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I COMPAGNI NON DIMENTICANO! 3 maggio 1972 – 31 marzo 1977

Cinque anni fa veniva assassinato a Pisa il compagno anarchico Franco Serantini. Fu il primo risultato delle elezioni in corso nel paese e fu la conferma che il regime democristiano era deciso a mantenere il potere ed a difendere gli interessi dei padroni sparando su chiunque intendesse opporsi. Dopo i morti di Avola e Battipaglia del 1969, è stato tutto un susseguirsi di assassinii e di stragi di Stato, come risposta al bisogno di comunismo e di libertà di tutti i lavoratori. In questi ultimi sette anni è nato un grosso potenziale rivoluzionario, che partendo dai bisogni reali, e stufo di ogni compromesso, ha messo sotto accusa non solo i padroni e lo Stato ma anche la sinistra tradizionale che, nei fatti si è dimostrata uno strumento mediatore dei conflitti di classe funzionale alla sopravvivenza ed alla crescita del sistema capitalista. I compagni hanno capito che l’antifascismo si fa in piazza e non nelle parate degli anniversari; che la lotta di classe non può essere esercitata nei patteggiamenti tra padronato e strutture legali come i C. di F. [Comitati di Fabbrica], ma nelle assemblee di reparto e di fabbrica; che ciò che conta non è il trasformismo politico ma le rivoluzioni economiche; che la giustizia popolare non può e non potrà mai esprimersi ed esercitarsi con codici e tribunali ma con l’azione diretta; che lo Stato ed i padroni difendono i loro interessi di classe con le armi in pugno e quindi occorre darsi degli strumenti e delle strutture idonee ad imporre il nostro programma rivoluzionario; che la maniera più coerente per celebrare i morti del 1° maggio 1887, come il 5 maggio 1972, sarebbe stato quello di far pagare i responsabili, trasformando una giornata di lutto e di piagnisteo, in una giornata di festa, di autentica gioia rivoluzionaria. Questo 5 maggio 1977 resterà una giornata fondamentale per il movimento rivoluzionario, perché una sua avanguardia ha saputo dare una precisa indicazione di lotta.
L’azione portata a termine dai compagni che hanno colpito Mammoli non è un episodio di stupida vendetta, come l’ha voluta siglare qualche giornalista, ma è traboccante di significato politico. Mammoli poteva salvare Franco dopo il pestaggio poliziesco e non lo ha fatto per un cinico calcolo politico, per una precisa scelta di classe, riconfermando anche in questo caso la condotta tenuta in tante altre occasioni di fronte a compagni detenuti (nelle galere si è brindato quando è arrivata la notizia che era stato colpito). Mammoli non è soltanto il medico che per negligenza ha lasciato agonizzare Franco per 32 ore, mentre goccia dopo goccia il sangue gli riempiva la scatola cranica fino a schiacciare il cervello; Mammoli è un simbolo, un’istituzione, un anello del sistema carcerario e la sua condotta “non si discosta da quella di altri medici delle carceri italiane” che archiviano con poche parole la morte di un compagno. La figura ed il comportamento di Mammoli riportano alla memoria tanti altri squallidi personaggi: il direttore del carcere di Pisa che cercò di far seppellire Franco in fretta e furia; il magistrato “progressista” Sellaroli che interrogò Franco sorretto da due sbirri e non si preoccupò di farlo ricoverare; il “grande inquisitore” Calamari che avocò l’inchiesta per insabbiarla; il capitano di P.S. Albini che arrestò Franco dopo averne ordinato il linciaggio; il giudice Angelo Nicastro che ha mandato assolto Mammoli. Non ci lasciamo però sviare da questi nomi, non è su loro soltanto che deve fermarsi la nostra attenzione, perché di Mammoli, di Calamari, di sbirri graduati e di magistrati ce ne sono a centinaia in Italia, cinici e determinati quanto loro: ed è questo cupo mosaico l’immagine bieca dello Stato.
L’UNICA GIUSTIZIA È QUELLA PROLETARIA
5 maggio 1972 – ore 20
Pisa – Lungarno Gambacorti: 10 sbirri della P.S., agli ordini del capitano Albini, linciano Franco Serantini, nato a Cagliari il 16 luglio 1951. Viene arrestato dal commissario Pironomonte e dal cap. Albini e condotto al carcere Don Bosco.
6 maggio 1972 – ore 12,30
Serantini sorretto da 2 guardie viene condotto in un ufficio del carcere per essere interrogato dal sostituto procuratore della repubblica, Giovanni Sellaroli.
6 maggio 1972 – ore 16,30
Il medico del carcere, dottor Alberto Mammoli, visita Serantini e annota: “Ecchimosi palpebra sinistra; numerose contusioni in parte escoriate al dorso, braccia ed arti inferiori; stato di shock; Sympatol-cortigen-borsa di ghiaccio in permanenza”.
7 maggio 1972 – ore 9,45
Dopo 32 ore di agonia, tra sofferenze atroci, muore il compagno anarchico Franco Serantini. Il certificato del dottor Alberto Mammoli parla di “emorragia cerebrale”. Si cerca di far sparire il cadavere in fretta e furia.
7 maggio 1972 – ore 16,30
Il direttore del carcere Don Bosco di Pisa, manda in Comune un funzionario col certificato di morte firmato dal Mammoli, per chiedere di seppellire Franco. L’impiegato di servizio rifiuta di firmare l’autorizzazione. Alle ore 17,30 la Direzione del carcere sollecita l’autorizzazione.
12 maggio 1972
Il “governatore della Toscana”, Procuratore Generale della Repubblica, Mario Calamari, avoca a sé l’inchiesta giudiziaria ed il Magistrato Sellaroli si guarda bene di formalizzare il processo per impedire il trasferimento a Firenze dell’inchiesta.
12 giugno 1972
Il giudice istruttore di “Magistratura Democratica”, Paolo Funaioli, deposita la sentenza istruttoria che fa seguito alla sua indagine. Le interpellanze ed interrogazioni parlamentari si contano a decine; qualcuno si costituisce parte civile; gli articoli su giornali e riviste della sinistra sono la copertura democratica del sistema.
5 ottobre 1972
Il giudice istruttore Paolo Funaioli, sgradito a Calamari per la sua inchiesta che porterebbe ad inchiodare alle loro responsabilità il medico del carcere, dott. Mammoli, ed il cap. di P.S. Albini, viene trasferito dal tribunale penale al civile.
25 ottobre 1972
Viene depositata la perizia medico-legale mentre continua il conflitto tra Calamari ed i giudici di Pisa.
30 novembre 1972
Il dott. Alberto Mammoli, medico del carcere di Pisa, viene rinviato a giudizio per omicidio colposo. Nel frattempo il commissario Pironomonte dà le dimissioni dalla polizia perché è rimasto schifato dal suo mestiere di boia, ma non fornisce i nomi degli sbirri che hanno massacrato Franco.
2 maggio 1973
Il Consiglio superiore della Magistratura respinge la proposta di Calamari e conferma il giudice Funaioli al suo incarico.
21 maggio 1973
Il P.G. Calamari chiede al giudice istruttore Funaioli il proscioglimento degli sbirri “per essere rimasti ignoti” e del dott. Mammoli, “perché il fatto non costituisce reato”.
14 settembre 1973
Dopo tutta una serie di conflitti tra Calamari e Funaioli, il giudice pisano chiede il rinvio a giudizio, per “falsa testimonianza”, del cap. Albini ed altri graduati che nascondono i nomi dei carnefici di Franco.
1° gennaio 1974
Il giudice Funaioli chiede “spontaneamente” di declinare il suo incarico. Se ne occuperà il giudice Angelo Nicastro.
23 aprile 1975
Il giudice Angelo Nicastro concorda con Calamari nel non dover procedere contro il dott. Mammoli “per non aver commesso il fatto” e si limita a rinviare a giudizio il cap. Albini e la guardia di P.S. Colantoni, per falsa testimonianza.
1° ottobre 1975
Il pretore condanna i due sbirri a sei mesi con beneficio della condizionale.
1° Febbraio 1977
Processo di Appello. Il cap. Albini e la guardia di P.S. Colantoni vengono assolti.
31 marzo 1977 – ore 8
Dopo le sentenze della giustizia borghese, è arrivata quella proletaria. La giustizia ha fatto il suo corso. Il “caso Serantini sembrava chiuso”, scriverà “Paese Sera”.

