa borghese” che ne sancisca la legittimazione politica formale, un trapasso che avviene al di fuori e contro la profonda delegittimazione sociale e politica nel paese, tra proletariato e borghesia, classe e Stato. Dal divario incolmabile esistente tra governabilità formale e rapporti reali di scontro si comprende come ogni avanzamento nel processo di rafforzamento dello Stato sia connaturato dall’approfondimento di tutti i termini antiproletari e controrivoluzionari attivati nelle relazioni con la classe, vero humus su cui poggia il salto della fase politica che si è aperta in Italia. Un dato politico che calato nel contesto del paese fa da sfondo e compenetra le politiche dello Stato sul campo proletario stabilendo il terreno dove si gioca il confronto fra le classi. Un terreno di confronto appesantito soprattutto in quest’ultimo periodo dal varo di misure irreggimentatrici in materia di “ordine pubblico” estese dal piano di classe tutte le relazioni sociali, che dentro una demagogica campagna contro la “criminalità” sono la criminalizzazione di ogni opposizione di classe come di ogni espressione conflittuale.

“Ordine pubblico” che è da sempre in Italia il piano cui la borghesia imperialista e lo Stato ricorrono quanto maggiore è l’instabilità del quadro politico generale, e profondi gli strappi ricercati nei rapporti politici tra le classi, e che oggi vede più che mai le “forze dell’ordine” attivizzate a tutto campo e onnipresenti quale elemento di pressione a supporto di ogni forzatura del governo.

È all’interno di questo contesto generale e proprio dalla guerra con l’Iraq, che è stato formalizzato un ulteriore passaggio rilevante nella sua natura coercitiva. Questo è quanto si palesa nella nuova mappa relativa ai prefetti e alle procure, con le nuove funzioni loro affidate e il loro coordinamento, usufruendo dell’integrazione operativa delle tre armi, nonché della figura prospettata del super procuratore cui tutti dovranno fare riferimento, di fatto l’istituzione di un apparato centralizzato sotto la direzione politica di una ristrettissima componente dell’Esecutivo. La funzione prevalente ad essi assegnata è volta principalmente a prevenire il conflitto di classe e per questo il loro intervento sul territorio è irradiato sui maggiori poli metropolitani del paese, ed esprimono l’immediato carattere antiproletario e controrivoluzionario delle loro funzioni, tutte interne a poter attivare ogni livello della controrivoluzione preventiva. Inoltre svolgono anche un ruolo di controllo politico sulle amministrazioni locali, fungendo da raccordo delle decisioni del potere centrale su quello locale. Tali organismi per il fatto che investono il piano giudiziario e nel poter disporre delle principali forze coercitive dello Stato, compresi i servizi segreti riformulati, sono uno strumento di potere di cui i vertici dell’Esecutivo possono disporre. Ciò ha un suo risvolto politico concreto anche verso la magistratura, fanno testo in questo senso le pressioni tese ad esautorare le funzioni di autogoverno di questo potere dello Stato. in questo quadro l’istituzione di organismi giudiziari paralleli come “super procure”, “super procuratori”, che rispondono direttamente all’Esecutivo, agiscono come spinte alla rifunzionalizzazione a cui deve essere volto il potere giudiziario.

Nelle modalità con cui maturano svolte in cui la “stabilità” cerca di imporsi avvalendosi, nel governo delle contraddizioni, di politiche marcatamente coercitive e di risposte repressive quali termini più evidenti della loro natura antiproletaria e controrivoluzionaria, si esprime al massimo grado l’instabilità critica dei reali equilibri nel paese. L’impronta data agli strumenti messi in campo per rafforzare lo Stato e la forma che vengono ad assumere in un paese, va sottolineato, a capitalismo avanzato qual è l’Italia, mette a nudo la debolezza storica su cui poggia il dominio della borghesia imperialista la quale scaturisce dalle condizioni politico-generali di uno scontro storicamente in grado di esprimersi ai più alti livelli e di porre costantemente l’ipoteca del risvolto rivoluzionario. A maggior ragione in forza di vent’anni di prassi rivoluzionaria basata sulla lotta armata, la quale vi ha immesso tutto il peso politico a partire dalle conquiste rivoluzionarie che ha maturato. Ragioni prime queste degli ostacoli e dei ripiegamenti che la borghesia imperialista ha subito nei suoi progetti e della forte instabilità del quadro politico, che unitamente alla debole collocazione economica nella struttura gerarchica della catena, non ha consentito alla borghesia imperialista italiana di arrivare a quello sbocco sempre inseguito della “democrazia matura” quale sinonimo di una raggiunta cornice di stabilità che si poggi sull’ambita impermeabilizzazione nel governo del paese dalle spinte del conflitto di classe. I progetti che si sono susseguiti su questo terreno, ultimo quello demitiano, lungi dal procedere in modo lineare e pacifico, non hanno potuto raggiungere questo traguardo. ciò che si è verificato sono stati momenti di relativa stabilità che via via hanno segnato, con caratteri fortemente contraddittori, un’alta concentrazione delle leve del potere, contestualmente all’irrigidimento della mediazione politica. In altri termini benché l’Italia sia oggi allineata agli altri paesi europei sul piano dell’accentramento dei poteri, permangono caratteri peculiari nella democrazia rappresentativa, al cui interno si evidenzia, come aspetto specifico, il progressivo impoverimento dei contrappesi politici che agiscono per equilibrarne il funzionamento istituzionale. Nella riduzione, ovvero, dello spazio politico e dei margini di intervento su cui ha agito la tradizionale opposizione istituzionale, senza un corrispettivo sviluppo di altre formule che comprendano questa funzione, seppure ad un più alto grado di formalità, come avviene negli altri paesi europei con l’“alternanza” che consente relativamente di assorbire e governare in una cornice di democrazia apparente mutamenti anche più traumatici in termini sociali, come ad esempio in Gran Bretagna.

In questa fase in cui l’imperialismo è attraversato dalla crisi più acuta e si prepara apertamente alla guerra, in Italia vengono al pettine tutti i nodi ed i ritardi legati alle vecchie contraddizioni irrisolte che, nell’accumularsi critico con i nuovi fattori di contraddizione, sia nello scontro di classe che sul piano internazionale, caratterizzano la crisi come economica, sociale, politica ed istituzionale insieme, determinando di conseguenza uno stato di generale fibrillazione di tutti gli organismi istituzionali e soggetti politici. Un contesto dal quale scaturiscono le spinte per le cosiddette “soluzioni forti“ perché siano garantiti gli interessi urgenti dei maggior gruppi monopolistici dell’industria e della finanza, attraverso passaggi istituzionali che consentono la gestione di tutte le leve di governo del paese da parte delle forze politiche che ne riflettono più fedelmente gli interessi. In concreto è la DC, quale esponente principale di questa rappresentanza politica, che nel farsi promotrice del riassetto dello Stato e facendo capo alle modifiche sostanziali avvenute, ha costruito gli addentellati concreti per il controllo politico di queste leve.

