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Tribunale di Bologna. Documento allegato agli atti dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

Come militanti delle BR-Pcc e militanti comunisti rivoluzionari prigionieri la nostra presenza in questo processo è motivata solamente dalla volontà di rivendicare per intero l’attività delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente e in questo ribadire la validità della linea politica, del programma e della impostazione strategica costituita dalla proposta della lotta armata a tutta la classe, perché è a partire dall’attività rivoluzionaria delle BR, sviluppatasi in stretta dialettica con le espressioni più mature dell’autonomia politica di classe, che si è potuto affermare in Italia un processo rivoluzionario basato sullo sviluppo della guerra di classe di lunga durata, che pur nel suo andamento discontinuo fatto di avanzate e ritirate, costituisce l’alternativa rivoluzionaria necessaria e possibile per il proletariato del nostro paese.

La prassi rivoluzionaria delle BR è perciò la prospettiva strategica di potere della classe, e nello stesso tempo la concreta direzione e organizzazione sul terreno della lotta armata dell’autonomia di classe, al fine di sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato.

Detto questo, rivendichiamo ancora in questa sede la giustezza dell’azione fatta dalle BR contro la rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, colpendo uno dei suoi massimi artefici, il senatore Ruffilli, perché dimostra ancora una volta come sia possibile contrapporsi con una strategia offensiva ai progetti dello Stato, nello specifico quelli rivolti al rafforzamento dei poteri.

La celebrazione del processo cade nel momento più acuto della crisi politico-istituzionale che attraversa il paese, ma ciò che oggi si verifica altro non è che l’evoluzione obbligata delle contraddizioni sollevate dallo stesso processo di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, dovendo esso rispondere alla duplice esigenza di adeguare lo Stato ai livelli di crisi e sviluppo dell’attuale stadio economico del capitalismo e al governo del conflitto di classe. Lo Stato italiano risponde a questa crisi accelerando con forzature politiche e costituzionali i suoi processi di rifunzionalizzazione per far fronte anche ai crescenti impegni internazionali che la stessa crisi determina, nel tentativo di garantire stabilità a fronte dello scontro di classe che su queste scelte si produce. Il ritrovato bellicismo fa il paio con le rivendicazioni stragiste fatte dai massimi vertici dello Stato e della DC, rivendicazioni che non sono tese a chiudere un capitolo della storia passata ma sono fatte per pesare oggi sullo scontro di classe per determinare intorno alla continuità della centralità DC equilibri e schieramenti della nascente II Repubblica. Questa si caratterizza già sia nell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, come dato costitutivo, e nella sostanziale funzionalizzazione al suo operato delle sedi parlamentari e istituzionali, sia nella conflittuale ridefinizione degli stessi apparati dello Stato, sia nel confronto senza esclusione di colpi tra le forze politiche borghesi per raggiungere posizioni di forza negli assetti istituzionali che si stanno prefigurando. Un processo di rifunzionalizzazione che coinvolge tutti i partiti, che ne diventano soggetti attivi e promotori, dentro a modalità politiche di governo che premono per subordinare tutte le forze, politiche e sociali, a questa svolta profonda. Una svolta profonda che dovrebbe ratificare a livello istituzionale e costituzionale i rapporti di forza reali tra le classi così da agevolare rapidità e piena autonomia alle decisioni dell’esecutivo. Un processo niente affatto lineare e indolore perché è proceduto e procede all’interno di uno scontro tanto aspro quanto dinamico con una classe non pacificata la cui resistenza agli effetti politici e materiali di questo processo è ciò che non consente allo Stato di sancire fino in fondo questa svolta nei rapporti politici e di forza con la classe.

Un processo di rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato che fa tesoro degli strumenti della controrivoluzione preventiva maturati dalle democrazie rappresentative, consolidato da una pseudopposizione in cui assisteremo a una serie di staffette predeterminate alla guida del paese, ovviamente santificate dal voto popolare (un’innovazione democratica che, è bene ricordare, è stata ideata dal senatore Ruffilli), ma perché più sostanzialmente cercheranno di operare un maggior ingabbiamento e subordinazione del proletariato e della classe operaia agli interessi della borghesia imperialista attraverso “riforme” e legislazioni sia sul piano politico generale che sul piano delle relazioni industriali con la completa neocorporativizzazione dei sindacati, il tutto con il ricorso ormai usuale alla politica delle emergenze.

Questo è bene evidenziato nella gestione interna della partecipazione della borghesia imperialista italiana al massacro del popolo irakeno; basti pensare al ruolo che ha svolto il sindacato nel far opera di contenimento alla vasta e qualificata opposizione operaia alla guerra imperialista, e agli strappi che esso ha compiuto nella compartecipazione alla dottrina della “qualità totale” di Romiti e nella questione delle rappresentanze in fabbrica.

La cosiddetta guerra del Golfo, l’euforizzato ruolo internazionale dell’Italia non è altro che il prodotto della grave crisi in cui si dibatte la catena imperialista; non è certo segno di forza, ma di debolezza: in ultima istanza è la necessità imperialista di una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati capitalistici che spinge l’imperialismo a politiche guerrafondaie. L’aggressione al popolo irakeno, pianificata mesi e mesi prima delle deliberazioni in sede Onu, attraverso l’embargo mascherato e lo strangolamento finanziario, così da spingere l’Irak a trovare comunque uno sbocco, è stato il pretesto per cercare la “normalizzazione” imperialista del Medio Oriente, un’aggressione che, nelle intenzioni occidentali, dovrebbe produrre l’integrazione dell’area mediorientale nel sistema di sicurezza Nato, con l’entità sionista perno della strategia Usa, sulla quale far ruotare il sistema di sicurezza e stabilizzazione economica, subordinando a questo dato soluzioni politiche del conflitto sionista-palestinese ed arabo-sionista. Tutto ciò sotto la cappa dei rapporti di forza scaturiti dalla guerra e dall’esempio irakeno. Su queste direttrici politiche si è svolta l’operazione di “polizia internazionale” alla quale ha partecipato lo Stato italiano.

I progetti guerrafondai dell’imperialismo hanno trovato sulla loro strada una mobilitazione combattente che per quantità e qualità non ha precedenti; iniziative in ogni parte del mondo, espressione di un rinnovato internazionalismo proletario che hanno posto in primo piano e materialmente il terreno unitario e unificante tra i processi rivoluzionari della periferia e la guerra di classe diretta dalla guerriglia nelle metropoli imperialiste. Un terreno unitario posto con forza dalle iniziative combattenti che hanno sintetizzato al livello più alto l’opposizione di massa alla guerra imperialista.

In sintesi è anche da questo quadro politico interno e internazionale che la strategia e la linea politica delle BR mantiene la sua piena attualità. La guerriglia oggi più che mai è il terreno primario dell’organizzazione di classe, un terreno politico-militare che qualifica lo scontro sedimentato sul piano rivoluzionario, una condizione per esprimere adeguatamente gli interessi proletari di contro alla borghesia imperialista.

L’aggressione imperialista nella regione mediorientale e gli equilibri politico-militari che vi si vogliono instaurare, tesi a ristabilire più stretti rapporti di dipendenza, sono obiettivi immediati, ma non esauriscono il fine della guerra. Più sostanzialmente l’intervento dell’alleanza imperialista è teso a stabilire posizioni di forza per i suoi interessi strategici politico-militari. Obiettivi questi che fanno venire meno i termini per caratterizzare questo conflitto solo dentro la contraddizione Nord/Sud; limitarlo a questo significherebbe sottovalutarne la portata, non legarlo cioè al contesto più generale da cui è maturato, non comprendere quali ordini di contraddizioni sottointendono alla scelte guerrafondaie degli Usa in primo luogo e della catena imperialista nel suo insieme.

Le condizioni generali entro cui si colloca questa guerra vedono la maturazione critica di fattori oggettivi e soggettivi relativi allo stadio di sviluppo dell’imperialismo da un lato e all’evolvere del quadro storico-politico e militare uscito dalla II guerra mondiale dall’altro. La dinamica fondamentale che vi sta alla base e che muove necessariamente in direzione della guerra è determinata dal grado di profondità della crisi economica che sta travagliando gli Usa e in misura diversa tutti i paesi della catena; ma la possibilità di iniziare questo conflitto si è posta concretamente all’interno di significative modifiche negli equilibri Est/Ovest, ovvero nello sfruttamento del fattore generale più favorevole all’imperialismo. È quindi dentro ai mutamenti avvenuti su questa direttrice che è stato possibile iniziare la guerra di aggressione all’Irak ed è sempre questa direttrice che influenzerà le tappe dei possibili sviluppi. Un fatto questo ineluttabile perché dato dal concreto quadro storico in cui sono collocate le forze in campo; per questo motivo la contraddizione Est/Ovest dominante le relazioni internazionali e condizionante ogni ordine di conflitto da Yalta in poi, è quella che sovrasta anche questa guerra, a maggior ragione perché si è aperta una fase in cui sono andati ad accumularsi tutti i fattori che rendono necessaria all’imperialismo la rimessa in discussione complessiva di questo quadro storico, una fase in sintesi in cui possa essere imposto il “nuovo ordine mondiale“ auspicato dall’imperialismo Usa in testa.

Che l’“epoca della pace” si sia inaugurata con uno dei più grandi massacri della storia recente, e con l’occupazione di una vasta area geografica chiarisce la sostanza e l’indirizzo di questo nuovo ordine mondiale riportando tragicamente alla memoria l’analogia con quel nuovo ordine già vagheggiato dalle armate naziste.

La guerra del Golfo, l’occupazione di questa area di importanza strategica sia per il controllo delle rotte tra i continenti che per le risorse energetiche e finanziarie mondiali non è che l’ultimo atto di una sempre più aggressiva politica degli Usa e dell’Occidente imperialista nel suo complesso tesa ad assestare e riordinare equilibri politici, aree di influenza in tutto il mondo, così da modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza internazionali su tutte le direttrici delle contraddizioni economiche e politiche proprie di questa epoca storica: dal bipolarismo, vale a dire il carattere che devono assumere le relazioni Est/Ovest, ad una ricollocazione delle relazioni economiche tra Nord e Sud (ciò a partire dal ridimensionamento/annientamento delle legittime aspirazioni all’affrancamento dal giogo imperialista e a uno sviluppo economico sociale più consono agli interessi delle masse proletarie e contadine immiserite dalla relazione economica e dal modello di sviluppo negato, imposto dall’imperialismo), fino ad intervenire nella contraddizione proletariato/borghesia per legare il proletariato internazionale ai tassi di sfruttamento necessari all’odierno ciclo di crisi-sviluppo del modo di produzione capitalistico nella fase imperialista dominata dai monopoli multinazionali-multiproduttivi.

Per ragioni storiche, economiche, politiche e geografiche queste direttrici di contraddizioni trovano convergenza e si intersecano nell’area europea-mediterranea-mediorientale: le contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico relative all’Europa occidentale, la contraddizione Est/Ovest che su quest’area preme nella linea di confine tra i blocchi scaturita dalla II guerra mondiale, la contraddizione Nord/Sud in quanto area dove vengono a contatto i paesi dell’occidente capitalistico e i paesi dipendenti, nello specifico perché i conflitti che si producono nella regione mediterranea-mediorientale riguardano direttamente l’Europa in quanto questa è la sua naturale zona di influenza.

La regione mediorientale si presenta con confini altamente instabili tra i blocchi perché non definiti nel dopoguerra, oltre che per i motivi economici delle rotte e delle fonti energetiche, per i processi di decolonizzazione ed emancipazione nazionale in corso. Con l’imposizione della entità sionista che ha sancito l’espropriazione imperialista-sionista della terra palestinese, il mondo arabo diventa teatro della strategia imperialista tesa a pacificare anche “manu militari” l’area in questione, allo scopo di allargare e stabilizzare la propria orbita di influenza. In questo senso questa regione, di estremo interesse strategico, viene ad assumere tutte le condizioni perché vi si attui lo scontro preliminare sia politico che militare atto a preparare le migliori condizioni di partenza che possono preludere alla ridefinizione delle zone di influenza. In questo può caratterizzarsi come un “detonatore“ di un conflitto di ben più vaste dimensioni. Per tutti questi fattori e per le contraddizioni che vi convergono questa è l’area di massima crisi nel mondo.

In sintesi, l’intervento militare nella regione mediorientale non si esaurisce nei motivi storici, economici, politici e militari propri della regione, ma si intreccia indissolubilmente con gli avvenimenti e i processi economici e politici della catena imperialista che vedono l’Europa al centro della ridefinizione degli equilibri politici scaturiti dagli accordi di Yalta, questo perché l’intervento nel Golfo, oltre ad essere dettato da ragioni politiche di carattere strategico, è il portato degli scompensi dell’economia capitalistica; d’altronde un intervento sul rapporto Nord/Sud tale da svolgere la sua funzione riequilibratrice sulla caduta tendenziale del saggio di profitto medio (agendo sulle riserve di manodopera, sulle materie prime a basso costo e sull’allocazione di produzioni a bassa composizione organica) a questo stadio della crisi può avvenire solo all’interno di una più generale ridefinizione internazionale del lavoro e dei mercati la quale ha il suo centro nei paesi industrializzati e nella ridefinizione dei rapporti di forza tra Est e Ovest che dominano le relazioni internazionali. Per questo la guerra imperialista nella regione mediorientale è un ulteriore passaggio in avanti della tendenza alla guerra.

L’aggressione imperialista all’Irak per lo scenario in cui si è data e per la sua possibile evoluzione fa risaltare l’antimperialismo come contraddizione politicamente in primo piano, a partire dall’attività combattente delle forze rivoluzionarie della regione e dalla vasta resistenza delle masse arabe contro l’aggressione imperialista-sionista, rilanciando le legittime aspirazioni all’autodeterminazione dei popoli. Ciò che qualifica l’antimperialismo manifestato dalle masse arabe e in primo luogo dalle loro forze rivoluzionarie combattenti è il livello qualitativo prodotto dai precedenti passaggi effettuati dai processi di emancipazione popolare e nazionale ricchi di esperienze proprie del contesto storico-politico arabo. La rivoluzione algerina, il movimento nasseriano, fino al livello più avanzato espresso dalla resistenza dei popoli palestinese e libanese, sono fra i punti fermi più qualificanti di un percorso che ha maturato un elevato patrimonio di lotte, soprattutto a livello di guerra popolare di liberazione nazionale, che è il risultato del confronto costante con le complesse strategie imperialiste di carattere prettamente controrivoluzionario dispiegate nella regione in funzione di una sua normalizzazione e pacificazione, strategie che, attraverso continui tentativi di destabilizzazione dei paesi arabi che di volta in volta si oppongono ai progetti imperialisti, tendono anche ad ostacolare il coagularsi dell’unità araba.

Un patrimonio politico e rivoluzionario che nel contesto di quest’ultima aggressione imperialista sta maturando un ulteriore salto di qualità che può trarre forza anche dal legame tra un rinnovato nazionalismo arabo (espresso anche da settori di borghesia progressista) e le spinte più radicali e determinate delle masse popolari. Un legame in cui l’antimperialismo è il collante e che caratterizza la vasta opposizione espressa in tutta l’area mediorientale-nordafricana a partire dalla resistenza organizzata dalle forze rivoluzionarie col dispiegamento dell’attività combattente anche all’interno degli Stati arabi schierati con la coalizione occidentale, facendo così anche di questi paesi un territorio nemico per le truppe di invasione e rendendo perciò queste alleanze molto instabili.

Nello stesso tempo questa mobilitazione tende al superamento delle divisioni artificiosamente immesse dalle politiche imperialiste nella regione. Una resistenza e una contrapposizione che ha alla base profonde ragioni materiali relative alla necessità di affermare i propri diritti di autodeterminazione nazionale e emancipazione sociale soffocati dal colonialismo prima e dall’imperialismo poi. Tale resistenza inoltre in questa fase storica si sostanzia a partire da una accresciuta consapevolezza che rende insostenibile l’accettazione di un nuovo ordine imperialista che può imporsi solo nella distruzione massificata della regione e del popolo arabo.

Questo insieme di fattori politici è alla base della forte spinta e tensione che sottolinea le attuali mobilitazioni popolari e la resistenza delle proprie forze rivoluzionarie combattenti contro la presenza imperialista. In questo senso la contrapposizione ad essa è destinata a giocare un ruolo nella futura evoluzione dello scontro. Infatti l’imperialismo con la scelta di iniziare il conflitto ha aperto uno scontro i cui fattori in gioco non sono pianificabili nella pura logica militare poiché la guerra che si sta svolgendo nella regione ha in sé la possibilità di sviluppare la dinamica di uno scontro tra popoli che combattono per l’autodeterminazione e la logica di guerra imperialista: un piano di scontro questo che per l’imperialismo è strategicamente perdente. Per queste ragioni il conflitto è tutto da giocare nel lungo termine, indipendentemente dall’esito militare di quella che può considerarsi solo una prima battaglia.

La propaganda imperialista, in particolare del Pentagono e dell’amministrazione statunitense, sul futuro “ordine mondiale” già in marcia non nasconde, né può farlo, la natura economica che sta alla base degli avvenimenti politici di questi ultimi anni, caratterizzati da un crescente bellicismo. Infatti la grave crisi in cui si dibatte l’economia capitalistica è in ultima istanza la base del manifesto bellicismo imperialista.

Questo dimostra quanto l’opzione bellica sia una tendenza naturale e necessaria per dare ossigeno all’economia disastrata della catena, nonché come la potenza militare dell’Alleanza, per quanto distruttrice sia minata proprio nel cuore dell’imperialismo nel cuore dell’economia capitalistica.

La dinamica di sviluppo degli attuali termini di crisi-recessione ha implicazioni che richiamano nella sostanza a quelle che precedettero la II guerra mondiale, dinamiche di fondo che, presentandosi in un quadro storico mutato, seguono forme e modi di attuazione relativi alle concrete relazioni politiche e militari esistenti tra le forze in campo. Un contesto gravido di processi economici che tendono a riprodurre i passaggi chiave del processo di crisi-sviluppo dell’economia capitalistica nella sua fase monopolistica, con la differenza che in questa fase storica avvengono in un ambito economico di integrazione-interdipendenza dato dall’internazionalizzazione del capitale finanziario e industriale, a dominanza Usa; di conseguenza vi è 1’immediata interrelazione e concatenazione delle stesse contraddizioni prodotte dalla crisi, nonché delle controtendenze e scelte di politica economica. Allo stesso tempo la gerarchizzazione della catena fa sì che prevalgano le controtendenze e le scelte del paese dominante. Oggi come allora, da ben oltre un decennio, l’intero ambito dei paesi capitalistici è attraversato da una strisciante stasi produttiva che ha provocato un progressivo avanzare della recessione e stagnazione economica.

Su questo sfondo, aggravatosi criticamente negli ultimi anni, si stagliano i passaggi principali che, come nel precedente periodo storico, furono sintomo di un approfondimento della tendenza alla guerra, passaggi che in termini generali sono relativi a: il riarmo, il salto in avanti del capitale che matura oggettivamente nel contesto della crisi; la presenza dell’ambito di penetrazione adeguato per i capitali sovraprodotti. Oggi, in questa fase storica, queste dinamiche generali si presentano così: A) Il riarmo, come principale controtendenza alla crisi, adottato soprattutto da Usa e Gb, ma anche da altri paesi capitalistici, soprattutto europei, seppure con intensità diverse e in ambito Nato; B) Un ulteriore salto nel processo di internazionalizzazione dei capitali e della produzione che ha il suo perno nel mercato europeo; C) L’individuazione dell’ambito economico dei paesi dell’Est, per il grado di sviluppo della loro struttura economica, come quello adeguato e complementare per l’impiego dei capitali sovraprodotti e per il livello tecnologico raggiunto dalla produzione capitalistica.

A) Il riarmo è una politica economica di sostegno a cui lo Stato storicamente ricorre nel contesto della crisi generalizzata e di estesi processi recessivi a fronte di mercati capitalistici saturi e di una condizione generale matura per la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Elementi questi che sono tutti presenti nell’andamento dell’economia mondiale. Politica economica che si basa sull’immobilizzo dei capitali eccedenti nella produzione di armi storicamente legata alle tecnologie più avanzate ed implica l’armamento del paese che l’adotta essendo altra cosa dalla produzione bellica per il mercato. Infatti il riarmo non consente di rimettere in circolo i capitali immobilizzati e la sua adozione è fattore economico di accelerazione dello sbocco bellico racchiudendo in sé tutte le condizioni della bancarotta finanziaria per gli Stati che ne fanno ricorso. Nel quadro economico attuale il riarmo è diventato il terreno privilegiato di politica economica principalmente per Usa e Gb e, tendenzialmente allargato a tutta la catena; un terreno privilegiato anche perché la sua adozione comporta il controllo sull’alta tecnologia, quindi la leadership degli Usa in questo campo, campo su cui ruotano i termini della concorrenza monopolistica. Per altro verso Usa e Gb sono anche i paesi maggiormente gravati dalle contraddizioni economiche conseguenti a questa scelta; in questo senso per questi due paesi i fattori di crisi e la necessità di una loro soluzione adeguata premono fortemente sulle scelte politiche e militari, spingendo su questa direzione l’insieme della catena imperialista.

B) La crisi e la recessione generalizzata in cui versano i paesi della catena, pur esprimendo il massimo di debolezza, è anche la condizione in cui si matura il suo potenziale sviluppo, dentro alla dinamica di centralizzazione e concentrazione del capitale. Questo ha dato luogo ai processi di fusione e formazione di nuovi cartelli monopolistici che sono stati terreno privilegiato di investimento del capitale sovraprodotto, processi che ruotano principalmente nell’ambito del mercato capitalistico intereuropeo, con la Rft nella posizione economicamente dominante. Questa dinamica, scaturendo dalla integrazione economica già data, ha prodotto un ulteriore salto nell’internazionalizzazione dei capitali. Formazioni monopolistiche quindi a forte concentrazione di capitali che, a fronte del sostanziale restringimento della base produttiva, hanno approfondito i fattori di crisi relativi alla valorizzazione, tenendo anche conto della saturazione dei mercati capitalistici entro cui si dà la spartizione delle quote.

C) Il processo di penetrazione economica nei paesi dell’Est, relativo agli investimenti finanziari e produttivi operati principalmente dai paesi europei, soprattutto dalla Rft, si è reso possibile a partire dalle “aperture“ economiche che questi paesi hanno offerto (nel contesto della maturazione di contraddizioni e problematiche proprie a questo campo) e nello stesso tempo per la spinta dei capitali sovraprodotti alla ricerca di sbocchi appetibili. Con queste premesse gli investimenti all’Est sono diventati un ambíto terreno per i trust finanziari e industriali che muovono alla conquista delle migliori posizioni. Uno sbocco che, al contrario delle aspettative, si è dimostrato un palliativo a causa dei limiti che ha la semplice espansione dell’ambito di penetrazione dei capitali in un contesto di sovrapproduzione dei capitali.

Questo rimanda al meccanismo della crisi capitalistica e al suo processo di risoluzione. Secondo l’analisi marxista-leninista la crisi di sovrapproduzione di capitali e mezzi di produzione che non possono operare come tali trova risoluzione solo dentro al movimento di distruzione/ridefinizione/espansione; la semplice espansione del mercato dei capitali ad uno stadio di approfondimento della crisi non può risolvere nel lungo periodo la crisi stessa, e cioè la questione della valorizzazione.

Per questa ragione nel contesto di recessione e di mercati capitalistici saturi storicamente il capitale ricorre alla guerra come mezzo per distruggere il sovrappiù di capitali prodotto, così da poter rilanciare su nuove basi l’accumulazione, ridefinire e allargare su nuove posizioni di forza i mercati capitalistici e l’assetto interno alla gerarchizzazione della catena, nonché le zone di influenza mondiali. In questo senso, dall’evolvere della crisi si può analizzare la tendenza alla guerra, come intrinseca alle caratteristiche del capitalismo.

L’ultima guerra mondiale è stata l’inevitabile sbocco della grande crisi del ’29 e ha disegnato l’attuale quadro mondiale dominato dall’imperialismo Usa e in cui la contraddizione dominante, prima interimperialistica, è ora la contraddizione Est/Ovest quale terreno di realizzazione della tendenza alla guerra. Per questo motivo, dato il grado raggiunto dalla crisi, un nuovo ciclo economico con il rilancio dell’accumulazione capitalistica su scala adeguata al livello di sviluppo dell’imperialismo può essere dato solo nel confronto con il piano storicamente stabilito dalle sfere di influenza, la necessaria divisione internazionale del lavoro e dei mercati può avvenire cioè solo a scapito della sfera contrapposta, in primo luogo perché i paesi dell’Est presentano un ambiente economico sufficientemente sviluppato per consentirlo, e inoltre solo all’interno di questa ridefinizione l’imperialismo può rimodellare i rapporti di dipendenza con i paesi periferici.

La radicalizzazione della crisi, col progressivo esaurirsi dell’effetto delle controtendenze, ha provocato un salto nella tendenza alla guerra; ma il passaggio dalla tendenza alla guerra alla guerra guerreggiata non ha niente di deterministico. La guerra in quanto atto politico oggettivo è il risultato né meccanico né predeterminato dell’intrecciarsi di più fattori: quando le contraddizioni date dalla crisi, per il loro livello critico, non trovano risoluzione sul terreno economico, esse premono sul piano politico portando a maturazione, in un processo di rotture nei rapporti politici e di forza tra i diversi soggetti in campo, le premesse dello sbocco bellico.

L’attuale situazione, in quanto si colloca dentro alle condizioni di crisi generalizzata del capitalismo, a fronte della profonda recessione e dell’avvitarsi sull’utilizzo del riarmo, nella impossibilità di valorizzare i capitali sovraprodotti, ha visto un rapido montare di salti e rotture culminate, come primo momento, nell’annessione della Ddr da parte della Rft, e nella guerra del Golfo Persico. Due eventi solo apparentemente scollegati, ma invece strettamente complementari l’uno all’altro, proprio perché prodotti dalla stessa dinamica, eventi che richiamano subito alle annessioni e invasioni che precedettero e caratterizzarono l’escalation verso lo scatenamento della II guerra mondiale.

Questo perché lo stadio raggiunto dalla crisi economica non può risolversi con il parziale allargamento della sfera di penetrazione dei capitali che avviene attraverso annessioni e aggressioni, perciò queste stesse diventano da un lato fattori di instabilità economica per l’imperialismo e dall’altro i primi fondamentali passaggi politici di rottura e accelerazione di un processo che può evolvere verso un conflitto allargato. Allo stesso modo i massicci interventi di finanziamento alla guerra del Golfo da parte di paesi non immediatamente belligeranti come il Giappone e la Rft (pur essendo quest’ultima parzialmente presente nel conflitto) rimandano, rispondendo alla stessa logica, ai ben noti “prestiti di guerra” americani che finanziarono il II conflitto mondiale, quale sbocco del surplus finanziario che proprio questi paesi presentano al più alto livello.

La situazione innescata dall’imperialismo con l’aggressione all’Irak, per gli equilibri politico-militari che ne risultano, è gravida di sviluppi che oggi più che mai aprono, nelle intenzioni dell’imperialismo, la prospettiva di un nuovo conflitto mondiale, le cui proporzioni non possono che superare, e di gran lunga, i costi che l’imperialismo ha già imposto nella sua storia. Una prospettiva che scaturisce prima ancora che dal potenziale distruttivo delle armi, dalla funzione della guerra imperialista, per la risoluzione delle contraddizioni accumulate e approfondite dalla crisi. In tale quadro, le modalità con cui è avvenuta l’aggressione all’Irak presentano fin da subito sotto molti aspetti i caratteri con cui può darsi questo sviluppo, e cioè: una guerra enormemente distruttiva, che ha coalizzato l’intera catena imperialista e che vede il coinvolgimento mondiale, per un verso o per l’altro, di tutti i paesi. Primo obiettivo è la conquista di una posizione che, sotto l’aspetto politico-militare, è di importanza strategica e che prelude all’escalation nel confronto con l’Est. Un’escalation che non va intesa necessariamente come un processo di allargamento a macchia d’ olio di episodi bellici o come processo lineare nel tempo, soprattutto in quanto si tratta di un confronto che già da tempo si gioca su molteplici piani, che procedono l’uno accanto all’altro interagendo sulla contraddizione Est/Ovest: da un lato il piano oggettivo dato dalla spinta della crisi economica dell’imperialismo e il piano che riguarda i passaggi concreti sul terreno politico e militare dell’alleanza imperialista; dall’altro l’indebolimento che attraversa nel suo insieme i paesi dell’Est, indebolimento da cui l’imperialismo cerca di trarre vantaggio anche attraverso tentativi di destabilizzazione.

Un quadro complesso, nel quale l’aggressione militare imperialista condotta in un’area di confine instabile quale il Medio Oriente costituisce l’aspetto attualmente più rilevante. Su questo insieme di fattori si stanno oggi stabilendo i reali rapporti di forza tra i due campi contrapposti nel senso favorevole all’imperialismo. Ciò non significa rafforzamento del campo imperialista in quanto tale, ma relativamente all’indebolimento del campo avverso.

La coalizione dell’intero campo imperialista nell’occupazione del Medio Oriente è il risultato delle caratteristiche storiche della catena, che fanno sì che nessun paese possa non essere investito e sottrarsi ai fattori strutturali di crisi, pur permanendo ineliminabili contraddizioni e dislivelli e pur essendo gli Usa il paese che allo stato attuale ha il maggior bisogno di sbocco bellico. Uno schieramento attivo che risponde pienamente alle impellenze della frazione dominante di borghesia imperialista e che vede gli Usa stringere nei rapporti politici e militari intorno alle sue scelte tutti i paesi del campo imperialista in quanto scelte di interesse generale. Da qui l’immediato coinvolgimento di tutti i paesi della catena come non si era mai verificato nei precedenti eventi bellici. In questo senso risalta il significato politico della larga partecipazione, a prima vista oltre ogni logica militare, e, quale aspetto più significativo, la effettiva qualificazione dell’intervento delle potenze occidentali come Nato. A dimostrazione del fatto che i rapporti politico-militari istituzionalizzati nella Nato e in generale le relazioni politico-militari della catena hanno mantenuto costantemente nella loro sostanza la funzione per cui dopo la II guerra mondiale furono istituite e nel tempo potenziate; ciò perché un quadro storico, con le contraddizioni che lo caratterizzano, non può mutare linearmente e pacificamente.

La messa in campo della Nato nella sua complessità è un salto che non ha precedenti dalla sua fondazione. L’Alleanza atlantica, organismo politico-militare fondato alla fine della II guerra mondiale per la difesa degli interessi occidentali in funzione antisovietica all’esterno e di stabilizzazione controrivoluzionaria all’interno, ha svolto il suo compito relazionandosi alle necessità delle diverse congiunture internazionali, rafforzando nel contempo le prerogative per cui è stata creata, che si sintetizzano nelle dottrine politico-militari che, da difensive, si sono mutate in offensive, riflettendo fedelmente i fini dell’alleanza nell’organizzazione militare, nelle sue strutture operative e politiche.

Da questo punto di vista l’aggressione all’Irak ha rivestito anche la funzione di sperimentare sul campo il modello di operatività “interforce” e dei sistemi d’arma accumulati col riarmo, la sperimentazione, in sintesi, della conduzione della guerra, le cui modalità sono andate oltre al confronto militare con l’Irak, perché ha consentito da un lato la verifica del grado di coesione politica dei paesi imperialisti all’interno del ruolo loro assegnato nella disposizione gerarchica dell’Alleanza atlantica, che ha confermato l’allineamento sostanziale alla direzione Usa della guerra, dall’altro la verifica relativa della praticabilità o meno di modalità operative definite per un teatro di guerra ben più vasto. Una sperimentazione di queste modalità che, va detto, in gran parte sganciata dal modo concreto con cui è stata effettuata l’aggressione, la quale è proceduta attraverso l’utilizzo dei mezzi di distruzione di massa, ovvero una guerra basata in principal modo sul massacro della popolazione civile.

Nello stesso tempo ogni singolo Stato imperialista ha potuto verificare l’impatto che l’iniziale attivizzazione dello “stato di belligeranza” ha al proprio interno, a partire dai rapporti politici di classe in riferimento all’opposizione proletaria e rivoluzionaria contro la guerra, soprattutto perché la partecipazione alla guerra richiede interventi che, per caratteristiche e profondità, non possono essere considerati transitori.

In questo contesto l’Italia svolge a pieno titolo il ruolo assegnatole nel fianco-sud della Nato, al di là della sordina messa alla sua partecipazione nella guerra di aggressione all’Irak. Un ruolo di massima importanza strategica date le caratteristiche della regione mediorientale-mediterranea e soprattutto perché questa regione è teatro di questo conflitto. Un ruolo fino a ieri teso alla pacificazione-contenimento dei conflitti che si producevano nell’area attraverso un attivismo prevalentemente espresso sul piano politico-diplomatico per riuscire a ricucire e supportare gli strappi operati dalle precedenti forzature guerrafondaie Usa e oggi invece indirizzato al rafforzamento delle posizioni imperialiste da conseguire anche militarmente su tutti i piani di contraddizione che si intrecciano nell’area.

Salto di qualità dato dall’adeguarsi complessivo al nuovo livello di responsabilizzazione imposto da un quadro complessivamente mutato. Un ruolo che implica un farsi carico della funzione controrivoluzionaria perseguita attivamente dall’Italia contro i popoli della regione, e in primo luogo contro le loro forze rivoluzionarie; a questo fine mira il potenziamento dell’unità politico-operativa tra servizi segreti italiani e quelli degli altri Stati imperialisti, approfondendo i livelli di cooperazione e operatività degli stessi. Un aspetto, quello controrivoluzionario, del fianco sud della Nato, che, all’interno del conflitto in atto, non può che riflettersi nell’approfondimento del rapporto che si stabilisce tra imperialismo e antimperialismo, un rapporto su cui si misurano non solo le forze rivoluzionarie dei movimenti di liberazione e le guerriglie comuniste della regione, ma anche la guerriglia che agisce in Europa occidentale, questo per le implicazioni che subentrano nello scontro dalla stessa partecipazione dei paesi europei alla guerra, le quali si riflettono in primo luogo nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Lo scontro di classe, in un contesto che evolve alla guerra, tende a subire un approfondimento inevitabile che rimanda alla dinamica propria della borghesia imperialista, la quale storicamente cerca di garantirsi la “pacificazione interna” per poter fare la guerra. Una costante che in questa fase storica assume una precisa configurazione che si richiama alle più generali caratteristiche assunte dalle forme di dominio della borghesia imperialista. Forma di dominio che in sintesi si esprime nella tipica mediazione politica che lo Stato instaura con la classe subalterna, che comporta l’uso di strumenti e degli organismi della democrazia rappresentativa, i soli legittimati a rappresentare la classe, dal piano capitale/lavoro al piano politico generale, al cui interno deve essere convogliato l’antagonismo di classe; un complesso reticolo che nella sua sostanza racchiude l’essenza della controrivoluzione preventiva, storicamente prodottasi nel rapporto di scontro tra le classi, un affinamento della funzione politica rispetto al governo del conflitto di classe che tutti gli Stati a capitalismo avanzato hanno maturato.

In questa fase che evolve verso la guerra, in particolare per lo Stato si tratta da un lato di potenziare al massimo i meccanismi di controrivoluzione preventiva, dall’altro di assicurarsi condizioni, nei rapporti di forza, che gli consentano il contenimento dello scontro approfondendo ulteriormente la funzione politica, in senso antiproletario e controrivoluzionario di tutte le istituzioni statali.

Le scelte belliciste dello Stato nel nostro paese si riversano nello scontro acutizzandone le contraddizioni e divaricando maggiormente gli interessi di classe. Una dinamica di schieramento che attraversa tutti gli ambiti sociali, determinata proprio dai chiari interessi che sono presenti con la guerra: gli interessi della frazione dominante della borghesia imperialista, che in tal modo cerca di risolvere la sua profonda crisi scaricandone i costi ancora una volta sul proletariato che, oltre a subire un’ulteriore compressione delle condizioni di vita politiche e materiali, ha davanti a sé anche la prospettiva di fare da “carne da cannone” nei progetti di guerra della borghesia imperialista.