Alla peculiarità di questa fase verso il diverso assetto dello Stato contribuisce un’oggettiva resistenza che si determina tra il modo in cui fino ad ora le forze politiche, DC in testa, hanno condotto gli indirizzi di politica economica e il loro mutamento nella direzione richiesta dall’attuale situazione di crisi. Un contrasto cioè tra improcrastinabili scelte economiche e “vecchio” sistema di allocazione delle risorse e delle politiche di sostegno, a partire dagli impegni che la stessa partecipazione alla comunità europea richiede, dovendoli far propri perché rispondenti alle necessità del capitale nazionale di concorrere alla formazione monopolistica europea. Già nelle scadenze imposte dal trattato di Maastricht che comportano una gestione ferrea del bilancio statale e del PIL si è manifestato la difficoltà di uscire dalle paludi dei vecchi equilibri economici e politici che frenano il decollo dei piani di “risanamento economico”, ad esempio del progetto di privatizzazione di settori economici statali (con regole per altro già fissate) e del diverso modo di attingere al risparmio privato in favore dell’industria con l’“azionariato popolare”. La problematicità di questo mutamento nella gestione della politica economica, che tra l’altro alimenta la conflittualità tra i partiti come riflesso sul terreno politico degli interessi economici concorrenziali, ha il suo fondamento principale nel carattere della crisi economica, la quale restringe l’arco delle risposte possibili. Questo si manifesta in particolare nello spostamento delle risorse economiche a sostegno delle frazioni dominanti di borghesia imperialista che coinvolgono anche i ceti intermedi, tradizionale base sociale democristiana, di piccola e media industria che dentro ai già risicati margini di mercato vedono ridursi il sostegno statale. Da qui lo squilibrio di una rappresentanza politica che sostanzialmente va a coprire interessi che sono in questa fase in contrasto con quelli di questi ceti, indebolendo le diramazioni di rappresentanza, in particolare DC, che poggiano su di essi. Una dinamica economica e sociale in cui si ripresenta il tipico fluttuare di questi ceti verso movimenti politici di carattere demagogico e qualunquistico, soprattutto a fronte della relativa debolezza che presenta il campo proletario. Questa dinamica nel contesto dell’avvenuto rafforzamento nelle forme di dominio della classe dominante, dà luogo solamente, a differenza del periodo prefascista, ad un utilizzo strumentale di questi ceti dentro le campagne ideologiche di stampo più “retrivo”, funzionali in ultima analisi solo ai fini della frazione dominante di borghesia imperialista. Sono queste frazioni dominanti, infatti, che sono scese in campo per sostenere una compagine governativa che possa garantire l’attuazione dei programmi economici più antiproletari e conseguenti strette sociali. Non è un caso che le parole d’ordine di “governo forte e ordine” accomunino governo e confindustria. Le iniziative concrete di quest’ultima non si limitano al sostegno delle parole d’ordine forcaiole sulla “lotta alla criminalità” ma si estendono alla partecipazione nei “comitati sull’ordine pubblico” nazionali e provinciali, e più sostanzialmente la vedono impegnata con interventi politici tesi a premere sulle principali scelte generali del governo.

Sul piano politico, a sostenere gli strappi richiesti nei rapporti tra le classi sono intervenute le massime cariche dello Stato, ponendo le forze politiche di fronte alla necessità di schierarsi sostanzialmente sulla natura antiproletaria e controrivoluzionaria dello Stato come un filo che deve connaturare le scelte che daranno luogo alla formazione delle “nuove regole del gioco”. Una pressione condotta in primo luogo da Cossiga nel ruolo affidatogli di apripista, lanciando la campagna di rivendicazione delle attività stragiste e controrivoluzionarie dello Stato e successivamente nell’attivazione delle sue bande terroristiche. Una campagna tesa ad appesantire il clima politico fino a toccare livelli intimidatori andando ad influire sulla già deteriorata dialettica tra le forze politiche, sia nel rapporto tra gli ambiti dell’opposizione istituzionale e la maggioranza, che fin dentro le stesse forze della tradizionale maggioranza. Quello che si sta affermando nel modo d governare il paese non è una degenerazione né uno svuotamento della “democrazia rappresentativa” al contrario, nel contesto generale, che si profila è il vero e autentico volto della democrazia borghese, l’espressione più scopertamente controrivoluzionaria che la borghesia può e sa esprimere per le necessità attuali dello sviluppo monopolistico, la forma di dominio più adeguata per sostenere il salto che deve compiere in questa fase di crisi/sviluppo. Ciò per acquisire quelle posizioni nei rapporti di forza politici fra le classi, affinché si possa attuare quel complesso di interventi che spaziano dalle misure propriamente anticrisi all’attivismo bellicista, la cui praticabilità politica deve fare i conti con l’opposizione di vasti settori proletari non disposti a subirne supinamente i costi politici e materiali, come hanno dimostrato diversi momenti di lotta e contrapposizione che a vari livelli sono stati espressi, sebbene nella discontinuità imposta dal livello di scontro.

Basti pensare a quanto si profila nel quadro internazionale dove lo Stato italiano dentro all’escalation della strategia militare imperialista è attivizzato alla diretta partecipazione nelle operazioni belliche, come già dimostrato in Iraq. Un ruolo quello dell’Italia che si è definito più precisamente negli impegni assunti durante il vertice NATO di Roma che qualificano ad un nuovo livello le sue responsabilità in quanto pilastro del fianco Sud della NATO col comando politico affidatogli. Direttive che hanno avuto immediato riscontro rispetto alle sue funzioni nell’area mediorientale-mediterranea, come si può ben vedere dall’“operazione Libia” in corso. Allo steso tempo lo Stato italiano sviluppa il suo impegno all’interno dell’attuale livello di confronto dell’imperialismo con l’est, già sostanziato nel “protettorato” di fatto posto sull’Albania, nonché nelle “ingerenze“ in Yugoslavia, sue storiche zone di intervento.

Un attivismo all’interno del concretizzarsi della tendenza alla guerra verso cui spingono al massimo le frazioni dominanti di borghesia imperialista nostrana legate ai grandi monopoli, non essendo altra cosa questo se non la concretizzazione dell’interesse e della necessità di ritagliarsi la propria fetta di zona di influenza, che si avvale in questa fase, prima ancora che nel sostegno finanziario dello Stato, dell’attivismo politico, diplomatico e militare dello Stato, della sua “politica estera”, nella più generale corsa alla conquista delle posizioni più favorevoli per la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro e dei mercati.

Un contesto questo in cui la borghesia imperialista nostrana preme fortemente sullo Stato per la creazione di quelle condizioni essenziali che non si esauriscono nella programmazione economica o nei preparativi bellici, ma che attengono all’attrezzare lo Stato nella sua funzione politica rispetto al conflitto di classe, specifica ala cosiddetta “pacificazione del fronte interno” quale fattore preliminare per essere in condizione di governare, pur sempre in senso relativo, una fase che rapidamente evolve come pre-bellica. E ciò non è tanto riferibile a quel clima di mobilitazione sciovinista e patriottica suscitato artificiosamente e che storicamente se può trovare “sensibilità” nelle fasce borghesi è completamente estraneo e ostile al proletariato. Accanto a questi aspetti che sono il corollario ideologico a cui la borghesia imperialista ricorre da sempre in vista dei suoi progetti guerrafondai, nella sostanza è sul piano del potenziamento di tutti gli aspetti della controrivoluzione preventiva che si gioca il contenimento dello scontro, a partire dal suo attuale grado di approfondimento. In sintesi, la borghesia imperialista e il suo Stato si apprestano a fronteggiare una fase di scontro che storicamente approfondisce lo schieramento e una polarizzazione degli interessi di classe contrapposti, attrezzandosi contro l’opposizione operaia e proletaria alla guerra, nella definizione di mezzi e misure di controllo e repressione, che sono già state sperimentate, ma solo parzialmente, durante la guerra del golfo, consapevole che lo scontro non può che assumere connotati particolarmente critici a partire dai termini politici che storicamente ha sviluppato il proletariato metropolitano per l’affermazione della sua autonomia politica e, nello specifico del nostro paese, per come i caratteri dell’autonomia di classe si sono strettamente connessi alla lotta armata.