Alle iniziative guerrafondaie dell’esecutivo si sono contrapposte le mobilitazioni di tutte le componenti proletarie che hanno espresso subito e nettamente l’indisponibilità a farsi coinvolgere nel massacro perpetrato dall’imperialismo, e che, a livello dell’attività spontanea, hanno manifestato la chiarezza dovuta alla propria posizione di classe sul significato della guerra e sul modo di opporvisi; tant’è che gli scioperi spontanei contro di essa e la richiesta legittima dello sciopero generale, con il forte significato politico che contengono, hanno avuto momenti di organizzazione ovunque, malgrado siano state oggetto di un capillare controllo e contenimento, a partire dalle concrete intimidazioni operate dall’esecutivo e con il contributo effettivo dei sindacati mobilitati con tutto il loro peso politico e organizzativo per assolvere al ruolo ormai collaudato di ammortizzamento delle istanze di classe politicamente più avanzate.

Questo dentro a un clima politico in cui l’esecutivo tende ad imporre alla classe la più profonda “normalizzazione” a partire dalla classe operaia, nel tentativo di ridimensionare ulteriormente il peso politico espresso nel rapporto di scontro, a cominciare dalle espressioni più avanzate rappresentate dalla sua autonomia politica.

Un clima politico che riflette i mutamenti avvenuti nel contesto generale del paese in cui sono maturati, soprattutto negli ultimi anni, i passaggi che evolvono ad una seconda repubblica dentro a equilibri politici e nei rapporti di forza tra le classi a favore della borghesia imperialista, e dentro a modifiche profonde negli assetti del potere statale relativi in primo luogo ad un forte accentramento dei poteri nell’esecutivo, e in particolare nella Presidenza del Consiglio. Poteri ulteriormente accresciuti dalle particolari funzioni di cui è investito l’esecutivo con la partecipazione alla guerra.

Di fatto, con la guerra, si è reso quanto mai evidente il divario tra scontro reale nel paese e suo governo formale nelle sedi politico-istituzionali, nella necessità di svincolare il governo delle contraddizioni che si attua in quelle sedi dal reale portato dello scontro. Nell’ambito parlamentare e istituzionale, in sintesi, si esprime l’unanimismo delle forze politiche alle scelte guerrafondaie dell’esecutivo, un allineamento sostanziale espressione degli interessi della borghesia imperialista, che sta alla base della possibilità di soprassedere senza eccessive scosse sul piano istituzionale e parlamentare alle norme che regolano la partecipazione alla guerra per poi procedere su tutto l’arco delle necessità che riguardano il governo del paese e le urgenti misure programmatiche per far fronte alla crisi economica. Questo terreno è anche l’unico spazio politico possibile su cui sono chiamate a dialettizzarsi le rappresentanze istituzionali della classe e su cui il neonato Pds non ha esitato a relazionarsi, anche in vista di una verifica per la futura collocazione che potrebbe avere nel quadro della “Riforma istituzionale” in gestazione.

L’impossibilità per il proletariato di contare politicamente e di pesare sui rapporti di forza con gli strumenti consentiti dalla democrazia rappresentativa borghese, con questa operazione bellica è ancor più in evidenza, nell’impossibilità di far valere i suoi interessi di classe e, in questi, la sua irriducibile opposizione alla guerra voluta dalla borghesia imperialista e dal suo Stato.

Una condizione di scontro che ripropone tutte intere le ragioni per cui si è affermata la strategia della lotta armata nel nostro paese e in generale la lotta armata nel centro imperialista, riconferma la giustezza della attività svolta sul piano rivoluzionario dalle Brigate Rosse e rilancia con la forza dei fatti la propositività della sua linea politica e degli obiettivi programmatici.

Ciò che lo scontro chiama in causa è in primo luogo l’azione e il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria, l’azione e il ruolo della guerriglia nel nostro paese, come del resto negli Stati imperialisti, proprio a partire dalla forza di rottura data dalla sua impostazione offensiva verso il sistema di potere della borghesia imperialista.

L’esperienza accumulata dalla guerriglia, nello specifico europeo, ha in sé tutte le possibilità di confrontarsi con il piano controrivoluzionario che lo Stato e l’imperialismo nel suo insieme rovesciano nello scontro, perché la guerriglia ha fatto proprie, dentro alla prassi messa in campo, le leggi fondamentali dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata, nonché le modalità politiche e militari basilari entro cui si sviluppa. Ciò che la realtà storica pone in evidenza è che nei centri imperialisti lo sviluppo della guerra di classe, e in essa dell’esercito proletario in formazione, diretto dalla sua avanguardia politico-militare, rappresenta storicamente per il campo proletario il livello più avanzato della scienza rivoluzionaria di trasformazione della società in senso socialista, ovvero un avanzamento del marxismo-leninismo sul terreno rivoluzionario. Per questo la sua potenzialità di rottura è un fattore di dimensioni storiche che dà alla guerriglia un ruolo di assoluta preminenza in senso strategico nel confronto con lo Stato e l’imperialismo.

Soprattutto dalla fine del secondo conflitto mondiale, nello specifico del centro imperialista, il processo rivoluzionario si dà come costruzione della guerra di classe necessariamente di lunga durata. La guerriglia, avanguardia e motore di questo processo, si è posta alla testa dello scontro di classe rompendo con l’inadeguatezza dell’impostazione terzinternazionalista, incapace di conseguire la conquista del potere politico nei paesi a capitalismo maturo. E questo per i mutamenti avvenuti sul piano storico-politico ed economico-sociale con lo sviluppo dell’imperialismo, mutamenti entro cui si è definito l’affinamento delle forme di dominio della borghesia imperialista; un affinamento che contiene la controrivoluzione preventiva quale politica costante verso le istanze antagoniste del proletariato. Ciò non consente di accumulare forza politica nel tempo da riversare sul piano militare nel momento finale dello scontro, anche per il venir meno della cosiddetta “situazione eccezionale“. Per questo la guerriglia si esprime nell’unità del politico e del militare come il dato nuovo e più avanzato della guerra di classe nelle metropoli imperialiste. Un principio che unifica nell’azione della guerriglia il piano politico dello scontro con il piano della guerra, un piano quest’ultimo che pure vive nello scontro di classe, ma che deve essere affrontato contemporaneamente all’aspetto politico che resta comunque dominante.

Uno scontro i cui caratteri eminentemente politici derivano dalle modalità di governo del conflitto di classe sviluppato dalla borghesia imperialista dentro al tipo di mediazione politica tra le classi propria delle democrazie rappresentative contemporanee. Queste peculiarità si riflettono dentro alle leggi generali dello scontro rivoluzione/controrivoluzione caratterizzando la guerra di classe come una guerra senza fronti che vive nel cuore stesso del nemico di classe e nella impossibilità di usufruire di basi rosse liberate. Uno scontro che, per i caratteri politici detti, vive un andamento fortemente discontinuo, caratteri che pure influiscono sulla condizione immanente dell’accerchiamento strategico. L’accerchiamento strategico è determinato dal fatto che il potere è nelle mani del nemico completamente fino al suo rovesciamento; i rapporti di forza, intesi in termini generali, sono dunque sempre favorevoli al nemico di classe; la rottura nei rapporti di forza a favore del campo proletario che l’avanguardia rivoluzionaria opera è quindi sempre relativa. Contemporaneamente vige il principio che la guerra di classe è strategicamente vincente, infatti la borghesia vi interviene per mantenere il potere, ma non può “distruggere” il proletariato, chiave di volta del modo di produzione capitalistico, in quanto creatore di plusvalore. Il proletariato rivoluzionario al contrario combatte per il potere, e in questo processo vive e si sviluppa come classe rivoluzionaria.

Dentro a questi dati generali sui quali si è affermata la lotta armata in Europa, vive l’apporto qualitativo delle BR, acquisito in venti anni di prassi rivoluzionaria, con la maturazione del patrimonio teorico, politico e organizzativo che costituisce fondamento dello sviluppo rivoluzionario nel nostro paese.

Le BR si qualificano fin dalla loro nascita per la proposta della strategia della lotta armata fatta a tutta la classe, un’impostazione strategica su cui si organizzano e si dispongono fin da subito le avanguardie più coscienti sul terreno della lotta armata, calibrandone la disposizione alla fase di scontro e ai rapporti di forza generali, e su cui è indirizzato dall’inizio alla fine lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata. Una strategia che è tale in riferimento alle specificità dello scontro di classe determinatosi storicamente in Italia per le caratteristiche qualitative dell’autonomia di classe sostanzialmente antistituzionale, antistatuale e antirevisionista. Il proletariato metropolitano a dominanza operaia è perciò la base sociale di riferimento della lotta armata, la base sociale da cui sono nate le BR e in cui costantemente si riproducono, la base sociale di cui rappresentano gli interessi generali di contro al potere della borghesia imperialista sul terreno rivoluzionario; per questo uno dei principi fondamentali della nostra organizzazione è quello di sviluppare la lotta armata a partire dai poli industriali del nostro paese.

Le BR hanno potuto verificare le importantissime implicazioni che vivono operando nell’unità del politico e del militare che agendo come una matrice condiziona tutto il modo in cui si sviluppa la guerra di classe: dai meccanismi che consentono a una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi rivoluzionaria, al processo rivoluzionario nel suo complesso. In altre parole, per le BR nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare e agire militarmente e dare il primo posto alla politica, esse svolgono la loro iniziativa rivoluzionaria secondo una linea di massa politico-militare. All’interno di questo principio condizionante, la questione del partito nella guerra di classe non è risolvibile con un atto di fondazione, ma si dà come processo di costruzione-fabbricazione in relazione alla costruzione delle condizioni politico-militari della guerra di classe. Nella sua più precisa definizione e progettualità si maturano le condizioni per il salto al partito, per il salto da organizzatori di ristrette avanguardie alla direzione di interi settori di classe organizzati nella guerra di classe. Le BR in questo processo si pongono come nucleo fondante il partito operando la funzione di avanguardia, “agendo da partito per costruire il partito”, per questo le BR rappresentano fin dalla loro nascita l’organizzazione del reparto più avanzato della classe operaia, nucleo strategico di direzione dell’esercito proletario in formazione nella prospettiva di sviluppo della guerra di classe di lunga durata. In questo senso le BR sono una formazione di guerriglia modellata sul principio di funzionamento di un esercito rivoluzionario il cui modello politico e organizzativo si fonda sui principi della clandestinità e compartimentazione, principi che consentono di esplicitare il carattere offensivo della guerriglia. Un’organizzazione di quadri politico-militari strutturata in istanze superiori e inferiori regolate dal centralismo democratico.

La pratica combattente della guerriglia urbana, con la sua impostazione offensiva, ha permesso e permette alle BR di incidere nello scontro, individuando con chiarezza il nodo politico centrale che oppone la classe proletaria allo Stato nelle politiche dominanti della congiuntura; ovvero il fatto di colpire con precisione il cuore dello Stato ha permesso e permette alle BR di spostare volta per volta sia pure in termini relativi i rapporti di forza a favore della classe, trasformando il momentaneo vantaggio raggiunto in organizzazione di classe sul terreno della lotta armata. Questa dialettica che dall’attacco, attraverso la costruzione di nuove forze e la loro disposizione sul terreno rivoluzionario, permette di ritornare all’attacco sempre al più alto livello qualitativo, calibrato alle condizioni dello scontro, è la direttrice nella quale si sviluppa la guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico.

Nello sviluppo dell’attività rivoluzionaria dentro ai nodi centrali di scontro tra classe e Stato che si sono succeduti nel nostro paese, le BR hanno costituito e costituiscono l’alternativa rivoluzionaria in grado di contrapporsi al dominio della borghesia imperialista e del suo Stato, di concretizzare nell’azione offensiva della guerriglia la sola possibilità di far inceppare e arretrare i progetti centrali dello Stato, in particolar modo quelli tesi al suo rafforzamento, un processo di scontro che ha innescato necessariamente la risposta controrivoluzionaria dello Stato al radicamento della prospettiva rivoluzionaria. Molto concretamente è questa la dinamica complessiva in cui è inserito l’attacco al progetto demitiano di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato. Un’iniziativa politico-militare che, intervenendo al punto più alto dello scontro tra le classi, ha contribuito a far arretrare sostanzialmente il progetto più organico della borghesia imperialista per affrontare i gravi problemi posti dall’approfondimento capitalistico e dall’acutizzazione della sua crisi e nel contempo per fornirsi degli strumenti di governo adeguati a svincolarsi dal conflitto di classe e dal suo portato rivoluzionario. Un attacco che ha dimostrato ancora una volta come la disarticolazione del progetto dominante che oppone classe e Stato nella congiuntura, a partire dall’indebolimento relativo che si determina per il nemico di classe, consente di acquisire i termini più favorevoli sul terreno della costruzione-organizzazione. La portata offensiva dell’attacco portato dalle BR è il punto più alto dell’attività rivoluzionaria complessiva che esprime la qualità del riadeguamento intrapreso dalle BR dall’apertura della Ritirata strategica, nel contesto di un forte scontro caratterizzato dal relativo ripiegamento del campo proletario, dall’approfondimento dei termini controrivoluzionari dello Stato, mentre per parte rivoluzionaria vive la fase di Ricostruzione, che è nello stesso tempo un obiettivo programmatico a livello dell’organizzazione di classe sulla lotta armata. Un’attività complessiva che si relaziona alla condotta della guerra informata dalla fase generale di Ritirata strategica, ovvero una condotta tesa “a un ripiegamento delle forze mantenendo e rilanciando nel contempo la capacità offensiva della guerriglia”.

Fase di Ricostruzione che si presenta problematica e difficile nel contesto controrivoluzionario che si è imposto nel paese e si svolge dentro a un movimento avanzate-ritirate. Per questo l’agire rivoluzionario deve operare sul duplice piano di lavoro costruzione-formazione, teso a ricostruire nel tessuto di classe i livelli di organizzazione politico-militare delle forze rivoluzionarie e proletarie in modo da attrezzarle, strutturarle e disporle adeguatamente nello scontro contro lo Stato, e teso alla formazione dei rivoluzionari stessi perché acquisiscano la dimensione dello scontro rivoluzionario oggi a partire dalla ricca esperienza accumulata dalle BR in questi venti anni. La fase di Ricostruzione è quindi un termine prioritario per il mutamento dei rapporti di forza tra campo proletario e Stato, costituendo altresì un elemento fondamentale di avanzamento della guerra di classe di lunga durata.

In unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato per le BR è prioritario condurre l’attacco all’imperialismo, un piano di combattimento questo da sempre patrimonio storico della nostra organizzazione. Infatti il processo rivoluzionario condotto in Italia dalle BR è sin da subito caratterizzato come processo rivoluzionario internazionalista e antimperialista; le BR conducono il processo di guerra di classe di lunga durata facendo vivere nella dialettica tra guerriglia e autonomia di classe i contenuti dell’internazionalismo e dell’antimperialismo per tutto il corso del processo rivoluzionario, consapevolmente fin dall’inizio. Un’impostazione che poggia sulle stesse ragioni oggettive e soggettive per cui si è sviluppata la guerriglia e che ha comportato l’attualizzazione dell’internazionalismo proletario alle concrete condizioni storiche. Un’impostazione che, attraverso la pratica politico-militare, ha raggiunto un nuovo livello di qualità nella promozione e nel contributo al rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista, come il passaggio politico più avanzato per collocare l’antimperialismo al livello dello scontro imperialismo/antimperialismo in questa condizione storica. In altre parole la necessità di praticare una politica di Fronte si misura con i livelli di integrazione economica, politica e militare maturati storicamente dalla catena, che rendono necessario l’indebolimento e la destabilizzazione dell’imperialismo affinché sia possibile la rottura rivoluzionaria in un singolo paese. Una condizione che nella nostra area geopolitica è resa più complessa dalle politiche imperialiste che si riversano, seppure in modo diverso, sia contro le condizioni del proletariato metropolitano e l’attività della sua avanguardia rivoluzionaria, la guerriglia, sia contro i popoli della regione che combattono per 1’autodeterminazione. Un contesto che fa dell’imperialismo il nemico comune tracciando l’unità oggettiva tra questi due differenti piani di scontro rivoluzionario. Da qui la necessità di unificare soggettivamente nell’attacco all’imperialismo, alle sue politiche centrali, non solo la guerriglia che opera nel cuore dell’Europa occidentale, ma anche le forze rivoluzionarie di liberazione nazionale che operano nell’area, a maggior ragione tenendo conto dei processi di coesione politica dell’Europa occidentale interni al rafforzamento della catena e al materializzarsi della tendenza alla guerra proprio in quest’area, nonché dell’attività controrivoluzionaria dell’imperialismo.

Fattori che pongono il Fronte come l’organismo politico-militare adeguato per impattare l’attività imperialista nell’area così da provocarne il relativo indebolimento. Attività di Fronte che per le BR si concretizza in una politica di alleanze tra le forze rivoluzionarie presenti nell’area geopolitica per raggiungere l’unità di attacco contro il nemico comune in riferimento alle politiche di coesione sul piano economico-politico-militare-controrivoluzionario dell’Europa occidentale e del suo intervento sul piano politico-diplomatico-militare inserito nelle più generali iniziative dell’imperialismo per “normalizzare” la regione mediorientale-mediterranea.

Criteri di alleanza che non devono essere condizionati dalle differenze che caratterizzano ogni forza rivoluzionaria e che non significano fusione in una unica organizzazione né fanno dell’attività di Fronte la sola attività praticata, ma sulla base dell’attacco al nemico comune si costruiscono di volta in volta i diversi momenti di unità e i livelli di cooperazione raggiungibili. Un’unità possibile e necessaria pur tenendo conto del diverso portato dei processi rivoluzionari che si sviluppano nel centro imperialista dai processi di liberazione nazionale della periferia; differenze oggettive che possono condurre a un arricchimento qualitativo nella politica di alleanza e di conseguenza nella incisività dell’attacco all’imperialismo.

L’analisi delle BR sugli specifici caratteri dell’area geopolitica europea-mediorientale-mediterranea consente di comprendere appieno la portata dei processi di guerra innescati dall’imperialismo nel Golfo Persico e di collocare altresì la portata politica dell’antimperialismo che da questo contesto si sviluppa. Le azioni delle forze rivoluzionarie nella regione, la vasta mobilitazione delle masse arabe, le iniziative di combattimento della guerriglia nel centro imperialista e le mobilitazioni spontanee dell’autonomia di classe hanno affermato l’unità di intenti che esiste tra proletariato del centro e popoli della periferia contro la crisi del’imperialismo e i suoi risvolti guerrafondai.

Nel quadro dell’attività antimperialista rivendichiamo il contributo fattivo alla promozione e costruzione del Fronte Combattente Antimperialista da parte delle BR con le azioni Dozier, Hunt, Conti e l’approdo al testo comune RAF-BR dell’88 concretizzatosi con l’azione Tietmeyer. Una prassi antimperialista che segna un percorso pratico in dialettica con le altre forze rivoluzionarie nella proposta-contributo del Fronte Combattente Antimperialista. Sosteniamo infine le iniziative politico militari della RAF, fino alle più recenti contro l’ambasciata Usa a Bonn e contro Rohwedder.

Il lungo percorso pratico di assunzione soggettiva della convergenza di interessi della lotta contro l’imperialismo, e dunque della costruzione e consolidamento del Fronte, non è un processo lineare, ma ha i suoi passaggi di qualità, poiché si è svolto e si svolge nel confronto continuo con la controrivoluzione, e con lo sviluppo delle lotte rivoluzionarie nel fuoco concreto della storia.

Dentro ai principali assi programmatici dell’attacco allo Stato e all’imperialismo la nostra Organizzazione, nella dialettica con le istanze più mature dell’autonomia politica di classe, ha costruito e costruisce i termini dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata. Obiettivi programmatici e impostazione strategica su cui molto concretamente ruota l’unità dei comunisti e su cui si dà avanzamento alla costruzione del partito comunista combattente.

Il portato e la dimensione dell’attività delle BR risalta chiaramente non solo per il fallimento dei progetti politici più antiproletari e controrivoluzionari dello Stato e nel contributo dato alla tenuta e riorganizzazione del campo proletario anche di fronte agli attacchi più duri portati dalla borghesia e dal padronato, ma risalta in quei significativi passaggi politici che le BR hanno effettuato nel riadeguamento dell’attività di direzione-organizzazione nel combattimento contro lo Stato, avvenuto nel vivo dello scontro, nelle difficili condizioni degli anni ottanta. Passaggi politici tali da dare oggi una maggiore maturità alla stessa proposta rivoluzionaria, alle modalità di sviluppo, organizzazione e movimento della guerra di classe di lunga durata in un paese del centro imperialista. Ed è proprio questo dato politico qualitativo, il rapporto tra l’attività di avanguardia delle BR e il contesto dello scontro di classe in Italia, che ha contribuito a determinare uno spessore politico a questo stesso scontro non facilmente riconducibile agli obiettivi di “pacificazione” pianificati dalla borghesia imperialista e perseguiti con rinnovata impellenza soprattutto in questa fase di scontro. In altre parole, seppure lo scontro rivoluzionario procede tra avanzate e ritirate dentro al suo andamento discontinuo, la stessa esperienza delle BR ha verificato come gli avanzamenti che di volta in volta si producono e le conoscenze acquisite sulla conduzione stessa della guerra di classe determinano un peso politico che permane nei caratteri dello scontro rivoluzionario, da cui non è possibile prescindere. All’interno di questa dinamica anche il prevedibile approfondimento del piano controrivoluzionario nello scontro per parte dello Stato e dell’imperialismo, soprattutto come portato dell’accelerazione della tendenza alla guerra, non cade su una condizione di classe priva di strumenti per contrapporvisi e misurarsi adeguatamente, a partire proprio dall’esistenza della guerriglia e della sua valenza strategica.

Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente e militanti rivoluzionari prigionieri non riconosciamo alcuna legittimità a questo tribunale e allo Stato che rappresenta. Dei nostri atti politici rispondiamo solo alla nostra organizzazione, e con essa al proletariato di cui è l’avanguardia rivoluzionaria. Ribadiamo che il processo qui celebrato non è che un momento del rapporto tra guerriglia e Stato. Lo scontro nella sua complessità politica e rivoluzionaria si gioca fuori da queste aule; per questo per noi e meglio di noi parla la guerriglia in attività.

– Attaccare e disarticolare i progetti controrivoluzionari e antiproletari di rifunzionalizzazione dello Stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare i progetti imperialisti della coesione politica europea e di “normalizzazione” della regione mediorientale.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area.
– Trasformare la guerra imperialista in guerra di classe rivoluzionaria.
– Onore ai compagni e combattenti antimperialisti caduti.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

 

Bologna, aprile 1991

 

Sesta Corte Penale, Napoli – Documento di Anna Cotone del Collettivo Comunisti Prigionieri “Wotta Sitta” allegato agli atti del processo-stralcio del Moro Ter

Lo scontro rivoluzionario e di classe è stato investito da una nuova dimensione ovunque a partire dalla guerra del Golfo. Per gli USA è stato il primo passo per l’imposizione del loro nuovo ordine mondiale per l’epoca del post-guerra fredda. La guerra è stata locale, ma la posta in gioco era ed è mondiale.

Quella che si sta aprendo è una nuova epoca di mutamenti profondi degli equilibri di potere e delle relazioni internazionali, e conseguentemente di guerra e di guerre che mettono in discussione tutti gli assetti precedenti del sistema imperialista.

Questo sistema, così come si era dato a partire dalla divisione internazionale di Yalta, è divenuto del tutto incapace di reggere gli effetti della crisi del capitale internazionale e lo sviluppo delle contraddizioni da essa generate.

La costituzione di un blocco europeo come risposta alla crisi internazionale del capitale e del sistema ha subíto una concreta accelerazione dentro il processo di coesione internazionale imposto dalla guerra, ma questa spinta determinata dalla escalation militare USA-imperialista ha messo a nudo ancora di più la disgregazione del sistema per la borghesia imperialista.

Tutto ciò significa che la guerra da parte degli Stati imperialisti rideterminerà ulteriormente questa nuova fase storica in cui l’imperialismo ha la necessità di rafforzare il suo potere sul piano economico, politico, militare.

La guerra del Golfo come risposta globale della borghesia alla crisi del vecchio ordine, ha acuito e approfondito gli effetti delle contraddizioni principali generati dalla crisi stessa in tutto il mondo.

Nell’area mediorientale si è evidenziata una volta di più la linea di demarcazione antimperialista e si è polarizzata ulteriormente la contraddizione tra proletariato e borghesia.

In tutto il Medio Oriente si è addensato un processo di lotta e di liberazione. Non c’è stato solo l’attacco contro il popolo iracheno. C’è la lotta del popolo palestinese che combatte contro il sionismo. C’è il popolo kurdo che lotta per la sua indipendenza. C’è il proletariato turco che combatte contro la borghesia fascista. C’è l’intero popolo arabo che resiste alla egemonia degli USA e ai diktat del Fondo Monetario Internazionale.

Nell’insieme queste lotte costituiscono la lotta del proletariato arabo contro l’imperialismo e contro i regimi che stanno collaborando alla pacificazione forzata nell’area. La guerra ha posto quest’intero processo di lotta direttamente contro la borghesia imperialista a livello internazionale.

C’è un filo rosso che lega questa tappa della guerra imperialista alla linea controrivoluzionaria di gestione della crisi USA-imperialista da oltre un ventennio, il cui inizio coincise, non a caso, con la sconfitta americana in Vietnam. Da allora, le linee imperialiste di gestione della crisi hanno per oggetto la tenuta della globalità del sistema guidato dagli USA. E in questo momento è più che mai necessario ricordare che la crisi di egemonia USA caratterizza storicamente questa fase di scontro che attraversiamo, nel senso che la disgregazione di questo sistema imperialista è l’orizzonte storico delle forze rivoluzionarie di questa epoca.

L’unità delle forze rivoluzionarie nel fronte rivoluzionario antimperialista e l’organizzazione della lotta di classe internazionale sono la forza politica e sociale in grado di produrre una spinta al processo di emancipazione e rivoluzione sociale in questa epoca di mutamenti.

Una cosa deve essere chiara: la situazione attuale caratterizzata da profondi cambiamenti apre oggettivamente uno spazio ulteriore all’iniziativa rivoluzionaria, ma non ci può essere avanzamento per il proletariato internazionale se non si costruisce un punto di forza in grado di spezzare i rapporti di potere, di nuovo, in qualche punto.

Oggi sta nascendo un “nuovo” movimento contro la guerra, che è di proporzioni mondiali e con un preciso segno di classe antimperialista. L’internazionalismo proletario può diventare “nuovo” proprio riappropriandosi del significato originario datogli da Marx e dai comunisti della Prima Internazionale: proletari di tutto il mondo uniti contro il capitalismo e la sua barbarie per conquistare una dimensione di vita pienamente umana.

Questo significato originario è stato progressivamente stravolto dal revisionismo che “di fronte all’immaturità delle contraddizioni oggettive” ha subordinato meccanicamente a queste la prospettiva rivoluzionaria. Ha portato la priorità dello sviluppo capitalistico nelle aree non industriali (del sud America come del sud Europa) e la mentalità corporativa e sciovinista nelle aree più sviluppate; ha diviso strutturalmente gli sfruttati e ha negato la possibilità del comunismo. E gli eredi di questa politica infame nel centro imperialista – socialdemocratici e riformisti vecchi e nuovi – hanno riproposto ora, nelle nuove condizioni, il loro ruolo per dividere la classe dal movimento rivoluzionario e isolare l’antagonismo proletario, e impedire lo sviluppo della coscienza antimperialista.

Oggi la lotta antimperialista contro il genocidio dei popoli e la “nuova colonializzazione” del Medio Oriente e del sud del mondo deve diventare parte integrante della lotta di tutti i proletari in Italia, come in Spagna, in Germania, in Grecia, in Turchia e in tutto il resto d’Europa. Deve diventare una conquista della coscienza proletaria così come lo è diventata l’autonomia di classe e l’organizzazione autodeterminata delle lotte.

L’unità delle lotte del proletariato delle metropoli del “centro” con quelle del Tricontinente del sud può costituire la base di classe su cui costruire la forza per accelerare l’agonia del sistema imperialista.

L’attacco della RAF al futuro governatore di Bonn a Berlino Est, Rohwedder, è un coltello nel fianco della strategia di unificazione imperialista, che ha nel progetto pantedesco il perno del processo di rafforzamento del suo potere nella divisione internazionale imperialista.

L’annessione della ex DDR ratificata nell’ottobre ’90 non ha fatto altro che mettere sotto gli occhi di centinaia di migliaia di proletari e operai la natura bestiale degli interessi capitalistici, e ha mostrato la profondità delle contraddizioni del sistema che stanno alla base della spinta all’integrazione europea.

In questa fase la gestione imperialista della crisi del sistema sta oggettivamente bruciando via via molte illusioni e false concezioni, e il carattere disumanizzante e oppressivo dell’imperialismo viene fuori senza demagogie, nemico diretto nelle lotte di tutti i proletari. La “nuova” penetrazione capitalista è palesemente senza consenso tanto nei territori dove si è imposta con l’occupazione militare, tanto laddove si è “offerta” attraverso la sua politica di pressione.

L’attacco della RAF è un passo nella direzione dell’unificazione delle lotte e dell’antagonismo proletario dentro la politica della guerriglia, per bloccare le vie d’uscita dalla crisi, «contro i progetti reazionari pantedeschi ed europeo-occidentali di sottomissione e di sfruttamento degli uomini qui e nel Tricontinente».

Lottare insieme.
Uniti si vince.
Onore a tutti i combattenti caduti contro l’imperialismo.
Onore al compagno Jesús Rojas Antonio Cardenal.

Anna Cotone del Collettivo Comunisti Prigionieri “Wotta Sitta!”

 

Napoli, 18 aprile 1991

 

 

Guerra alla guerra imperialista. Seconda Corte di Assise di Roma – Dichiarazione dei militanti BR-PCC Giuseppe Armante, Antonio De Luca, Franco La Maestra allegata agli atti del processo del 7-1-91

La nostra presenza in quest’aula, come prigionieri militanti delle BR-PCC è tesa a ribadire la necessità-possibilità della lotta armata, come unica strategia possibile per la conquista del potere da parte del proletariato, a fronte di condizioni storico politiche maturate dallo sviluppo dell’imperialismo in questa fase storica. Ribadiamo altresì la validità del percorso di riadeguamento intrapreso dalle BR-PCC a partire dalle difficili condizioni di arretramento della classe proletaria in seguito alla controffensiva dello Stato degli anni ’80. Un percorso tutto interno a queste condizioni, dove le BR, attraverso un processo di riadeguamento dell’attività di direzione politico militare dello scontro di classe, non solo hanno mantenuta aperta l’alternativa rivoluzionaria, ma si sono concretamente misurate con i nodi politici che via via maturavano nel rapporto di scontro tra proletariato e borghesia. Un piano di iniziativa rivoluzionaria che ha permesso di sviluppare per linee interne alla classe il necessario lavoro di costruzione dell’organizzazione proletaria sul terreno della lotta armata per il comunismo dando così sviluppo alla guerra rivoluzionaria di classe di lunga durata. Un percorso di riadeguamento che si è sviluppato sull’asse strategico dell’attacco al cuore dello Stato e sulla necessità-possibilità di sviluppare una politica di alleanze tra forze rivoluzionarie nell’area geopolitica Europa occidentale-Mediterraneo-Medio Oriente attraverso la costruzione del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire l’imperialismo attaccando le politiche centrali che lo sostengono e lo attraversano. Una politica di alleanze antimperialiste che conferma una necessità improcrastinabile per i comunisti di trasformazione rivoluzionaria dell’intero sistema imperialista e che aderisce ad un’impietosa analisi storica che definisce la storia dell’imperialismo come storia di barbarie e massacro dei popoli. Il mantenimento dell’egemonia imperialista sul mondo a fronte della sua profonda crisi economica, e la necessità di stabilire un nuovo ordine economico-politico a suo favore è la ragione che lo spinge di nuovo ad una guerra. Questa è la sostanza dell’aggressione al popolo arabo, altroché la violazione del “diritto internazionale”, altroché operazioni di “polizia internazionale” sotto l’egida dell’ONU tese a ristabilire presunte sovranità nazionali defraudate, ma una sequenza di massacri pianificati di devastazioni catastrofiche che ricadono come una nemesi sulle masse arabe e sul proletariato del centro imperialista. Un intervento imperialista costretto a misurarsi con la vasta resistenza del popolo arabo, con un forte sentimento antimperialista maturato in anni e anni di sfruttamento, di povertà e di pesanti costi imposti dagli interessi capitalistici, come portato del rapporto di subalternità e dipendenza economico politica di questi paesi all’imperialismo. Sono gli stessi scenari di guerra scatenati dalla borghesia imperialista a risottolineare non solo la necessità ma lo spessore strategico e l’importanza dell’attività del Fronte Combattente Antimperialista. Il contributo dato dalle BR sul terreno dell’antimperialismo si è reso tangibile nelle azioni Dozier, Hunt e Conti, contro l’attivismo imperialista dell’Italia e contro le politiche di riarmo. In conclusione intendiamo affermare che le continue provocazioni che da sempre lo Stato ha partorito attraverso l’intensa attività di controguerriglia allo scopo di ridimensionare lo spessore politico della guerriglia, delle BR, non sono certamente una novità, sono grotteschi tentativi di mistificare il portato e la valenza politica della proposta strategica della lotta armata alla classe e tentare velleitariamente di relegare l’iniziativa rivoluzionaria nella sfera pre-politica della marginalità criminale. Consci del fatto che il riconoscimento politico le BR se lo sono conquistato in vent’anni di attività politico-militare, rigettiamo le vostre squallide provocazioni. Non riconosciamo a questo tribunale nessuna legittimità di giudizio in quanto esso è l’espressione e il garante del potere della borghesia. Per questo non intendiamo presenziare all’apologia di questa farsa che ormai volge al fine. Il processo rivoluzionario non si processa né tanto meno si arresta, i suoi esiti si decidono fuori di quest’aula.

Guerra alla guerra imperialista
Onore ai comunisti e ai combattenti antimperialisti caduti
Onore alla combattente Faddwa Hassan caduta nel Sud del Libano in un attacco contro i sionisti

I militanti BR- PCC Giuseppe Armante, Antonio De Luca, Franco La Maestra

 

Corte d’Appello di Parigi, Prima Camera d’Accusa: Dichiarazione dei militanti delle Br-Pcc Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti e dei militanti rivoluzionari Nicola Bortone e Gino Giunti

Come militanti delle BR-PCC e militanti rivoluzionari prigionieri, esprimiamo la nostra piena adesione all’iniziativa combattente portata dalla Rote Armee Fraktion contro Detlev Rohwedder dirigente responsabile della Treuhandanstalt. Questa gigantesca istituzione economico-politica svolge un ruolo di primo piano nell’operazione di penetrazione del capitale finanziario occidentale nell’Est della Germania, di “colonizzazione” e svendita della sua capacità produttiva, di “ristrutturazione” del suo tessuto economico-industriale secondo le leggi e le regole dell’imperialismo. E se da una parte ciò si traduce in un attacco su tutti i piani, economico e politico, alla classe operaia e al proletariato di questa “Germania di seconda categoria”, dall’altra parte l’indirizzo espressamente dato alle scorribande speculative e altamente profittevoli dei capitali occidentali accelera la formazione e il rafforzamento delle aggregazioni monopolistiche (tedesche ed intereuropee) e spinge in avanti il processo di coesione/formazione economica e politica dell’Europa Occidentale, rafforzando in essa il ruolo della Germania, punta di lancia del dinamismo europeo in questa fase.

L’attuale fase economica di crisi/recessione sempre più acuta, l’accumularsi delle contraddizioni che è venuto maturando in questi anni di “reaganomics”, di economia drogata, di effimero boom dei profitti e reale deindustrializzazione, rende sempre più necessario e urgente stringere i paesi della catena ad un maggior compattamento e responsabilizzazione, sia sul piano economico che politico e militare, nell’obiettivo strategico di rafforzare l’imperialismo e puntare alla ridefinizione degli equilibri sanciti nel dopoguerra tra Est e Ovest.

Su questo processo complesso e contraddittorio la “grande” Germania svolge un ruolo preminente, forzando e pilotando nelle tappe successive dell’integrazione europea. Il maggior peso economico e politico, acquisito a partire dalla “riunificazione” e nel procedere delle operazioni di assorbimento/saccheggio della ex-RDT, le consente di gravare ulteriormente sui termini concreti dell’avanzamento della coesione/formazione dell’Europa Occidentale; di svolgere con più forza un ruolo d’indirizzo politico in funzione degli interessi e necessità del grande capitale finanziario e industriale; di spingere verso un livello più alto di coordinamento e armonizzazione delle politiche economiche tutti i paesi del blocco imperialista; di dirigere i flussi finanziari e controllare le fusioni tre i grandi monopoli europei così come l’andamento dei mercati; di pilotare gli investimenti destinati ai paesi dell’Est, URSS in testa, con tutto quello che ciò comporta in termini di pressioni politiche; di ricucire in ultima istanza verso l’interesse generale della catena gli strappi provocati dalle forti spinte contraddittorie della sempre più feroce concorrenza intermonopolistica. Una complessità di interventi che si traducono, tra l’altro, in una maggior centralità tedesca (rispetto ai suoi partner europei) nell’operare sull’asse degli equilibri Est/Ovest. Infatti se le dinamiche che coinvolgono la ex-RDT si affermano a fronte di un quadro di instabilità e modificazione dei rapporti di forza sulla direttrice Est/Ovest, di cui sono un’espressione concreta, al tempo stesso premono sugli equilibri esistenti forzando sul piano economico e politico.

Lo schieramento degli interessi imperialisti che si afferma via via dal collimare dei reciproci interessi chiarisce come il ruolo dell’Europa Occidentale, e in essa della Germania, non si colloca in antagonismo con le finalità degli Stati Uniti ma al contrario entrambe concorrono ad avvicinare lo stesso obiettivo: la rottura del vecchio assetto post-bellico per la sua ridefinizione mondiale.

Un processo che avanza nel quadro della tendenza alla guerra. Al di là delle campagne demagogiche di “disarmo e distensione”, sono i reali processi di riarmo e aggressione che segnano le tappe del procedere della tendenza alla guerra, di cui un passaggio essenziale è stato segnato con l’attacco imperialista contro l’Irak. Questa guerra di aggressione, e la conseguente presenza militare massiccia e diretta dell’imperialismo, ha determinato la rottura dei precedenti equilibri politici nell’area, ratificando e imponendo rapporti di forza più favorevoli al blocco occidentale nell’ambito della contraddizione Est/Ovest, rapporti di forza mutati che hanno informato di riflesso il piano di contraddizione Nord/Sud: in questo l’Europa Occidentale è coinvolta per assumere in pieno il ruolo attivo che le è proprio in un’area geopolitica che è sua naturale zona d’influenza.

Al tempo stesso questa guerra ha affermato a un livello superiore l’interesse generale della catena assestando una maggiore coesione/compattamento dell’insieme del sistema integrato e gerarchico a dominanza USA a fronte delle attuali necessità dettate dallo sviluppo/crisi dell’imperialismo. È dunque chiaro come anche questo livello d’intervento nell’area incida sulla contraddizione proletariato/borghesia sul piano internazionale. Ma la “pax” forcaiola auspicata dall’imperialismo è ben lungi dall’esser realizzata, e l’occidente ha messo a nudo agli occhi dei rivoluzionari e degli sfruttati di tutto il mondo la sua debolezza strategica, la sua natura di “tigre di carta”.

Infatti la determinazione rivoluzionaria del popolo palestinese, la resistenza e l’antagonismo opposte dal popolo arabo in generale, la vitalità e l’incisività espresse dalla guerriglia, in Medio Oriente come nel centro imperialista, dimostrano nei fatti che è possibile resistere, è possibile combattere, è possibile vincere. Ma non solo. Dimostrano anche che esiste un alto livello reale di unità oggettiva tra i diversi processi rivoluzionari del centro e della periferia. In questo la necessità e la possibilità di lavorare per costruire e rafforzare il Fronte Combattente Antimperialista si afferma in tutta la sua concretezza.

L’obiettivo di attaccare l’imperialismo nelle sue politiche centrali per indebolirlo e ridimensionarlo nell’area geopolitica Europa-Mediterraneo-Medio Oriente trova, in questa politica di alleanze, il suo livello più alto di realizzazione superando una concezione solidaristica dell’antimperialismo e ridefinendo in termini attuali la teoria/prassi leninista dell’internazionalismo proletario. Costruire la forza politica e pratica per portare attacchi coscienti e mirati al potere imperialista è un percorso concreto che ha visto e vede la nostra Organizzazione attivamente impegnata a stringere, attraverso passaggi successivi concreti, l’unità realizzabile nell’attacco pratico con tutte le forze rivoluzionarie che nell’area combattono l’imperialismo. A partire dalla consapevolezza che le differenze storiche, di sviluppo e di impianto politico delle singole Organizzazioni, le differenze secondarie di analisi non possono essere di ostacolo alla necessaria unificazione dell’attività antimperialista delle forze combattenti, le BR-PCC hanno contribuito e contribuiscono alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo. Così facendo viene perseguita soggettivamente l’unità dialettica da far vivere in offensive comuni, e che già esiste oggettivamente tra forze e percorsi rivoluzionari sia del centro che della periferia. Fermo restando che per le BR-PCC l’antimperialismo nella politica di Fronte è un asse programmatico che vive in dialettica con l’attacco al cuore dello Stato, primo punto di programma, quest’ultimo, su cui si costruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata.

– Attaccare e disarticolare i progetti di riforma dello Stato.
– Attaccare i progetti imperialisti della coesione politica europea e di “normalizzazione” dell’area mediorientale.
– Costruire l’unità delle forze combattenti sull’attacco: organizzare il Fronte.
– Combattere insieme.
– Trasformare la guerra imperialista in guerra di classe rivoluzionaria.
– Onore ai compagni combattenti antimperialisti caduti.

I militanti delle BR-PCC: Simonetta Giorgieri, Carla Vendetti. I militanti rivoluzionari: Nicola Bortone, Gino Giunti

 

Parigi, 16 maggio 1991

Carcere di Novara. Intervento dei Compagni del Collettivo Wotta Sitta alla “Giornata internazionale sulla questione della prigionia rivoluzionaria nel mondo” del 19.6.91

E se tutti fossimo capaci di unirci perché i nostri colpi fossero più forti e sicuri, perché ogni tipo di aiuto ai popoli in lotta fosse ancora più efficace, come sarebbe grande il futuro, e quanto vicino!
(Ernesto Che Guevara)

Cinque anni fa, le truppe dell’esercito e della marina peruviani, su ordine del boia Alan Garcia, attaccarono con una vera e propria azione di guerra, tre carceri nei pressi di Lima – El Fronton, Lurigancho e Callao – e sterminarono oltre 300 prigionieri e prigioniere, comunisti e rivoluzionari, militanti del movimento di opposizione e della guerriglia di Sendero Luminoso.

Questo infame massacro non va ricordato solo in quanto ennesima conferma della barbarie imperialista, ma anche, e soprattutto, per rafforzare la coscienza della lotta mortale che in America Latina, come in tutto il mondo, oppone il proletariato internazionale e i popoli oppressi al sistema di dominio e sfruttamento del capitale, e per mettere al giusto posto il contributo che danno a questa lotta i rivoluzionari prigionieri in ogni realtà di scontro.

La lotta dei rivoluzionari prigionieri nelle carceri imperialiste è sempre stata una parte importante nel processo rivoluzionario nel suo insieme. Nella fase attuale l’andamento della lotta rivoluzionaria nelle principali aree di scontro con l’imperialismo conferma e ripropone, se mai ce ne fosse bisogno, questo dato politico.

 

  1. Alla fine degli anni ’80 la borghesia imperialista, fiancheggiata dal riformismo internazionale, annunciava l’inizio di una “era di pace”, in cui la fine della “guerra fredda” tra le due superpotenze e la “sconfitta del comunismo” avrebbe eliminato la “minaccia della guerra nel mondo” e ricomposto i conflitti regionali con soluzioni politiche e mediazioni ad alto livello.
    Dopo qualche anno l’iniziativa imperialista in tutte le principali aree di crisi ha riportato tutti alla realtà: dalla caduta della giunta rivoluzionaria Sandinista in Nicaragua sotto il ricatto della Contra e degli USA, all’invasione americana di Panama con il massacro di 5000 persone; dall’annessione della RDT nella cosiddetta “Grande Germania”, alla guerra nel Golfo con la distruzione dell’Irak e centinaia di migliaia di morti sotto i più massicci bombardamenti che si ricordino dalla seconda guerra mondiale, perpetrati dalla gigantesca macchina militare USA ed Europeo-Occidentale.
    Sono solo alcuni dei fatti più importanti della “nuova era di pace”, che mostrano i propositi dell’imperialismo occidentale in questa fase: dare un colpo duraturo ai movimenti rivoluzionari e di liberazione, ristabilire le gerarchie nei confronti di quelle borghesie nazionali che portano avanti politiche dissonanti, affermare nuovi equilibri di potere a suo favore dopo il frantumarsi del Blocco dell’Est, nel quadro del propagandato “nuovo ordine mondiale”.
    Un’illusione di potenza che gli strateghi dei centri imperialisti vedono velocemente infrangersi nella moltiplicazione delle contraddizioni e dei conflitti che volevano eliminare. Ogni masso che l’imperialismo solleva gli ricade inevitabilmente sui piedi!
    Il frastuono della guerra imperialista non ha ridotto al silenzio i movimenti rivoluzionari e di liberazione; al contrario, dalla Palestina e dalla Turchia, al Perù e Centroamerica, come nel cuore dell’Europa, essi hanno preso la parola con il combattimento, riproponendo ad un livello più alto la presenza del processo rivoluzionario nel mondo.
    In questo innalzamento dello scontro, ogni movimento e forza rivoluzionaria, ogni militante, deve necessariamente rafforzare i propri livelli di coscienza e internità alla classe e la connessione tra le diverse realtà di lotta. È proprio questo dato politico a caratterizzare la condizione e la lotta dei prigionieri rivoluzionari nelle carceri dell’imperialismo.

 

  1. Nello scenario dell’offensiva imperialista che ha segnato questi primi anni ’90, in Europa e in altri paesi occidentali, governi, partiti, “associazioni culturali”, capitalisti e mass-media, preparano le celebrazioni del “Cinquecentenario della scoperta dell’America” per il 1992.
    È una scadenza che va posta all’attenzione per diverse ragioni. Innanzitutto perché, ben lungi dall’essere solo una delle tante celebrazioni di “vittoria del capitalismo” o della “civiltà occidentale”, essa costituisce una enorme operazione politica, economica e ideologica che serve ad intensificare lo sfruttamento e l’oppressione dei paesi del Tricontinente e dell’America Latina in primo luogo.
    Per fare qualche esempio concreto, la Spagna, in questo contesto, intende creare nelle sue ex colonie una propria area di influenza politica ed economica sul modello del Commonwealth. Questo progetto è in realtà una testa di ponte per un processo di penetrazione della CEE in Centro e Sud America, in cui tra l’altro l’Italia è impegnata a fondo e vi sono coinvolti anche USA, Giappone e… Israele!
    Un altro elemento importante è il formarsi attorno a questa scadenza, di un vasto movimento in America Latina, Stati Uniti ed Europa, che pur nella diversità delle esperienze contiene in sé i percorsi della lotta storica all’oppressione del capitale, e intende trasformare questa “commemorazione” della borghesia in un momento di lotta internazionalista e di critica radicale al sistema imperialista.
    Nei movimenti rivoluzionari latinoamericani è sempre più radicata la coscienza che l’imperialismo può essere vinto solo in un processo di lotta unitario insieme alle altre realtà rivoluzionarie del mondo.
    Si tratta dunque di un piano di iniziativa e mobilitazione che riguarda direttamente il movimento rivoluzionario e antimperialista europeo e internazionale.
    Per noi prigionieri questa dimensione vale anche come terreno di connessione e interazione tra diverse realtà di lotta nelle carceri imperialiste, per affrontare questo scontro specifico nell’ambito del movimento rivoluzionario internazionale.

 

  1. In questo quadro vogliamo focalizzare la situazione dei prigionieri rivoluzionari negli USA; una realtà che presenta importanti connessioni, a livello oggettivo come soggettivo, con la mobilitazione antimperialista contro il “Cinquecentenario”, e con la dimensione di lotta che stiamo delineando.
    Nelle carceri speciali statunitensi ci sono attualmente oltre 150 prigionieri e prigioniere rivoluzionari. In maggioranza sono neri, per lo più ex membri del Black Panther Party e del Black Liberation Army. Ci sono poi 20 prigionieri antimperialisti bianchi, numerosi Indiani d’America e oltre 30 prigionieri del movimento di liberazione portoricano.
    La maggior parte hanno condanne pesantissime, come Leonard Peltier e Jeronimo Pratt, in carcere da oltre 20 anni, fino alla situazione del compagno Mumia Abu Jamal, tra i fondatori del Black Panther Party, condannato alla pena capitale nell’82 e rinchiuso nel braccio della morte del carcere di Huntingdon in Pennsylvania.
    Bush, come i suoi predecessori, ha sempre negato l’esistenza di prigionieri politici in USA; una mistificazione che regge sempre meno.
    In questi anni, nonostante l’onnipresente controrivoluzione preventiva che da sempre in USA colpisce ogni forma di opposizione allo Stato, si è creata una significativa mobilitazione con iniziative su molti piani, dalle manifestazioni contro le carceri, alla controinformazione, ad azioni legali sul terreno dei diritti umani. Tutto ciò ha sfondato il black-out sulla lotta dei prigionieri, suscitando un grosso appoggio a livello internazionale nei movimenti antimperialisti. Un primo importante risultato di queste iniziative è stata la chiusura dell’infame “Unità di Massima Sicurezza” femminile di Lexington.
    I prigionieri politici e di guerra in USA sono il riflesso dei movimenti che negli ultimi 20 anni hanno scosso la società americana; movimenti prodotti da un intreccio di contraddizioni interne alla struttura stessa di questa società.
    «La storia americana è il risultato del conflitto tra gli invasori europei e gli Indiani d’America, tra i padroni bianchi e gli schiavi neri, l’esercito colonizzatore e i colonizzati, i padroni e gli operai, i maschi oppressori e le donne, gli imperialisti e gli antimperialisti». Così scrivevano i Weathermen in Prateria in fiamme.
    La metropoli imperialista USA porta nel suo codice genetico tutte le tappe dello sfruttamento e della distruzione di interi popoli, che hanno consentito l’affermarsi di questa formazione sociale nel quadro storico dello sviluppo del modo di produzione capitalistico nel mondo.
    Questo è il legame intimo che affianca le lotte antimperialiste e di liberazione nazionale negli Stati Uniti a quelle dei movimenti rivoluzionari in America Latina e nel Tricontinente, come allo scontro di classe in Europa Occidentale; ed è anche il senso della lotta dei prigionieri politici e di guerra nelle carceri nordamericane.

 

  1. In Europa Occidentale ci troviamo di fronte, da diversi anni, al rapido sviluppo del progetto di unificazione economica e politica che i vari governi, gruppi capitalistici multinazionali e la borghesia nel suo insieme perseguono in questa fase per contrastare la crisi ed affrontare la competizione tra blocchi economici capitalistici nel mondo.
    Gli effetti di questo processo di concentrazione economica e politica cominciano ad essere evidenti, tanto nella strategia di penetrazione del capitale europeo all’Est e in altre aree, quanto sul piano del riadeguamento militare. Recentemente i governi degli Stati-NATO hanno annunciato la formazione di una “Forza di rapido intervento”, con 100.000 soldati, inglesi, tedeschi, belgi, olandesi, italiani, spagnoli, greci e turchi, sotto il comando americano, con il compito di intervenire anche “fuori dalla tradizionale area di intervento” per “difendere gli interessi dell’Europa Occidentale”. La guerra del Golfo ha originato un modello di intervento che gli Stati europei hanno fatto proprio, aumentando considerevolmente il loro peso e responsabilità nella strategia globale dell’imperialismo occidentale.
    Questa dinamica imperialista rende ineludibile per i governi europei la pacificazione forzata dei vari conflitti sociali che attraversano da 20 anni il continente in lungo e in largo. Non è un caso che la strategia controrivoluzionaria occupi un posto di primo piano, tanto nelle politiche nazionali dei vari Stati che negli accordi in sede europea. L’ormai collaudato “Gruppo TREVI” (organismo di direzione e centralizzazione della repressione nella CEE) e gli “Accordi di Schengen” (per controllare i flussi dell’immigrazione dal Tricontinente), sono i pilastri su cui si costruisce tutta la politica della “sicurezza” in Europa.
    Oggi il movimento rivoluzionario, le organizzazioni d’avanguardia, i collettivi antagonisti, le realtà di lotta proletarie, fino ai prigionieri, devono costruire il proprio percorso in presenza di un apparato ed una strategia controrivoluzionaria fortemente integrati a livello continentale.
    L’unificazione europea, con al suo centro la nuova “Grande Germania”, non può tollerare l’attività dei movimenti antagonisti, delle organizzazioni di guerriglia, e neanche l’esistenza di prigionieri che in carcere continuano la lotta come parte viva del movimento rivoluzionario.
    – È questo nocciolo duro della politica imperialista Europeo-Occidentale che ha segnato lo scontro tra i compagni prigionieri dei GRAPO e del PCE(r) e il governo di Felipe González sulla questione del loro nuovo raggruppamento.
    Dopo circa 15 mesi di sciopero della fame e di tortura con l’alimentazione forzata, dopo la morte del compagno José Manuel Sevillano, la lotta è stata sospesa per evitare uno stallo, con altre perdite, a fronte di una situazione profondamente mutata dagli avvenimenti internazionali.
    Eppure in questa durissima lotta i compagni spagnoli hanno dato al governo González, agli strateghi della controrivoluzione europea, una lezione di determinazione politica soggettiva e di rigore rivoluzionario.
    La consapevolezza che il tentativo del governo del PSOE di distruggere la loro identità e militanza collettiva con l’isolamento e la dispersione in numerose carceri, fosse parte in realtà di un attacco generalizzato alla classe e al movimento rivoluzionario, li ha portati a contrastare questa strategia, rifiutando la condizione di ostaggi impotenti a cui li si voleva relegare, prendendo l’iniziativa per il loro raggruppamento con una chiara internità agli interessi e obiettivi della lotta rivoluzionaria in Spagna e in Europa.
    Non c’è quindi nessuna sconfitta, questa lotta è solo interrotta e ciò che in essa si è costruito in termini di coscienza, solidarietà e quadro di comunicazione sarà la condizione per riprenderla con più forza e porre fine all’isolamento dei compagni.
    – In Germania, dopo l’inglobamento della RDT, il governo tedesco con tutto il suo apparato di “sicurezza“ è impegnato in una forsennata e paranoica attività repressiva, volta ad impedire che il movimento rivoluzionario e antimperialista coaguli e politicizzi le contraddizioni indotte dal processo della cosiddetta “Grande Germania”.
    Nella ex RDT è in atto una gigantesca operazione politica ed economica che sta letteralmente liquidando tutto il preesistente assetto sociale per poter ricostruire dalle fondamenta strutture e uomini funzionali ai progetti di dominio e sfruttamento della nuova potenza capitalistica tedesca.
    Ma le aspirazioni di Kohl ad uno sviluppo pacifico di questo processo sono fortemente frustrate sia dalle lotte delle masse dell’Est, evidentemente poco disposte a scomparire dalla scena, sia dall’iniziativa rivoluzionaria del movimento, con in testa la guerriglia della RAF.
    Gli sgherri del “Cancelliere” non sanno più cosa inventare per fermare l’azione delle forze rivoluzionarie, e oltre all’attacco generalizzato alle situazioni di movimento (come le case occupate, i giornali di controinformazione, i collettivi antagonisti), la campagna repressiva si rivolge con il consueto accanimento contro i prigionieri della RAF e della Resistenza. A parte le pressioni su familiari e aree di solidarietà, è in atto una manovra degli apparati di “sicurezza” dello Stato per falsificare e “riscrivere” l’esperienza RAF in termini di “longa manus della STASI” nel tentativo di legare la lotta alla guerriglia alla demonizzazione e liquidazione della ex Germania Orientale. Una costruzione così grossolana che neanche le dichiarazioni pilotate di alcuni traditori fuoriusciti dalla RAF, riescono a rendere credibile.
    È un susseguirsi di provocazioni e campagne stampa contro i compagni prigionieri, che ultimamente si sta traducendo nella minaccia esplicita di ripristinare l’isolamento assoluto anche per quei militanti in situazioni di socialità minima (4 compagne in un carcere!) strappate con lo sciopero della fame dell’89.
    I compagni prigionieri sono impegnati a contrastare quotidianamente questo ennesimo attacco.
    – In situazione analoga si trovano i prigionieri rivoluzionari di Action Directe che si sono visti togliere gradatamente spazi e condizioni di vita ottenuti con lo sciopero della fame dell’88. Un isolamento fisico e comunicativo e il solito corollario di provocazioni. Il governo del “socialista” Mitterrand, con il suo staff di democratici ex sessantottini, apprezza molto – e applica volentieri – la scienza controrivoluzionaria del gruppo TREVI! Contro questa situazione, i 4 compagni di AD sono in lotta dal primo gennaio con uno sciopero della fame a staffetta.
    Questo scontro, pur con aspetti specifici, è affrontato anche dai compagni delle Cellule Comuniste Combattenti, isolati da oltre 5 anni nelle carceri belghe; dai prigionieri dell’ETA, che sono in condizioni simili ai GRAPO; dai prigionieri irlandesi dell’IRA e altre organizzazioni rivoluzionarie che da 20 anni sostengono una lotta durissima contro la politica carceraria inglese. Attualmente oltre 200 di questi compagni sono condannati all’ergastolo e detenuti negli H-Blocks (1).
    Completano il quadro i numerosi combattenti arabi, palestinesi, curdi, presenti in molte carceri del continente, testimonianza esplicita del ruolo dell’imperialismo europeo contro le lotte rivoluzionarie e di liberazione dell’area Mediterraneo-Mediorientale.

 

  1. Ogni movimento ha sempre avuto i suoi prigionieri. Su questo terreno passa una delle linee di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione, tra proletariato internazionale e borghesia imperialista.
    È questo l’elemento che rende necessario affrontare in un’ottica internazionale la “questione” dei prigionieri rivoluzionari. Ma non solo.
    L’imperialismo, in decenni di controrivoluzione, ha creato una scienza e un modello del trattamento carcerario ormai generalizzati. Il sistema carcerario USA e quello Europeo-Occidentale sono riprodotti in tutti gli Stati imperialisti e nei loro satelliti. Non c’è molta differenza tra le carceri speciali USA e canadesi e quelle europee o quelle sudamericane. Così come prende sempre più piede nel trattamento dei prigionieri rivoluzionari il binomio reinserimento-abiura o annientamento, che qui in Italia conosciamo bene…
    La logica che portò il governo tedesco agli assassinii dei compagni della RAF a Stammheim nel ’77 è la stessa del massacro “Aprista” (2) dei prigionieri peruviani nell’86; è la stessa del regime carcerario di De Klerk contro le migliaia di combattenti del popolo di Azania, che attualmente in 200 sono in sciopero della fame per ottenere la liberazione. È la stessa del governo sionista con i suoi campi di concentramento nel deserto del Negev per i combattenti palestinesi.
    In Turchia le carceri speciali, piene di rivoluzionari curdi, di Dev Sol e di altre organizzazioni rivoluzionarie, con molti condannati a morte, sono state progettate da ingegneri americani. Il governo fascista di Ozal, con amnistie-truffa e altre grottesche operazioni di maquillage democratico, vuole rendere accettabili alla CEE i quotidiani massacri di rivoluzionari e proletari turchi e curdi in carcere e fuori. Ovunque, dove si sviluppano movimenti antimperialisti e rivoluzionari, l’imperialismo individua nei prigionieri un terreno su cui proseguire la sua strategia controrivoluzionaria.

 

  1. Il Italia la borghesia imperialista sta accelerando tutti i processi di ridefinizione dell’assetto istituzionale e del sistema politico, allo scopo di mettere lo Stato in condizioni di dirigere l’integrazione della struttura economica, politica e sociale italiana nella formazione Europeo-Occidentale.
    Questa dinamica, unitamente al continuo riadeguamento della struttura produttiva, si traduce in una forte pressione verso il proletariato metropolitano. Nei fatti non c’è realtà di classe dove non ci sia un intensificarsi della lotta.
    Di fronte al riproporsi della conflittualità sociale che ha sempre caratterizzato la realtà italiana, e alla possibilità di una nuova politicizzazione dello scontro, la borghesia riadegua la sua politica controrivoluzionaria.
    La cosiddetta “sicurezza sociale” infatti, assieme alle riforme istituzionali e all’intervento sull’enorme deficit economico-finanziario, è un punto fondamentale del programma dell’attuale governo.
    La politica repressiva e controrivoluzionaria qui, oggi si ritaglia sulla necessità di impattare, a livello preventivo, un conflitto sociale molto più complesso che in passato, dove alle “vecchie” contraddizioni se ne sommano di nuove (si pensi allo scontro sugli immigrati o alla crescita fortissima del divario tra Nord e Sud). Per questo tutto l’armamentario di “leggi speciali”, apparati di polizia e reti di controllo sociale, trattamento carcerario, accumulato dallo Stato in 20 anni di scontro di classe, trova oggi ridefinizione e collocazione organica nei programmi dello Stato rifondato. Ma questo in realtà vale per tutta la politica controrivoluzionaria dello Stato italiano dal dopoguerra in poi.
    I vertici della Democrazia Cristiana difendono e rivendicano con tracotanza la legittimità della struttura “Gladio” che, nel quadro europeo della strategia anticomunista della CIA e della NATO, ha segnato a forza di stragi antiproletarie il tentativo dell’imperialismo di ricacciare indietro il movimento rivoluzionario e di classe in Italia dai primi anni ’50 fino agli anni ’70 e ’80.
    La continuità della controrivoluzione imperialista deve vivere, non importa in quali forme, anche nella “seconda repubblica”!
    Sono queste le condizioni che le nuove lotte proletarie e i percorsi rivoluzionari devono affrontare per sviluppare la loro prospettiva. E questo vale naturalmente anche nel carcere.
    Per il governo, i partiti e i media borghesi, oggi gli unici “prigionieri politici” esistenti in Italia sono i dissociati e tutta la fauna degli aspiranti al “reinserimento sociale”, vezzeggiati da ministri e partiti riformisti.
    Per chi continua la sua lotta di rivoluzionario in carcere c’è la pioggia di ergastoli ai processi e il progressivo irrigidimento del trattamento nelle sezioni speciali con situazioni di gruppi limitati di prigionieri, sottoposti a continue pressioni e isolamento politico e fisico.
    È una strategia che in tutti questi anni, come ora, mira ad occultare una contraddizione politica che lo Stato non può riconoscere.

 

  1. Affrontare lo scontro politico sul carcere come questione a sé, o in ambito “locale“, non avrebbe senso. La lotta dei prigionieri rivoluzionari va concepita sia come parte della lotta per la costruzione dell’avanguardia e dello sviluppo del movimento rivoluzionario italiano, sia come azione cosciente all’interno di una visione internazionale del processo rivoluzionario.
    In questo bisogna partire dal punto più avanzato della lotta dei prigionieri rivoluzionari in Europa Occidentale.
    Lo scontro per il raggruppamento e contro l’isolamento sostenuto da molti anni dai prigionieri della RAF e della Resistenza in RFT, e in seguito dai prigionieri di AD in Francia, e su cui si è sviluppata una estesa dialettica e iniziativa con il movimento rivoluzionario e altri prigionieri in molti paesi europei, all’interno del processo del Fronte Rivoluzionario, ha cominciato a delineare un soggetto unitario sul piano della lotta contro il carcere imperialista. In questo senso costituisce un punto di riferimento per tutti coloro che concepiscono questa lotta come parte del percorso dell’unità dei rivoluzionari e della lotta antimperialista.
    Naturalmente il quadro delle esperienze a cui riferirsi è molto più ampio: dalla importantissima lotta dei prigionieri spagnoli, a quella dei compagni di IRA ed ETA, dei prigionieri delle CCC in Belgio e dei combattenti arabi, palestinesi e curdi in carcere in Europa.
    Nelle lotte di tutti questi rivoluzionari prigionieri è emerso un dato molto chiaro: l’isolamento e la politica imperialista contro i prigionieri della guerriglia, nelle specifiche realtà di scontro, possono essere battuti in modo duraturo solo lavorando a far avanzare tutto il piano della lotta al carcere imperialista in Europa all’interno dello sviluppo del processo rivoluzionario nel suo insieme.
    Concepire la lotta contro l’isolamento e per il raggruppamento dei prigionieri in RFT, Francia, Spagna, Belgio, ecc., come terreno stabile della propria iniziativa complessiva, è la dimensione concreta e attuale che permette alle istanze del movimento di stabilire la giusta dialettica tra le lotte proletarie e questo scontro specifico, trasformandolo in un arricchimento di tutta la lotta rivoluzionaria.
    Ciò che unisce i prigionieri rivoluzionari alle altre situazioni di classe, non è solo l’incondizionata solidarietà che deve sempre esistere tra rivoluzionari e proletari in lotta, ma, soprattutto, il rapporto e la tensione unitaria tra chi in situazioni diverse lavora per “mandare all’inferno l’imperialismo”.
    Rafforzare la lotta dei prigionieri rivoluzionari qui in Europa, costruire tutte le connessioni possibili con le lotte dei compagni prigionieri in America Latina, in USA, in Medio Oriente e ovunque, significa dare un contributo sia allo sviluppo dei movimenti rivoluzionari in quelle aree, sia all’avanzamento generale del processo rivoluzionario nel mondo.

I Compagni del Collettivo Wotta Sitta del carcere di Novara

Giugno ’91

 

Note

(1) H-Bloks: carceri di massima sicurezza in Irlanda del Nord.
(2) “Aprista”: da Apra, partito di Alan García presidente del Perù fino al 1991.

Corte d’Appello di Parigi. Prima Camera d’Accusa – Documento delle militanti BR-PCC Simonetta Giorgieri, Carla Vendetti e dei militanti rivoluzionari Nicola Bortone e Gino Giunti allegato agli atti

In quanto militanti delle BR-PCC e militanti rivoluzionari vogliamo ribadire come, al di là delle formule e dei riti giuridici, questa istruttoria, che si trascina da due anni, risponde unicamente agli interessi della classe dominante e non ha nessuna legittimità dal punto di vista della legalità proletaria, la sola che riconosciamo.

E per parte proletaria l’attività rivoluzionaria delle BR-PCC è ampiamente legittimata nella misura in cui la nostra Organizzazione ne rappresenta e ne porta avanti gli interessi generali al punto più alto dello scontro, di contro agli interessi e al dominio borghese.

Nel contesto attuale, gravido di crisi e tendenza alla guerra, la strategia e la linea politica delle BR mantiene la sua piena attualità. Emerge infatti sempre più netta la collocazione degli interessi contrapposti e la loro possibile alternativa di sviluppo. Allora mentre la borghesia pretenziosamente fa l’apologia della sua onnipotenza ed eternità, vediamo dove si collocano realmente i fatti dal punto di vista di classe.

L’annessione della RDT da parte della RFT, la guerra di aggressione in Medio Oriente poi, sono stati due momenti culminanti, come tappe da assestare nel contesto internazionale, di un unico processo che avanza a suon di forzature e rotture negli equilibri internazionali, su piani diversi ma complementari e convergenti: la tendenza alla guerra. È l’accumularsi critico della crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali e mezzi di lavoro che non possono operare come tali, a produrre oggettivamente la tendenza alla guerra. Mano a mano che le controtendenze messe in campo, sia in termini spontanei dal capitale stesso, sia come politiche economiche mirate, esauriscono i loro effetti sulle conseguenze più laceranti della crisi e le contraddizioni si presentano come sempre più profonde e generalizzate, la necessità di darvi soluzione si sposta sul piano politico sul quale le contraddizioni accumulate premono per portare a maturazione le premesse per uno sbocco bellico.

Solo una guerra devastante e mondiale che distrugga capitale, forza-lavoro e mezzi di produzione, e che ridefinisca parallelamente gli equilibri internazionali per una nuova divisione globale del lavoro e dei mercati e delle sfere di influenza, può aprire la strada ad un nuovo ciclo espansivo dell’imperialismo.

Per il carattere stesso della crisi economica e per il grado di approfondimento raggiunto, la parziale estensione dell’ambito di penetrazione dei capitali che può essere perseguita attraverso annessioni e aggressioni – in generale la semplice espansione del mercato dei capitali – non è sufficiente a risolvere la questione della valorizzazione.

Le operazioni in atto di penetrazione del capitale finanziario e industriale verso l’Est si rivelano inefficaci per il rilancio del ciclo economico capitalistico: mentre prefigurano la direttrice su cui l’imperialismo cerca lo sbocco alla sua crisi, non fanno altro che aggravare lo stato di crisi economica.

Per la ripresa dell’accumulazione capitalistica su scala adeguata al livello di sviluppo dell’imperialismo, è necessaria una rottura ben più drammatica e complessiva – che è la tendenza che informa gli attuali passaggi – sintetizzabile nella dinamica distruzione/ridefinizione/espansione. Una dinamica che matura sull’asse Est/Ovest, anche perché i paesi dell’Est (a differenza ad esempio dei paesi della periferia) sono un campo economico sufficientemente sviluppato a livello industriale e delle infrastrutture da consentire un’adeguata ripresa del ciclo economico, una volta distrutto il sovrappiù di capitale prodotto, ridefinite su nuove posizioni la divisione internazionale del lavoro e dei mercati a scapito dei paesi dell’Est e ridisegnate le aree di influenza mondiali.

Dunque la presenza e l’individuazione di questo terreno come adeguato e complementare per l’impiego dei capitali sovraprodotti, è di fatto uno dei sintomi dell’approfondimento della tendenza alla guerra. Allo stesso modo, altrettanti segnali in questa direzione sono sia la politica di riarmo, che tende sempre più ad allargarsi a tutta la catena come terreno privilegiato di politiche economiche, sia il salto in avanti nel processo di concentrazione/accentramento del capitale che ha il suo perno nel mercato europeo.

Tutte dinamiche concrete che come marxisti analizziamo tenendo però sempre presente che il passaggio dalla tendenza alla guerra alla “guerra di fatto” non è né meccanico, né predeterminato, al contrario i suoi tempi e modalità di realizzazione sono dati dalla interazione/scontro tra i concreti elementi politici coinvolti. Quello a cui si assiste attualmente è un processo di rotture nei rapporti politici e di forza tra i diversi soggetti in campo, attraverso il quale l’imperialismo punta a costruirsi il retroterra favorevole allo scatenamento della guerra “risolutrice”. Un processo che matura dentro il quadro internazionale storicamente definitosi dopo la II guerra mondiale.

Il bipolarismo sancito a Yalta e, al suo interno, il livello di internazionalizzazione/interdipendenza dell’economia capitalista nell’ambito integrato del blocco occidentale a dominanza USA, sono fattori sostanziali che hanno informato i movimenti economici e politici da 45 anni a questa parte e che attualmente prefigurano le direttrici di evoluzione delle tendenze in corso. La profonda integrazione economica, politica e militare della catena imperialista esclude che le contraddizioni che si manifestano al suo interno come prodotto della concorrenza tra monopoli, possano tradursi sul piano politico in un conflitto interimperialistico tra i paesi del blocco occidentale. D’altra parte l’assetto bipolare, nel disegnare due aree di influenza nel mondo, ha posto la contraddizione Est/Ovest come dominante la sfera delle relazioni internazionali. Questa contraddizione, lungi dal dissolversi pacificamente, catalizza come non mai i movimenti, le spinte e le rotture che riflettono e accompagnano l’accumularsi delle contraddizioni nel campo imperialista, presentandosi come il terreno di realizzazione della tendenza alla guerra: è su questo piano che si concentrano le iniziative politiche e militari dell’imperialismo per sfondare gli equilibri assestati e conquistare posizioni strategiche di forza che preludono l’escalation nel confronto con l’Est.

Il profondo indebolimento e instabilità dei paesi dell’Est, e dell’URSS in particolare, è uno dei termini su cui l’imperialismo cerca di fare leva per trarne il massimo vantaggio, operando per una maggiore destabilizzazione. Un processo che avanza da tempo a diversi livelli e che interagisce con le spinte e le dinamiche oggettive e soggettive che attraversano il campo imperialista, dando origine ad un quadro complesso e fluido in cui il rafforzamento dell’imperialismo è relativo all’indebolimento del campo contrapposto. Ridefinire sulla direttrice Est/Ovest l’assetto mondiale, non solo risulterebbe vantaggioso per il capitale che potrebbe così espandersi in un contesto economico maturo e ricettivo, ma comporterebbe anche per l’imperialismo la rimodellazione dei rapporti di dipendenza con i paesi periferici.

Infatti il carattere dominante della contraddizione Est/Ovest implica che i rapporti di forza che si instaurano e si modificano tra i due blocchi contrapposti si riflettano sul piano di contraddizione Nord/Sud che ne è direttamente condizionato, sia nei conflitti che vi si producono sia per il peso e l’estensione del dominio economico e politico che l’imperialismo esercita sui paesi terzi.