A fronte dei caratteri della crisi che attanaglia la catena imperialista nel nostro paese il grande capitale monopolistico multinazionale spinge con tutto il suo peso affinché lo Stato possa farsi interprete e politicamente governare questa nuova fase dominata, dopo il lungo periodo di crisi strisciante, dalla recessione in tutto il pieno senso della parola. In una situazione di brusco ridimensionamento della base produttiva, che vede la chiusura di interi comparti, colpendo la crisi settori tecnologicamente avanzati e trainanti l’economia, con l’espulsione massiccia di forza-lavoro, non si tratta solo di comprimere il costo della forza-lavoro agendo sulle spese sociali, ma si tratta soprattutto del drastico taglio dei salari come esigenza imprescindibile. In questo contesto la funzione dello Stato sul piano delle politiche economiche si esplicita in tutta la sua portata, nel convogliare le risorse finanziarie disponibili a sostegno del salto richiesto alla grande industria ed ai maggiori gruppi legati all’alta finanza, necessario in questa fase per il livello di competitività sul mercato internazionale, nello specifico legato alla formazione dei monopoli intereuropei, agendo indirettamente e direttamente con il finanziamento alle fusioni, le fiscalizzazioni, con le politiche monetarie e di bilancio. Come anche va ad assumere in questa fase massimo peso la funzione politica dello Stato nel ruolo di mediatore del conflitto di classe a partire dal neocorporativismo quale aspetto principale di cui investe direttamente il rapporto capitale/lavoro. Il nodo sul tappeto è quello delle cosiddette nuove relazioni industriali e a tutt’oggi infatti è estremamente problematico sancire sul piano generale le nuove regole della contrattazione della forza-lavoro, questo nonostante siano marciati, a fianco di modifiche istituzionali, diritto di sciopero in primo luogo, ed hanno inciso sul mercato del lavoro con gli interventi sulla scala mobile, la CIG, la mobilità, ecc.

Ma il coinvolgimento sempre più spinto delle rappresentanze istituzionali sindacali nel processo di neocorporativizzazione è ben lontano dal risolvere il problema della effettiva agibilità politica per i programmi della confindustria in un contesto di classe che storicamente non ha mai permesso la cooptazione operaia alle scelte padronali, ma all’opposto caratterizza ogni aspetto del rapporto capitale/lavoro per la netta ed inequivocabile resistenza ed opposizione a fronte degli attacchi portati alle sue conquiste, per quanto virulenti essi siano. Oggi, nonostante il peso del neocorporativismo, cioè del massimo sviluppo dato al verticismo negli accordi centralizzati tra governo, confindustria e sindacati, e nonostante i tentativi di ingabbiare la mobilitazione e l’organizzazione operaia già nella fabbrica tramite filtri politici sul modello delle RSU, nonostante i tentativi di frammentare il corpo di classe attaccando le sue conquiste unitarie, malgrado tutto questo, permane in tutta la sua problematicità e contraddittorietà l’obiettivo inseguito da anni di sancire sul piano capitale/ lavoro nuove regole, con il coinvolgimento consenziente della base operaia. Un obiettivo che dimostra tutta la sua velleità quando nelle fabbriche ogni accordo al vertice viene immancabilmente respinto e le rappresentanze sindacali disconosciute, e non c’è, con la firma degli accordi capestro, nessuna operazione di legittimazione conferita “per legge” in grado di dare soluzione, se non artificiosa, al problema, quando per la “democrazia sindacale” è diventato impraticabile perfino il referendum, quando a tutt’oggi è bloccato e irrisolto il problema delle rappresentanze in fabbrica, quando la “cogestione” e la “qualità totale” hanno dimostrato nei fatti la messa sempre più alle strette dei sindacati agli imperativi imprenditoriali una subordinazione che riflette la loro perdita di peso politico, mentre si fa esplicito il ruolo che si sono scelti di sindacato d regime.

Nella realtà quello che nello scontro si è imposto, a fronte della resistenza degli strati operai e proletari, soprattutto nei settori più combattivi, è un modo di agire che per rompere la rigidità operaia a qualsiasi livello, può procedere solo con la forza e colpi di mano. L’attacco padronale in questa fase assume i toni di una offensiva politica ed ideologica contro ogni ordine di conquiste proletarie, e che si esprime anche nelle risposte degli industriali tese ad alzare il confronto e ad inasprirlo recuperando pure i vecchi metodi di intimidazione padronale fatti di guardiani e spie, di serrate, di mancato salario, ecc. Metodi che lontano dal costituire un’effettiva deterrenza alle lotte, riconfermano solo la “vocazione autoritaria” degli industriali nei rapporti di classe. Il portato antiproletario e controrivoluzionario immediatamente espresso nelle modalità con cui la borghesia imperialista porta avanti gli interventi anticrisi, dà a misura di quanto sia critico governare politicamente, pur potendo contare su rapporti di forza in suo favore, in questa fase in cui ben lontano dall’obiettivo di pacificazione dello scontro, sempre più esplicita è l’inconciliabilità degli interessi generali tra le classi, come sempre più scoperta è la vera natura di classe dello Stato borghese.

L’attuale situazione interna e internazionale ripropone la validità delle ragioni che hanno caratterizzato la necessità della strategia della lotta armata nel nostro paese e in generale della lotta armata nel centro imperialista ed attesta inequivocabilmente la propositività degli assi strategici su cui si sono costruite le BR, della loro linea politica, del loro programma, in una parola la validità della loro prassi rivoluzionaria per lo sviluppo del processo rivoluzionario in un paese a capitalismo avanzato quale l’Italia.

Oggi è reso ancor più evidente come solo l’impostazione offensiva della guerriglia posa rompere il sistema di potere della borghesia imperialista e come solo lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata possa costruire le condizioni perché la classe avanzi sul terreno dello scontro per la conquista del potere politico. Il cuore dell’impostazione offensiva della guerriglia risiede nella determinazione dell’unità del politico e del militare, come dato nuovo e peculiare della guerriglia nei paesi a capitalismo maturo, elemento più avanzato delle caratteristiche della guerra di classe che scaturisce dalla necessità di misurarsi con le forme di dominio che la borghesia imperialista ha affinato, stabilendo in esse la controrivoluzione preventiva come politica costante per non far collimare il piano dell’antagonismo di classe col terreno rivoluzionario. Essa determina tutto l’agire della guerriglia caratterizzando lo sviluppo stesso del processo rivoluzionario, nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare e agire militarmente e dare il primo posto alla politica, essa svolge la sua iniziativa rivoluzionaria secondo una linea di massa politico-militare. L’elemento della guerra è intrinseco al politico, rimanendo però l’elemento politico sempre dominante. Agire nell’unità del politico e del militare significa unire costantemente il piano di sviluppo politico dello scontro col piano della guerra.