I paesi della periferia che attraverso processi di emancipazione nazionale si sono sottratti in questi ultimi 40 anni alle soffocanti leggi capitalistiche dello sviluppo ineguale, si venivano a collocare oggettivamente nello schieramento dell’Est, allo stesso modo, l’attivismo imperialista nel forzare e incrinare i rapporti politici e di forza nei confronti dell’altro blocco, si ripercuote anche sulla tendenza alla ricollocazione e recupero del controllo, economico e politico, sui paesi terzi, tendenza che procede sia in termini di strangolamento economico che di intervento militare diretto (e che comunque deve sempre fare i conti con l’indisponibilità di questi popoli a sottomettersi al dettato imperialista). Fermo restando che, a questo stadio della crisi economica, anche per assestare un quadro di relazioni sviluppo/sottosviluppo funzionale alla necessità della crisi/maturazione dell’imperialismo, è necessaria una ridefinizione globale della divisione del lavoro e dei mercati che ha il suo centro nei paesi industrializzati e nella ridefinizione dei rapporti di forza tra Est e Ovest.

A partire dall’accumularsi di fattori economici che richiedono all’imperialismo di rimettere in discussione complessivamente l’assetto post-bellico e stante le modificazioni significative sopravvenute negli equilibri Est/Ovest, l’aggressività imperialista si è dispiegata recentemente nella regione mediterranea-mediorientale evidenziando come essa effettivamente sia, e non da oggi, la regione di massima crisi nel mondo. Le contraddizioni Est/Ovest e Nord/Sud che l’attraversano assumono qui una valenza e un’acutezza tutte particolari. Si tratta infatti di un’area a carattere strategico, perché zona di confine già a suo tempo non definita dagli accordi di Yalta, perché snodo centrale nelle rotte e transiti fra tre continenti, perché fonte di risorse strategiche da tenere sotto controllo. D’altra parte si tratta di un’area a contatto diretto col mondo capitalista e in questo l’Europa occidentale, che ne ha fatto la sua naturale zona d’influenza, è interessata direttamente dai conflitti che vi si producono, la cui forte connotazione antimperialista dimostra l’alto grado di instabilità politica della regione. Tutti elementi questi che fanno di quest’area il possibile detonatore di un conflitto allargato, e che chiariscono come questa guerra rispondesse a diversi ordini di contraddizione. Obiettivo immediato dell’attacco occidentale al popolo irakeno è senz’altro la ricerca di una “normalizzazione” imperialista dell’area in cui, attorno all’attività sionista, perno della strategia USA, dovrebbe ruotare il sistema di sicurezza e stabilizzazione economica integrato nell’Alleanza Atlantica.

A partire dai rapporti di forza scaturiti da questa guerra, gli Stati Uniti in particolare e tutto il blocco occidentale puntano ad imporre più stretti rapporti di dipendenza ai paesi della regione e dettare sotto questo ferreo ordine la “soluzione politica” del conflitto sionista-palestinese e arabo-sionista. Ma la valenza e il portato dell’aggressione in Medioriente va oltre il semplice riordino delle relazioni di dipendenza nell’area, nel quadro della tendenza alla guerra essa risponde all’obiettivo di stabilire posizioni di forza per gli interessi strategici, politici e militari dell’imperialismo.

Le finalità di questa guerra, così come le implicazioni concrete maturate, sono state perseguite attivamente soprattutto dagli Stati Uniti che, nel dirigerla e gestirla senza sostanziali condizionamenti, hanno riaffermato con forza la loro egemonia nella catena. Questa è la logica conseguenza della posizione economica degli USA, paese capitalisticamente più avanzato, quindi che subisce un livello più profondo di crisi; quindi che maggiormente spinge verso lo sbocco bellico; d’altra parte si sono poste le premesse per una maggiore responsabilizzazione e operatività politica e militare dell’Europa occidentale, il cui allineamento sulle direttive statunitensi conferma come i processi di coesione europea non possono essere letti in funzione della creazione di un “terzo polo”, ma sono tutti interni al rafforzamento dell’Alleanza nel suo complesso.

Queste sono schematicamente le dinamiche in evoluzione nel mondo, portato degli scompensi dell’economia capitalistica che vedono l’Europa al centro della ridefinizione degli equilibri internazionali. Andare oltre l’apparenza per cogliere le diverse prospettive e potenzialità di evoluzione dei termini dello scontro rivoluzione/controrivoluzione, imperialismo/antimperialismo, significa da un lato registrare un approfondimento di questi termini, dall’altro cogliere come l’attivismo guerrafondaio dell’imperialismo sia un’estrema manifestazione di debolezza, debolezza strategica di un sistema economico e di dominio che deve ricorrere alla forza militare, alla distruzione e all’annientamento su scala mondiale per mantenersi e sopravvivere, e che per questo vede insorgere contro di essi movimenti di liberazione di popoli oppressi mentre, al suo stesso interno, la guerriglia si dimostra sempre più come la prassi storicamente adeguata al suo superamento. Anche la contraddizione principale proletariato/borghesia, infatti, è direttamente attraversata dagli attuali processi economici, politici e militari. Il livello di crisi/sviluppo dell’imperialismo nella fase dominata dai monopoli multinazionali-multiproduttivi, richiede altissimi tassi di sfruttamento che sono altrettante catene per il proletariato internazionale; nel contempo si evidenzia come la guerra verso cui l’imperialismo sta trascinando il mondo intero, risponde, così come tutte le guerre imperialiste che hanno insanguinato questo secolo, unicamente agli interessi della borghesia, alle problematiche e insanabili contraddizioni che sono parte integrante di questo modo di produzione. Opporsi irriducibilmente e fattivamente alla guerra della borghesia imperialista è interesse generale del proletariato che deve e può vivere concretamente all’interno di una strategia adeguata in grado di trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria: la Lotta Armata per il Comunismo. Interesse di classe che si afferma dunque nell’attività politico-militare della guerriglia, di direzione dello scontro nel centro imperialista, e che d’altra parte coincide con gli interessi dei popoli oppressi della periferia e in particolare nell’area mediterranea-mediorientale.

Le iniziative combattenti che in ogni parte del mondo hanno sintetizzato al livello più alto l’opposizione di massa alla guerra imperialista, hanno posto con forza questo terreno unitario, esprimendo un rinnovato internazionalismo proletario. Il patrimonio politico e rivoluzionario maturato dalle masse arabe in anni di lotta, resistenza e combattimento contro le progettualità mortifere dell’imperialismo per la liberazione nazionale e l’emancipazione politica e sociale, ha espresso a fronte dell’oppressione imperialista tutta la sua potenzialità. Attraverso il rifiuto radicale del nuovo ordine imperialista, della sua logica di guerra e asservimento, si sono coagulate forze e settori non omogenei ma consapevoli delle necessità di opporsi all’arroganza imperialista, che hanno manifestato nel dispiegamento dell’attività combattente il loro punto più alto, rendendo tra l’altro poco sicure le alleanze con i paesi arabi della coalizione anti-irakena e tendendo ad annullare la suddivisione artificiale della regione imposta dal colonialismo prima e dall’imperialismo poi.

Un’attività antimperialista destinata a pesare sugli sviluppi di uno scontro che coinvolge interi popoli che combattono per l’autodeterminazione: un piano di scontro che per l’imperialismo è strategicamente perdente.

E questa, alimentata dalle contraddizioni proprie del rapporto Nord/Sud, non è che una delle direttrici di scontro antimperialista su cui si manifesta in termini offensivi la totale contrapposizione al “nuovo ordine mondiale”.

Nei paesi del centro imperialista quello che l’ultima operazione bellica ha reso ancor più evidente è che non si può lottare contro la guerra della borghesia imperialista con gli strumenti consentiti dalla democrazia borghese che serve, in definitiva, gli stessi interessi che portano alla guerra. Tale condizione di scontro riafferma con più forza la validità della guerriglia come unica alternativa concreta e praticabile per il proletariato alla crisi della borghesia e alla sua (relativa) risoluzione nella logica del capitale, la guerra imperialista. Questo perché la lotta armata, l’unità del politico e del militare, è l’adeguamento della politica rivoluzionaria alle condizioni generali del conflitto di classe per come si sono delineate in questa fase dell’imperialismo. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, è la giustezza dell’impostazione strategica, della linea politica e degli obiettivi di programma delle BR, maturati e praticati nello scontro in 20 anni di attività rivoluzionaria, che costituisce la grande forza strategica per il proletariato del nostro paese, risposta concreta e prospettica alla questione del potere.

Dentro ai principali assi programmatici dell’attacco al cuore dello Stato e alle politiche centrali dell’imperialismo, in dialettica con le istanze più mature dell’autonomia di classe, le BR-PCC costruiscono i termini dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata dirigendo e organizzando lo scontro rivoluzionario: un percorso concreto che fa avanzare il processo di costruzione del PCC.

In particolare per quanto riguarda l’antimperialismo, esso si materializza nel contributo alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, quale termine politico-militare adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo che, in questa fase, vanno individuate nei progetti imperialisti della coesione politica europea e di “normalizzazione” dell’area mediterranea-mediorientale.

Perseguire attivamente una politica di alleanze che unifichi nell’attacco alle politiche dominanti dell’imperialismo non solo la guerriglia che opera nel cuore dell’Europa occidentale ma anche le forze rivoluzionarie che perseguono la liberazione nazionale che operano nell’area, è necessario e possibile. La necessità del Fronte Combattente Antimperialista sta dunque nel grado di integrazione, di coesione politico-militare, che caratterizza la catena imperialista in questa fase storica e che richiede un indebolimento e un ridimensionamento complessivi dell’imperialismo nell’area geopolitica europea-mediterraneo-mediorientale per realizzare il processo rivoluzionario, sia esso “classista” o “nazionalista”. La possibilità del Fronte Combattente Antimperialista sta nell’esistenza di un fronte oggettivo tra le forze rivoluzionarie che in questa regione combattono l’imperialismo, il quale, assunto come termine soggettivo, consente di costruire offensive comuni contro il nemico comune, indipendentemente dalle finalità strategiche delle forze rivoluzionarie che vi concorrono; consente di costruire, attraverso momenti successivi di unità e cooperazione tra le forze combattenti, la forza politica e pratica necessaria a destabilizzare la potenza dell’imperialismo. Un processo concreto che avanza nel vivo dello scontro e che a tutt’oggi si qualifica nelle tappe concrete che ne hanno marcato lo sviluppo, dall’esordio del Fronte Rivoluzionario Combattente in Europa occidentale, promosso nell’85 da Action Directe e Rote Armee Fraktion e sostanziato dalle azioni contro Zimmermann, Audran e la base USA di Francoforte-Rein-Mein, all’accordo politico RAF-BR dell’88, sintetizzato nel testo comune e concretizzato dall’attacco contro Tietmayer, che pone le premesse politiche per lo sviluppo del Fronte Combattente Antimperialista con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area geopolitica.

Vogliamo infine sottolineare che per le BR-PCC l’attacco alle politiche imperialiste non esaurisce i compiti della guerriglia relativamente alla sua funzione di direzione del processo rivoluzionario, ma si deve coniugare con l’attacco al cuore dello Stato, alla politica dominante nella congiuntura che oppone proletariato e borghesia, al fine di rompere gli equilibri politici che fanno marciare i progetti della borghesia imperialista; questo proprio perché la funzione degli Stati non si annulla ma al contrario si esalta nel quadro dato di integrazione e coesione economica, politica e militare.

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di “riforma” dello Stato.

– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato.

– Attaccare le politiche centrali dell’imperialismo e in particolare i progetti di coesione politica e militare dell’Europa occidentale e di normalizzazione della regione mediterranea-mediorientale che passano principalmente sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.

– Lavorare alle alleanze necessarie per costruire/consolidare il Fronte Combattente Antimperialista, per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica Europa-Mediterraneo-Medioriente.

– Combattere insieme.

– Onore a tutti i compagni e rivoluzionari antimperialisti caduti combattendo.

Le militanti delle BR-PCC: Simonetta Giorgieri, Carla Vendetti, I militanti rivoluzionari: Nicola Bortone, Gino Giunti

 

Parigi, 23/9/91

Roma, Processo per banda armata – Documento di Giuseppe Armante e Franco La Maestra allegato agli atti

In quanto militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente prigionieri, la nostra presenza in quest’aula è tesa in primo luogo a ribadire in termini chiari il nostro rapporto con il nemico di classe e, principalmente, a rivendicare in pieno il complesso del progetto e dell’attività delle BR che, sviluppatosi in stretta unità con le espressioni più mature dell’autonomia di classe, rappresenta l’elemento strategico necessario per l’affermazione dell’interesse generale del proletariato. Da questa attività e progettualità le BR sviluppano in Italia un processo rivoluzionario basato sulla guerra di classe di lunga durata che rappresenta l’unica alternativa possibile al dominio della borghesia.

Gli attuali sviluppi internazionali sono la materializzazione evidente delle contraddizioni capitalistiche che, nel loro coagularsi critico, manifestano il rapido evolversi della tendenza alla guerra come sbocco necessario alla borghesia imperialista per superare la crisi generale che l’attanaglia; tendenza alla guerra che si dispiega all’interno del quadro storico-politico dominato dalla contraddizione Est/Ovest, che proprio nella modificazione dei rapporti di forza a favore dell’imperialismo trova non già la sua risoluzione, bensì il suo approfondimento in direzione dello sbocco bellico.

Non è quindi un caso che dalle macerie del muro di Berlino non sia sorta “la collaborazione” tra i popoli, ma invece: affamamento per milioni di operai e proletari, ingerenze e immediatamente guerra sulla direttrice Nord-Sud, perché questo è l’ordine imperialista, il suo dispiegarsi alla guerra, di cui l’annessione dell’ex DDR, come la frantumazione del patto di Varsavia, ne sono parte integrante.

Con la propagandata “morte del comunismo” la borghesia imperialista tenta di mistificare il carattere proprio della sua contrapposizione all’URSS in quanto superpotenza, nonché, sul piano epocale, cancellare dalla storia un secolo di lotta comunista internazionale, e quel disastro storico per i suoi sonni tranquilli che è stata la Rivoluzione d’Ottobre!

Ma, a parte questa operazione di esorcismo della storia, patetica nella sua sostanza, questa offensiva ideologica risponde in maniera molto pragmatica al tentativo di legare il socialismo, ovvero l’emancipazione proletaria, ai rapporti di forza nella contraddizione Est/Ovest. Cosciente, come la borghesia è, che il proletariato in quanto classe per sé rappresenta, e in questo secolo l’ha più volte dimostrato, il suo reale affossatore, nonché la “variabile” incontrollabile all’interno di un conflitto bellico.

La contraddizione Est/Ovest, che caratterizza in termini dominanti le relazioni tra gli Stati dai patti di Yalta, ha influito sullo sviluppo stesso dell’imperialismo nei riflessi politico-militari che la costruzione del blocco occidentale è venuta assumendo dentro al piano oggettivamente dato dal grado di integrazione economica gerarchizzata a dominanza Usa. Dentro questo quadro storico di formazione del blocco imperialista, sulla spinta dei piani Usa di ricostruzione e stabilizzazione economico-politica dell’Europa Occidentale, si è data la costituzione della Nato, quale massima espressione del grado di integrazione della catena e dell’interesse generale imperialista sulla contrapposizione all’Est e nella sua funzione controrivoluzionaria. Il prodotto della contraddizione Est/Ovest è stato l’assetto bipolare del mondo che ha influito nelle crisi regionali ed interagito con le numerose rotture rivoluzionarie della periferia. Percorsi di liberazione nazionale che in alcuni casi hanno realizzato Stati di Nuova Democrazia, che hanno portato sulla scena mondiale la lotta rivoluzionaria degli operai e dei contadini del “Sud del mondo”, un dato di unità con la lotta del proletariato dei centri imperialisti che segna in maniera indelebile il risvolto rivoluzionario di questa epoca storica.

Processi rivoluzionari che si sono certamente sviluppati nel quadro dominante dato dall’assetto bipolare del mondo, che non sono il prodotto del bipolarismo, ma che con esso hanno interagito e da esso sono stati influenzati, influenzando a loro volta la contraddizione Est/Ovest complessificandola e globalizzandola.

 

Per queste ragioni, con il modificarsi dei rapporti di forza nella contraddizione Est/Ovest, la guerra imperialista contro i popoli e le nazioni della periferia assume carattere di guerra controrivoluzionaria e, contemporaneamente, dispiegamento della guerra imperialista sulla direttrice Est/Ovest.

È con la politica di riarmo adottata prevalentemente nel corso della amministrazione Reagan e che tutt’oggi prosegue, che l’imperialismo fa dell’opzione bellica la strada maestra per il superamento della sua crisi. La scelta da parte degli Usa, non a caso per primi, di questo speciale stimolo economico, è stata la cartina di tornasole più chiara della profondità della crisi capitalistica in generale e del grado di recessione toccato dall’economia Usa che, essendo il paese con il capitalismo maggiormente sviluppato, ne concentra in massimo grado le contraddizioni e, in quanto tale, le sue risposte anticrisi sono necessariamente di carattere generale e investono tutta la catena imperialista, infatti la politica di riarmo in tappe successive è diventata patrimonio di tutto il blocco occidentale. L’intraprendere da parte degli Usa di questa via di “risoluzione della crisi economica” ha risposto anche ad obiettivi congiunturali, primo tra tutti stabilizzare la propria leadership nei confronti dell’Europa e del Giappone e, in quanto tale, la politica del riarmo ha significato anche conservare la dominanza sul mercato della tecnologia avanzata, nonché compattare l’Europa Occidentale intorno alla “stabilizzazione” imperialista di aree geopolitiche vitali per gli interessi imperialisti, quale il Medio Oriente, e il suo rigido compattamento nella contrapposizione Est/Ovest. Politiche queste ultime che hanno necessariamente accompagnato la scelta economica di fondo operata con il riarmo.

Da qui le innumerevoli forzature degli anni ’80 adottate dalla politica statunitense: dal ricorso al terrorismo di Stato, alla politica delle cannoniere, fino a vere e proprie invasioni sulle quali l’Europa Occidentale si è di volta in volta accodata e accorpata alla leadership statunitense.

Una scelta bellicistica proceduta per tappe e che ha avuto l’effetto non secondario di imporre una competizione sul terreno dell’ammodernamento degli armamenti all’Unione Sovietica, competizione che ha provocato un effetto disastroso sull’economia della stessa. È ovvio che l’attuale crisi economica e politica in URSS non dipende solamente dalle scelte operate nel campo occidentale con l’opzione bellica, ma ciò non è stato irrilevante nel suo ridimensionamento come superpotenza internazionale.

L’aggressione imperialista al popolo iracheno segna indubbiamente un punto di svolta nel dispiegamento della guerra, due dati di sostanza che vi si leggono: verifica e compattamento dell’Alleanza Atlantica e netta subordinazione dell’Unione Sovietica sulla scena internazionale. Con la guerra del Golfo una fase nuova della strategia politico-militare dei centri imperialisti, Stati Uniti in testa, si delinea e la borghesia si affretta a dargli un pomposo nome: nuovo ordine mondiale. Insomma, con parole meno apocalittiche e metafisiche si allude ad un ordine dettato dai nuovi termini della concorrenza monopolistica internazionale che premono per una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati, dove l’asservimento dei popoli e la rottura del quadro storico-politico evoluto dalla Seconda Guerra Mondiale sono la condizione politica necessaria a tale fine.

In questo insieme non si può leggere come controtendenza all’esplodere ed allargarsi dei conflitti i passaggi politici avvenuti in URSS, anzi ciò manifesta il precipitare della tendenza alla guerra: in generale perché la crisi di sovrapproduzione di capitali non è risolvibile con la semplice penetrazione economica.

In concreto non esistono i margini per l’espansione dei mercati capitalistici perché non sono date le condizioni per la valorizzazione al grado richiesto degli investimenti di capitali. Si tratta, nelle attuali condizioni, di vaghe promesse di investimenti futuri in funzione prettamente politica, accanto al dato più sostanziale di quel processo di “penetrazione economica” che si caratterizza nell’acquisizione di strutture produttive. Due elementi questi che premono sulla destrutturazione, divenendo strumento per indebolire ulteriormente la superpotenza URSS al fine di un suo definitivo ridimensionamento e subordinazione. Non esiste infatti alcun interesse economico, politico e tanto meno militare teso a favorire un rafforzamento in un qualunque campo di questa superpotenza.

Non è un caso che, approfittando della condizione di estrema debolezza in cui l’URSS versa, l’amministrazione Usa rilancia il suo programma di “disarmo” – disarmo sovietico s’intende! – perché tale proposta non può nascondere che essa risponde ai mutati scenari tattici di una guerra in Europa aggiornandone il concreto teatro bellico; così come essa risponde alle nuove teorie Nato e, in questo, si leva minacciosa contro l’autodifesa di popoli e paesi. La sostanza della “proposta” statunitense sta nell’approfondimento tecnologico degli armamenti convenzionali e nucleari, altro che disarmo! Esplicativo di ciò è che il progetto di “guerre stellari” trova rinnovato impulso. Una “proposta” che, al di là del ricatto demagogico “distruzione di armi uguale aiuti”, è una pressione costante e destabilizzatrice sull’Unione Sovietica.

Si concretizza dunque la tendenza alla guerra che, se da un lato risponde ad una nuova ripartizione dei mercati, dall’altro, ed è la sua ragione principale, risponde sia alla distruzione dei capitali sovrapprodotti sia a quella delle merci e della forza-lavoro. In questa chiave la contraddizione Est/Ovest entra in una nuova fase di cruenta contrapposizione e gli attuali avvenimenti in Unione Sovietica ne sono una evidente manifestazione.

Un processo che caratterizza anche le politiche di coesione dell’Europa Occidentale, dove l’appartenenza alla Nato diventa condizione per svolgere ed acquisire un peso internazionale, per ritagliarsi un proprio ruolo specifico sugli scenari internazionali. Questo è il fulcro su cui ruotano le relazioni politiche fra gli Stati dell’Europa Occidentale, che coinvolgono anche paesi fino a ieri esterni all’Alleanza Atlantica, come ad esempio Svizzera ed Austria, vista l’ingerenza diretta di quest’ultima nella crisi yugoslava, i quali, nel nuovo assetto internazionale che va formandosi, “scoprono” che la loro storica “neutralità” è una camicia di forza, un cappio per la loro economia necessariamente integrata. Quanto all’Europa Occidentale, la sua coesione politica ha il suo punto di forza nella “Difesa comune” e marcia oggettivamente e soggettivamente verso lo sbocco bellico: l’Est europeo è il suo terreno privilegiato d’intervento; in questo senso alimenta revanscismi e nazionalismi al cui interno la neocostruita Grande Germania svolge un ruolo preminente per riportare sotto la propria influenza i popoli slavi, e in questo si fa promotrice della costituzione di nuovi Stati in sostanza fantocci.

La crisi yugoslava è il banco di prova per l’Europa Occidentale e chiamare ingerenza la politica che sta attuando è solo un eufemismo, ma gli obiettivi che l’Europa e più in generale il campo imperialista nel suo complesso si prefiggono trovano l’ostacolo maggiore nel confronto concreto fra le forze in campo, che è l’ineliminabile incognita che smorza le velleità di invasione, date anche le risposte politiche del governo federale tese a non farsi trascinare in uno scenario di guerra civile ai livelli prefigurati dall’imperialismo, svuotando di ogni legittimità, che non sia quella “internazionale”, la proclamazione di “Stati” da parte di un manipolo di ustascia. Solo secondariamente le ingerenze occidentali trovano freno dagli squilibri che una possibile “Anshluss“ (annessione) della terra slava da parte della Germania provocherebbe all’interno dell’Europa Occidentale.

Le contraddizioni che manifesta al suo interno l’Europa Occidentale sono il riflesso in ultima istanza del grado di approfondimento della crisi, che non può che accentuare, pur dentro l’ambito fortemente integrato della economia, la concorrenzialità fra le diverse frazioni della borghesia imperialista nella necessità di acquisire le posizioni a sé più favorevoli, influendo nell’andamento contraddittorio delle stesse politiche di coesione. Da qui l’instabilità negli equilibri di forza all’interno del blocco occidentale che si accompagna al maggior ruolo che vengono ad assumere, seppure a diversi gradi, i paesi europei. Chiarificatrice in questo senso è la dichiarazione congiunta anglo-italiana sul rafforzamento della UEO con ambito di intervento extra Nato e sotto la direzione Nato, dichiarazione tesa all’adeguamento dell’integrazione europea nella direzione della preparazione alla guerra, ma nello stesso tempo a premere per limitare il peso politico dell’asse franco-tedesco in Europa, asse che, sempre nella medesima direzione generale, ha rafforzato le sue truppe integrate proponendole come forza europea.

Le tendenze che emergono dalla complessa situazione di questo quadro politico internazionale, riflettendosi nello specifico contesto interno dei singoli paesi europei occidentali, premono per una ulteriore accelerazione della ridefinizione degli assetti politico-istituzionali degli Stati.

In sostanza vengono riadeguati, in termini generali e con soluzioni specifiche alla natura storico-politica dei singoli Stati, le loro funzioni ed i loro organi ai nuovi gradi di sviluppo dell’imperialismo ed i problemi posti dal tentativo di contenimento della lotta di classe, ossia della controrivoluzione preventiva come politica costante di ogni singolo Stato.

Nel nostro paese tutto questo assume una particolare importanza e centralità in relazione alla forza e qualità della lotta di classe che si è maturata negli anni ed alla prassi rivoluzionaria che le BR hanno assunto, dimostratasi punto più alto nel dare risoluzione al problema del potere in dialettica con i settori più avanzati dell’autonomia di classe. In questo il “caso Italia” è un osso duro sulla strada delle varie politiche messe in campo dai diversi esecutivi.

Tramite l’attuale processo di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato si intende far funzionare al massimo la democrazia formale in linea con i modelli delle democrazie mature europee per costruire, sempre e comunque, di volta in volta maggioranze che siano in grado di garantire un esecutivo stabile che sappia rispondere in modo adeguato e rapido ai movimenti dell’economia, così come sul terreno degli impegni sempre più gravi ed esigenti dettati dall’instabilità del quadro internazionale dovuta alle politiche aggressive dell’imperialismo. Un processo che è riduttivo definire reazionario perché si costruisce coniugando la più grande apparenza di democrazia (democrazia formale) con un parallelo accentramento del potere reale. Questa tendenza al rafforzamento delle forme politiche della dittatura borghese non avanza in base ad esibizioni di abilità in ingegneria costituzionale, ma, essendo riferita ad un preciso contesto materiale su cui mira ad incidere, ne è condizionata dalla contraddittorietà del contesto stesso. La stessa durezza con cui l’esecutivo punta ad imporre l’attivazione dei propri programmi, forzando la risoluzione delle contraddizioni che si manifestano, evidenzia l’impossibilità di ricucirle pacificamente, dato che esse si generano nello scontro concreto, e a poco servono i richiami demagogici all’interesse generale del paese.

All’opposto la funzione dello Stato sul terreno delle politiche economiche, nel quadro dell’offensiva imperialista, si determina con maggior chiarezza, in quanto lo Stato agisce come interprete e garante al massimo grado dell’interesse della borghesia imperialista.

La stabilità politica è richiesta dalla complessità dei mutamenti in corso e gli strappi nei rapporti di forza generali fra le classi vengono condotti per delineare parziali momenti di stabilità, aprendo spazi politici tali da poter consentire la costruzione di condizioni idonee alla modifica dei poteri dello Stato, condizioni in ultima istanza determinate dal peso dello scontro fra le classi. Ed è proprio mirando ad un ridimensionamento complessivo del peso politico della classe, per poterla così piegare alle più dure politiche economiche, che nel corso degli anni ’80 si è sviluppata un’offensiva che ha spaziato dal politico, all’economico, al militare, con interventi controtendenziali alla crisi regolati secondo il modello del neocorporativismo caratterizzato dagli accordi centralizzati tra governo, Confindustria e sindacato. Lo Stato ha operato questa offensiva partendo dal presupposto che, senza assestare un duro colpo alla guerriglia, non si sarebbe potuto procedere alla ristrutturazione economica; una dinamica controrivoluzionaria che, a partire dall’attacco alle BR ed ai settori più avanzati dell’autonomia di classe, ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe.

A partire dai nuovi rapporti di forza si sono sviluppati i vari passaggi del progetto di rifunzionalizzazione complessiva, come ratifica e assestamento sul piano politico-istituzionale, in un ulteriore rafforzamento dello Stato, modificando profondamente il carattere della mediazione politica rispetto al proletariato, ed anche la funzione degli stessi soggetti istituzionali. Per questo nelle nuove condizioni dello scontro tra classe e Stato è incorporato il salto di qualità operato nel corso degli anni ’80, dato che l’insieme delle politiche antiproletarie ha assunto il carattere di una vera controrivoluzione complessiva.

Oggi, sul fronte degli ulteriori passaggi verso la II Repubblica, manifesta è la volontà delle più alte cariche dello Stato di svolgere un ruolo di testa di ariete che ben illumina le reiterate sortite di Cossiga, dettate come sono dalla necessità di operare mutamenti profondi nell’impianto costituzionale. Tali cambiamenti che si sono andati accelerando nel corso dell’odierna legislatura non possono dipanarsi nel vuoto asettico o con il meccanico rispetto di un ruolino di marcia, ciò per le contraddizioni che un tale processo scatena anche all’interno dello stesso ambito istituzionale borghese, dato che questo nei suoi organi principali ne è direttamente investito, essendone soggetto e oggetto e, quindi, tali forzature si muovono nel solco della politica del fatto compiuto, provocando così una instabilità nel quadro politico istituzionale. L’attacco antiproletario si fa tanto più feroce quanto più è stretta la strada imposta dalla crisi del modo di produzione capitalistico, quanto più sono impellenti le scadenze dettate dalle tappe verso la maggiore coesione politico-economico-militare in Europa Occidentale, lasciando margini residuali ai tipici strumenti di ammortizzamento sociale sempre più compressi, data la necessità di indirizzare le risorse finanziarie disponibili al sostegno dei grandi gruppi industriali che incamerano fiscalizzazioni e facilitazioni di ogni genere in misura crescente.

In questo contesto anche la rappresentanza formale a livello istituzionale degli interessi di classe si riduce fino ad azzerarsi. È la crisi che toglie ogni possibilità e spazio alle politiche socialdemocratiche perché ne demolisce la base strutturale, economica, materiale sulla quale si sono alimentate e sviluppate nella fase dell’espansione economica che l’imperialismo ha conosciuto dopo il secondo conflitto mondiale. Vedendo erosi i propri margini di manovra sul piano del controllo della lotta di classe, i revisionisti perseguono come loro massimo obiettivo politico l’appiattirsi sulle posizioni dominanti del campo borghese, tesi nella corsa a superare ogni supposta “diversità” mirando ad essere accettati, partito borghese tra partiti borghesi.

Nel rispondere ai crescenti impegni sul terreno istituzionale, la potenza Italia ha compiuto dei passi enormi nella direzione di un intervento sempre più a carattere militare verso l’estero, in concerto con gli altri paesi imperialisti, Usa in particolare. A tale fine marcia la riforma delle Forze Armate, privilegiando il rafforzamento delle unità di rapido impiego con l’adozione di nuovo armamento adatto allo scopo, come portaerei ed aerei cisterna per il rifornimento in volo e con un crescente peso nella presenza di militari professionisti; il tutto pianificato nel “nuovo modello di difesa” che prevede l’investimento di 57.000 miliardi, dando così anche impulso all’industria bellica. Un salto qualitativo tutto in funzione dell’affidamento all’Italia del comando della divisione mediterranea Nato di pronto intervento.

Sul fronte interno quanto sta avvenendo nel contesto dello scontro di classe mette in evidenza i repentini passaggi che si stanno consumando a lato della più generale ridefinizione dei poteri dello Stato. Attraverso laceranti contraddizioni e strappi nei rapporti di forza generali tra le classi, nonché nell’acuirsi dei conflitti dentro gli stessi apparati dello Stato e delle compagini borghesi, un sempre più ristretto ambito dell’esecutivo ha formalizzato l’affrontamento di organismi e figure istituzionali in grado di veicolare lo stesso accentramento dei poteri, la cui portata politica non ha precedenti perché consente di concentrare poteri esecutivi e legislativi in poche mani disponendo nel contempo di tutte le forze coercitive dello Stato.

A questo mira l’insieme delle nuove funzioni politiche affidate a prefetti, procure e all’integrazione operativa delle tre armi, a partire dal loro agire coordinato sotto la direzione dell’esecutivo. Dai caratteri di questi nuovi organismi scaturisce la natura prettamente controrivoluzionaria ed antiproletaria dei cambiamenti in atto e si comprende immediatamente la funzione principale per cui sono stati creati, l’essere volti cioè contro l’opposizione operaia e proletaria che in questo paese non riesce ad essere ridimensionata dentro ai vincoli auspicati dalla borghesia imperialista e dal suo Stato. L’istituzione di questi organismi, oltre a caratterizzare la strada obbligata della configurazione che va assumendo il potere in Italia dentro all’irrigidimento delle forme politiche di governo del conflitto, ha lo scopo di attivizzare su più livelli tutti gli strumenti della controrivoluzione preventiva, come mezzo principale per ostacolare il processo di organizzazione di lotta del proletariato, sebbene quest’ultimo presenti un movimento discontinuo in questa fase segnata dai rapporti di forza relativamente a favore dello Stato.

 

Più propriamente ha la velleità di inibire nel medio periodo il prodursi di condizioni politiche e materiali nel campo proletario favorevoli allo sviluppo della lotta armata per il comunismo, ma al di là dei disegni dello Stato, questo non è un problema contenibile oltre un certo tempo, tanto meno tramite la messa in campo di politiche repressive. Ciò perché indipendentemente da fasi di relativa difensiva della situazione di classe e rivoluzionaria, si sono consolidate nei caratteri dello scontro di classe condizioni politiche ineliminabili, le quali fanno sì che le dinamiche più avanzate della lotta non possano prescindere da quanto si è maturato in oltre un ventennio di scontro rivoluzionario. Termini politici che quindi condizionano l’andamento dello scontro al di là della situazione congiunturale perché determinati dallo sviluppo storico e dal livello raggiunto dallo scontro di classe e rivoluzionario.

Nel concreto questo dato politico è riconducibile alla qualità del processo rivoluzionario sviluppato e diretto dalle BR in stretta dialettica con l’autonomia di classe e intervenendo sempre nei nodi centrali dello scontro tra le classi. Un agire rivoluzionario che, a partire dall’attacco ai progetti centrali che contrappongono la borghesia al proletariato, incide nei rapporti di forza acquisendo un vantaggio momentaneo che viene tradotto nella costruzione di organizzazione di classe sulla lotta armata. È in questa complessa dialettica di costruzione delle condizioni politiche e militari di sviluppo della guerra di classe che le BR, collocandosi al punto più alto dello scontro, ne sono da sempre parte attiva e direzione rivoluzionaria.

Uno scontro rivoluzionario che per la sua profondità ha impresso specifici caratteri al complesso delle relazioni tra classe e Stato, ai suoi termini di rapporto generale. È questo il processo reale che ha fatto acquisire alla dinamica dello scontro di classe un peso politico che ha valenza strategica ai fini della prospettiva di potere del proletariato metropolitano di questo paese, tenuto conto di quanto si è maturato per gli interessi generali del proletariato nello sviluppo della guerra di classe in termini di esperienza e conoscenza del suo andamento e della sua conduzione. In altre parole, dai rapporti generali classe/Stato, fino alle modalità e dinamiche di sviluppo e organizzazione dell’antagonismo proletario, vivono i termini politici maturatisi con lo sviluppo della lotta armata per quanto su questo terreno ha prodotto e conquistato l’attività complessiva della guerriglia.

In sintesi, all’approfondimento del carattere controrivoluzionario che lo Stato vuole imprimere nel rapporto di scontro, fa da contraltare la resistenza che un proletariato niente affatto pacificato oppone ai pesanti attacchi sul piano delle conquiste politiche e materiali, nonché l’ipoteca costante rappresentata dal piano del risvolto rivoluzionario. Una condizione politica nello scontro che è la ragione prima degli ostacoli e dei ripiegamenti nell’attuazione dei progetti della borghesia imperialista e dell’instabilità del quadro politico con cui lo Stato si trova ad affrontare le scadenze poste all’ordine del giorno dalla profondità della crisi.