Questa impostazione offensiva per raggiungere i suoi obiettivi deve necessariamente svolgersi all’interno di una strategia generale che le BR hanno sviluppato fin dalla loro nascita. Questa strategia si fonda sul fatto che la lotta armata è una proposta a tutta la classe quale presupposto su cui si sviluppa dall’inizio alla fine la guerra di classe di lunga durata, su cui si organizzano fin da subito le avanguardie più coscienti della classe. Strategia della lotta armata è la direttrice del “piano sistematico di azione” all’interno del quale si articolano correttamente le tattiche relative ad una determinata fase di scontro. Essa ha dimostrato nei fatti e nel tempo la sua capacità nel costituire l’unico valido riferimento nella prospettiva rivoluzionaria, perché è in grado di indirizzare sempre l’andamento della guerra di classe nelle sue diverse fasi rivoluzionarie. La lotta armata è una proposta che le BR fanno a tutta la classe perché il terreno e la pratica rivoluzionari non riguardano solo i comunisti, i comunisti sono il reparto più avanzato della classe. Il proletariato metropolitano a dominanza operaia è la base sociale di riferimento della lotta armata, è la base sociale da cui sono nate le BR ed in cui si riproducono, la base sociale di cui portano avanti gli interessi generali contro il potere della borghesia nello scontro rivoluzionario. Per questo uno dei principi fondamentali delle BR è che la guerriglia si sviluppa nei poli industriali in dialettica con le istanze più mature della classe, organizzandole e dirigendole sul terreno strategico della guerra di classe di lunga durata, una dialettica che si sviluppa nella dinamica attacco-costruzione-attacco.

Elemento centrale della strategia della lotta armata che unisce indissolubilmente le diverse fasi di scontro, sta nella coscienza della centralità che riveste la questione dello Stato rispetto allo sviluppo del processo rivoluzionario, problematica concepita correttamente nell’accezione leninista, questione che si pone a risoluzione non con una generica contrapposizione al potere della borghesia, ma con la precisa espressione dell’attacco al cuore dello Stato, ovvero con la contrapposizione scientifica alla sede del potere politico della borghesia. Attacco che viene diretto contro l’aspetto dominante della contraddizione classe/Stato, contro il nodo politico centrale che oppone la classe allo Stato nelle politiche dominanti della congiuntura. Questo operare al punto più alto dello scontro provoca una relativa disarticolazione dei progetti borghesi e un loro momentaneo arretramento, ovvero crea dei rapporti di forza momentaneamente favorevoli alla classe. L’acquisizione di questa forza non può essere capitalizzata, accumulata se non viene tradotta in organizzazione di classe. Organizzazione di classe che a sua volta comporta l’unità del politico e del militare e ciò avviene nel solo modo che questo terreno organizzato ha di procedere nello scontro contro lo Stato, cioè sul terreno della lotta armata con gli stessi criteri di fondo che permettono alla guerriglia di esistere: clandestinità e compartimentazione. Diversamente si dovrebbe ipotizzare di poter organizzare queste forze attraverso un’attività rivoluzionaria solamente politica il che, nell’attuale stadio dell’imperialismo è assolutamente impossibile. Le forme di dominio sviluppate dalla borghesia imperialista mirano ad assorbire l’urto delle istanze prodotte dalla lotta di classe dentro a processi selettivi che consentano di diluire e neutralizzare tali istanze e, nel contempo, di procedere alla repressione/criminalizzazione delle espressioni antagoniste, in grado, quindi, di compatibilizzare qualunque attività che non fa i conti con il problema di rompere il reticolo della controrivoluzione preventiva.

È dalla consapevolezza di questa dialettica dello scontro e dalla sua continua verifica e aggiornamento che la lotta armata ha potuto svilupparsi precisando la strategia ed articolandone con maggior esattezza le sue fasi. Un passaggio fondamentale di questo sviluppo è dato dalla precisazione, all’interno della fase di Ritirata Strategica, dell’attacco al cuore dello Stato nei sui termini concreti ed idonei a rispettare in pieno la fase rivoluzionaria in atto. Non si tratta, come nel passato, di mettere sullo stesso piano i centri della macchina statale, anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello Stato visto in una separatezza dei suoi apparati, cioè politici, burocratici e militari, a sua volta derivata da una visione semplificata e un po’ manualistica delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe di lunga durata, ricondotte a due sole fasi principali: quella della propaganda e dell’organizzazione del capitale rivoluzionario sul terreno della lotta armata e il suo dispiegamento nella guerra civile. Ma, la pratica e, attraverso questa, l’esperienza acquisita dalle BR ha migliorato la comprensione della dinamica del succedersi della fasi rivoluzionarie ed ha permesso di ricollocare correttamente la funzione dello Stato il quale centralizza necessariamente in sede politica la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni, l’attacco allo Stato, al suo cuore congiunturale va inteso nel giusto criterio affermatosi nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento nell’attacco. Di questo, la prima attiene fondamentalmente e in primo luogo alla capacità di individuare, all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi, il progetto politico centrale della borghesia imperialista nella congiuntura al fine di disarticolarlo (sia pur in termini relativi), approfondendo i termini dello scontro a favore del proletariato; la seconda riguarda la capacità di individuare il personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio fra le forze che tale progetto sostengono; il terzo è relativo alla capacità di calibrare il proprio attacco avendo chiaramente presenti sia il grado di approfondimento dello scontro (ad esempio anche in caso di arretramento il livello di intervento non può prescindere dal punto più alto di scontro assestato), che il grado di aggregazione/assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie, come pure lo stato dei rapporti di forza generali interni al paese in relazione agli equilibri internazionali tra imperialismo ed antimperialismo. Questo, il criterio che guida l’attacco e la scelta dell’obiettivo e che permette alla guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo del vantaggio politico e materiale. In ultima analisi si può affermare che questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro, poiché solo la fase della guerra civile dispiegata consente di attaccare contemporaneamente su più livelli la macchina statale.

Il rapporto rivoluzione/controrivoluzione nel suo procedere concreto è ciò che in primo luogo ha fatto chiarezza sulla non linearità del processo rivoluzionario. È a partire dal riadeguamento intrapreso dalle BR alle nuove condizioni dello scontro che è stato possibile avere maggiore chiarezza sulle fasi rivoluzionarie che si succedono, in quanto esse si definiscono non puramente in riferimento all’esito dello scontro materiale in una data congiuntura, ma in relazione ai salti di qualità nel complesso dello scontro tra le classi generato dallo stesso rapporto rivoluzione/controrivoluzione. In questo senso le fasi rivoluzionarie non sono predeterminabili a tavolino, ma si susseguono a seconda dell’esito della fase precedente in riferimento e in dialettica con i caratteri politici generali affermatisi nel rapporto fra le classi, in relazione alla situazione internazionale, che mutano nel complesso il quadro di scontro. E questo perché il carattere dello scontro rivoluzionario nelle metropoli è segnato dalla qualità politica della controrivoluzione preventiva e dalla forte integrazione della catena imperialista. In questo senso aver avuto la capacità di intraprendere la Ritirata Strategica ha significato gettare le basi per un ulteriore avanzamento nello sviluppo della guerra di classe di lunga durata. Nel complesso ha significato maturare una maggiore coscienza complessiva dell’andamento dello scontro rivoluzionario. L’apertura della Ritirata Strategica è ciò che ha permesso nel vico dello scontro di mantenere l’offensiva dando continuità alla prassi combattente della guerriglia, attraverso momenti qualificanti di ricentramento dell’attacco al cuore dello Stato e nell’attacco all’imperialismo, pur nel succedersi di avanzate e ritirate. La discontinuità, i veri e propri salti politici che si presentano nello scontro rivoluzionario, è una legge della guerra di classe nella metropoli. Questa legge deriva dai caratteri immanenti allo scontro nella metropoli all’interno dei quali opera la guerriglia. Il primo, e più importante, è dato dalla condizione di accerchiamento strategico, questa è una caratteristica peculiare della guerra di classe di lunga durata nella metropoli. Una guerra che, facendo riferimento reciproco ad un nemico assoluto, non ha per sua stessa definizione un fronte in gioco, c’è unicamente e precisamente il potere della classe dominante. La guerra di classe di lunga durata opera costantemente all’interno di rapporti di forza generali favorevoli alla borghesia e contro quel complesso reticolo politico determinato dalla controrivoluzione preventiva e, dunque, non potendo avere retrovie di alcun genere si trova ad operare in condizione di costante accerchiamento. L’altro carattere è dato dal fatto che solamente nello scontro stesso la guerriglia può costruire e disporre le sue forze le quali, non essendo precostituite, non possono essere ripartite a priori, ma è la stessa strategia che le crea e le rinnova in maniera non proporzionale o costante. In sintesi solo facendo la guerra di classe si può costruire l’esercito rivoluzionario. La guerriglia nella metropoli vive la condizione immanente di accerchiamento strategico, ma contemporaneamente, e questa è una legge generale della guerra rivoluzionaria, la borghesia imperialista non ha la possibilità di annientarla perché lo scontro stesso genera le sue nuove forze tra il proletariato, classe ineliminabile per la borghesia; mentre la guerriglia sviluppa un processo rivoluzionario che si alimenta e progredisce sull’annientamento della borghesia in quanto classe e del suo potere politico.