A fronte del restringimento dei margini di manovra, esecutivo e Confindustria spingono sulle leve del neocorporativismo nei suoi attuali termini di approfondimento come politica concreta che si pone l’obiettivo di frammentare entro micro interessi conflittuali il corpo di classe e depotenziarne le lotte in riferimento alla rigidità operaia ed alle conquiste unitarie del movimento operaio. Se da una parte lo Stato mette in campo tutti gli strumenti di governo consentiti dalla più generale modifica, soprattutto nell’ultimo decennio, della mediazione politica, è proprio la gravità della crisi, che è economica, politica e istituzionale insieme, che progressivamente riduce gli strumenti di governo del conflitto mentre contemporaneamente lo inasprisce e lo precipita. In questo quadro lo stesso ricorso da parte delle più alte cariche dello Stato alla rivendicazione dello stragismo in funzione apertamente terroristica nei confronti della classe, mentre è la manifestazione più evidente dei limiti politici al contenimento del conflitto, nello stesso tempo smaschera la reale natura di classe della “democrazia formale”, la sua sostanza controrivoluzionaria ed antiproletaria.

Un modo di governare il conflitto di classe che in pratica fa leva sull’“ordine pubblico” il cui senso reale è la criminalizzazione di ogni manifestazione di lotta e antagonismo proletario; uso dell’“ordine pubblico” che se è una costante di questo sistema di potere, lo è a maggior ragione nel contesto attuale di crisi economica come anche di avvicinamento di concrete prospettive belliche. Da qui il corollario di campagne ideologiche di stampo lealista, sciovinista e razzista di cui la borghesia imperialista e lo Stato si fanno promotori, col fine di creare un clima politico adeguato all’attuazione delle politiche anticrisi e guerrafondaie. Campagne ideologiche perciò del tutto rispondenti alle posizioni ed esigenze della borghesia imperialista i cui contenuti sono estranei al movimento proletario e quindi per questo fomentate anche con l’auspicio terroristico delle bande di Stato.

Nei fatti la pacificazione che dovrebbe scaturire da questi anni di controrivoluzione dispiegata ha trovato un argine invalicabile proprio nell’impossibilità di annichilimento della lotta armata per la sua portata politica, frutto questa in particolare della direzione, dell’agire politico-militare della nostra Organizzazione. Lo Stato ha imparato a sue spese di avere nella guerriglia, nel suo rapporto con il movimento di classe, l’unico nemico davvero mortale e punta, sulla base degli attuali rapporti di forza, a realizzare il disegno della “soluzione politica” che ha un suo spazio nella presente fase costituente, volendo con essa rappresentare, nel proprio teatrino della politica, la chiusura dei conti con le BR come miglior varo possibile delle nuove regole del gioco.

Quello che nella realtà si determina è un ulteriore approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, un nodo in questa fase dello scontro la cui comprensione ed assunzione è fattore ineludibile sul terreno della guerra di classe per disporsi adeguatamente nello scontro.

Nel fare i conti con questo dato e con gli altri mutamenti intervenuti sul piano storico politico prodotti dallo sviluppo dell’imperialismo, a fronte del tentativo dello Stato di approfondire ulteriormente i caratteri della mediazione politica, incorporando nella controrivoluzione preventiva i passaggi operati con la controrivoluzione degli anni ’80, le BR riaffermano la validità e necessità della strategia della lotta armata, la sola in grado di impattare lo Stato e capace di rompere il reticolo della mediazione politica che caratterizza il rapporto politico fra le classi nei paesi a capitalismo maturo, la sola in grado di potenziare le spinte antagoniste che emergono dalla classe e ricomporle nella prospettiva della conquista del potere politico, una strategia che informa tutto il processo rivoluzionario sino all’instaurazione della dittatura del proletariato. Di fronte alla crisi generale del capitalismo, se per parte imperialista quest’epoca storica si prefigura come epoca di distruzione, miseria e guerra, per parte proletaria si configura necessariamente come epoca di nuove e più avanzate rivoluzioni a carattere proletario ed antimperialista; per il proletariato metropolitano l’alternativa che si prospetta è quella tra guerra imperialista e guerra di classe, per i popoli della periferia il risvolto alla guerra e al sottosviluppo è dato dentro ai processi di liberazione nazionale nelle guerre popolari: due piani, quindi, tra cui c’è unità ma non identità, su cui si dà lo sviluppo dei processi rivoluzionari nel mondo.

Con il processo di riadeguamento intrapreso in seguito all’offensiva controrivoluzionaria degli anni ’80, le BR hanno rimesso al centro della loro prassi i due assi strategici sui quali si esplica l’attività pratica della guerriglia, nella dialettica attacco-costruzione-organizzazione-attacco ed utilizzando i criteri politici di centralità dell’obiettivo, selezione del personale che costituisce il perno e l’equilibrio dello stesso, e calibramento al livello necessario dello scontro ed ai rapporti di forza tra le classi e tra antimperialismo ed imperialismo; assi strategici sintetizzabili ne:
– l’attacco al cuore dello Stato, inteso come attacco alle politiche dominanti che oppongono classe e Stato nella congiuntura e che, nella fase attuale, si precisa nell’attacco alle politiche di ristrutturazione-rifunzionalizzazione degli apparati e degli istituti e funzioni dello Stato;
– l’attacco all’imperialismo inteso come attacco alle sue politiche centrali, oggi di integrazione e coesione; attacco portato all’interno di una politica di promozione, sviluppo e consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, inteso come politica di alleanze tra le Forze Rivoluzionarie dell’area europeo-mediorientale-mediterranea, tesa a perseguire soggettivamente l’oggettiva unità antimperialista dei processi rivoluzionari tanto della periferia che del centro imperialista, tesa ad indebolire l’imperialismo nell’area per favorire i processi rivoluzionari; da qui la stretta unità programmatica con l’attacco allo Stato.

 

Sui necessari passaggi politici, nella dialettica dello scontro, fatta com’è, in questa particolare fase di Ritirata Strategica, di attacchi e ripiegamenti nella capacità di mantenere l’offensiva rivoluzionaria al livello richiesto dallo scontro, nella ricostruzione-formazione delle forze al livello necessario, si pongono le basi indispensabili per poter rispondere meglio alle esigenze della sempre vigente fase di Ritirata Strategica; le BR promuovono l’unità dei comunisti sulla base del Programma, della Strategia, che le sono proprie e che hanno maturato nello scontro. Operano la necessaria centralizzazione delle forze, per disporle ed attrezzarle come un cuneo sul piano di lavoro funzionale agli obiettivi di fase. Una disposizione delle forze adeguata a sostenere lo scontro rispondendo alle sue esigenze, nonché a formare le forze stesse; più precisamente, con ciò, si intende centralizzazione delle direttive politiche su l’intero movimento delle forze e nel contempo decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse sedi e istanze organizzate. Solo così è possibile trarre il massimo utilizzo politico dalla disposizione delle forze, relazionate al piano di lavoro, alle sue necessità, e non mera raccolta di disponibilità e spontanei apporti; in sostanza è lo sviluppo e il salto qualitativo nella capacità di direzione delle avanguardie e delle forze proletarie, che in dialettica con l’approfondimento delle condizioni politiche e materiali dello scontro rivoluzionario stesso, fa sì che le BR, agendo da partito, avanzino nel processo di costruzione-fabbricazione del Partito Comunista Combattente.

In sintesi ribadiamo che l’intera attività politico-militare delle BR, in particolare i passaggi politici compiuti in questi ultimi anni, dimostra la valida applicazione della strategia della lotta armata alla realtà concreta del nostro paese, sancendo il ruolo di direzione delle BR nello scontro rivoluzionario in Italia.

Un dato, questo, da cui nessuno può prescindere e che costituisce l’unica strada perché si dia avanzamento alla prospettiva rivoluzionaria nel nostro paese.
– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di riforma dello Stato!
– Costruire ed organizzare i termini attuali della guerra di classe per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato!
– Attaccare le politiche centrali dell’imperialismo e in particolare i progetti di coesione politica e militare dell’Europa Occidentale e di “normalizzazione” della regione mediterraneo-mediorientale che passano principalmente sulla pelle dei popoli palestinese e libanese!
– Lavorare alle alleanze necessarie per costruire-consolidare il Fronte Combattente Antimperialista, per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica europeo-mediterraneo-mediorientale!
– Combattere insieme!
– Onore a tutti i compagni e rivoluzionari antimperialisti caduti combattendo!

 

I militanti delle BR per il PCC: Giuseppe Armante, Franco La Maestra

 

Roma, novembre 1991

Roma, processo d’appello Moro-ter – Documento dei militanti prigionieri delle Br-Pcc Antonino Fosso e Sandro Padula allegato agli atti

«Un mezzo esempio non è un esempio.
Ciò che non viene fatto fino in fondo,
fino alla sua conseguenza ultima,
ben presto sotto la briglia del tempo
col passo del gambero se ne ritorna in niente.»
(Heiner Muller, L’Orazio)

Questo processo, così come tutti i processi nei confronti dell’attività della guerriglia, è basato sulla più totale ipocrisia della “ragion di Stato”, sull’abiura e sulle connesse formule giuridicamente equivalenti: do ut des, do ut facias, facio ut des e facio ut facias.

In tal modo non solo si preparano sentenze con molti anni di carcere per chi, tra gli imputati, si rifiuta di mercanteggiare la propria identità politica, ma principalmente si costruiscono delle vere e proprie diffamazioni rispetto alle Brigate Rosse, con l’uso politico connesso.

Di fronte a questa situazione fare fino in fondo una critica pratica all’abiura ed al relativo e grottesco gioco del gambero significa anche e soprattutto essere chiari sulle cause, sui punti di riferimento e sulle finalità della lotta delle BR, di cui rivendichiamo tutta l’attività politico-militare, la sua impostazione strategica, il suo patrimonio teorico-politico.

Ne riaffermiamo il peso politico e la valenza conquistata nel campo proletario nel percorso di direzione e costruzione del processo rivoluzionario aperto a suo tempo con la proposta alla classe della strategia della Lotta Armata. Unica strategia, fin da subito praticata dall’avanguardia armata, in grado di affrontare globalmente il nemico di classe dando una prospettiva di soluzione alla questione del potere politico e della instaurazione della dittatura proletaria.

Scelta suffragata dal grado di sviluppo del capitale e dai mutamenti intervenuti nelle sue forme di dominio, che sul finire degli anni ’60 posero all’avanguardia rivoluzionaria la necessaria ridefinizione della strategia, e della forma politico-organizzativa adeguata allo sviluppo della lotta rivoluzionaria in un paese del centro imperialista.

Per quanto riguarda il quadro generale, nella seconda metà degli anni ’60 all’interno dei paesi a capitalismo avanzato è emersa una determinata sovraccumulazione capitalistica e si sono sviluppati i sintomi della fine del “fordismo” come forma egemone e modello di sviluppo del modo di produzione capitalistico.

Sul piano politico però è il ’68 il vero anno di svolta rispetto alla situazione precedente ed il vero anno di rinascita della lotta rivoluzionaria a livello internazionale.

Nel ’68, in una situazione caratterizzata dall’equilibrio strategico a livello militar-nucleare fra USA e URSS, dall’evidenziarsi della crisi della forte egemonia imperialistica USA nel sistema capitalistico internazionale e dall’approfondirsi della crisi d’egemonia politica dell’URSS nel campo dei paesi a “socialismo reale” e rispetto al movimento comunista e rivoluzionario internazionale, si determinano diverse condizioni favorevoli ad uno sviluppo differenziato ma diffuso della lotta rivoluzionaria nel mondo.

Dal 1968 la guerriglia, condotta con i criteri della clandestinità e guidata dalla politica rivoluzionaria, si diffonde nei paesi a capitalismo avanzato e si sviluppa ulteriormente in diversi paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina con modalità connesse alla situazione concreta di ognuno di questi paesi, quindi con modalità molto differenziate.

Per le forze rivoluzionarie presenti nei paesi a capitalismo avanzato comincia così ad essere più chiaro che «il compito fondamentale della guerriglia metropolitana è portare la lotta antimperialista nelle retrovie dell’imperialismo» (Ulrike Meinhof).

In seguito il problema diventa come realizzare questo compito, cioè come radicare la lotta rivoluzionaria combattente nei paesi centrali del sistema capitalistico internazionale, ed a tale domanda le BR, fondate nel ’71, cominciano a dare una risposta abbastanza originale.

Dai primi anni ’70 in poi le BR si sono sempre commisurate con l’andamento della lotta di classe e col mutare delle fasi e delle congiunture politiche interne ed internazionali per poter radicare la guerriglia metropolitana nel paese. Al tempo stesso hanno mantenuto sempre gli elementi fondamentali della propria politica rivoluzionaria ed anche i propri punti di riferimento a livello ideologico e storico.

Nel documento-autointervista del settembre 1971 le BR dichiarano in modo esplicito qual è il filone ideologico e storico a cui esse si collegano: «i nostri punti di riferimento sono il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l’esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani.»

Il richiamo al marxismo-leninismo è soprattutto un richiamo alla forma razionale della dialettica, a «Il capitale» di Marx in primo luogo, ed alla essenza dell’impostazione di Lenin rispetto al problema del rapporto fra Stato e rivoluzione nell’epoca dell’imperialismo.

Il richiamo alla rivoluzione culturale cinese è soprattutto un richiamo alla concezione di Mao secondo cui la lotta del proletariato e delle masse deve continuare a svilupparsi anche nelle società scaturite da rivoluzioni socialiste vittoriose, perché in tali società esiste il pericolo di una parziale o completa restaurazione capitalistica.

Inoltre il richiamo all’esperienza dei movimenti guerriglieri metropolitani è riferito prevalentemente alla lotta rivoluzionaria combattente di organizzazioni attive negli USA ed alla lotta della RAF tedesca; quindi, proprio perché le BR teorizzano la necessità di unire in un’unica organizzazione rivoluzionaria l’attività politica e quella militare nel quadro della lotta per il socialismo e per il comunismo, è riferito alla forma ed ai contenuti fondamentali (antimperialisti e anticapitalisti) della guerriglia che viene condotta all’interno dei paesi a capitalismo avanzato.

In linea generale, anche grazie al riferimento al marxismo-leninismo, alla rivoluzione culturale cinese ed all’esperienza dei movimenti guerriglieri metropolitani, le BR guardano con particolare attenzione ai fenomeni di autonomia proletaria espressi fuori dalle “regole del gioco“ del sistema economico, politico e sociale.

Le BR non sono un semplice portato delle lotte di massa del ’68-’69, come oggi viene largamente sostenuto nell’ambito dell’opportunismo e del collaborazionismo per blaterare della presunta fine dell’epoca della guerriglia, ma fin dalla loro nascita esse costituiscono l’avanguardia rivoluzionaria rispetto all’autonomia proletaria.

L’autonomia proletaria è abbastanza variegata ed eterogenea ma al suo interno diverse componenti comuniste e rivoluzionarie sottolineano quanto sia veramente assurdo pensare che gli USA, la NATO, la CIA, la DC e la grande borghesia lascino sviluppare la lotta di classe, ed anche quella via “nazionale, parlamentare e pacifica al socialismo” che era stata iniziata dal PCI di Togliatti, senza un continuo ed approfondito utilizzo della controrivoluzione preventiva come portato costante del dominio borghese.

Fra l’altro, la costituzione materiale, lo sviluppo di potentati capitalistici industriali e finanziari, la subordinazione dei servizi segreti italiani alla CIA, l’adesione dell’Italia alla NATO e la sostanziale continuità burocratico-militare fra il regime fascista ed il regime democristiano già avevano mandato in frantumi ciò che di progressista c’era nella carta costituzionale della prima Repubblica.

Con questa consapevolezza le BR iniziano la propria attività rivoluzionaria e propongono la strategia della Lotta Armata in un percorso di guerra di lunga durata, caratterizzata fondamentalmente dalla guerriglia metropolitana e dal rapporto fra quest’ultima e l’autonomia proletaria, come strategia per un lungo processo di lotta finalizzata alla conquista proletaria del potere politico ed a creare le condizioni politiche per iniziare la costruzione di una società libera dal dominio capitalistico.

In quegli anni le BR si pongono nel vivo dello scontro aprendo la fase della “propaganda armata”, cioè la propaganda tra le masse della possibilità-necessità della propria strategia, cercando quindi di radicare la coscienza politica di tale necessità fra le avanguardie di lotta del proletariato, ed a tale scopo effettuano delle azioni in dialettica con le lotte operaie di diverse grandi fabbriche. Nel 1974, in una situazione di preciso accerchiamento borghese nei confronti delle lotte operaie, compiono un salto politico di qualità con l’assunzione dell’attacco al “cuore dello Stato” (cioè dell’attacco al progetto politico dominante della grande borghesia nella congiuntura) come aspetto fondamentale della propria politica rivoluzionaria: il sequestro del giudice Sossi ha questo significato e con tale azione danno un piccolo ma significativo contributo politico a far saltare il progetto neo-gollista della DC di Fanfani (e della Montedison di Cefis). Inoltre, con quel primo attacco al “cuore dello Stato”, cercano anche di dimostrare che il “compromesso storico” proposto dal PCI costituisce una linea di resa di fronte alla borghesia imperialista internazionale ed ai ricatti terroristici della controrivoluzione preventiva e psicologica.

Dopo le elezioni politiche generali del 20 giugno ’76 il PCI rilancia il “compromesso storico”, si apre la fase della “solidarietà nazionale”, in cui per altro è sempre e soprattutto la DC a governare, e le BR diventano il principale punto di riferimento per l’autonomia proletaria e per i movimenti antagonisti.

Tutto ciò significa che anche negli anni ’70, in cui i rivoluzionari hanno pur commesso numerosi errori politici, la strategia proposta e praticata dalle BR presuppone una piena coscienza dell’importanza dell’autonomia proletaria e non ha nulla in comune con le concezioni militariste, spontaneiste e fochiste del processo rivoluzionario.

L’idea stessa delle BR secondo cui è necessario agire a livello politico-militare per poter costruire il Partito comunista combattente non ha nulla di militarista, spontaneista o fochista.

Secondo le BR l’attività per costruire il Partito è un’attività che tende a realizzare questo obiettivo nell’ambito di un lungo e concreto percorso di lotta rivoluzionaria, anche e soprattutto perché sono necessarie determinate condizioni oggettive e soggettive favorevoli affinché tale processo di costruzione possa compiere, senza voli pindarici, il salto decisivo e giungere allo stadio della propria maturità.

In particolare, come è stato ulteriormente precisato nell’ultimo decennio, è necessario agire da Partito per costruire il Partito.

In linea generale, è questa impostazione che negli ultimi due decenni ha permesso alle BR di esplicitare una tattica rivoluzionaria sostanzialmente corretta, cioè ha reso possibile quasi sempre il lancio delle iniziative e delle campagne di lotta più corrette – quanto meno in senso relativo – nelle diverse fasi e nelle diverse congiunture che si sono determinate dai primi anni ’70 in poi.

In diversi casi ci sono stati errori anche gravi nelle scelte tattiche delle BR, ma questi errori non derivano affatto dagli elementi fondamentali e costitutivi della politica brigatista.

Riaffermiamo, anzi, come in tutto il proprio percorso le BR hanno definito, in stretta dialettica con l’autonomia di classe, non soltanto le specificità di sviluppo della strategia della Lotta Armata nel nostro paese ma anche e soprattutto gli assi strategici su cui si rende possibile l’organizzazione rivoluzionaria e proletaria dentro la prospettiva di avanzamento della guerra di classe di lunga durata, e cioè: l’attacco al cuore dello Stato ed alle politiche centrali dell’imperialismo.

I passaggi fondamentali di questo processo rivoluzionario, pur nel suo andamento fortemente discontinuo, hanno inciso profondamente nelle condizioni e nei caratteri dello scontro tra le classi in modo tale da condizionarne sostanzialmente lo stesso svolgimento e, con esso, i rapporti politici, gli equilibri generali dei rapporti di forza e gli stessi termini di sviluppo dell’autonomia di classe.

In tal modo hanno altresì posto e consolidato la proposta strategica della Lotta Armata come piano di forza irreversibile dello scontro di classe nell’ambito degli interessi generali del proletariato da cui nessuna componente dello scontro può prescindere.

Questi fattori non possono essere eliminati in quanto nella prassi rivoluzionaria di questi venti anni vive la propositività della prospettiva rivoluzionaria messa in campo dalle BR e confermata dialetticamente dallo stesso approfondimento del rapporto fra rivoluzione e controrivoluzione. Non possono essere eliminati perché la pacificazione auspicata dalla borghesia imperialista facendo leva sulla controrivoluzione degli anni ’80 non è riuscita né a sradicare la portata della proposta politica rivoluzionaria sedimentata nello scontro di classe dalle BR né ad annullare il peso dell’autonomia proletaria.

In sintesi, la maturità assunta dal processo rivoluzionario nel nostro paese costituisce il dato politico centrale che informa lo scontro di classe, le sue dinamiche di sviluppo, condizionando gli stessi modelli di gestione del conflitto da parte dello Stato anche all’interno dell’attuale quadro di rapporti di forza favorevoli alla borghesia imperialista. Nonostante i processi di riassetto e rafforzamento del dominio capitalistico e del potere della borghesia imperialista, tali condizioni non consentono allo Stato di ratificare globalmente una situazione di svolta nelle relazioni tra le classi.

Al tempo stesso si evidenziano i tentativi di approfondimento del piano controrivoluzionario. Non a caso, ad esempio, la gestione del processo d’appello del “Moro-ter” fa parte della più generale “campagna di pacificazione” necessaria alla borghesia imperialista nostrana per chiudere, insieme alla prima Repubblica, anche il processo rivoluzionario.

Mentre non è possibile decretare la chiusura del processo rivoluzionario attraverso interventi di carattere formale, si sviluppano i tentativi di approfondimento di tutti i termini della controrivoluzione preventiva con atti concreti tesi a conseguire posizioni ancor più favorevoli alla borghesia, in modo tale che essa possa dispiegare i programmi di attacco alle conquiste del proletariato ed i concreti progetti guerrafondai internazionali.

Consapevoli della sostanziale irrilevanza dei riti giuridici rispetto allo scontro di classe, ci interessa solo sottolineare le ragioni della giustezza e validità strategica della proposta della nostra Organizzazione.

Attraverso il processo di riadeguamento intrapreso nel quadro della ritirata strategica, le BR per la costruzione del PCC hanno posto con maggior chiarezza e determinazione gli ulteriori passaggi per il proseguimento e lo sviluppo del processo rivoluzionario nel nostro paese.

In pratica, hanno ridefinito i termini e le modalità concrete entro cui è possibile e necessario sviluppare la strategia della guerra di classe di lunga durata nelle attuali condizioni dello scontro.

All’interno dello stesso processo di riadeguamento si sono definiti i termini dell’attuale fase rivoluzionaria di ricostruzione.

Questa fase è tutta interna alle caratteristiche generali della ritirata strategica, cioè di un periodo in cui «l’attività rivoluzionaria è prevalentemente tesa ad un ripiegamento delle forze, mantenendo e rilanciando nel contempo la capacità offensiva della guerriglia».

Nel suo sviluppo e nelle sue finalità la fase di ricostruzione comporta l’attrezzare su tutti i piani le forze proletarie e rivoluzionarie alle condizioni dello scontro in maniera da poter ristabilire i termini politico-militari per nuove offensive.

La fase di ricostruzione si pone come uno dei primi necessari passaggi per il mutamento dei vigenti rapporti di forza tra rivoluzione e controrivoluzione e tra campo proletario e Stato.

Nello sviluppo del processo prassi-teoria-prassi e nel confronto costante con i nodi dello scontro fra le classi, le BR hanno potuto riadeguare l’impianto e ridefinire gli assi programmatici concreti e prospettici dello svolgimento del processo rivoluzionario.

Lo hanno fatto a partire dall’attività di combattimento, intervenendo sia sulle contraddizioni di volta in volta dominanti fra campo proletario e Stato che sul terreno specifico dell’antimperialismo, cioè misurando la propria iniziativa politico-militare al punto più alto dello scontro.

Tale iniziativa si è dispiegata infatti nell’attacco ai progetti neo-corporativi perseguiti in questi anni dallo Stato, cioè nelle azioni contro Giugni e Tarantelli, ed in seguito nell’attacco al più organico progetto di rifunzionalizzazione degli apparati e dei poteri dello Stato con l’azione contro Ruffilli; nello stesso tempo le BR si sono misurate sul terreno dell’antimperialismo con le azioni contro Hunt e Conti, confrontandosi con la proposta del Fronte combattente contro l’imperialismo in Europa occidentale e contribuendo al suo sviluppo.

L’attività generale della nostra Organizzazione si è sviluppata in stretta relazione con l’autonomia proletaria, con i contenuti più avanzati da essa espressi, e lo stesso processo di riadeguamento si è forgiato nel vivo dello scontro, nel duro confronto con lo Stato e con le politiche imperialiste, poiché per la guerriglia anche il riadeguamento si opera nell’unità del politico e del militare e con il criterio del primato della prassi.

All’interno delle mutate condizioni dello scontro, il processo di riadeguamento non poteva essere intrapreso senza far tesoro degli insegnamenti conseguiti dalla prassi complessiva che l’Organizzazione fin dalla sua nascita ha messo in campo, cioè non poteva essere avviato senza il mantenimento dei criteri fondamentali che consentono alla guerriglia di operare nello scontro: strategia della Lotta Armata, unità del politico e del militare, la concezione della guerra di classe di lunga durata, clandestinità e compartimentazione.

Tutto ciò significa che solo attraverso il metodo prassi-teoria-prassi si può regolare la definizione dei principi fondamentali e delle leggi che governano il movimento e lo sviluppo della guerra di classe nelle metropoli imperialiste.

A partire dalle condizioni dello scontro di classe nelle metropoli imperialiste ed in particolare dalla sostanza che informa il dominio borghese nelle democrazie rappresentative contemporanee, lo Stato assolve il duplice ruolo di rappresentante del potere capitalistico egemonizzato dalla borghesia imperialista e di mediatore del conflitto fra le classi.

La prassi espressa dalle BR, al cui interno sono situati i momenti qualificanti dell’attacco al cuore dello Stato, ha scandito i passaggi salienti dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata in stretta relazione con i nodi dello scontro in generale ed in dialettica con i contenuti espressi dalle istanze più mature dell’autonomia proletaria.

Questa dinamica si è affermata nel corso di venti anni di processo rivoluzionario come capacità di riferirsi da un lato alle principali politiche antiproletarie e controrivoluzionarie della borghesia imperialista e dall’altro alla resistenza politica ad esse da parte del movimento di lotta proletario:
– il fallimento del progetto fanfaniano di stampo neogollista, che esprimeva le spinte reazionarie della borghesia di fronte al movimento operaio e proletario con forti caratteristiche antistatuali, antistituzionali e antirevisioniste e al nascere della sua avanguardia armata;
– la disarticolazione del progetto moroteo di “unità nazionale”, il quale operava il tentativo di cooptazione organica delle rappresentanze istituzionali della classe operaia al fine di depotenziare le spinte di forte conflittualità politica che da quest’ultima venivano e, al tempo stesso, per assestare un duro colpo alla guerriglia che proprio in quegli anni maturava un poderoso salto di qualità;
– l’attacco al progetto politico demitiano teso alla rifunzionalizzazione degli apparati e istituti dello Stato dentro il più generale disegno di riassetto delle forme di dominio borghese nella cornice delle “democrazie mature” e di approfondimento dei termini della controrivoluzione preventiva.

Per le BR, quindi, l’attacco al cuore dello Stato significa attacco alle sue politiche centrali, inceppamento dei suoi progetti e degli stessi processi di rafforzamento dello Stato e di affinamento della dittatura borghese.

Questo criterio fondamentale consente all’avanguardia rivoluzionaria di muoversi dentro il reale scontro tra le classi e di indirizzarlo al fine di spostare i rapporti di forza a favore del campo proletario.

Nell’attacco al cuore dello Stato si esprime la capacità e la possibilità della guerriglia di disarticolare i progetti politici che di volta in volta costituiscono la contraddizione dominante che oppone lo Stato alla classe proletaria. Si esprime la capacità e la possibilità di scompaginare gli equilibri raggiunti intorno a tali progetti; si esprime inoltre un possibile rafforzamento temporaneo del campo proletario che deve tradursi in termini costruttivi, cioè nella disposizione ed organizzazione sul terreno della lotta armata, ed in modo calibrato alla fase di scontro.

Questa complessa dinamica permette di definire la dialettica centrale di movimento, articolata nei periodi di attacco, costruzione, organizzazione, nuovo attacco. Permette di definire la dialettica in cui si esprime la valenza e la portata dell’unità del politico e del militare come il solo modo di far vivere e sviluppare la politica rivoluzionaria nei paesi a capitalismo maturo.

L’attacco al cuore dello Stato, dunque, rappresenta contemporaneamente un asse strategico di combattimento, un elemento di programma ed infine una parola d’ordine prioritaria su cui si costruiscono i termini del rapporto fra guerriglia ed autonomia proletaria e del processo di costruzione del Partito comunista combattente.

La stessa prassi delle BR ha inoltre posto l’antimperialismo come l’altro asse caratterizzante l’attività rivoluzionaria.

Nella propria impostazione politica e strategica le BR hanno definito fin da subito l’indirizzo antimperialista ed internazionalista del processo rivoluzionario entro cui collocare e costruire lo sviluppo stesso della guerra di classe e dell’organizzazione intorno ad essa delle avanguardie di classe del proletariato.

Secondo le BR, dopo la seconda guerra mondiale, la catena imperialista ha raggiunto un alto livello di internazionalizzazione ed interconnessione economica, nonché un alto grado di integrazione militare e politica, ed è stato definito un sistema di relazioni imperialiste altamente gerarchizzato sotto la dominanza USA.

Sulla base di questa analisi, già nella Risoluzione della Direzione Strategica del 1975 le BR affermano: «Si vuol dire più in generale che la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli europee è anche guerra di liberazione antimperialista, perché l’emancipazione di un popolo da un contesto imperialista deve fare i conti con la repressione imperialista. Non esistono vie nazionali al comunismo perché non esiste nella nostra epoca la possibilità di sottrarsi singolarmente al sistema di dominio imperialista».

Nell’ambito delle caratteristiche dello scontro nelle metropoli europee, la configurazione più esatta dell’internazionalismo proletario viene espressa concretamente dalle BR attraverso l’assunzione della proposta politica più adeguata per misurarsi con tale problema: il Fronte Combattente Antimperialista.

L’attacco al generale NATO Dozier contribuisce sostanzialmente a definire i termini di riferimento per il Fronte Combattente Antimperialista, inserendo e relazionando la nostra Organizzazione all’interno della prassi combattente antimperialista che veniva dispiegata su più fronti dalla guerriglia europea (RAF in testa) e per altro verso da forze rivoluzionarie antimperialiste e nazionaliste del movimento di liberazione arabo.

L’individuazione dell’Europa come il centro nevralgico delle contraddizioni del sistema imperialista, nonché il loro intrecciarsi ai rapporti fra Europa, paesi mediterranei e mediorientali ed il netto configurarsi e dispiegarsi delle politiche guerrafondaie dell’imperialismo, sono i termini analitici ed i riferimenti concreti attraverso i quali viene individuato e precisato il ruolo strategico che la NATO va ad assumere.

Questo ruolo è caratterizzato dalla duplice funzione di guerra esterna e di guerra interna. Fin dalla sua nascita, infatti, la NATO ha svolto un ruolo di deterrenza verso i paesi dell’Est, e al tempo stesso, un ruolo di controrivoluzione interna nel cuore dell’imperialismo, contribuendo così a compattare i paesi a capitalismo avanzato rispetto all’interesse generale dell’imperialismo.

Nel contesto di scontro in cui si è inserito l’attacco a Dozier, la NATO guidava le scelte politico-militari di fondo dei paesi a capitalismo maturo (a partire dal dispiegamento degli arsenali missilistici lungo l’asse di confine con i paesi dell’Est e nel fianco Sud della NATO) riqualificando i termini della sua stessa “dottrina” dentro l’attiva responsabilizzazione dei paesi dell’Europa occidentale.

Quel contesto generale faceva risaltare la necessità rivoluzionaria del Fronte Combattente Antimperialista per cominciare gli attacchi alle politiche centrali dell’imperialismo e della NATO.

Comunque è soltanto la prassi antimperialista successiva e la ricerca attiva del confronto con le altre forze rivoluzionarie che consente di caratterizzare meglio l’approccio al Fronte da parte della nostra Organizzazione.

A partire dall’analisi concreta della situazione concreta, per le BR il contributo al Fronte Combattente Antimperialista si dà all’interno di una politica di alleanze da conseguire sulla base di una pratica antimperialista che non deve essere ostacolata dalle differenze di impostazione e di finalità delle forze rivoluzionarie.

Per questo il Fronte è l’organizzazione politico-militare adeguata ad impattare l’imperialismo, unendo le forze rivoluzionarie in un attacco mirato e cosciente.

Con questi presupposti politici le BR si sono relazionate con i passaggi che il Fronte ha operato, quindi con il testo comune AD-RAF e la connessa attività politico-militare.

In seguito il contributo delle BR-PCC all’attività del Fronte è stato espresso nel settembre ’88 con il testo comune RAF-BR concretizzato dall’azione Tietmeyer.

In tale testo vengono ulteriormente chiariti gli obiettivi da perseguire; si tratta di costruire la forza politica e pratica adeguata ad incidere al livello raggiunto dal rapporto fra imperialismo ed antimperialismo, superando anche le posizioni dogmatiche che risultano inadatte per affrontare lo scontro.

Il realismo politico che contraddistingue questo momento di unità nel Fronte gli fornisce una valenza che va oltre il risultato immediato raggiunto perché apre la prospettiva di praticare una politica di alleanze allargata alle forze rivoluzionarie di liberazione nazionale che operano nella regione mediorientale e che si confrontano con lo stesso nemico: le politiche imperialiste fatte proprie dagli Stati imperialisti europei.

Nonostante le mutate condizioni internazionali a favore del campo dei paesi a capitalismo avanzato, anzi a maggior ragione, lavorare al rafforzamento ed al consolidamento del Fronte significa «organizzare la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo» e per contribuire a far avanzare il processo rivoluzionario.

L’attacco al cuore dello Stato e l’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo sono quindi gli assi di combattimento principali intorno a cui finora le BR-PCC hanno organizzato e dato sviluppo alla guerra di classe di lunga durata.

Per questo motivo, nell’attuale “fase di ricostruzione” il compito dei rivoluzionari è proprio quello di ricostruire attraverso un’attività calibrata e razionale un percorso tendente a mantenere gli assi di combattimento principali, ed è proprio in questo modo che nell’attuale fase si verifica la giustezza della linea politica e si articola la parola d’ordine dell’unità dei comunisti nel processo di costruzione del Partito comunista combattente.

I mutamenti intervenuti negli ultimi due anni nella situazione internazionale con il crollo economico, politico e sociale dell’URSS e del relativo Patto di Varsavia hanno determinato un nuovo “ordine mondiale” dominato dai paesi imperialisti sotto la leadership USA.

Lungi dal raggiungere la tanto decantata “pace mondiale”, tale situazione ha prodotto un passo ulteriore nella tendenza alla guerra, dovuto al concreto sviluppo imperialista con relativo aumento dell’impossibilità di valorizzazione dei capitali sovrapprodotti.

Dopo oltre 15 anni di sostanziale stagnazione nell’economia si passa alla recessione che determina condizioni sempre peggiori per il proletariato di tutto il mondo e per tutti i popoli della periferia imperialista.

La guerra del Golfo, già inscritta all’interno dei mutamenti dei rapporti di forza internazionali, è stata solo il primo assaggio della nuova barbarie.

Questa nuova fase determina con forza la necessità strategica ed epocale di combattere il “nuovo ordine mondiale” imposto sull’ulteriore sfruttamento dell’uomo sull’uomo e specificamente sull’ulteriore subordinazione di miliardi di uomini agli interessi sempre più famelici del capitale.

Impone ad ogni rivoluzionario e proletario cosciente di frapporre la propria attività ad argine di tale disegno criminoso, riaffermando altresì i valori del socialismo a cui dal ’68 in poi le lotte proletarie e l’attività delle Brigate Rosse hanno alluso nel nostro paese.

Rafforza inoltre la necessità di riaffermare il valore dell’uomo rispetto agli interessi imperialisti per costruire una società basata su nuovi rapporti sociali, per garantire la liberazione di ognuno dall’oppressione, nonché la necessità di combattere, dal centro del sistema imperialista alla sua periferia, per far progredire e maturare il processo di liberazione dell’umanità dallo sfruttamento fino al comunismo.

Questa lotta è necessaria e noi sappiamo che è possibile e, sempre più, giusta.