La comprensione di questo elemento è ciò che permette di individuare i possibili riadeguamenti all’interno delle singole fasi rivoluzionarie atti a mantenere l’offensiva al punto più alto ed a rispondere all’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione nelle condizioni di volta in volta mutate. In questo senso si comprende perché nell’attuale fase di Ricostruzione, che si sviluppa all’interno della Ritirata Strategica, l’attività rivoluzionaria è obbligata ad un continuo movimento di avanzate e ritirate, dato il livello di affinamento della risposta controrivoluzionaria e, su di un altro piano, per le condizioni politiche generali in cui si sviluppa lo scontro rivoluzionario. All’interno di una medesima fase rivoluzionaria a carattere generale maturano momenti politici congiunturali che comportano necessariamente una precisazione nella conduzione della guerra e della relativa disposizione/organizzazione delle forze in campo. Momenti congiunturali che, proprio per questo movimento e, per i tempi politici che li caratterizzano, possono definirsi vere e proprie fasi rivoluzionarie, qual è la fase di Ricostruzione. A questi attiene la capacità di applicazione della tattica come elemento dinamico della strategia, per cui possiamo affermare che la strategia definisce il carattere generale della disposizione delle forze sulla lotta armata da cui non si può prescindere, la tattica, informata dai criteri generali della strategia della lotta armata, precisa la direzione delle forze in riferimento agli obiettivi programmatici e di fase che di volta in volta si maturano. Alcuni esempi concreti possono chiarire questa affermazione. l’indirizzo di disposizione delle forze aperto dalla fase della Propaganda Armata, ha permesso di precisare il modo in cui si è radicata la necessità (l’idea forza) della lotta armata, ovvero gli obiettivi, i modi di intervento, la disposizione delle forze, hanno caratterizzato l’atteggiamento tattico di quella fase rivoluzionaria. Nella situazione attuale l’atteggiamento tattico è condizionato dalla fase generale di ritirata strategica, dagli obiettivi programmatici e dall’indirizzo di fase specifica di Ricostruzione delle forze, vale a dire del modo e del come si dispongono le forze intorno a questi termini.

Nel contesto della Ritirata Strategica, un periodo non quantificabile in anni, nel quale l’attività rivoluzionaria è prevalentemente tesa ad un ripiegamento delle forze, in modo da mantenere e rilanciare la capacità offensiva espressa dalla guerriglia, si precisa e si determina la fase di Ricostruzione delle forze proletarie e rivoluzionarie e di costruzione degli strumenti politico-organizzativi idonei ad attrezzare il campo proletario nello scontro contro lo Stato, con il fine di modificare i rapporti di forza attuali. L’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata nella fase di Ricostruzione si sviluppa sul duplice piano di lavoro costruzione/formazione in modo da ricostruire nel tessuto di classe i termini politico-militari e di patrimonio della guerriglia per disporle adeguatamente nell’attuale fase rivoluzionaria. La fase di Ricostruzione è termine prioritario nel mutamento dei rapporti di forza tra campo proletario e Stato e si pone come un tassello fondamentale per la ricostruzione dei livelli politico-militari che costituiscono i termini di avanzamento della guerra di classe di lunga durata;

Un dato principale che si è definito come salto di qualità all’interno della Ritirata Strategica è la Centralizzazione di tutti i termini del lavoro politico. Ciò ha significato e significa un avanzamento nel processo di costruzione/fabbricazione del partito Comunista Combattente che si costruisce insieme alla costruzione dei termini politici e materiali della guerra di classe di lunga durata. La Centralizzazione, come dato politico è emersa nella pratica concreta a partire dalla constatazione che portare l’attacco allo Stato e, in generale, per collocarsi in termini idonei ai caratteri dello scontro interno ed internazionale, in questa fase della guerra di classe, comporta dispiegare intorno a ciò l’attività di costruzione-consolidamento dell’organizzazione di classe. La Centralizzazione dell’attività intesa nel suo complesso permette di muovere come un cuneo compatto nella medesima direzione le forze che si dispongono intorno alla Organizzazione, permettendo di assestare e riproporre nella disposizione idonea ai termini dello scontro che maturano, tutte le forze in campo. Centralizzazione significa centralizzazione delle direttive politiche sull’intero movimento delle forze, decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse sedi e istanze organizzate, ciò per realizzare il massimo di responsabilizzazione delle forze su di un piano di lavoro, le cui caratteristiche politiche siano patrimonio di tutti, ma non interpretabili spontaneamente dai diversi livelli organizzati.

Questi termini programmatici che marciano sul terreno strategico dell’attacco al cuore dello Stato, in unità programmatica con l’attacco all’imperialismo, insieme alla costruzione del Fronte Combattente Antimperialista nella coscienza che la rivoluzione è internazionalista o non è, hanno verificato e sviluppato la capacità da parte delle BR di assolvere la funzione di direzione politico-militare dello scontro all’interno della proposta strategica della lotta armata a tutta la classe.

– Attaccare e disarticolare i progetti di rifunzionalizzazione dello Stato, che nella fase attuale evolvono verso una Seconda Repubblica!

– Attaccare e disarticolare i progetti guerrafondai della borghesia imperialista nostrana, che si attuano all’interno dell’alleanza imperialista!

– Organizzare i termini politico-militari per ricostruire i livelli necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata!

– Contribuire alla costruzione e al rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista nella nostra area geopolitica, per combattere i progetti dell’imperialismo sia sulla linea della coesione europea, sia nei progetti di guerra diretti dalla NATO che si dispiegano in questo momento sulla regione mediorientale-mediterranea e lungo l’asse dei paesi dell’Est europeo, ex-URSS in testa!

– Guerra alla guerra, guerra alla NATO!

– Rendiamo onore a tutti i rivoluzionari caduti combattendo contro l’imperialismo, al martire palestinese Mustafà-Al-Ikawi morto il 4/2/’92 per mano dei torturatori sionisti israeliani, senza cedere; ai militanti di Dev Sol caduti combattendo contro lo Stato turco; ai prigionieri di guerra massacrati nel carcere di Canto Grande a Lima!

Firenze, 21/5/1992

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Maria Cappello, Antonino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Marco Venturini

 

Note

(1) CSCE: Consiglio per la sicurezza e la cooperazione europea che raggruppa, oltre ai paesi NATO anche vari Stati che facevano parte del blocco sovietico.

(2) EFTA: (European Free Trade Association). Associazione europea di libero scambio costituitasi nel gennaio 1960 principalmente su iniziativa inglese in risposta alla creazione della CEE. Attualmente i suoi membri si sono ridotti a cinque Stati (Austria, Islanda, Norvegia, Svezia e Svizzera) più un membro associato (Finlandia), dopo l’uscita di Gran Bretagna e Danimarca che hanno aderito alla Comunità Europea dal 1° gennaio 1973.

Firenze, processo di primo grado “Lando Conti” – Ricordo di Carlo Pulcini di Maria Cappello, Antonino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli, Daniele Bencini, Marco Venturini

Vogliamo qui ricordare il compagno Carlo Pulcini, militante comunista coerente, che ha saputo fare della sua vita un baluardo nella lotta contro la borghesia e l’imperialismo.

Lo ricordiamo operaio edile, avanguardia di classe nelle fortissime lotte che gli edili di Roma e provincia hanno sviluppato negli anni ’60 e ’70 contro il supersfruttamento che allora, come oggi, caratterizza questo settore. Avanguardia di quella classe operaia che in prima fila ha affrontato i governi più reazionari, dal governo Tambroni ai governi Moro.

Carlo si relaziona alla proposta della lotta armata fin dalla metà degli anni ’70, portando in essa il suo bagaglio di esperienze e di lotte, il suo impegno costante e progressivo.

La magistratura e le infami forze di repressione lo pongono nel loro mirino e vengono spiccati mandati di cattura nei suoi confronti. Viene catturato nel 1982 e processato per i fatti relativi alla “Fabrizio Pelli” di Salerno.

Sconterà quattro anni, ma appena fuori non aspetterà neppure un giorno per riallacciare le fila del suo lavoro rivoluzionario, collaborando attivamente al lavoro politico delle BR. Viene di nuovo catturato nel settembre ’88 e, da allora, in tutte le occasioni ha sempre rivendicato la sua attività di militante rivoluzionario interna al progetto della conquista del potere politico da parte del proletariato, tramite la strategia della lotta armata condotta dalle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

Carlo possedeva il pregio delle avanguardie proletarie conseguenti, sapeva sempre da che parte stare, sapeva riconoscere la sua barricata senza la benché minima esitazione. Conosceva bene la controparte, conosceva bene il suo nemico, il nemico di tutti i proletari e sapeva individuarlo immediatamente per schierarsi e combattere con le armi in pugno.

Carlo è morto con l’onore di un combattente del proletariato, con l’onore di chi anche nei momenti difficili, nelle situazioni politicamente più delicate, davanti a problemi insormontabili, sa prendere decisioni sempre limpide e chiare. Un esempio per tutti noi e per la sua classe. Siamo orgogliosi che Carlo è stato uno di noi.

Onoriamo con lui i combattenti comunisti massacrati in questi giorni nel carcere di Canto Grande di Lima e i combattenti comunisti caduti in Turchia e in Kurdistan.

I militanti delle BR per la costruzione del PCC: Maria Cappello, Nino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Marco Venturini

Firenze, 13/5/1992

Le minacce e i ricatti controrivoluzionari non intaccano la militanza dei prigionieri comunisti

Venerdì primo maggio mio fratello veniva fermato a Caserta da alcune auto. Invitato a scendere dalla propria macchina, con la quale stava facendo ritorno a casa dalla caserma dove sta facendo il servizio militare, veniva avvicinato da individui qualificatisi subito come esponenti del SISMI. I quali, in sintesi, gli facevano questo discorso: essendo io in carcere da alcuni anni e “senza prospettive”, lui avrebbe potuto “aiutarmi” mettendosi a loro disposizione. Il che significava informarli di quanto avviene in carcere e contattare ambiti di movimento (non precisati) per riferirne le attività. Al ricatto “soft” – evidentemente debole – (la prospettiva cioè di essere lui, con la sua decisione, ad “aprirmi o chiudermi la porta del carcere”) ne aggiungevano altri più espliciti: in caso di rifiuto avrebbe “passato un guaio”, cioè lo avrebbero fatto arrestare; e di ricordarsi di avere un fratello in prigione, dove loro avrebbero potuto intervenire a piacimento. E, senza mezzi termini, che se si fosse opposto alla loro “proposta” mi avrebbero “fatto la pelle”.

La decisione di rendere pubblico questo episodio si fonda sulla convinzione che esso vada al di là di un fatto che coinvolge me, direttamente o indirettamente (ché per questo la risposta sta semplicemente nella indisponibilità a subire la minaccia e il ricatto, mia come dei miei familiari). La convinzione che si tratti in sostanza di un ulteriore messaggio intimidatorio e deterrente rivolto al movimento di classe e rivoluzionario.

“Episodi” come questo sono del tutto interni al quadro che caratterizza la fase politica e lo scontro di classe in questo paese e, nelle modalità specifiche, evidenziano chiaramente i termini dell’iniziativa odierna dello Stato, in generale contro il movimento autonomo di classe e le sue avanguardie, e più specificamente contro la guerriglia.

È bene far chiarezza su questo, perché non si tratta affatto di residui delle “politiche d’emergenza”; e sarebbe a mio parere riduttivo vedere il loro raggio d’azione fermarsi ad attacchi episodici contro i comunisti e rivoluzionari prigionieri e le loro famiglie, o semplicemente ad atti intimidatori e provocatori contro l’attività di settori del movimento di resistenza di classe. Se ne coglierebbe “la parte, non il tutto”, e soprattutto diventerebbe inspiegabile la qualità e la pesantezza di tali operazioni.

Non basterebbe a cogliere, cioè, i dati di fondo che informano l’attività antiproletaria e controrivoluzionaria dello Stato in questa fase, in base al grado di approfondimento raggiunto dallo scontro, ai rapporti di forza materialmente conseguiti dallo Stato, e agli obiettivi politici generali perseguiti dalla borghesia. Dati che ben spiegano i mezzi che lo Stato sta mettendo in campo, a diversi livelli e su più piani, per incidere sulla qualità assunta dal processo rivoluzionario in Italia, per cui non è sufficiente “reprimere” il movimento di resistenza proletario, ma si tratta di attaccare e contrastare, in primo luogo, l’attività dell’avanguardia rivoluzionaria e la sua proposta politica alla classe: la strategia della lotta armata.

Negli ultimi anni assistiamo a particolari modalità di sviluppo dell’iniziativa statale contro il campo proletario e rivoluzionario. Un’iniziativa ad ampio raggio calibrata a seconda che ad essere attaccato sia il movimento autonomo, il movimento rivoluzionario o la guerriglia. Ma che comunque esprime un’unica sostanza: l’aggressione offensiva delle contraddizioni sociali e politiche.

L’offensiva generalizzata negli ultimi anni si esprime con attacchi alla classe e alle sue espressioni autonome, attraverso forzature politiche fino all’intervento direttamente “militare” nei punti caldi del conflitto sociale. Si esprime, ancora, con la criminalizzazione e l’intimidazione verso gli ambiti più maturi e combattivi dell’autonomia operaia e proletaria. In questo è evidente la continuità col processo di ridimensionamento e depotenziamento del peso politico della classe iniziato nei primi anni ’80. Un’offensiva che ha precisi caratteri per la necessità (a fronte dell’incombere di ineludibili scadenze interne e internazionali della borghesia imperialista) di piegare un proletariato mai pacificato completamente. Ma che ha al tempo stesso l’obiettivo, più propriamente controrivoluzionario, di incidere nel tessuto sociale, nell’ambito naturale di riproduzione delle avanguardie, di contrastare il loro potenziale collegamento col piano rivoluzionario. L’attacco è anche quindi più specificamente calibrato contro la proposta politica dell’avanguardia rivoluzionaria alla classe, per impedire che lo scontro si incanali sul piano offensivo, strategico, della lotta armata contro lo Stato, per il potere. Il solo piano che realmente può incidere nei rapporti di forza generali, ma soprattutto il solo che può dare risposta e prospettive alle aspirazioni politiche e sociali del proletariato, rappresentando la forma storicamente assunta dalla politica rivoluzionaria nei paesi a capitalismo maturo e, nello specifico contesto italiano, per un’alternativa proletaria e rivoluzionaria alla crisi della borghesia imperialista.