I militanti prigionieri delle BR-PCC: Antonino Fosso, Sandro Padula

Febbraio 1992

LA PACE IMPERIALISTA È GUERRA! Roma, processo d’appello Moro-ter – Documento allegato agli atti del Collettivo comunisti prigionieri Wotta Sitta

Crisi e guerra

«La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue più delle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.»(Marx-Engels)

  1. Gli ultimi anni hanno visto intensificarsi il dominio di classe della borghesia imperialista nel mondo intero sotto la spinta del capitale monopolistico, che cerca di superare la crisi mai risolta degli anni ’70 con l’accelerazione del processo di concentrazione, centralizzazione e internazionalizzazione dei capitali.
    Questo processo, che porta con sé una profonda mutazione delle forme del dominio di classe, genera, da una parte, contraddizioni crescenti ed esplosive tra capitali già di per sé multiproduttivi e multinazionali, tra Stati, tra aree economiche, mettendo a nudo i limiti intrinseci dell’epoca della globalizzazione e della interdipendenza economica; dall’altra, si risolve in un attacco diretto alle condizioni di vita di miliardi di proletari e di interi popoli in tutto il mondo, attraverso la politica spietata decisa e controllata dagli organismi sovranazionali del capitalismo, dal G-7 all’ONU, al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale fino alla NATO.
    La guerra nel Golfo è stata la dimostrazione più chiara e visibile di questo dominio di classe intensificato e della determinazione imperialista a non accettare alcuna messa in discussione dei suoi interessi e del suo assetto di potere internazionale. Gli anni ’90 si sono aperti con lo scenario più logico e concreto dell’imperialismo di questa epoca: la guerra e il rapporto di guerra che caratterizza lo scontro oggi e, di conseguenza, gli effetti tragici del dominio della barbarie sulla vita umana.
    La potenza dell’occidente non si è tradotta in un “nuovo ordine mondiale”, ma in un periodo di grandi sconvolgimenti, di conflitti e di instabilità crescenti. La fine dell’ordine stabilito a Yalta si rivela più traumatica e complessa del previsto. Se quello di Yalta è costato i morti della II Guerra Mondiale, quello che le potenze imperialiste, USA in testa, vanno cercando di imporre sembra che non chiederà costi minori. Sarebbe idealistico pensarlo, d’altra parte, e lasciamo ai riformisti e revisionisti le loro pericolose illusioni e fandonie, preferendo ricordarci delle lezioni della storia, che ha sempre dimostrato come, crollato un equilibrio di potere sia inevitabilmente necessaria una nuova guerra per costruirne un altro. Da Versailles a Yalta, a…
    L’imperialismo è guerra. La guerra è sempre stato il modo attraverso cui la borghesia ha cercato di risolvere le sue crisi scaricando in modo distruttivo sul proletariato i costi della sua riproduzione.
    C’è da aggiungere che oggi la guerra non può certo dirsi esaurita con la vittoria della coalizione occidentale nel Golfo, perché quest’ultimo decennio del secolo ha già visto lo scoppiare incessante di una moltitudine di guerre nelle varie aree geopolitiche del mondo. La guerra è tornata, di nuovo, anche in Europa con vasti e crescenti conflitti armati e guerre civili, che scuotono in particolare l’ex territorio yugoslavo e quello della ex Unione Sovietica.
    Questo scenario che scorre davanti a tutti noi con quotidiana tragicità assume una fisionomia precisa e in sviluppo proprio in quest’area che costituisce il vero centro nervoso dell’intero pianeta, perché attraversato dall’insieme delle contraddizioni di questa epoca. Da quella principale e oggi dominante tra proletariato e borghesia, a quella esplosiva tra Nord e Sud, a quella generata dai conflitti economici e politici interimperialistici già esistenti e che tendono a svilupparsi tra le potenze mondiali nella spartizione e dominio dell’intero pianeta.
    La borghesia imperialista europea sta accelerando i passi necessari ed irrinunciabili, pur nel loro realizzarsi contraddittorio, per far avanzare il processo di integrazione economica, politica e militare degli Stati europei e “farsi blocco”, cioè soggetto politico capace di stabilire politiche omogenee vincolanti al suo interno e di proiettarsi significativamente verso il resto del mondo.
    Il “1992” non vuole essere la semplice celebrazione formale della nascita della “Unione Europea”, ma il momento della realizzazione pratica dell’insieme dei passaggi fondamentali e di non ritorno per esserlo concretamente. In questa direzione l’“Unione Europea” è un avanzamento del dominio di classe nell’intero territorio continentale e della sua proiezione imperialista nelle altre aree del mondo a cominciare da quella contigua e inscindibilmente legata del Mediterraneo-Medio Oriente, come ha già dimostrato il suo coinvolgimento attivo nella guerra del Golfo.
    L’Europa partecipa e vuole partecipare da protagonista al “nuovo ordine mondiale”.
    Per restare all’Italia basti ricordare le azioni di guerra contro il popolo iracheno degli “eroi” Bellini e Cocciolone e dei loro altri compari dell’aviazione un anno fa, i ponti aerei per liberarsi dei profughi albanesi e per controllarli nel loro paese ormai sottoposto ad un nuovo protettorato italiano, e le missioni politiche e militari in crescendo in Yugoslavia, vero e proprio cortile di casa di De Michelis e soci, o nel lontano Salvador.
    Ovviamente le mire della “Grande Germania”, dell’Inghilterra, della Francia e della resuscitata Spagna non sono da meno e possono contare su di un ben più rilevante patrimonio di colonizzazione mondiale. Il “1992” vede gli Stati Europei tesi alla conquista e allo sfruttamento delle risorse e dei popoli del mondo come 500 anni fa.
    I proletari in Europa e nel mondo intero hanno percepito da tempo la nuova qualità dello scontro e la loro resistenza contro strategie capitalistiche sempre più indirizzate al profitto e sempre più distruttive non è mai cessata. Le lotte proletarie, i processi di emancipazione e di liberazione devono fare i conti con un avanzamento micidiale della controrivoluzione preventiva, che ha inciso pesantemente su molte esperienze rivoluzionarie, e che cerca di colpire anticipatamente il coagularsi di nuove. Tuttavia si possono già individuare molti aspetti del passaggio ad una nuova epoca rivoluzionaria segnata da uno scontro più profondo in cui le lotte proletarie nel mondo si trovano sempre più connesse e legate contro il nemico comune. La mobilitazione di massa e le iniziative delle forze rivoluzionarie nelle aree dei centri imperialisti e in quelle della periferia durante la guerra nel Golfo, ha indubbiamente contribuito a rafforzare il terreno dell’antimperialismo e dell’internazionalismo proletario. Nella stessa direzione si muovono le molteplici forme di resistenza proletaria e le diverse iniziative rivoluzionarie che cominciano a colpire e sabotare l’insieme dei processi che caratterizzano il “1992” e che sono visti dai proletari come un punto di svolta capitalistica sotto il segno della “deregulation” e della reazione.
    Una tendenza che vede l’intensificarsi dello sfruttamento proletario, l’ampliarsi della disoccupazione e della marginalizzazione, il peggiorare delle condizioni di vita, l’affermarsi di una esistenza sempre più alienata nei centri metropolitani e l’imporsi di politiche sempre più repressive, razziste e fasciste contro i popoli che premono alle frontiere della “fortezza Europa”.
    Cinquecento anni fa la “conquista dell’America” fu l’inizio di una nuova epoca e di una politica europea di oppressione nei confronti dei paesi e dei popoli che possedevano risorse e ricchezze che avrebbero consentito al capitalismo nascente, e alla classe emergente che lo sosteneva, di stabilire una colonizzazione e un dominio mondiale.
    Non solo. L’impoverimento progressivo di quei popoli – base del progresso della “sviluppata e civile Europa” – si accompagnò spesso al loro sterminio.
    Come scrive Marx su «Il Capitale»: «La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Occidentali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali della accumulazione originaria.»
    I dati della ricerca storica misurano la qualità di questi “procedimenti idillici“: nel 1500 la popolazione del globo era dell’ordine di 400 milioni di abitanti, 80 dei quali residenti in America. Cinquanta anni dopo, di questi 80 milioni ne restavano 10. Limitando il discorso al Messico, alla vigilia della “Conquista” la popolazione era di 25 milioni di abitanti, nel 1600 erano ridotti a un milione.
    Questo è il senso storico del processo che il capitalismo vuole celebrare con le infinite manifestazioni per il “Quinto Centenario della scoperta dell’America”. Se i paesi europei sono ancora una volta alla testa di queste iniziative non è per semplice spirito celebrativo quanto per rilanciare le ragioni attuali dell’accumulazione capitalistica a vantaggio dei grandi monopoli mondiali. Un neocolonialismo che vede protagonista la CEE nello sforzo di aggiudicarsi risorse e spazi crescenti nello sfruttamento del Tricontinente in competizione con i capitali statunitensi e giapponesi. La penetrazione dei capitali europei è la forma della “Conquista” di oggi: una nuova spartizione del mondo.
    Il filo delle lotte proletarie che si vanno intrecciando nelle diverse aree geografiche contro l’imperialismo statunitense, europeo e giapponese sta concretizzando un nuovo internazionalismo proletario che mette radicalmente in discussione e combatte i presupposti di fondo su cui è nata e si è sviluppata la formazione sociale capitalistica.
    Le strategie economiche e politiche che da anni guidano la ristrutturazione capitalistica stanno producendo contraddizioni di classe e sociali crescenti, che definiscono e misurano la guerra di classe di questa epoca. Un processo di proletarizzazione di dimensioni vastissime, in conseguenza del modificarsi della divisione del lavoro a livello planetario, caratterizza la seconda metà del secolo. L’avanzata del capitalismo ha gettato nella condizione di proletari la maggior parte della popolazione mondiale, a cui viene progressivamente impedita ogni possibilità di sussistenza non capitalistica. Nelle aree del centro come in quelle della periferia, nel Nord come nel Sud e nell’Est. Sempre più ogni essere umano si trova direttamente di fronte alla “nuda legge del profitto”, agli effetti disumani di un processo di oppressione e distruzione dell’uomo, della natura e dell’ambiente, di proporzioni mai viste, perché il capitalismo interviene ormai direttamente su di essi per le sue necessità di valorizzazione, riproduzione ed espansione.
    Questo complesso di fattori giunti a completa maturazione a questo stadio di sviluppo avanzato del capitalismo metropolitano, non fa che espandere ed ingigantire le tensioni ed i conflitti sociali proiettando sempre più donne e uomini in una immediata dimensione di lotta di classe. Contemporaneamente stabilisce un terreno di connessione oggettiva delle lotte dei proletari e dei popoli del mondo, quello contro il sistema economico, politico e militare che si è storicamente affermato e che ruota attorno agli USA e al nuovo dispiegamento che lo caratterizza negli ultimi anni.
    Lottare in Europa contro l’insieme di politiche che spingono in avanti la dinamica di integrazione europea e che ad un tempo estendono la sua proiezione imperialista nel mondo, significa avere la consapevolezza che in Europa Occidentale, oggi più di ieri, convergono molte delle linee di scontro tra imperialismo e rivoluzione, tra neocolonialismo e lotte di liberazione nel mondo. Significa anche essere concretamente a fianco della “campagna di resistenza indigena e popolare” che i campesinos, gli indigeni e le forze rivoluzionarie hanno lanciato contro la celebrazione del “Quinto Centenario” per fare sentire la loro voce di fronte alla «ignominia dell’oppressione coloniale, neocoloniale ed imperialista. Allo scopo di consolidare la nostra identità e di rafforzare la nostra lotta di liberazione in tutto il continente». (Dichiarazione di Quito, delle Organizzazioni Campesino-Indigene).

 

  1. Gli ultimi anni hanno visto approfondirsi la crisi del capitalismo e le contraddizioni che essa ha prodotto in ogni area del mondo, perché la crisi generatasi nei centri imperialisti occidentali si è riversata pesantemente nel Sud e nei paesi dell’Est, per il livello di interdipendenza dell’economia mondiale.
    La borghesia imperialista oggi deve fare i conti con una situazione generale di recessione economica e moltiplicare gli interventi per rimettere in moto un sistema produttivo bloccato, incapace di produrre profitti sufficienti a valorizzare l’intera massa di capitali e di garantire un respiro adeguato, tra una crisi e l’altra, per rilanciare l’economia. Il susseguirsi dei Vertici del G-7 ha consentito di tenere sotto controllo gli effetti più devastanti attraverso una gestione sovranazionale degli interventi più urgenti da adottare, scaricando i costi più pesanti della crisi sui paesi del Sud e dell’Est. Ma è evidente che non si è ancora realizzata una seria possibilità di superamento della crisi in cui l’intero sistema si dibatte dagli anni ’70.
    In questa situazione solo i grandi monopoli riescono a trovare i capitali e i mercati per svilupparsi da veri pescecani vincenti nella guerra della concorrenza. Con strategie planetarie cercano di contrastare la caduta dei saggi di profitto, intensificando il processo di concentrazione e di internazionalizzazione, tentando di aumentare la massa di plusvalore attraverso continui salti tecnologici ed una riorganizzazione planetaria della produzione. Ma ciò non basta a risolvere la crisi di sovrapproduzione di capitali che attraversa il sistema mondiale, questi sono interventi che tendono semplicemente a rinviare nel tempo le conseguenze più gravi, a concentrare ulteriormente i capitali a spese di quelli più deboli, che vengono assorbiti dai monopoli più forti, e a scaricare i costi più pesanti sui paesi delle aree dominate. E, in definitiva, non fa che creare le condizioni per un ulteriore calo del saggio di profitto, e rendere la crisi sempre più complessa e meno risolvibile, nonostante gli organismi sovranazionali che cercano di tenerla sotto controllo con interventi di politica finanziaria concertati.
    Con la crescita dei monopoli multinazionali si accelera la caduta delle barriere nazionali e si sviluppa l’unità e l’integrazione internazionale del capitale. Come dice Marx: «Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo in tutti i paesi… ha tolto all’industria le basi nazionali». Lo stadio monopolistico del capitalismo già analizzato da Lenin all’inizio del secolo, ha raggiunto oggi un livello incomparabile, comportando enormi modificazioni negli assetti di potere e nelle relazioni interne agli Stati e tra gli Stati nel segno della globalizzazione ed interdipendenza economica.
    Questo processo è tutt’altro che lineare: l’interdipendenza non fa che sviluppare un livello più alto di contraddizioni capitalistiche ed estendere la crisi su scala mondiale. Sviluppa, in definitiva, la tendenza alla guerra, che è insita oggettivamente nella stessa dialettica tra concorrenza e concentrazione dei capitali, come unica soluzione alla crisi.

 

  1. Alla fine degli anni ’70 diventa evidente che l’eccezionale movimento di ristrutturazione e di ridispiegamento con cui la borghesia imperialista mira a stabilire la sua egemonia mondiale non basta per superare la crisi.
    «Quando il modello di accumulazione capitalistica fordista e il rapporto imperialista di tipo neocolonialista crollano, diventa chiaro agli occidentali che non ci sarà nessun superamento durevole senza una messa in discussione fondamentale della divisione di Yalta e senza una riunificazione-riorganizzazione del mercato mondiale sotto il dominio dei monopoli. Rompere la contraddizione Est/Ovest, con la sua eliminazione a medio termine superare questo vecchio ordine considerato come limite per una nuova fase di monopolizzazione.» (Prigionieri di Action Directe, dicembre 1991).
    L’aggressività della politica di Reagan prima e di Bush poi, che hanno spinto ad un livello mai raggiunto la “guerra fredda” assediando letteralmente l’URSS e i paesi del Patto di Varsavia sul piano politico, economico e militare, nasceva da questa esigenza intrinseca del capitalismo occidentale ormai impossibilitato a trovare soluzioni alla crisi al suo interno.
    Va ribadito con chiarezza, d’altra parte, che l’attacco del capitalismo occidentale trovava spazio nelle profonde modificazioni che nel corso degli anni avevano cambiato il volto della formazione sociale sovietica e il ruolo dello “Stato socialista” con l’abbandono della lotta di classe e con la progressiva apertura al mercato mondiale.
    Le necessità poste dal processo di industrializzazione accelerata hanno richiesto una pianificazione economica centralizzata in funzione di una rapida accumulazione capitalistica e hanno fondato un modello di sviluppo delle forze produttive centrato sul capitalismo di Stato. Si è andata così formando progressivamente una burocrazia di Stato e di partito a cui era delegato l’insieme dei processi decisionali e il potere reale. Parallelamente si è formata una vasta classe operaia e fasce sempre più ampie della popolazione si sono proletarizzate entrando a far parte della struttura produttiva capitalistica. La continua mobilitazione interna contro l’aggressione imperialista, la massiccia sovrastruttura ideologica e la garanzia a questa classe proletaria di condizioni di vita “dignitose”, attraverso una serie di interventi di politica sociale, sono stati per anni elementi fondamentali dello sviluppo del capitalismo di Stato sovietico, che hanno potuto contenere, finché hanno retto, la dinamica in espansione del conflitto di classe.
    In questo contesto i burocrati sovietici, e dell’intero COMECON, preso atto dell’unità del mercato mondiale, e dell’impossibilità dell’autosufficienza dal capitalismo occidentale, fin dagli anni ’60 avevano aperto i loro paesi alle importazioni occidentali e avevano cercato sbocchi nel mercato mondiale, dimensionandosi necessariamente rispetto alla divisione internazionale del lavoro esistente. Avevano consentito, inoltre, a varie multinazionali occidentali, di impiantare comparti e segmenti di produzioni all’interno dell’Unione Sovietica e degli Stati del COMECON. In questo modo non avevano fatto che aggravare la crisi complessiva del sistema sovietico, finendo per importare al suo interno gli effetti devastanti della crisi capitalistica generatasi in occidente; ponendo così l’economia sovietica in una situazione di forte dipendenza che la indeboliva ancora di più nei confronti delle strategie dei monopoli occidentali e la spingeva verso un pesante indebitamento finanziario nei confronti del FMI e della Banca Mondiale.
    La competizione con il complesso militar-industriale occidentale, portata all’estremo con il progetto statunitense delle “guerre stellari”, ha indebolito e dissestato ulteriormente l’economia sovietica nel suo complesso.
    In questo quadro i processi di efficientizzazione e razionalizzazione produttiva, la riforma complessiva della formazione sociale sovietica per adeguarla pienamente alle leggi del mercato capitalistico, messi in atto con la Perestroika di Gorbaciov, non potevano certo frenare in tempi brevi la crisi dell’URSS. Hanno approfondito, invece, le contraddizioni all’interno dei diversi settori della borghesia di Stato e di partito e, contemporaneamente, con il taglio delle spese sociali, la mobilità della forza-lavoro, l’innalzamento della produttività, hanno messo a nudo profonde contraddizioni di classe facendo saltare per sempre il “patto classe-Stato” su cui si reggeva il sistema di potere sovietico.
    Per tutti gli anni ’80 abbiamo assistito, in URSS, al micidiale intrecciarsi degli effetti della crisi economica e sociale interna, di cui il polarizzarsi dello scontro di classe e il sorgere delle spinte centrifughe dei nazionalismi sono gli aspetti più evidenti, con quelli prodotti dalla competizione/aggressione economica degli USA e dell’intero Occidente scatenata per favorire la disgregazione dell’area economica dell’Est e per costruire rapidamente le condizioni per la sua completa integrazione nel mercato mondiale e per la penetrazione incontrollata dei capitali occidentali.
    Oggi il crollo dell’area COMECON e la disgregazione dell’URSS sanciscono la fine del “bipolarismo” stabilito a Yalta come sistema di equilibrio planetario post-Seconda Guerra Mondiale e aprono un periodo caratterizzato da una profonda instabilità a livello mondiale.
    All’interno del territorio della ex URSS vanno intensificandosi le dinamiche contraddittorie.
    In primo luogo, il processo di riconversione verso una economia di “libero mercato” e di privatizzazione capitalistica delle strutture monopolistiche di Stato esistenti accelera la tendenza all’integrazione nel sistema economico occidentale e nelle sue istituzioni-cardine (dal FMI/BM al GATT e, seppure non a breve termine, alla NATO e al G-7). Ciò sta portando alla completa sparizione del sistema sociale sovietico per consentire i margini di accumulazione necessari allo sviluppo delle imprese private e di monopoli economici in grado di predisporsi alla competizione sull’intero mercato mondiale. La politica che lo zar Eltsin persegue concretamente per rafforzare la “Grande Russia” è l’aspetto più esemplare della tendenza antiproletaria in atto.
    L’estendersi della penetrazione delle multinazionali occidentali, alla ricerca di condizioni di valorizzazione più vantaggiose e per stabilire posizioni privilegiate di sfruttamento e controllo degli enormi mercati dell’ex-URSS, velocizza ulteriormente la trasformazione radicale dei rapporti di produzione favorendo lo sviluppo del processo di concentrazione e internazionalizzazione dei capitali e, ad un tempo, la concorrenza interimperialista. Già ora, ad esempio, l’amministrazione USA, di fronte alle maggiori possibilità di penetrazione all’Est aperto ai monopoli CEE e giapponesi, non esita ad ostacolare ogni intesa che possa, anche indirettamente, favorire l’affermarsi di una “area economica di libero scambio dall’Atlantico agli Urali” (per non parlare dell’avanzata giapponese verso l’area asiatica dell’ex URSS…).
    L’insieme di questi mutamenti della formazione sociale sovietica si traduce in un approfondimento delle contraddizioni di segno capitalistico e in una intensificazione della lotta di classe in Russia e in ciascuna delle repubbliche della neonata Confederazione di Stati Indipendenti (CSI). Il drammatico peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari fino al loro puro e semplice affamamento, il manifestarsi e il moltiplicarsi delle proteste e delle lotte proletarie in tutta la CSI, si accompagnano ad una pesante ridefinizione autoritaria degli Stati, degli assetti di potere nella Russia e nelle altre repubbliche, per consentire la ristrutturazione produttiva e controllare/contenere le esplosioni sociali che ne derivano.
    Questo insieme di profonde trasformazioni aprono all’interno della CSI un nuovo significativo scontro di classe, di enormi proporzioni, in una situazione già sconvolta dall’espandersi dei conflitti etnici e dall’affermarsi crescente dei nazionalismi.
    Questo ingresso di milioni di uomini e donne nella lotta di classe e il radicarsi della contraddizione tra proletariato e borghesia nell’intero territorio dell’ex URSS, dimostra quanto il progetto imperialista di “nuovo ordine mondiale”, che dovrebbe sorgere dalle ceneri del “bipolarismo”, sia utopico e di improbabile realizzazione.
    Il crollo del “blocco dell’Est” non significa affatto la “fine del comunismo”. Tutt’altro. L’entrata di centinaia di milioni di proletari sull’aperto terreno dello scontro di classe riafferma ancor più l’esigenza della rivoluzione comunista e di un rilancio dell’internazionalismo proletario.

 

  1. Con gli anni ’90 si apre un periodo di riorganizzazione mondiale e di ridefinizione della divisione internazionale del lavoro di difficile valutazione al momento, e di nuove contraddizioni e competizioni capitalistiche nel quadro di un equilibrio di forze mutato a favore dei paesi occidentali.
    Questa fase è attraversata da tempo da una contraddizione storica causata dall’agire di due fattori contrastanti. La perdita di egemonia USA, che aggrava la crisi capitalistica in quanto con essa viene meno il centro di un sistema di rapporti imperialisti sempre più complessi e, nello stesso tempo, la politica militare sempre più aggressiva degli Stati Uniti, che cercano di porre un freno al loro declino imponendo ovunque la pax americana.
    Tutto questo non fa che accrescere l’instabilità del sistema mondiale e moltiplicare i conflitti e le spinte centrifughe: accelerare oggettivamente la tendenza alla guerra.
    Oggi gli USA stanno spingendo al massimo livello il loro ruolo di gendarme mondiale, sia per far fronte ad ogni possibile sviluppo progressista e/o rivoluzionario nel Sud del mondo, sia per cercare di assestare la loro leadership in rapporto alle altre potenze interne al sistema imperialista.
    Dagli anni ’70, infatti, la perdita di egemonia USA è una spina nel fianco delle amministrazioni statunitensi, che dai tempi di Carter e Reagan si sforzano di riconquistare una centralità all’economia e al sistema di potere USA, contro l’emergere delle nuove potenze Giappone e CEE. La guerra USA è una scelta generale e strategica delle amministrazioni statunitensi perché essi sono ormai costretti a muoversi sul terreno della guerra per riaffermare una centralità e riconquistare un’egemonia perduta da anni.
    «Per gli USA questa guerra (quella del Golfo) è l’occasione opportuna per legare la questione del ruolo di leadership all’interno del blocco occidentale ancora di più alla forza militare. Nello stesso tempo con questa guerra vogliono naturalmente risanare la loro economia sfasciata. Attualmente nel Golfo ha luogo anche la lotta di concorrenza degli Stati-cuore imperialisti, cioè del centro, l’uno contro l’altro, per il potere futuro e l’influenza nella regione medio-orientale e l’egemonia all’interno del campo imperialista.» (RAF, Commando Ciro Rizzato, 15/2/1991).
    Fin dalla guerra nel Golfo, gli scopi statunitensi sono stati espliciti. Vinta la guerra le dichiarazioni per riaffermare l’egemonia USA sono diventare continue ed aggressive.
    Da quelle dei generali del Pentagono: «L’importante è capire che noi non smobilitiamo come dopo la Seconda Guerra Mondiale o dopo la Corea. Il mondo è ancora un posto veramente pericoloso… L’ultima lezione che dobbiamo trarre da questa operazione è che è importante rimanere impegnati in tutto il mondo. Non è il momento di tornare a casa. Dobbiamo rimanere in Europa, nel Sud-Est asiatico, in Medioriente così come nel Pacifico.» (Colin Powell, intervista del 18/4/1991).
    A quelle di Bush di fronte alla grave recessione interna in USA nel post-guerra: «Noi siamo l’indiscusso e rispettato leader del mondo… La guerra fredda è finita e noi dobbiamo rimanere impegnati oltre oceano per guidare la ristrutturazione economica, costruire liberi mercati. Noi vinceremo la guerra della competizione economica». (Discorso alla Nazione, febbraio ’92).
    Ma questa guerra alla recessione interna, per gli USA, sembra già persa in partenza, di fronte all’avanzare della crisi e ai disastri economici interni prodotti negli anni ’80 dalle politiche reaganiane degli armamenti e oggi dall’intervento nel Golfo. I dati della crisi USA restano confermati nel tempo e tendono ad aggravare tre aspetti principali.
    Gli USA sono il paese con il più elevato debito estero ed esso continua ad aumentare. Sono il paese più colpito dalla recessione economica: le industrie statunitensi di alta tecnologia sono sempre meno competitive rispetto a quelle giapponesi ed europee, e controllano sempre di meno le loro quote di mercato. Nel complesso si allarga il fossato tra USA-Giappone-RFT sul piano della crescita industriale (il tasso di crescita dell’anno 1989/’90 è rispettivamente: -0,5%, +6,8%, +5,6%!). Infine i livelli di disoccupazione e povertà all’interno dell’impero sono in continuo aumento e tali da fare ricordare gli scenari della depressione degli anni ’30.
    L’insicurezza del posto di lavoro e di un reddito garantito ha colpito fasce crescenti della popolazione statunitense, diffondendo un panico generalizzato in stridente contrasto con il ruolo di superpotenza mondiale, ma comprensibile di fronte alla bancarotta di imprese-simbolo per l’“american way of life”, come PANAM, TWA, MACI’S, e alla crisi di giganti planetari come IBM, General Motors, Ford… Per non parlare dei timori incontrollabili generati dai ricorrenti rischi di crolli finanziari a Wall Street! Gli afro-americani, i portoricani, gli ispanici, i nativi americani e settori sempre più vasti di classe operaia, sono le fasce di popolazione più direttamente colpite tanto dalla recessione prolungata quanto dalle misure economiche adottate dall’amministrazione Bush.
    L’acuirsi della lotta di classe segna sempre di più il conflitto sociale anche nel cuore dell’impero.

 

  1. Il rapporto Nord-Sud oggi è un rapporto di guerra su tutti i fronti perché le necessità di sfruttamento delle risorse e di controllo del mercato a favore delle strategie di espansione planetaria dei monopoli mondiali impongono di stroncare ogni forma di potere autonomo nelle aree del Sud.
    L’imperialismo occidentale non solo cerca di impedire che si affermino le lotte di liberazione e di autodeterminazione dei popoli e contribuisce attivamente, con le sue strategie sovranazionali (direttive del FMI in testa), le sue operazioni speciali, alle politiche di repressione del proletariato in ogni angolo del Tricontinente, ma non consente più ad alcuna borghesia nazionale di raggiungere quella soglia di potere economico-politico-militare che possa porla nelle condizioni di svolgere un ruolo guida nell’area geopolitica in cui è inserita e di manifestare una qualche autonomia dall’impero e dalle sue esigenze.
    Se il modello imperialista della “guerra a bassa intensità” aveva già portato alle occupazioni militari di Grenada, Panama, all’assedio decennale del Nicaragua sandinista fino al suo crollo, all’intervento in Salvador contro la guerriglia e alla “guerra alla droga” come modello operativo contro le lotte di liberazione in Perù, Colombia e in tutta l’America Latina, la guerra contro l’Iraq degli USA e della coalizione occidentale sotto l’ombrello ONU, chiarisce il nuovo significato del diritto internazionale e del “nuovo ordine mondiale” che si vuole costruire.
    La sconfitta dell’Iraq deve costituire un monito e una lezione per tutti i paesi del Tricontinente e per le borghesie nazionali arrivate al potere nei diversi paesi con la dissoluzione degli imperi coloniali.
    Di fronte ai processi di ricompradorizzazione, di pacificazione forzata e di guerra messi in atto dall’imperialismo in ogni area del mondo deve diventare chiaro ad ogni borghesia nazionale che nessuna opposizione verrà più tollerata. Le borghesie nazionali non solo non riescono più a mantenere un ruolo progressista verso il cambiamento, ma devono trasformarsi direttamente in cinghie di trasmissione degli interessi imperialistici nei paesi del Tricontinente.
    Questa nuova realtà dello scontro pone milioni di proletari del Sud direttamente a contatto con la dimensione internazionale del loro nemico – nulla è più chiaro dell’esempio fornito dalla guerra nel Golfo – e crea le condizioni oggettive di un antagonismo sempre più forte contro l’imperialismo e il suo sistema di sfruttamento, affamamento e distruzione del Sud.
    Nell’area mediorientale, in particolare, l’aggressione imperialista ha come scopo quello di frantumare anche la sola idea della Nazione Araba, costruendo divisioni e schieramenti contrapposti all’interno delle borghesie arabe fino al consolidamento di un fronte di alleanze con l’imperialismo statunitense ed europeo.
    Nello stesso tempo USA e CEE hanno riaffermato il ruolo strategico, in funzione occidentale, dell’entità sionista nell’intera area con continui aumenti degli aiuti economici e militari e con l’aperto sostegno politico a livello internazionale. Parallelamente hanno affidato alla Turchia un ruolo-cardine nella regione, dotandola di strumenti e basi militari che la rendono un vero avamposto della NATO anche negli interventi contro i popoli del Medio Oriente.
    Con questo significativo salto di qualità l’imperialismo cerca di stabilizzare l’area mediorientale liquidando il ruolo della rivoluzione palestinese, controllando l’espandersi della lotta di liberazione del popolo curdo e facendo arretrare l’intero fronte della lotta del popolo arabo.
    Ma si trova sempre più di fronte al carattere esplosivo delle contraddizioni aperte dalle questioni palestinese e curda, diventate ormai i principali catalizzatori delle aspirazioni antimperialiste nella regione, e dell’estendersi delle lotte proletarie in molti paesi arabi.
    La strategia di guerra contro il Sud è guidata dagli USA, ma vede necessariamente un ruolo attivo della CEE e del Giappone, che non possono non partecipare alla creazione del “nuovo ordine mondiale” per le loro esigenze strategiche. Pur nelle divergenze di interessi, essi sono uniti agli USA nella guerra imperialista contro il Sud del mondo. Ieri contro l’Irak, oggi contro la Libia…
    Questo scenario definisce nettamente il ruolo dell’“Unione Europea” e della stessa Italia, e ha già portato a nuove e concrete decisioni e ridislocazioni dei centri di comando e delle forze NATO, in quanto è la strategia dell’alleanza ad essere cambiata, diventando planetaria, dotandosi di una forza di rapido intervento capace di essere protagonista a fianco degli USA nelle “operazioni di polizia internazionale” in particolare contro il Sud. Intorno agli USA i gendarmi del mondo si sono moltiplicati e vanno attrezzandosi per il futuro come dimostra il dibattito in corso in Europa e in Giappone per dotarsi di una politica e di una forza militare autonoma.
    La nuova epoca aperta dalla fine del “bipolarismo” e segnata dal persistere della crisi di egemonia USA, vede una profonda ridefinizione degli assetti di potere e delle strategie imperialiste mondiali, come dimostrano le decisioni che i vertici del G-7 sono costretti ad adottare per adeguarsi ai cambiamenti in atto. Con il vertice di Londra (luglio ’91) «il G-7 si è evoluto in una specie di direttorio politico globale di Europa, USA, Canada, Giappone… Il mondo si sta muovendo verso un nuovo tipo di superpotenza; una coalizione la quale riconosce che nessuno, inclusi gli USA, è in grado di risolvere i problemi contando esclusivamente sul proprio peso. Ma non lo possono fare neppure le Nazioni Unite senza una potente e determinata leadership.» (International Herald Tribune, 25/7/’91). Questo direttorio mondiale sta agendo di fatto da tempo ed ha trasformato l’ONU in un suo braccio politico e il “diritto internazionale” in uno strumento di legittimazione di ogni intervento. Lo si è visto con le risoluzioni ONU adottate prima, durante e dopo la guerra del Golfo e con quelle che sono state decise recentemente contro la Libia. Si è affermata così – come dice De Michelis – «la grande idea-forza, il vero concetto nuovo di questo scorcio di secolo… sospendere la sovranità (di uno Stato) se essa è esercitata in modo criminale».
    In questo modo la vocazione principale dell’ONU diventa il diritto di ingerenza negli affari interni di singoli Stati e di intervento “a fini umanitari”, fino all’idea di predisporre una “forza militare internazionale” sempre pronta, come è emerso nel Consiglio di Sicurezza del febbraio ’92, che ha visto la prima significativa presenza della Russia, aspirante nuova potenza al posto della scomparsa URSS. Su queste basi e con questi strumenti l’imperialismo ha costruito le premesse per intensificare ed estendere la guerra al Sud.
    Nell’epoca dell’interdipendenza planetaria il diritto imperialista di ingerenza ed intervento è generalizzato: «L’idea statunitense del nuovo ordine mondiale è che ogni situazione in ogni parte del mondo porterà a tensioni in altri paesi della stessa regione e da qui comporterà disordine nel mondo. Così gli USA hanno avanzato certi principi per ristabilire l’ordine nel mondo.» (Forward, luglio 1991).

 

  1. La spinta alla mondializzazione dell’economia come risposta alla crisi capitalistica ha portato ad un mondo caratterizzato da processi di globalizzazione ed interdipendenza economica, che attraversano ormai ogni area del centro e della periferia generando violentissime contraddizioni a livello planetario. Dentro questo orizzonte si sviluppa la tendenza alla concentrazione e internazionalizzazione dei capitali portando all’estremo la concorrenza tra monopoli multinazionali e multiproduttivi e la polarizzazione tra ricchezza e miseria, tra borghesia e proletariato. Un processo che non fa che alimentare le contraddizioni e moltiplicare gli scontri interimperialistici nel mondo intero.
    Oggi assistiamo ad una tappa intermedia – molto più avanzata di quella analizzata da Lenin – di questa spinta alla mondializzazione: la regionalizzazione, cioè l’aggregazione economica in aree continentali per creare le condizioni attraverso cui i capitali più forti si uniscono, costruendo monopoli regionali continentali, per raggiungere le dimensioni necessarie a vincere la concorrenza e a valorizzarsi. Questo è il punto di equilibrio attualmente raggiunto dal capitalismo per sopravvivere alla crisi, ma è anche un processo che in prospettiva aggraverà e moltiplicherà i conflitti e gli scontri tra i diversi blocchi regionali, alimentando ancora di più la tendenza alla guerra, di fronte alla crisi dell’intero sistema e alla competizione spietata tra monopoli economici regionali con urgenza di profitto e di mercato sempre più grandi.
    Ciò significa, semplicemente, che la dinamica unitaria che spinge ed accelera i processi di aggregazione economica continentale e regionale approfondisce, contemporaneamente, la dinamica contraddittoria all’interno del sistema capitalistico, per la proiezione planetaria dei monopoli, degli Stati e dei blocchi regionali. Già oggi la battaglia da tempo in atto a livello del GATT (Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e Commerciali) mette a nudo le reciproche politiche protezionistiche a livello di area e, quindi, la vera e propria guerra economica che si va addensando. Come altrettanto evidente è l’aggressività dei monopoli più forti, e degli Stati che li sostengono, al di là delle loro aree di riferimento e mercato. Queste sono soprattutto delle piattaforme/fortezze dentro cui rafforzarsi per proiettarsi con più successo verso l’esterno.
    La tendenza a superare la crisi con la costituzione di “blocchi regionali”, in realtà, ripropone ad un livello diverso e più alto la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Se da una parte la regionalizzazione porta con sé il superamento delle forme di dominio e di rapporti produttivi ad ambito nazionale, dall’altra crea un’altra gabbia per le forze produttive, destinata a trasformarsi in una nuova catena per il loro sviluppo. Di fatto è l’impronta “cosmopolita”, mondiale, data alla produzione dalla borghesia fin dal sorgere del capitalismo, che non accetta barriere di alcun genere alla sua espansione. L’ambito regionale, in prospettiva, si rivela altrettanto asfittico e limitante di quello nazionale, per le stesse politiche protezionistiche e di difesa adottate a livello di area!! Alla fine, irrimediabilmente, «questi rapporti (di produzione) da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene.» (Marx).
    Assieme al consolidarsi e potenziarsi nel corso degli anni del polo economico-politico-militare europeo, con la sua proiezione naturale nell’area mediorientale-mediterranea-africana, ha preso vita la formazione di un’area di libero scambio nel Nord-America, dall’Alaska al Messico, attorno agli USA, con proiezione nell’area Caraibica e Latino-americana, come anche un terzo processo nel Sud-Est Asiatico intorno al Giappone, con proiezione nell’intera area dell’Oceano Pacifico.
    Questo potente processo di concentrazione in poli economici regionali investe l’intero centro imperialista e assesta la tendenza in atto alla definizione di un’area del dollaro intorno agli USA, di una dello yen attorno al Giappone e di una terza dell’ECU intorno all’“Unione Europea”. Essi si presentano come i principali processi di stabilizzazione del nuovo ordine economico e della nuova divisione internazionale del lavoro.
    Anche nelle aree del Tricontinente hanno cominciato a prendere forma diversi processi di aggregazione in blocchi economici regionali. Da quello nell’area mediterranea dell’“Unione del Maghreb Arabo” (HUMA), a quello nell’America Latina del MERCOSUR, a quello nell’area del Sud-Est Asiatico attorno all’Indonesia.
    Questa tendenza alla regionalizzazione si rivela dominante a questo stadio dello sviluppo capitalistico.

 

Il polo imperialista europeo

«La borghesia sopprime sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica, province indipendenti, quasi appena collegate tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale».
(Marx-Engels)

Gli anni ’90 si aprono in un clima di grande instabilità, determinata dalla fine del “bipolarismo”, dall’approfondirsi della crisi di egemonia USA e dalla recessione economica che ormai investe l’intero mondo capitalistico.

In questo contesto, il processo di integrazione economica che ha portato in questi anni alla costituzione del “Mercato Unico Europeo”, subisce una ulteriore accelerazione verso l’unione economica e politica.

Come la costruzione del “Mercato Unico” ha dato forte impulso alla integrazione europea, determinando il trasferimento/centralizzazione di molti poteri dagli Stati-nazione verso strutture e organismi sovranazionali, la nuova tappa, l’“Unione Economica e Politica Europea”, intensifica il processo di ridispiegamento del sistema di potere borghese sia all’interno dell’Europa che sullo scenario mondiale.

Negli organismi CEE che in tutti questi anni hanno assolto il compito di coordinare le diverse politiche economiche dei singoli Stati, si sono venuti a sviluppare nuovi assetti politici istituzionali, che a loro volta hanno determinato profonde modificazioni su questo piano in tutti i 12 paesi della CEE.

A dare corpo a questo processo sono i passaggi concreti – che caratterizzano il formarsi del polo imperialista europeo – per dotarsi di una politica industriale e commerciale comune, di una unione economica e monetaria, di una politica interna e di “sicurezza sociale”, di una politica estera e difesa comuni.

La realizzazione di questi passaggi e di questi obiettivi segna l’attuale fase del processo di integrazione comunitaria dei 12 Stati europei, e della loro proiezione imperialista in ogni area del mondo.

 

  1. La crisi capitalistica è sempre anche crisi delle forme economiche, politiche e militari di dominio. Quanto più si sviluppa il processo di integrazione/omogeneizzazione della formazione economico-sociale europea, tanto più la funzione degli Stati nazionali subisce profonde modificazioni. La crisi-sviluppo del modo di produzione capitalistico ha rotto la separazione tra le diverse formazioni sociali nazionali europee. Ha dato luogo a fenomeni economici, politici e sociali che non possono più essere regolamentati, diretti e governati in ambito nazionale.
    Alla fine degli anni ’70, questo problema si impone in modo improrogabile e dirompente.
    Sull’asse franco-tedesco si accelera la fase dell’integrazione europea. Si costituisce il “Sistema Monetario Europeo”, e si avvia concretamente la fase del “Mercato Unico” che, passando per l’“Atto Unico” dell’84, si concluderà entro la fine del 1992.
    Queste scelte danno respiro strategico alle politiche industriali e finanziarie dei grandi trust oligopolistici multinazionali, facendo convergere intorno ad essi, ai loro processi di ristrutturazione e di rilancio del profitto, tutte le risorse e le politiche economiche e sociali degli Stati europei. Ciò determina profonde trasformazioni nel rapporto capitale-lavoro, nella pubblica amministrazione, nella spesa pubblica, nel sistema legislativo, ecc., in tutti i paesi CEE, tese a garantire il massimo profitto e ad imporre una nuova qualità del dominio di classe.
    La costituzione del “Mercato Unico”, è anche la risposta della borghesia imperialista europea alla svolta “neoliberista” che, a partire dalla politica dell’amministrazione USA negli anni ’80 ha teso ad affermarsi in tutto il sistema capitalistico mondiale, per far fronte all’aggravarsi della crisi economica.
    Per i grandi trust monopolistici multinazionali diviene di vitale importanza poter agire incontrastati e senza vincoli sull’intero mercato capitalistico mondiale, così da potersi comunque garantire un tasso di crescita, seppure su basi sempre più ristrette.
    L’insieme di questo movimento porterà al definitivo crollo del welfare-state. La “deregulation” economica e sociale si estende a tutti i paesi, i quali fanno della riduzione dei salari, dell’aumento della produttività, e della riduzione della spesa pubblica, un fattore determinante per la competitività internazionale.
    In nome del “libero mercato” e della “difesa della concorrenza” cadono le barriere tariffarie e i confini doganali, viene fortemente ridimensionato il ruolo e l’intervento dell’industria pubblica a vantaggio dei trust multinazionali privati che penetrano e divorano tutti i settori privatizzati.
    La legislazione sulla concorrenza comunitaria accelera i processi si concentrazione capitalistica a livello continentale, annullando progressivamente qualsiasi struttura o norma che non siano funzionali alla libera circolazione delle merci, dei capitali, e ad ottenere il massimo profitto.
    La Commissione e la Corte di Giustizia CEE, in tutti questi anni, hanno sviluppato una vera e propria strategia per lo smantellamento dei monopoli pubblici, dei settori protetti e della legislazione del lavoro in tutti i paesi europei… Attualmente è in atto una deregulation progressiva che ha aperto una breccia nei monopoli energetici pubblici nazionali; nel campo degli apparecchi terminali, delle telecomunicazioni e dei servizi postali, a favore degli oligopoli multinazionali privati.
    Su questo terreno in Italia si sta da tempo giocando un aspro scontro tra partiti di regime, apparati dello Stato e altre forze borghesi. Privatizzare le “Partecipazioni Statali” significa infatti incidere pesantemente su uno dei pilastri che hanno sorretto il potere dei partiti di governo – Democrazia Cristiana in testa – dai primi anni ’50 in poi.
    Ma la recessione, le pressioni dei monopoli privati, il disastro del bilancio pubblico e le direttive della CEE, hanno portato di fatto il governo a prendere una decisione irreversibile, collocandosi nella stessa direzione degli altri paesi europei.
    La recente approvazione della legge sulle privatizzazioni avvia la trasformazione in “Società per Azioni”, da collocare sul mercato, della maggior parte delle aziende di Stato. Per citare le più importanti, l’IRI, l’ENI, l’EFIM, l’ENEL, le Ferrovie, le Poste e Telecomunicazioni…
    Un processo che comporta una gigantesca ristrutturazione e “razionalizzazione” produttiva con il consueto corollario di tagli, chiusure di stabilimenti e migliaia di licenziamenti.
    La liquidazione del siderurgico pubblico negli anni scorsi è stata una esemplare anticipazione di questa dinamica; di come la ristrutturazione di questo settore in tutta Europa sia stata diretta in modo centralizzato dagli organismi della CEE.

 

  1. La costituzione del “Mercato Unico Europeo” (come d’altra parte quella di altri mercati regionali di libero scambio: quella tra USA-Canada-Messico e quello tra Giappone e paesi industrializzati del Sud-Est Asiatico…) riflette la necessità di una maggiore concentrazione dei capitali e di agire su aree economicamente integrate e di grande ampiezza. Una dinamica tutt’altro che lineare perché la concorrenza e concentrazione di capitali sono poli inseparabili della stessa contraddizione.
    Al di là del tanto sbandierato “libero mercato mondiale”, stiamo assistendo alla formazione di aree continentali sempre più integrate al loro interno e sempre più protette e aggressive verso l’esterno. All’accrescersi dell’interdipendenza economico-commerciale tra le maggiori potenze mondiali, come USA, Europa, Giappone, corrispondono nuove forme di protezionismo, che sfociano puntualmente in vere e proprie guerre commerciali che investono tutti i settori produttivi.
    L’esigenza di fondo che muove il processo di costruzione dell’Unione Europea, e che allo stesso tempo ne costituisce la specificità, risiede nel fatto che l’Europa non è una nazione unica come gli USA, e, oltre a ciò, non c’è in Europa un paese che abbia la forza sufficiente per imporsi da solo, in quanto potenza egemone, come nel caso del Giappone nei confronti dell’area del Sud-Est Asiatico.
    È senza dubbio vero che la rinata “Grande Germania” occupa in questo processo un posto fondamentale come maggiore potenza economica europea, cosa che le fa assumere un ruolo crescente sul piano della politica industriale e monetaria e della politica extra-comunitaria. Ma è altrettanto vero che essa non può fare a meno di legarsi saldamente alla formazione del polo economico-politico europeo, che solo nel suo insieme può garantire la forza e il peso per collocarsi adeguatamente nella nuova configurazione del sistema imperialista che si sta delineando.
    Per questo, qualsiasi visione di ritorno ad una “Europa delle Patrie”, per quanto presente nelle tendenze inevitabilmente innescate da questo grande processo, siano esse “Quarto Reich” o altre, è in realtà in contraddizione con le oggettive dinamiche imposte dalla crisi capitalistica.
    Il soggetto che si sta consolidando in questo contesto è, nei fatti, una vera e propria borghesia multinazionale europea, a cui sono subordinati tutti gli interessi particolari.
    Per la borghesia imperialista europea, la costruzione del “Mercato Unico” non si può limitare ad una “zona di libero scambio”, di circolazione di merci e capitali. Nei fatti l’Europa è già terreno di battaglia per i maggior oligopoli multinazionali di USA e Giappone. Di qui la spinta della borghesia imperialista europea affinché all’integrazione economica corrisponda quella politica, ed ogni ritardo su questo terreno rischia di far saltare l’intero processo e di frenarne la proiezione mondiale come polo imperialista.

 

  1. L’approfondirsi della crisi-recessione, che a diversi livelli investe l’intero mondo capitalistico, è il fattore fondamentale che sta cambiando gli equilibri di potere esistenti fin dal dopoguerra tra le maggiori potenze mondiali. Essa ha determinato il crollo del blocco COMECON, ha approfondito la crisi di egemonia degli USA, ha ridefinito i rapporti di potere tra l’imperialismo occidentale e le aree del Tricontinente e nell’intero assetto del dominio di classe della borghesia verso il proletariato.
    Tutto questo ha, a sua volta, contribuito a spingere l’integrazione europea verso l’unione economica e politica.
    Il vertice intergovernativo di fine ’91 a Maastricht, che ha portato alla firma del nuovo trattato sull’“Unione Europea”, ha aperto la “terza fase” (dopo il Trattato di Roma e l’Atto unico) dell’integrazione economica e politica dei paesi CEE e ne ha accentuato la proiezione esterna ponendo questo processo come polo di attrazione dell’Europa intera, compreso l’ex blocco orientale.
    Alla progressiva omogeneizzazione della formazione economico-sociale europea, corrisponde un processo di centralizzazione dei poteri a livello sovranazionale che si impone oggi come movimento dominante rispetto alla struttura di potere dell’ambito nazionale. Una riarticolazione sempre più complessa del dominio borghese che svela, allo stesso tempo, in maniera chiara, una svolta autoritaria nei sistemi politici dei paesi europei, e che fa emergere più che in passato la reale natura di classe dello Stato e della democrazia borghese, in quanto strutture di oppressione verso il proletariato.
    La crisi economica porta inevitabilmente allo smantellamento dello “Stato sociale”, al ridimensionamento di tutte le conquiste della classe operaia e del proletariato e dunque alla riduzione drastica di ogni spazio di autorganizzazione e di rappresentanza autonoma di classe in tutta Europa. Sta qui, per inciso, la base principale del crollo di ogni ipotesi e apparato riformista.
    Grandi campagne di guerra psicologica borghese da anni ammorbano l’area occidentale, sulla “fine del comunismo”, sulla “nuova era di pace”, sul “nuovo ordine mondiale”. In realtà le dinamiche della crisi stanno rapidamente spazzando via tutta questa cortina fumogena, mettendo allo scoperto la natura distruttiva del capitalismo e dei suoi rapporti sociali, e allo stesso tempo, l’impossibilità di un suo sviluppo equilibrato e pacifico.
    Le lacerazioni aperte dalla crisi capitalistica nell’assetto di potere della borghesia imperialista sono terreno di contraddizione e dunque di lotta, di resistenza proletaria, di sviluppo dell’autonomia di classe, di costruzione della coscienza e dell’agire rivoluzionario a livello internazionale.
    Ed è proprio attorno alla necessità di far fronte a questa nuova qualità dello scontro che la borghesia imperialista europea si è mossa per tutti gli anni ’80 verso una ridefinizione della sua struttura di potere a livello continentale.
    Così il processo di formazione del polo imperialista europeo, con al centro i grandi oligopoli multinazionali, si è sviluppato in un duplice movimento: sul piano interno, verso una maggiore integrazione/centralizzazione degli apparati di potere e del dominio di classe, finalizzati all’esigenza di governare i conflitti sociali nella formazione sociale europea; sul piano esterno come proiezione delle strategie, interessi e rapporti di potere imperialisti dei paesi CEE a livello mondiale.
    È intorno all’emergere di una formazione sociale capitalistica europea che nasce e si concretizza la ridefinizione dell’assetto di potere della borghesia imperialista; dalla costituzione degli organismi sovranazionali nel quadro dell’“Unione Europea”, al processo di rifondazione politico-istituzionale in atto negli stati europei.
    Lo Stato «non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso l’esterno che verso l’interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi» (Marx-Engels). I suoi assetti istituzionali, di potere, e i piani di intervento mutano in stretta dialettica con gli interessi della classe di cui è espressione, questo per fare in modo che le sue strutture non si trasformino in “gabbie“ che impediscono alla borghesia di far fronte alle necessità imposte dalla crisi economica e dal conflitto di classe.
    In Europa è il processo di integrazione che ha innescato questa dinamica in ogni stato del continente.
    Così in Italia, il progetto di “riforme istituzionali”, lungi dall’esprimere solo una rideterminazione tecnica degli apparati politico-istituzionali, implica una profonda ridefinizione dell’assetto di potere, incorporando in questo movimento quanto su questo piano è stato sancito in precedenza (come ad esempio le “forzature” operate durante la guerra nel Golfo, vere e proprie sperimentazioni di un modello di imposizione autoritaria di decisioni e scelte politiche a tutto il paese). In sostanza una riarticolazione verticale dei poteri e degli apparati dello Stato a partire dai centri di comando più importanti, in primo luogo all’Esecutivo, che garantisca alla classe al potere la possibilità di decisioni politiche rapide, in linea con gli oneri e compiti che comporta la collocazione dell’Italia nel processo di integrazione europea. Una scelta strategica che il potere borghese italiano intende portare avanti in un quadro di governo delle contraddizioni sociali dove il “consenso” delle masse non è da esso ritenuto condizione indispensabile.
    Questa dinamica ha i suoi corrispettivi qualitativi praticamente in ogni stato europeo. Dalla Francia, dove la retorica di Mitterrand sulla VI Repubblica accompagna un concreto mutamento politico istituzionale di cui il governo Cresson è battistrada; alla Germania, dove è in atto, tra l’altro, una revisione costituzionale per permettere la formalizzazione dell’interventismo militare pantedesco.
    Questi mutamenti, dovendosi misurare con condizioni preesistenti e storicamente determinate, si realizzano, nelle situazioni specifiche, in tempi e con forme diversi da ricondurre comunque sempre ad una unica qualità.
    Il fattore dominante in questa complessa ridefinizione del sistema di potere imperialista in Europa, sono gli interessi dei grandi oligopoli multinazionali che ormai fanno il bello e il cattivo tempo sull’intero continente, i processi di ristrutturazione e concentrazione capitalistica finalizzati al rilancio dell’accumulazione, come pure la proiezione e la salvaguardia dei loro interessi in ogni area del mondo.

 

  1. Tre sono i pilastri si cui si basa la nuova tappa verso l’“Unione Europea”: l’“Unione Economica e Monetaria”; la “Politica degli Interni e della Giustizia comune”; la Politica estera e di Difesa comune”.
    Questi tre pilastri, nella loro interazione, rappresentano i passaggi centrali della formazione del polo imperialista europeo. In questo la unificazione economica e monetaria precede e sollecita il processo complessivo. C’è un nesso di distinzione dialettica tra il momento del governo economico e monetario e l’intero riassetto politico-istituzionale del potere politico che, dagli organismi CEE si estende fino allo stato nazionale e alle diverse istituzioni e organismi regionali.

 

4.1 L’unione economica e monetaria, dà una ulteriore accelerazione al processo di convergenza economica perseguita ormai da anni dalla borghesia europea per dotarsi di una Banca Centrale e una moneta unica, entro la fine degli anni ’90. Ciò determinerà il trasferimento definitivo della “sovranità monetaria” di ogni singolo Stato alla Banca Centrale, che opera indipendentemente dal potere politico. Sono direttamente i grandi trust bancari-finanziari-industriali a spingere la centralizzazione delle politiche monetarie attorno alle loro esigenze.
Un processo iniziato negli anni ’70 con la crisi degli accordi di Bretton Woods, che nel ’70 porta alla fondazione del “Sistema Monetario Europeo” (SME), e alla liberalizzazione dei capitali aperta nel ’90. Una ulteriore tappa, legata ai tempi necessari ad una maggiore convergenza economica, è stata fissata per il gennaio del ’94, e prevede la costituzione di un “Istituto Monetario Europeo” (IME).
Tutti questi passaggi stanno portando alla costituzione di un sistema europeo di banche centrali imperniato sulla Banca Europea e l’ECU come moneta unica. Una dinamica resa possibile da una già esistente convergenza economica e monetaria realizzata attraverso il processo di “disinflazione” degli anni ’80, che nel concreto ha significato il drastico taglio delle spese sociali in ogni singolo Stato, e politiche di contenimento del costo del lavoro in tutta Europa. Un attacco che oggi e per tutti gli anni ”90 è condizione per realizzare le tappe fissate dalla borghesia nella prospettiva dell’Unione economica e monetaria.
Questo è il punto di riferimento per la Banca d’Italia, che sta già sviluppando profonde trasformazioni nella sua struttura per renderne irreversibile l’autonomia e predisporsi all’interno del nascente “Sistema Europeo di Banche Centrali” (SEBC) con al centro la futura Banca Centrale Europea.

 

4.2 Al processo di costruzione dell’unione economica e politica corrisponde un riadeguamento delle strutture di potere della borghesia. Un riadeguamento che ha la sua finalità principale nella necessità di garantire la riproduzione dei rapporti sociali capitalistici nel quadro attuale della crisi.
Quindi, questo nuovo assetto di potere non si definisce solo attorno alle esigenze politiche derivanti dalla concentrazione-centralizzazione capitalistica, ma trova la sua ragione d’essere anche nel governo delle contraddizioni e dello scontro di classe.
A ciò corrisponde la necessità di una politica degli Interni e della Giustizia comune a livello europeo, e un complesso di trasformazioni politico-istituzionali dello Stato in ogni paese.
Tutta la propaganda borghese sul passaggio alla cosiddetta “II Repubblica” qui in Italia, non è altro che il rivestimento massmediato di una serie di mutamenti nel sistema politico di potere, in cui emerge chiaramente la volontà di sancire lo spostamento dei rapporti di forza a favore della borghesia per un più adeguato governo del conflitto di classe. Ciò si inquadra in quel processo di strutturazione autoritaria della “democrazia” da tempo in atto in tutti i paesi del centro imperialista.
È a questo disegno che vanno ricondotti i ripetuti attacchi alle conquiste operaie e proletarie, succedutisi per tutti gli anni 80 in Italia. Questi attacchi, condotti dall’Esecutivo e dal grande padronato, non hanno il solo obiettivo di liquidare le conquiste, essi sono finalizzati infatti a stabilire meccanismi istituzionalizzati che limitino ogni possibile sbocco e forma di lotta di classe. In pratica si vuole porre sul piano dell’illegalità qualsiasi istanza di classe e proletaria che sfugga alla cooptazione sociale istituzionalizzata. Una dinamica resa possibile anche dall’opera di svendita del patrimonio di lotta operaia da parte dei sindacati e partiti riformisti, i quali, facendo proprie le necessità della borghesia e del grande capitale, si stanno muovendo a livello internazionale, con i loro consimili degli altri paesi, per impedire che le lotte del proletariato in Europa esprimano coscientemente la loro qualità unitaria e i loro processi di organizzazione autonoma.
Al processo di integrazione europea degli anni 80 ha corrisposto un progressivo spostamento di poteri verso gli organismi sovranazionali e una conseguente delega di sovranità, su molti piani, degli Stati nazionali. Parallelamente si è imposta una supremazia giuridica sull’intero territorio europeo. I “trattati istitutivi” CEE rappresentano ciò che le “leggi istitutive” sono per gli Stati, e insieme agli accordi UEO, TREVI e Schengen, come pure alle molteplici sentenze della Corte di Giustizia comunitaria, stanno uniformando le “carte costituzionali” e la legislazione di ogni singolo Stato. Allo stesso tempo i loro emendamenti, sganciati da ogni autorità politica parlamentare, hanno determinato un “deficit democratico” che crea non poco imbarazzo ai tecnocrati degli organismi comunitari, provocando su molti piani un esautoramento dei poteri parlamentari, spesso ridotti a pura ratificazione delle loro direttive.
La legislazione comunitaria sviluppa ulteriormente l’integrazione e la rifunzionalizzazione istituzionale degli Stati intorno agli interessi della borghesia monopolistica sovranazionale. In questo modo, ogni singolo Stato incorpora in sé il livello più alto dato dalla dimensione sovranazionale dei rapporti di forza sull’intero proletariato e l’insieme della sua strategia controrivoluzionaria.
L’omogeneizzazione della legislazione e delle politiche comunitarie di controllo e repressione, si è venuta sviluppando a partire dagli organismi CEE (Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia Europea…) e con la affermazione di una molteplicità di strutture come TREVI, Schengen, etc., fino alla costituzione di un vero e proprio spazio giuridico europeo.
Queste diverse istituzioni e apparati sovranazionali, forti dell’esperienza accumulata ai massimi livelli dello scontro di classe, attraverso trattati, codici, statuti, leggi, etc., hanno sviluppato una politica di pianificazione sull’intero territorio europeo, omogeneizzando un personale imperialista e rispettivamente strategie collocati ad alto livello su tutti i piani dello scontro.
L’insieme degli apparati di controllo e repressione a livello nazionale (polizie, magistrature, servizi segreti…), hanno sviluppato in questa dinamica una strutturazione sempre più integrata e coordinata in ogni paese e sul piano continentale.
La recente scelta operata in Italia per razionalizzare e coordinare l’intervento di polizia, carabinieri e finanza, risponde a una duplice esigenza: riorganizzare le forze in campo per ottenere un controllo più capillare del territorio; usufruire di un forte strumento centralizzato in grado di partecipare efficacemente alle strutture integrate e di coordinamento operanti e con requisiti necessari alla prevista formazione della “Europolizia”.
È sempre in riferimento al processo di integrazione che si devono inquadrare quelle mutazioni – attualmente allo stadio di proposte e oggetto di aspri scontri tra i partiti e forze borghesi – quali la ridefinizione della magistratura inquirente (che prevede fra l’altro la subordinazione all’Esecutivo dell’iniziativa della “Pubblica Accusa”), e in genere del ruolo stesso della magistratura e dei suoi organi di governo (in particolare il Consiglio Superiore della Magistratura).
Tra i passaggi già operati c’è la riforma del “codice di procedura penale” che avvicina la politica penale italiana al modello legislativo nord-europeo, e che incorpora la sostanza della cosiddetta “legislazione d’emergenza”, prodotta in 20 anni di attacchi violenti alle avanguardie rivoluzionarie, alla guerriglia e alla lotta di classe nel suo insieme.
Migliaia di licenziamenti, aumento della disoccupazione, riduzione del costo del lavoro, aumento dello sfruttamento, riduzione di ogni spesa per l’assistenza, militarizzazione capillare del territorio, razzismo, distruzione attiva e preventiva di ogni forma di autorganizzazione e opposizione di classe e rivoluzionaria, attacco a tutte le conquiste della classe operaia e dei lavoratori dei servizi, fino al diritto di sciopero; uso della tortura, delle carceri speciali, fino all’annientamento psicofisico dei prigionieri rivoluzionari attraverso l’isolamento.
È questo il quadro di riferimento su cui si è venuta sviluppando e omogeneizzando la politica interna e la legislazione comunitaria, all’interno della rifondazione autoritaria dei singoli stati.
È così ad esempio che il “Gruppo TREVI” e su un altro piano gli accordi di Schengen, si impongono come pilastri della controrivoluzione integrata tra i 12 Stati europei.
“TREVI-Schengen significa l’unificazione e la standardizzazione giuridico-poliziesca e militare dell’insieme dei compiti e dei metodi di inchiesta, di procedure e legislazione preventiva e repressiva che superi le attuali frontiere… Ma, ancora, la messa in atto del controllo delle popolazioni attraverso una banca dati integrata e l’identificazione informatizzata. Così, lo spazio giuridico si afferma, simultaneamente, nella ridefinizione del reato politico, nelle procedure di estradizione, e nella soppressione del diritto di asilo, fino alle nuove legislazioni che regolano l’ingresso e il soggiorno dei lavoratori immigrati” (Prigionieri di Action Directe).
Con il nuovo Trattato di Maastricht, la nascente “Unione Europea” estende i propri poteri in materia di immigrazione, giustizia, interni, in una dimensione sempre più integrata e gestita dalle istituzioni comunitarie. Queste centralizzeranno materie come: politica comune di immigrazione, diritto di asilo, lotta alla droga, cooperazione giudiziaria e soprattutto tra le polizie, con il progetto di una polizia europea (Europol) sul modello del FBI americano.
Questa è una delle nuove competenze in materia di “affari interni e giustizia” che la riforma del trattato CEE ha attribuito all’“Unione Europea”, come pure in materia di immigrazione, di visti e diritto di asilo (in Italia l’ormai famosa “legge Martelli” ha costituito il passaggio necessario per aderire a “Schengen” e omologare il quadro legislativo alla ridefinizione autoritaria delle politiche europee sul terreno del controllo dei flussi migratori), di cooperazione giudiziaria, civile e penale. In sostanza una struttura europea di controllo e repressione per la “prevenzione e lotta al terrorismo“ e altre “forme di criminalità internazionale”.
L’“Unione Europea” si dispone così a far fronte alla massa di immigrati che preme ai confini mediterranei e orientali della CEE, e alle lotte di resistenza e rivoluzionarie del proletariato metropolitano europeo.

 

4.3 Il Trattato di Maastricht prevede che gli “orientamenti generali” di politica estera e di difesa siano votati all’unanimità dal Consiglio Europeo (capi di Stato e di Governo), che le “linee di azione” siano votate all’unanimità dal Consiglio dei Ministri degli Esteri, che le “modalità di attuazione” vengano decise dal Consiglio dei Ministri degli Esteri a maggioranza qualificata. La Commissione potrà formulare proposte in materia di politica estera, di sicurezza comune, mentre i poteri reali dell’Europarlamento saranno di semplice consultazione, se sarà ritenuta necessaria.
Si tratta di fissare, sul piano economico, le nuove coordinate della sua proiezione internazionale, del peso e del ruolo che il polo imperialista europeo intende assumere in una rinnovata divisione internazionale del lavoro, in competizione con le altre potenze imperialiste USA e Giappone, entro cui garantire gli interessi dei grandi gruppi multinazionali europei. E di ricollocare in questa organica prospettiva tutta la fittissima rete di accordi e relazioni bilaterali e multilaterali che la CEE ha sottoscritto in tutto il mondo, di integrare definitivamente in questi il sistema di relazioni economiche e politiche internazionali dei singoli Stati europei, di ampliare sempre più la sua penetrazione e la sua opera di influenza nelle altre aree del mondo.
Sul piano politico-militare, l’“Unione Europea”, superando il terreno della semplice “cooperazione intergovernativa” tende a diventare una vera e propria potenza internazionale, all’interno di un nuovo “equilibrio di potere”.
Questo significa, da un lato collocarsi in maniera sempre più diretta a fianco degli USA (e del Giappone), per mantenere il proprio dominio sul proletariato e i popoli di tutto il mondo, dall’altro ritagliarsi e garantirsi un suo proprio ruolo e peso sempre più autonomi nella gestione dei conflitti e delle “aree di crisi”.
Nei confronti delle altre potenze imperialiste, USA e Giappone in testa, il polo europeo si trova impegnato in una vera e propria guerra commerciale, fatta di tariffe protezionistiche, sovvenzionamenti, politiche monetarie, diretta a salvaguardare le proprie aree di mercato e a penetrare quelle avversarie, a garantire la propria produzione industriale dalla concorrenza delle merci e dei capitali americani e giapponesi.
D’altra parte il polo imperialista europeo è sempre più proiettato verso un ampliamento delle sue aree di diretta influenza politica.
In ambito continentale, l’“Unione Europea” punta alla costruzione di accordi di integrazione/subordinazione con gli altri paesi europei. Uno è l’accordo per lo “spazio economico europeo” che nei fatti altro non è che l’estensione/imposizione ai 7 paesi EFTA delle normative, legislazioni e istituzioni dell’Unione europea. Su un piano diverso sono gli accordi firmati in questi mesi da Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia di “super-associazione” per la costruzione di un’area di libero scambio per la totale apertura di quei paesi alla penetrazione delle multinazionali europee, garantendo la totale liberalizzazione del mercato del lavoro, delle merci, dei capitali.
Ma è tutta l’area europea che i tecnocrati della CEE considerano “naturale orizzonte” per l’imperialismo europeo. Basta vedere il ruolo che la “Unione Europea” intende giocare nelle trasformazioni che investono tutta l’area ex COMECON e la rete di accordi stipulati con i nuovi gruppi dirigenti di quei paesi. Le vicende yugoslave mostrano in modo esemplare tutta la forza di incidenza e pressione raggiunta dall’“Unione” sul piano economico, politico e militare, ma anche la diretta volontà politica di intervento che ha acquisito maggiore organicità con le direttive del vertice NATO di fine ’91 a Roma, che ne ha orientato il livello di autonomia rispetto alle politiche USA e alle decisioni dell’ONU.
Tutto il Tricontinente è, nel suo complesso, obiettivo della penetrazione imperialista dei grandi oligopoli multinazionali europei, nella loro esigenza imprescindibile di allargare il loro campo d’azione all’intero mercato mondiale. Basti pensare all’America Latina o all’Africa.
Ma è principalmente nell’area mediterraneo-mediorientale che la pressione e l’iniziativa europea hanno assunto una rilevanza e una caratteristica evidentissima. Spazzate via tutte le chiacchiere sulla “integrazione tra le due sponde del Mediterraneo” o sull’“area di pace”, l’imperialismo europeo sta concretamente mostrando sul suo “Fronte Sud” cosa intende per “rapporto Nord-Sud”.
Dal tentativo, patrocinato dai ministri degli esteri CEE, di stringere tutti i paesi del Mediterraneo in un sistema di relazioni (la “Helsinki del Mediterraneo”…) che doveva sancire e formalizzare in tutta l’area lo strapotere assoluto dei paesi CEE, della NATO e di “Israele”, si è passati alla guerra di aggressione nel Golfo, fino a ritagliarsi uno spazio nell’impostazione della cosiddetta “Conferenza di pace di Madrid”, fino alle attuali minacce contro la Libia.
Il Trattato della “Unione Politica Europea” definisce esplicitamente la UEO (Unione Europeo-occidentale) come nucleo di costruzione/elaborazione di una difesa comune. L’UEO attuerà le decisioni della “Unione Europea” in un quadro di complementarità con la NATO. Una posizione di mediazione tra le posizioni anglo-italiane (che sottolineano il ruolo insostituibile della NATO) e quelle franco-tedesche (che spingono per affidare alla UEO la difesa autonoma dell’Europa).
Queste scelte vanno inquadrate in rapporto alla ridefinizione già operata &emdash; a fronte dello scioglimento del Patto di Varsavia e all’emergere di nuove esigenze – della strategia NATO, dalla “difesa avanzata” alla costruzione delle “forze multinazionali di rapido impiego”, capaci di fronteggiare anche le emergenze del Fronte Sud. Questa ridefinizione sta comportando una riduzione quantitativa delle forze USA e una loro sostituzione con truppe europee.
Nei fatti il potenziamento della UEO è un rafforzamento del “pilastro europeo dell’Alleanza” che tuttavia non segna un netto sganciamento della “difesa europea” dagli USA.
Ma nello stesso tempo l’accordo di Maastricht prevede la possibilità di nuovi sviluppi a partire da una maggiore integrazione delle forze armate europee. È ancora una volta l’asse franco-tedesco a rilanciare il piano per la creazione di una forza militare europea pienamente indipendente sotto il comando UEO, in grado di agire in piena autonomia. Questo piano prevede la piena subordinazione della forza europea al Comando Atlantico in caso di aggressione al territorio NATO, ma il suo impiego indipendente in caso di crisi fuori area (tipo guerra nel Golfo). Si parte dall’embrione della brigata Franco-Tedesca per dar vita ad una forza militare integrata a quella anglo-italiana e sviluppare una forza di intervento rapido che operi nelle aree di crisi fuori dal territorio NATO.
Infine tutti i paesi membri della CEE dovranno aderire alla UEO (non ne fanno ancora parte Grecia, Danimarca e Irlanda) la quale ingloberà nelle sue attività anche la Norvegia e la Turchia membri della NATO ma non della CEE).
È in questo quadro che lo Stato italiano, in stretto rapporto con gli altri Stati CEE, per coordinare i progetti di integrazione della “difesa europea” e NATO, sta approfondendo la riforma e ristrutturazione delle proprie forze armate.
Con l’elaborazione di un “Nuovo Modello di Difesa” punta ad adeguare il dispiegamento di Esercito, Marina e Aeronautica, della “forza di rapido intervento”, attorno a tre funzioni strategiche:
– la presenza e sorveglianza del territorio in tempo di pace;
– la difesa integrata del territorio in periodi di guerra;
– la proiezione fuori area, cioè la “protezione degli interessi italiani all’estero” e la “protezione della sicurezza internazionale”.
Per l’esercito, il progetto di ristrutturazione prevede la riduzione della componente di leva per arrivare alla costituzione di un esercito professionale forte di 50.000 effettivi, integrato da 80.000 soldati di leva con l’appoggio dell’Arma dei Carabinieri che, oltre alla funzione all’interno delle Forze Armate, ha quella di polizia e sicurezza interna.
Una dottrina che per quanto riguarda il suo ambito territoriale, abbiamo visto all’opera quando hanno scagliato migliaia di soldati di leva a fianco dei Carabinieri contro gli immigrati albanesi a Bari.
La “Forza di Rapido Intervento” in questo quadro è costituita per essere pronta in permanenza ad operare fuori area. L’Italia, inoltre, contribuisce alla Forza di Reazione Rapida della NATO con 5 brigate.
Per la Marina e Aeronautica, nell’ottica di gestione unitaria delle forze e mezzi aeronavali, lo Stato ha articolato un piano di potenziamento per farne una componente integrata con compiti di intervento in tutto il bacino del Mediterraneo e nel Vicino-Medio Oriente in funzione delle necessità di sicurezza e difesa NATO-UEO-nazionali.
Strettamente interessato a questi sviluppi è naturalmente il “complesso militar-industriale” che è da tempo uno degli elementi costitutivi di quella borghesia imperialista che è il motore della formazione del polo imperialista.
Il “mercato unico delle armi” è affidato da tempo al “Gruppo Europeo Indipendente di Programmazione” al quale aderiscono tutti i paesi CEE che fanno parte della NATO. Esso si muove per raggiungere una maggiore efficienza dell’apparato bellico europeo, un aumento della cooperazione del complesso militar-industriale comunitario, la liberalizzazione degli appalti pubblici degli armamenti, la costruzione di consorzi e fusioni tra le maggiori industrie belliche europee. A questo stesso scopo la CEE ha elaborato uno “statuto della compagnia europea” per incoraggiare la costituzione di associazioni internazionali europee di produzione. Attività questa che integra e coordina quella dei singoli paesi europei che finanziano ed incentivano le proprie industrie militari nell’espansione sui mercati internazionali.
È evidente come proprio intorno alla costruzione di una “difesa europea” si darà un enorme sviluppo di questo settore che, come è già accaduto per il complesso militar-industriale negli USA, potrà funzionare come volano nelle economie durante le fasi di crisi.