Lo Stato, al di là delle chiacchiere mistificatorie sul “superamento dell’emergenza”, di cui il ripiegamento del campo proletario e rivoluzionario avrebbe posto le condizioni, misura il suo piano controrivoluzionario sempre a partire dal livello raggiunto dalla dialettica rivoluzione/controrivoluzione. Così oggi fa pesare i rapporti di forza conseguiti per incalzare e incidere in questa dialettica, muovendo verso un ulteriore approfondimento della controrivoluzione preventiva, come parte integrante del modo in cui si predispone a modificare più complessivamente i termini di governo del conflitto. Che vuol dire poi ridefinire il modo in cui si esplica la sua funzione di mediazione politica tra le classi, che va a caratterizzarsi per il suo sostanziale irrigidimento. Questo è un dato strutturale nei paesi a capitalismo maturo, caratterizzando la forma-Stato atta a meglio garantire il dominio della borghesia imperialista in questa fase di crisi e sviluppo dell’imperialismo. Tale ridefinizione dei caratteri strutturali di gestione del conflitto, applicata al peculiare contesto italiano, è alla base del passaggio in corso verso una Seconda Repubblica, anticipandone i tratti marcatamente antiproletari e controrivoluzionari.

La qualità e modalità della politica antiproletaria e controrivoluzionaria sono dunque frutto, in ultima istanza, delle caratteristiche che sta assumendo il processo di ridefinizione dello Stato nel contesto del paese, che sta determinando una fase politica complessa e delicata, segnata da una accentuata instabilità.

– Da un lato la borghesia imperialista nostrana ha la necessità impellente (ancor più a ragione del livello raggiunto dalla crisi economica e dalle spinte che muovono l’imperialismo verso lo sbocco bellico, come unico mezzo per dare risoluzione alla propria crisi generale) di rimodernare e meglio funzionalizzare il proprio apparato istituzionale, per farlo rispondere alle attuali esigenze del grande capitale multinazionale e ai più generali interessi della catena imperialista, che richiedono una più forte coesione tra Stati e, tra l’altro, un maggior coinvolgimento dello Stato italiano nelle prospettive guerrafondaie imperialiste.

– Dall’altro, tale “ammodernamento” richiede, per parte borghese, un adeguamento del modo di esprimere il proprio dominio di classe. Un adattamento del modo in cui lo Stato opera la sua funzione di organo della dittatura borghese e mediazione del conflitto di classe, al livello richiesto. Ancor più perché le prospettive belliche impongono a ogni Stato di avere un territorio interno “pacificato”, un retroterra “stabile” da cui lanciare le proprie aggressioni contro altri paesi e popoli. Ed è qui che iniziano i problemi. Perché si tratta non di asettiche operazioni di ingegneria istituzionale studiate a tavolino e da applicare meccanicamente, ma di far passare le “riforme” necessarie su una materia sociale ben più viva: il proletariato.

L’obiettivo del rafforzamento dello Stato a spese delle classi subalterne, d’altra parte, non implica una svolta “fascista”. Se pur siamo in presenza per molti aspetti di caratteri che configurano una vera e propria restaurazione operata in vari campi della vita sociale e politica, la dittatura fascista sarebbe una soluzione antistorica e inadatta, non esprimendo la forma-Stato più adeguata a garantire il potere politico della borghesia imperialista nei paesi a capitalismo maturo, quale invece si è mostrata la moderna democrazia rappresentativa (che, sia chiaro, per parte proletaria non è che una forma di dittatura borghese). Si sta cercando invece di adattare e approfondire la democrazia rappresentativa, omogeneizzandola alle caratteristiche di fondo comuni delle altre democrazie occidentali. L’obiettivo è quello di accentrare ulteriormente i poteri nell’esecutivo, svincolandone le decisioni dalle spinte sociali (“blindandolo”, cioè, da influenze esterne), e di imbrigliare la classe nei reticoli e canali sempre più rigidi della democrazia “formale”. Definire così un quadro di istituzionalizzazione del conflitto, che per la classe significa subire gabbie sempre più soffocanti, senza la minima possibilità di incidere e far valere i propri interessi.

Il fallimento, quello sì reale e storico, dei partiti revisionisti nell’occidente capitalistico mostra d’altronde tutta l’illusione di poter cambiare la situazione delle classi subalterne dentro le “regole democratiche” stabilite. A parte l’incomprensione di fondo delle forme assunte dal dominio borghese nell’Europa del dopoguerra, con la funzione venuta a svolgere dalla controrivoluzione preventiva come parte stabile integrante delle modalità di governo del conflitto, il fallimento è risaltato chiaramente e si è consumato velocemente, man mano che si restringevano i margini economici e politici di riassorbimento delle contraddizioni sociali, per effetto dell’approfondirsi della crisi, svelando, senza più margini di dubbio (per chi ne avesse), che non vi sono spazi per un affrancamento politico e sociale della classe nella democrazia rappresentativa, ma che gli unici spazi permessi sono quelli connessi al quadro di interessi e compatibilità della borghesia imperialista. Si tratta di dati strutturali, connessi alla funzionalità delle moderne democrazie rappresentative e non di una “involuzione autoritaria”, né di un “nuovo fascismo”.

Cosa rivela allora l’attuale affrontamento aggressivo delle contraddizioni sociali, il ricorso all’armamentario terroristico, intimidatorio contro la classe operaia e proletaria, le sue avanguardie politiche e rivoluzionarie? Emergono due dati. Che esprimono al contempo elementi di forza e debolezza della borghesia imperialista “nostrana” in questa fase.

Da un lato vi sono i rapporti di forza conseguiti dallo Stato con la “controrivoluzione degli anni ’80”(i cui caratteri persistono) fatti gravare pesantemente nello scontro. Dentro questo vi è, tra l’altro, una versione aggiornata della “strategia della tensione” cui fanno ricorso gli apparati di “sicurezza” dello Stato. Una strategia cui lo Stato è ricorso diverse volte per frenare le richieste politiche e di potere della classe, e favorire svolte e nuovi equilibri politici interborghesi più adeguati a stabilizzare la situazione interna. Rinnovare questo utilizzo terroristico degli apparati di “sicurezza” ha un senso preciso nella difficile fase attuale per gravare nello scontro, ed evidenzia, tra l’altro, il senso attuale che hanno avuto le rivendicazioni dell’attività stragista dello Stato, fatta dalle più alte cariche istituzionali e dalla DC, partito responsabile al più alto grado del sangue operaio e proletario versato nelle piazze, nelle strade e nelle stazioni ferroviarie di questo paese.

D’altro lato si evince la situazione di difficoltà e debolezza reale entro cui la borghesia imperialista si muove, che risalta nel livello di crisi politico-istituzionale che la sta investendo. Questo perché l’esigenza e l’improrogabilità con cui deve mettere mano alle “riforme” dello Stato, si sono scontrate e si scontrano con un proletariato mai completamente pacificato dall’offensiva controrivoluzionaria a tutto campo degli anni ’80, mai “decapitato” del carattere antistituzionale, antistatuale e antimperialista delle sue espressioni più avanzate, che ne continua a rappresentare un dato costitutivo pur nelle condizioni di resistenza attuali. Resistenza che va a scontrarsi sul piano politico, principalmente, proprio con gli effetti suscitati dal processo di rifunzionalizzazione dello Stato, per la sua chiara impronta di classe; e sul piano capitale-lavoro contro le nuove relazioni industriali, di stampo neocorporativo, che dovrebbero ridimensionare il peso dell’organizzazione autonoma operaia e rendere il lavoro dipendente totalmente subalterno alle compatibilità capitalistiche. Ma non solo: soprattutto i progetti di “riforma” più avanzati hanno dovuto ripiegare per l’opposizione rivoluzionaria delle BR, la cui attività, innestandosi con le espressioni autonome più avanzate e combattive della classe, ha tra l’altro contribuito negli anni più duri a determinare il grado di tenuta del campo proletario e rivoluzionario.

Due piani, quelli che in sostanza informano i termini attuali della dialettica classe/Stato e rivoluzione/controrivoluzione, che esprimono nell’insieme la qualità politica raggiunta dallo scontro di classe e rivoluzionario in questo paese, cui la borghesia imperialista deve necessariamente riferirsi.

Così, è stata l’impossibilità di perseguire linearmente, “pacificamente” i progetti più graduali e articolati che, in via principale, ha determinato l’attuale livello di crisi politico-istituzionale, la situazione di stallo e l’acuirsi delle contraddizioni interborghesi.

Questa situazione ha imposto la necessità di abbandonare le velleità precedenti, e agire per “colpi di mano” sotto la diretta gestione dell’esecutivo, di gravare pesantemente nel vivo dello scontro, in mancanza di modifiche politico-istituzionali atte a mantenere la stabilità necessaria alle esigenze attuali della borghesia imperialista, per ottenere forzosamente quei momenti di relativa stabilità e gli equilibri politici possibili per avanzare verso la fase costituente del nuovo regime. “Colpi di mano” che si presentano oggi come la norma nella gestione delle contraddizioni sociali, prefigurando al tempo stesso i termini di governo del conflitto che ci riservano nella Seconda Repubblica.

Ecco dunque il contesto che muove, le origini e le finalità che vengono perseguite, nella fase attuale, con gli atti intimidatori e la criminalizzazione del movimento di classe; da che derivano e a che servono le mirate provocazioni e le misure deterrenti in funzione antiguerriglia, cosa nascondono le “campagne contro la criminalità”, copertura delle vere e proprie azioni criminali di Stato e dell’irrigidimento degli istituti e apparati preposti alla “sicurezza”, rivolti in ultima istanza contro il “nemico di classe interno”.

Dentro questo quadro, questa azione specifica si evidenzia per il perseguimento di alcuni obiettivi specifici. Nei fatti, oltre a veicolare, in generale, un messaggio deterrente, di forza e onnipotenza dello Stato, le minacce sono chiaramente dirette al movimento autonomo di classe, paventando infiltrazioni con lo scopo evidente di incuneare un clima di sospetto. Sono indirizzate quindi contro i militanti della guerriglia e rivoluzionari prigionieri, con l’obiettivo di fare pressione su di loro: non in quanto tali, ma perché hanno rifiutato e rifiutano di farsi strumento contro la lotta armata e il movimento rivoluzionario, non facendosi usare nei loro progetti di “soluzione politica”.

A questo scopo viene fatta pesare la condizione di ostaggi nelle mani dello Stato, secondo un copione noto, se pur adattato alla situazione e calibrato a specifiche finalità antiguerriglia. Va aggiunto che quanto più maturano tempi e condizioni politiche per l’apertura di una “fase costituente”, tanto più lo Stato aumenta la propria pressione sui prigionieri rivoluzionari per usarli contro l’avanguardia combattente in attività e l’intero movimento rivoluzionario, nell’illusione di poter inaugurare la Seconda Repubblica sotto il segno della “fine della lotta armata”, sancendo con una soluzione politica la fine di un “ciclo storico” e una ritrovata “pacificazione nazionale”.

Un’illusione questa rivelatasi tale già in passato non solo per l’indisponibilità tenace mostrata dalla classe a pagare i prezzi politici e materiali del processo di “riforma” dello Stato, come della crisi economica e delle scelte guerrafondaie dell’imperialismo. (Perché queste, crisi, guerra, supersfruttamento, sono le “soluzioni politiche” che si prospettano per il proletariato! Solo dentro le condizioni capestro dettate dalla borghesia imperialista sarà possibile ottenere “spazi politici” riconosciuti nel costituente regime!). Ma soprattutto per l’indisponibilità delle BR in attività di accettare la “resa”, rilanciando al contrario nello scontro la possibilità e la vitalità del processo rivoluzionario nel paese – di cui non una delle condizioni di fondo è venuta meno – e del ruolo strategico che in esso svolge la guerriglia, opzione offensiva e di potere della classe. Un ruolo risultato valorizzato, nonostante le campagne mistificatorie e al di là dei rapporti di forza del momento (che possono determinare ripiegamenti e stasi inevitabili in ogni processo rivoluzionario, e in particolare nello sviluppo fortemente discontinuo della guerra proletaria di lunga durata nelle metropoli). Avendo così sedimentato un solido e ineludibile patrimonio teorico-pratico, riferimento di ogni comunista e sincero proletario d’avanguardia, che voglia condurre al livello dovuto la lotta offensiva contro lo Stato e l’imperialismo.

Per concludere, è chiaro che i messaggi di deterrenza e forza lanciati dallo Stato sono frutto del livello di scontro e dei rapporti di forza dati; ma ne va svelata l’intrinseca debolezza, dovuta al quadro di crisi in cui si dibatte la borghesia imperialista e alle velleità che persegue. Perché non hanno di fronte, da piegare e annientare, la resistenza di singoli prigionieri, o di singole avanguardie politiche della classe, ma la ben più dura realtà dello scontro nel paese, la resistenza della classe e lo spessore politico, la maturità raggiunta dal processo rivoluzionario. Ed è questa realtà che, tra l’altro, rappresenta il pilastro più solido su cui si regge e si alimenta la difesa dell’identità politica dei comunisti in carcere.

Con questa convinzione di fondo, non ho, come dicevo, intenzione di fare considerazioni “personalistiche” del fatto (che ho raccontato) in sé.

Come militante comunista rivoluzionario ho solo da rivendicare la mia appartenenza al campo proletario e rivoluzionario, che lotta, in questo come in altri paesi, per il potere, in direzione del superamento della società divisa in classi, per l’affermazione degli interessi generali di rivoluzione sociale e progresso umano, di cui solo il proletariato rivoluzionario internazionale può farsi autentico portavoce in quest’epoca della storia umana.

Quindi ho da ribadire la mia collocazione specifica, come prigioniero, tra quei militanti rivoluzionari che sono indisponibili a farsi strumento contro la guerriglia e il movimento rivoluzionario, rifiutandosi di dialettizzarsi con i progetti di “soluzione politica” elaborati dall’antiguerriglia.

Infine intendo esprimere il pieno sostegno politico alle BR-PCC, all’impianto strategico e agli elementi di programma politico che ne caratterizzano l’attività nell’attuale fase.

 

Carcere di Carinola, 17 maggio 1992

 

Il militante rivoluzionario Stefano Scarabello