 

  1. La scomparsa del “bipolarismo” e gli ultimi radicali e repentini mutamenti hanno accelerato l’emergere del polo europeo come un fondamentale soggetto politico del “nuovo ordine mondiale”.
    Al centro di questo complesso movimento, che abbiamo schematicamente delineato, c’è il formarsi di una borghesia multinazionale europea.
    Sono le dinamiche di concentrazione finanziaria, di dislocazione produttiva, l’esigenza di realizzare profitti su tutta l’area europea e in tutte le aree di penetrazione raggiungibili, che spingono i gruppi finanziari e industriali europei a farsi incessantemente promotori della definizione di indirizzi politici omogenei e di strutture economiche, politiche e istituzionali adeguate alla loro traduzione concreta. Politiche che agevolino questi processi di concentrazione, liberalizzino il mercato del lavoro, garantiscono una adeguata politica monetaria, permettano il rilancio dei progetti di Ricerca & Sviluppo comuni, la pianificazione di grandi progetti economici di scala (da quelli del complesso militar-industriale, a quelli della produzione e distribuzione energetica, a quelli delle comunicazioni telematiche, alla costruzione di un sistema integrato di infrastrutture e trasporti).
    È in questo processo che la borghesia multinazionale si rafforza e si riproduce come protagonista del nascente polo imperialista europeo.
    Ma la stessa dinamica di crisi-concentrazione-internazionalizzazione capitalistica che porta alla costituzione e consolidamento di una frazione di borghesia monopolistica multinazionale su scala continentale, e il processo di integrazione/proiezione imperialista che essa promuove, conducono anche, conseguentemente e inevitabilmente alla formazione del soggetto che ad essi è irriducibilmente antagonista: il proletariato metropolitano europeo.
    Concretamente la dimensione continentale dei processi capitalistici determina l’omogenea qualità delle contraddizioni che investono i proletari europei; le caratteristiche del modo di produzione, del livello tecnologico e dell’organizzazione del lavoro sono comuni all’interno dei 12 Stati, e in tendenza in tutta l’area. Le strategie di ristrutturazione, innovazione e dislocazione di interi fondamentali cicli produttivi, la regolazione e composizione della forza-lavoro, dell’esercito industriale di riserva sono concepite e organizzate a livello dell’intero polo europeo. La comune qualità metropolitana dei rapporti sociali e le politiche “neoliberaliste” (incremento dello sfruttamento/marginalizzazione ed emarginazione/taglio delle spese sociali…), rendono sempre più omogenee le contraddizioni vissute da centinaia di milioni di proletari europei.
    Tutto ciò si pone come solida base materiale della costituzione in classe del proletariato metropolitano come soggetto politico omogeneo su scala continentale.
    Ciò non si traduce automaticamente in una già consolidata coscienza di classe dei proletari europei, sebbene questa consapevolezza vada sempre più concretamente crescendo. Significa però che è questo proletariato metropolitano il soggetto politico dello scontro di potere tra le classi in Europa.

 

PER IL COMUNISMO!

«In certi momenti della lotta rivoluzionaria, le difficoltà prevalgono sulle condizioni favorevoli; (…). Tuttavia mediante gli sforzi compiuti dai rivoluzionari le difficoltà sono gradualmente superate, viene creata una nuova situazione vantaggiosa e la situazione sfavorevole cede il posto a quella favorevole.»
(Mao Tse-tung)

 

  1. Come abbiamo visto, il quadro generale dello scontro di questa epoca è segnato in modo determinante dall’accelerarsi della dinamica di integrazione delle economie su scala mondiale per grandi aree regionali, e dall’intensificarsi del movimento di concentrazione dei capitali in grandi oligopoli multinazionali con proiezione planetaria.
    Questi processi avvengono in un contesto, sotto la direzione e con strumenti capitalistici, e perciò non possono che determinare l’esplosione violenta di contraddizioni tra tutto l’arco delle forze coinvolte.
    Non siamo dunque all’inizio di quella “era di pace, sviluppo e stabilità” di cui parla ad ogni piè sospinto la borghesia occidentale.
    Al contrario, conflitti “vecchi” e “nuovi” si vanno velocemente moltiplicando ad ogni livello della formazione sociale capitalistica.
    – Le aree metropolitane del centro imperialista sono attraversate in lungo e in largo da strategie capitalistiche sempre più integrate ed omogenee: la ristrutturazione industriale, la ridefinizione del mercato del lavoro, la deregulation economica e sociale accrescono come non mai la polarizzazione tra ricchezza e povertà, tra sviluppo e sottosviluppo nelle stesse aree, spingendo verso il basso il potere d’acquisto dei salari, aumentando il costo dei servizi e inasprendo in generale le condizioni di vita minime delle classi subalterne?
    In questo contesto saltano rapidamente i livelli di mediazione sociale e si acuiscono le contraddizioni di classe. In tutta Europa il proletariato metropolitano si trova sempre più a scontrarsi in ogni situazione con l’attuale assetto di potere della borghesia imperialista.
    – Il dispiegarsi delle strategie di penetrazione dei monopoli capitalistici occidentali nel Tricontinente genera la marginalizzazione di intere economie preesistenti e la crescente proletarizzazione della maggior parte delle popolazioni in quelle aree, provocandone al contempo la pauperizzazione e affamamento con la distruzione di ogni condizione autonoma di sussistenza.
    La necessità per i poli capitalistici del centri di disporre in permanenza di un esercito industriale di riserva determina una dislocazione della forza-lavoro lungo le direttrici della dinamica di sviluppo e sottosviluppo, con massicci movimenti migratori dalle aree del Tricontinente verso le metropoli del centro. Tutto ciò pone sempre più i popoli del Tricontinente in un rapporto di scontro diretto con la borghesia imperialista.
    – Grandi monopoli multinazionali, blocchi imperialisti, singole nazioni, stanno dando vita ad uno scontro a tutto campo nel quadro della concorrenza/competizione capitalistica per determinare la gerarchia di potere nel sistema imperialista.
    – La borghesia dei centri imperialisti, assillata dall’esigenza di profitto, nella perdurante crisi capitalistica, accresce la propria aggressività sul piano economico in ogni angolo del Tricontinente, togliendo ogni margine di manovra e di esistenza propria alle frazioni d borghesia nazionale che continuano a riprodursi in quelle aree.
    Il riflesso politico di tutto ciò è che esistono oggi ben pochi spazi per politiche e strategie che non siano strettamente subordinate alle necessità del sistema imperialista occidentale. Ne è una diretta conseguenza lo scompaginamento del “campo non allineato” che, nel venir meno dell’equilibrio “bipolare” non ha più trovato un proprio ruolo autonomo, come si è visto molto chiaramente, durante la guerra del Golfo.
    Parliamo di esplosione violenta di contraddizioni perché esse oggi si traducono non solo in termini di distruzione economica, immiserimento, alienazione e oppressione di classe, ma anche – e in questa epoca sempre di più – in concreti processi di guerra. E non è il caso qui di ripercorrere lo stillicidio di guerre “a bassa” o “a media” “intensità” – come le chiamano i boia tecnocrati dell’imperialismo – che in questi ultimi 10 anni hanno preceduto il massacro del popolo iracheno.
    Con questo noi vogliamo mettere in evidenza come oggi meno che mai esista possibilità di uscita da questo quadro di crisi capitalistica, al di fuori di una radicale rottura con l’intero assetto imperialista in ogni area del mondo, e della riaffermazione della prospettiva comunista attraverso la rivoluzione mondiale nella sua forma di guerra di lunga durata.
    La sequenza delle ristrutturazioni innovative della formazione sociale capitalistica hanno proiettato masse crescenti di uomini e donne in una dimensione universale della loro esistenza e della loro lotta, ponendole immediatamente di fronte alla distruttività del capitalismo.
    Questa nuova qualità dello scontro informa il processo rivoluzionario di questa epoca e va affermato dalle forze comuniste per suscitare e connettere energie e tensioni emancipative e di liberazione sociale in ogni area del mondo.

 

  1. I mutamenti in atto nella formazione sociale capitalistica a livello mondiale determinano nuove configurazioni e condizioni dello scontro sul piano generale, con cui da tempo i movimenti e le forze rivoluzionarie si stanno misurando nelle principali realtà di lotta.
    – La fine del “bipolarismo” Est/ovest è uno di questi fattori di mutamento. Da tempo il blocco degli stati ad economia centralizzata aveva cessato di essere punto di riferimento ideologico per i processi rivoluzionari, data la natura di classe che era venuto ad assumere, ma la sua contrapposizione con gli USA aveva di fatto potuto costituire per una lunga fase terreno di sviluppo per numerosi movimenti rivoluzionari e di liberazione soprattutto nel Tricontinente.
    Oggi la realtà delle cose mostra come questo spazio sia venuto meno per tutti.
    Il persistere e il radicalizzarsi della contraddizione di classe tra il proletariato metropolitano e la borghesia imperialista nelle metropoli del centro; il crollo del Patto di Varsavia come sistema politico-militare e lo sviluppo di un aperto scontro di classe tra il proletariato e le frazioni di borghesia negli Stati dell’ex COMECON; i processi di proletarizzazione sempre più accentuati nel Tricontinente, fanno emergere sempre più la contraddizione tra il proletariato internazionale e la borghesia imperialista come il cuore di ogni strategia e prospettiva rivoluzionaria in questa epoca.
    Questo non significa la scomparsa di specificità e caratteristiche peculiari nelle lotte delle varie aree geopolitiche, dovute alle differenze di composizione di classe o ai diversi tempi e forme di esplicitazione delle contraddizioni con la borghesia imperialista.
    Vogliamo però dire che l’elemento strategico su cui i rivoluzionari possono oggi fondare la loro prospettiva è il processo di unità, ricomposizione e costituzione in classe del proletariato internazionale.
    – L’esigenza di concepire e costruire concretamente una nuova dimensione dell’internazionalismo proletario vive da tempo nella prassi delle forze rivoluzionarie più avanzate. Gli sviluppi di questi anni nello scontro generale con il formarsi di aree regionali integrate (come in Europa e in altre parti del mondo); la pressione e l’iniziativa delle potenze imperialiste per subordinare ad esse le aree del Tricontinente, legando così indissolubilmente le sorti del processo rivoluzionario nel centro e nella periferia; l’unitarietà delle strategie capitalistiche che i proletari si trovano a dover fronteggiare in ogni area del mondo e che tende ad omogeneizzarli come classe, danno all’esigenza di un nuovo internazionalismo proletario concrete basi oggettive e un’importanza fondamentale in una prospettiva rivoluzionaria.
    – Nel quadro attuale della crisi capitalistica, la riduzione dei margini di manovra dei capitalisti nella ricerca del profitto e quindi la loro esigenza di invadere sempre più ogni ambito della vita sociale, la dinamica violenta delle contraddizioni che rischiano di mettere in discussione il suo assetto di potere, portano l’imperialismo a scatenare una controrivoluzione dispiegata e preventiva.
    Questo non è certo un dato nuovo. Sono 20 anni che la lotta di classe deve fare i conti con la controrivoluzione preventiva. Ma è evidente che siamo di fronte ad un salto di qualità nelle forme, nell’intensità, negli strumenti messi in campo.
    Dalla crescente militarizzazione del conflitto sociale, determinatasi col restringimento dei margini di compatibilità e mediazione tra proletariato e potere borghese; alla depoliticizzazione, ossia la sistematica opera di svuotamento nei contenuti di classe di ogni movimento o lotta sociale; all’annientamento di ogni movimento o forza di classe che mantenga un’identità antagonista e rompa il quadro di compatibilizzazione sociale.
  1. La prospettiva rivoluzionaria attuale non può fondarsi sull’obiettivo di impedire lo sviluppo dei processi di integrazione e concentrazione capitalistica in atto; essi esprimono la tendenza storica alla mondializzazione delle forze produttive. Per i rivoluzionari si tratta invece di mettersi all’altezza di questa nuova qualità dello scontro; per determinare la rottura di un ordine imperialista che si rivela sempre più come il cappio che soffoca le forze produttive e la dimensione sociale dell’uomo. Costruire dunque le condizioni per distruggere il potere imperialista nelle forme che esso assume in questa epoca.
    Adeguare la progettualità rivoluzionaria a questo livello e con questa qualità, non è un processo semplice né lineare; la complessità e la profondità stesse dei cambiamenti in atto rendono difficile per le avanguardie misurarsi con questo compito. Non è un caso che oggi il dibattito su ciò è tutto aperto. Ma l’esperienza della guerriglia in Europa Occidentale ha già concretamente posto i primi elementi per la necessaria rifondazione della strategia rivoluzionaria.
    Noi pensiamo, con la guerriglia europea, che collocarsi in una prospettiva rivoluzionaria significa sempre costruire ed affermare la pratica di potere proletario al reale livello in cui si giocano i rapporti di potere tra le classi.
    Questo oggi si traduce nel concepire da subito la propria lotta come parte dello scontro rivoluzionario a dimensione internazionale.
    La prospettiva di un processo rivoluzionario nella nostra area, dunque, non può che svilupparsi in riferimento alla costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria del proletariato europeo e della guerriglia europea, in dialettica con i movimenti e i processi rivoluzionari dell’area Mediterraneo-Mediorientale e più in generale del mondo.
    Non solo perché i rivoluzionari oggi devono contrastare una controrivoluzione integrata sul continente europeo. Ma, ancor prima, perché la dinamica della lotta di classe e della composizione del proletariato, strettamente integrate e tendenzialmente omogenee a livello europeo, rendono possibile e necessario porre a questo grado e con questa qualità la dialettica con i movimenti di lotta e resistenza e la costruzione e organizzazione del potere proletario. Perché i processi di concentrazione capitalistica e le interrelazioni tra dimensione nazionale e sovranazionale del sistema di potere imperialista rendono possibile e necessario collocare a questo livello la capacità di disarticolazione.
    Le forze rivoluzionarie oggi si stanno misurando con questi compiti e nodi politici, e con ciò esse partono dai punti più avanzati della loro esperienza di guerriglia e dall’intero percorso del movimento rivoluzionario qui in Europa Occidentale.
    Oggi è il momento di valorizzare pienamente i contenuti che hanno caratterizzato il processo del Fronte Rivoluzionario Antimperialista fin dal suo sorgere e la pratica delle Organizzazioni rivoluzionarie che gli hanno dato vita. E contemporaneamente le molteplici esperienze del movimento di resistenza rivoluzionaria che hanno dimostrato come la nuova qualità dello scontro tra proletariato internazionale e borghesia imperialista possa e debba essere fatta vivere nel quadro allargato delle lotte di massa.
    Unire le diverse lotte del proletariato nel continente e rivolgerle in un’unica strategia contro il potere imperialista, legando lo scontro qui nel centro con le lotte dei proletari e popoli del Tricontinente. Questo è il concetto di fondo che ha caratterizzato la pratica del Fronte.
    È un contenuto vitale perché coglie l’aspetto essenziale dello scontro di potere tra proletariato internazionale e borghesia imperialista in questa epoca: la dimensione internazionale del processo rivoluzionario.

Lottare insieme!

Roma, febbraio 1992

Collettivo comunisti prigionieri Wotta Sitta

Tribunale di Trani, udienza del 22/2/2005. Documento di Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fabio Ravalli, Vincenza Vaccaro allegato agli atti del processo davanti al giudice monocratico

Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione dei Partito Comunista Combattente e militanti rivoluzionari prigionieri ci rapportiamo a questo processo istruito per “apologia sovversiva” dopo il 1999, nella coscienza che l’incriminazione della nostra identità politica è aspetto secondario e strumentale alla funzione che viene assegnata anche a questa “corte monocratica”, quella di essere parte della “stagione processuale” allestita dallo Stato per affidarle, a ridosso delle operazioni antiguerriglia del 2003, un piano di attacco politico al ruolo di direzione che le BR‑PCC svolgono nello scontro nel quadro dell’attività rivoluzionaria che hanno rilanciato per modificare i rapporti di forza a favore del proletariato.

Questo è il piano ricercato dallo Stato a cui ci rapportiamo soggettivamente riqualificando il profilo politico della militanza affinché sia aderente alla ridefinizione dello scontro di classe generale determinato dal rilancio della strategia della LA e forti di come ha spostato la contraddizione rivoluzione/controrivoluzione per parte rivoluzionaria.

D’altra parte, nel lungo corso del nostro processo rivoluzionario lo Stato ha fatto uso di molte stagioni processuali allestite nei momenti politici ad esso più congeniali spesso correlate alla necessità di massimizzare i vantaggi militari ottenuti con le catture e la dispersione delle strutture politico‑organizzative dell’Organizzazione, per gestire i prigionieri nelle aule di tribunale, nell’intento di ricercare un risultato politico da riversare nello scontro rivoluzionario e di classe. Un uso degli ostaggi che rientra nello specifico terreno antiguerriglia praticato dallo Stato, e che fa dei processi una cassa di risonanza volta a propagandare un messaggio di fondo: chi milita nella lotta armata è soggetto esterno alla realtà politico‑sociale del proletariato, tutt’al più bande male in arnese di scarsa affidabilità visto che si fanno catturare, e questo per presentare come impraticabile la strategia proletaria per la conquista dei potere politico e la sua estraneità alle dinamiche dello scontro (i brigatisti sono sempre “infiltrati”, nelle fabbriche, nei sindacati…).

Tentativi propagandistici tanto velleitari quanto inconsistenti se relazionati all’adeguatezza storica della strategia della LA a misurarsi con le forme di dominio della BI, e soprattutto irrealistici in ragione del radicamento della proposta rivoluzionaria nello scontro di classe, prodotto della giustezza verificata dalla prassi della progettualità definita in rapporto alle peculiarità storico politiche dello scontro di classe in Italia, che ha potuto dare risposta ai bisogni politici dell’autonomia proletaria in ogni fase dello scontro, un’internità politica su cui si è affermata la centralità delle BR nella storia dello scontro di potere tra le classi nel nostro paese.

Ma più in generale ciò che lo Stato vuole negare è che dalla classe subalterna sia sorta e sorga la soggettività rivoluzionaria di classe storicamente affermatasi come BR, che combatte lo Stato e l’imperialismo per trasformare i rapporti di forza e con essi affermare l’autonomia politica proletaria per abbattere lo Stato e conquistare il potere politico, per costruire una società comunista. Dev’essere negato cioè che dallo scontro le migliori avanguardie del proletariato possano, in un processo per salti e rotture, emanciparsi a avanguardie comuniste combattenti, com’è dimostrato dall’apporto che deriva dalla classe nella riproducibìlità, ricambio e selezione delle avanguardie rivoluzionarie che prendono posto nello scontro rivoluzionario contribuendo alla sua prosecuzione e alla costruzione del Partito Comunista Combattente.

L’attualità storica dimostra altresì l’inconsistenza di questi inscenamenti processuali e l’aleatorietà degli scopi politici ricercati perché a stabilire ciò che fa testo nella realtà politico‑sociale del paese non è la rappresentazione giudiziaria in cui lo Stato vorrebbe costringerla, ma ciò che avviene fuori da queste aule: a fare testo è l’andamento concreto dello scontro rivoluzionario e di classe nel quale da oltre trent’anni si confrontano la strategia della LA proposta dalle BR alla classe quale risvolto proletario alla crisi e al dominio della BI e la risposta controrivoluzionaria e antiproletaria che lo Stato e la BI attuano per contrastarne l’esistenza e preservare il sistema di potere borghese. E’ questo il nodo che decide dei rapporti di forza e politici tra le classi nella dinamica generale di scontro e con cui lo Stato si è ritrovato a fare i conti a seguito del rilancio della strategia della LA, ed è per questo che ha allestito in gran fretta dopo le operazioni antiguerriglia del 2003 questa stagione processuale che viene assunta dallo Stato a terreno d’elezione dell’attacco politico alle BR‑PCC rispetto a cui nulla è stato trascurato sotto l’attenta regia e coordinamento tra procure e ministero dell’ interno, rivelatrice delle difficoltà dello Stato nel far fronte al riproporsi nello scontro della direzione che le BR‑PCC vi hanno impresso, sapendo per esperienza che a poco serve un mero vantaggio militare se lo scopo è quello di divaricare le istanze di classe dall’opzione rivoluzionaria.

Quello che lo Stato ha di fronte è il peso dominante dei rilancio della strategia della LA nello scontro generale di classe, un peso acquisito perché e in misura di quanto le BR‑PCC hanno inciso sul piano politico dove si ridefiniscono i rapporti tra le classi, per la centralità dei progetti attaccati con le iniziative offensive del ’99 contro M. D’Antona e del 2002 contro M. Biagi mirate ad intervenire nella contraddizione che oppone in questa fase la classe allo Stato, la rimodellazione economico‑sociale e le corrispettive riforme politico‑istituzionale e della forma‑Stato in senso federale; e per la selezione degli obiettivi colpiti in quanto figure garanti sul piano politico-legislativo dell’attuazione delle linee neocorporative proprie a questi progetti; e perciò perno degli equilibri politici a sostegno dell’azione dell’esecutivo, motivo per cui l’attacco ha rotto questi equilibri e, con essi, indebolito gli esecutivi e le loro maggioranze.

Da qui l’incisività nei rapporti di forza delle iniziative offensive con cui le BR‑PCC hanno spostato i rapporti di scontro a favore del proletariato in base a cui hanno potuto svolgere un ruolo di direzione nello scontro generale, in quanto vi hanno fatto pesare gli interessi generali di classe portando su un punto di forza la resistenza proletaria che già si misurava con queste politiche neocorporative, radicalizzando lo scontro e favorendo la tenuta delle sue espressioni di autonomia politica, dandole quel respiro strategico che solo la riproposizione dello scontro sul terreno del potere riesce a caratterizzare, un’incisività politico‑militare che è il prodotto dell’adeguatezza della progettualità e delle linee politico‑programmatiche fatte avanzare dalle BR‑PCC per misurarsi con lo scontro in atto.

Infatti il dato di sostanza che qualifica il rilancio è il suo essere attestazione della risposta rivoluzionaria a quanto la borghesia imperialista e lo Stato avevano conseguito negli anni ’80 e consolidato negli anni ’90 dall’esito del duplice processo controrivoluzionario, tanto come modifica delle condizioni di forza tra Proletariato Internazionale e Borghesia Imperialista (PI/BI) a favore di quest’ultima, per aver conseguito il ridimensionamento del peso della strategia della LA nello scontro di classe e la caduta del Patto di Varsavia che ha ridefinito gli equilibri internazionali a favore della Nato, quanto sul piano interno, per la modifica in senso neocorporativo della mediazione politica tra classe e Stato in base alla strutturazione sul piano politico‑istituzionale del processo di esecutivizzazione, dei “patti sociali” e del maggioritario da cui ne è risultata la mediabilità politica degli interessi proletari solo in quanto parziali e transitori agli interessi della borghesia.

Fattori controrivoluzionari che hanno contrassegnato il mutamento generale della fase storica in rapporto a cui l’avanguardia rivoluzionaria di classe ha costruito le iniziative offensive dei 1999 e dei 2002 misurandosi con i nodi centrali che contrapponevano la classe allo Stato, e affrontando le contraddizioni che questi caratteri dello scontro immettevano nella soggettività rivoluzionaria di classe, anche a fronte della lunga assenza dell’attività combattente delle BR‑PCC. Contesto che si rifletteva in una condizione di difensiva della classe sotto la prolungata offensiva politica degli esecutivi alle condizioni di vita, con il suo portato di arretramento politico della classe e riduzione della tenuta della sua autonomia politica.

Le risposte e risoluzioni prodotte dall’avanguardia rivoluzionaria di classe al quadro di scontro interno e al gravare su di esso dei mutati rapporti tra PI e BI hanno confermato l’adeguatezza della strategia della LA a misurarsi anche con le più dure condizioni di scontro, in forza del principio offensivo che fa della guerriglia il fattore principale di mutamento dei rapporti di forza ed elemento che dinamicizza le potenzialità politiche del proletariato e delle sue istanze autonome, favorendo le rotture soggettive delle avanguardie di classe sulla lotta armata. L’avanguardia rivoluzionaria di classe ha dunque operato alla ricostruzione delle forze per l’offensiva a partire da uno stadio aggregativo delle forze per intervenire offensivamente sui nodi dello scontro, forte dell’assunzione degli avanzamenti prodotti dalle BR‑PCC col riadeguamento che si è dato nella fase di Ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie interna alla Ritirata Strategica, a partire cioè dal rapporto con il livello della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione per com’è stata approfondita per parte rivoluzionaria con il riadeguamento. È ben dentro questa condizione, e in un processo che per salti e rotture ha selezionato le forze militanti complessive del soggetto organizzato che ha agito da Partito per costruire il Partito, che l’avanguardia rivoluzionaria ha affermato nello scontro la dinamica di attacco‑costruzione‑nuovo attacco che ha inficiato gli equilibri politici a sostegno dei progetti neocorporativi centralmente contrapposti alla classe, e precisato gli indirizzi della fase di Ricostruzione con la definizione dello Stadio Aggregativo.

Rilancio delle iniziative offensive in dialettica con la resistenza di classe che ha costituito il solo, reale ostacolo ai processi di riorganizzazione delle relazioni tra le classi facenti perno sulla generalizzazione della flessibilità del mercato dei lavoro e della forza‑lavoro funzionale ai livelli di sfruttamento relativi al modello produttivo flessibile, quale terreno che punta a sterilizzare a monte il formarsi del conflitto per il recupero dei profitti e per sostenere l’accumulazione del capitale monopolistico nella dimensione internazionalizzata dei mercati e della concorrenza, e nel contempo per stabilizzare la subalternità del proletariato quale sostanza della “democrazia governante”, atta a garantire quella base politica interna affinché lo Stato assuma ruolo sul piano internazionale, oggi dentro le linee guerrafondaie e controrivoluzionarie capeggiate dagli USA.

L’intervento sul piano della guerra delle BR‑PCC su questo nodo dello scontro classe/Stato è ciò che ha aperto un varco offensivo nella difensiva di classe, costituendo il baricentro che influenza i movimenti reali che nella classe maturano la resistenza che si oppone allo Stato e alla borghesia per contrastare le politiche di impoverimento e sfruttamento che vengono imposte dalle linee neocorporative. Al contempo, sul terreno della costruzione che segue l’attacco indirizza e organizza sul principio della centralizzazione politica la disposizione delle forze militanti, dentro l’affrontamento della contraddizione costruzione/formazione, sugli obiettivi programmatici e sui compiti di fase, nonché sviluppa e organizza il rapporto con le avanguardie di classe che si sono fatte carico dello scontro con lo Stato e l’imperialismo sul terreno strategico della LA.

Un esercizio di direzione che trae la sua forza e ruolo generale nello scontro di classe da come il rilancio ha modificato la contraddizione rivoluzione/controrivoluzione per parte rivoluzionaria, attestando l’avanzamento allo scontro in atto della progettualità complessiva dell’impianto politico e strategico operato in continuità‑critica­-sviluppo con il patrimonio storico delle BR. Attestazioni che nella complessa trasformazione dello scontro di classe in guerra di classe hanno contribuito sostanzialmente alla costruzione del PCC.

È in relazione a questo quadro di scontro ridefinito dalla prassi combattente e all’indiscutibile influenza politica che ha il peso del rilancio nei rapporti di classe che si pone allo Stato un problema di adeguamento della sua risposta controrivoluzionaria volta a divaricare la classe dalla proposta rivoluzionaria, nonostante l’esperienza indichi che un vantaggio militare e l’utilizzo del solo piano antiguerriglia non possono tradursi in un inficiamento politico dell’opzione rivoluzionaria e della sua riproducibilità. Un adeguamento alla contraddizione rivoluzione/controrivoluzione, quello dello Stato, a tutt’oggi palesemente contraddittorio e che, nella difficoltà di avvalersi di un piano politico più ampio per neutralizzare le spinte antagoniste, sbocca nella scelta repressiva attivata per criminalizzare e accerchiare la resistenza di classe con il pieno coinvolgimento dei sindacati confederali sulla linea del ministero dell’ interno. Una scelta di breve respiro a fronte di un contesto politico che risente della crisi delle relazioni neocorporative, lacerate dalle iniziative offensive delle BR‑PCC, relazioni che perciò stentano a supportare il ruolo del sindacato confederale nell’opera antiproletaria di composizione corporativa del conflitto, opera resa ancor più difficoltosa dalla crisi di rappresentatività in cui versano i vertici del sindacato confederale, tenuto conto di come nell’acutizzarsi della crisi economica si siano ampiamente ridotti i margini di negoziazione su cui si formano gli equilibri sociali a sostegno di quelli politico‑istituzionali e su cui il sindacato confederale svolge il suo ruolo di affiancamento dell’azione dell’esecutivo e della politica dello Stato in generale, a partire dagli interventi tesi a depotenziare i momenti di politicizzazione dello scontro per accerchiare l’autonomia di classe e ricondurre il conflitto entro i canali neocorporativi legittimanti la democrazia governante.

Ciò che oggi prevale, cioè, è l’attacco criminalizzante a carattere preventivo anche del dissenso di classe, per indurre il proletariato ad arretrare e a retrocedere dalle sue istanze di resistenza, stante anche le spinte all’innalzamento dello scontro operate in questa fase dall’esecutivo di centrodestra, che forza il conflitto avvalendosi delle dinamiche proprie a una mediazione politica neocorporativa che incanala il proletariato e le sue istanze nella composizione di interessi transitori e particolari su quelli generali della borghesia imperialista per sostenere il governo dell’economia e del conflitto. Una mediabilità però sempre più ridotta nei suoi margini per la scelta dell’esecutivo Berlusconi di legiferare a colpi di maggioranza, pressato dalle spinte della borghesia per far marciare i programmi antiproletari nonché per la partecipazione dell’Italia alle campagne di guerra e controrivoluzione capeggiate dagli anglo‑americani.

Nel contesto di questa acclarata difficoltà dello Stato ad avvalersi di interventi complessivi tesi ad inibire la coniugazione delle istanze di classe con la proposta rivoluzionaria, e del dato che di fronte alla strategia della LA lo Stato è sempre in difensiva, esso intende fare di questa stagione processuale il principale terreno di attacco politico al ruolo di direzione delle BR‑PCC, dandogli una specifica valenza nella linea antiguerriglia sviluppata dagli anni ’90, una scelta velleitaria che presupporrebbe la possibilità di poter gravare in termini di demoralizzazione sulla classe e sulle sue avanguardie attraverso l’azione deterrente operata nelle aule “di giustizia”!

A questo fine ha voluto utilizzare l’insieme dei prigionieri ostaggi nelle sue mani, portando nuovamente “alla sbarra” anche i prigionieri “storici” che si sono schierati col rilancio rivendicandolo e sostenendo l’Organizzazione, per esporli come una sorta di contrappeso a quanto subito sul piano della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione. Un inscenamento processuale nel quale lo Stato vuole evidenziare la ripuntualizzazione dei termini di scontro con i prigionieri politici, rispetto ai quali ostenta, appena mascherato dalle forme giuridiche, il rapporto di guerra che vuole far corrispondere al livello di scontro modificato dall’attività rivoluzionaria, esplicitando e rivendicando il trattamento dei prigionieri per la loro identità politica, di militanti rivoluzionari e di Partito, e non per i reati contestati loro, irrilevanti allo scopo di far risaltare il potere sanzionatorio dello Stato. Sotto questo profilo i processi ai prigionieri recentemente catturati e quelli istruiti per i prigionieri “storici” hanno per lo Stato la stessa funzione e la medesima valenza, e dunque anche quello celebrato in quest’aula si colloca a pieno titolo sulla linea antiguerriglia stabilita dallo Stato, interna al più generale terreno controrivoluzionario che matura nei rapporti di scontro.

Ma la storia dimostra che avvalersi del fianco debole della guerriglia ‑ la sua parte caduta ‑ è un piano intrinsecamente fallimentare e perciò stesso destinato a ridursi a effimera manifestazione di autolegittimazione del potere della borghesia tramite le corti dei suoi tribunali, a causa della contraddizione propria all’uso dei prigionieri, infatti se è vero che sono ostaggi nelle sue mani, allo stesso tempo sono, nel mantenimento dell’identità politica, figure pubbliche della rivoluzione, e dunque la presenza dei militanti rivoluzionari e di Partito ai processi è rivendicazione dei contenuti rivoluzionari sviluppati dalla prassi combattente, è riconduzione nelle aule processuali dei termini reali dello scontro rivoluzionario e di classe, è negazione della formalità del rito, specie nella funzione tendente alla neutralizzazione della politicità dei prigionieri e dell’oggetto del processo, è infine non riconoscimento della legittimità dello Stato tramite le sue corti a giudicare i militanti della guerriglia e con essi il processo rivoluzionario.

È questo il riflesso nei processi politici del carattere offensivo della strategia della LA, che ha portato a superamento la “difesa politica” della fase storica passata. Da qui la contraddittorietà per lo Stato nel gestire i processi politici, in quanto l’espressione dell’identità politica dei militanti della guerriglia prigionieri impone il capovolgimento delle parti in causa quale portato della rappresentazione del contenuto di potere che le BR‑PCC fanno vivere in ogni momento dello scontro come risvolto dello sviluppo della prassi rivoluzionaria nell’unità del politico e del militare, un contenuto che ribalta nel suo contrario la funzione affidata al processo penale di tribuna legittimante il potere sanzionatorio dello Stato. Ed essendo il processo un momento, seppur particolare, dello scontro che si gioca fuori da quelle aule, per i militanti della guerriglia prigionieri si tratta di affermare il senso storico‑concreto della linea politico‑programmatica della prassi combattente, nonché la prefigurazione della finalità strategica che lo scontro di potere va costruendo: l’abbattimento dello Stato della borghesia e la conquista del potere politico proletario per costruire una società comunista.

Per questa ragione come militanti rivoluzionari e militanti d’Organizzazione non riconosciamo a questo tribunale alcuna legittimità a giudicarci, delle nostre azioni rispondiamo alle BR‑PCC e al proletariato di cui sono la direzione rivoluzionaria. Di conseguenza, non avendo nulla da cui difenderci, revochiamo il mandato ai difensori di fiducia e diffidiamo chiunque altro a “difenderci” al loro posto.

‑ LA RIVOLUZIONE NON SI PROCESSA!

‑ W LA STRATEGIA DELLA LOTTA ARMATA!

‑ W LA RESISTENZA NAZIONALE IRAQENA, PALESTINESE E LIBANESE!

– ONORE AL COMPAGNO MARIO GALESI, CADUTO COMBATTENDO PER IL COMUNISMO!

– ONORE A TUTTI 1 RIVOLUZIONARI E ANTIMPERIALISTI CADUTI!

– PROLETARI DI TUTTO IL MONDO, UNIAMOCI!

Trani, 22 febbraio 2005

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fabio Ravalli
La militante rivoluzionaria Vincenza Vaccaro