UN COMPORTAMENTO INGIUSTIFICABILE
Stralci delle “Osservazioni dei consulenti della parte civile, Prof. F. Durante e M. Margnelli, alla relazione dei periti d’ufficio, sulla morte di Franco Serantini” (questa relazione è corredata da ben 55 fotografie eseguite sul cadavere di Franco e testimoniano altrettanti punti della testa e del tronco colpito dai calci dei fucili e degli scarponi degli sbirri; la relazione venne depositata il 9 novembre 1972):
«… Le altre lesioni possono aver concorso ad accelerare il decorso clinico e quindi l’exitus (la morte), ma nessun dubbio abbiamo che la causa principale sia stata l’emorragia intracranica.
«… per consuetudine universale i traumatizzati cranici vengono tenuti in osservazione ospedaliera per 48 ore e trasferiti in ambiente specialistico non appena uno solo di questi sintomi si manifesta.
«… per un medico, nelle circostanze in cui si trovava il Serantini, il torpore del paziente avrebbe dovuto costituire un sintomo certo di allarme.
«… se il Serantini fosse stato sottoposto subito a visita medica quando egli stesso accusò durante l’interrogatorio del 6 maggio, “forti dolori di capo” e fu visto chiaramente sofferente, tanto che gli fu offerta una sedia da un agente di custodia, si sarebbero potuti evidenziare alcuni dei sintomi caratteristici prima indicati e certamente un intervento chirurgico avrebbe avuto il massimo della probabilità di riuscita.
«… perché non si trasferì la responsabilità ad un ambiente qualificato, quale risulta, fra l’altro, essere addirittura ospitato nel carcere stesso o nel vicino centro chirurgico ospedaliero?.
«Sostanzialmente la condotta del dott. Mammoli è ingiustificata ed ingiustificabile… In realtà il sanitario non solo tenne in scarsissimo conto i segni esterni facilmente visibili, ma abbiamo fondato sospetto che non abbia nemmeno eseguito rilievi clinici semplici come la misurazione della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca, della temperatura corporea, del diametro pupillare, della reattività pupillare alla luce che, come già specificato, avrebbero dovuto essere in quel momento molto eloquenti sul reale stato di salute del Serantini».

TESTO DELLA RIVENDICAZIONE DELL’AZIONE RIVOLUZIONARIA GIUSTIZIA PER FRANCO SERANTINI
Franco Serantini, nel 1972, venne linciato dalla P.S. e lasciato agonizzare fino alla morte dal Dott. Mammoli, perché colpevole di antifascismo. Mammoli non è stato eliminato perché altri sono colpevoli quanto lui, ma è corresponsabile politicamente, umanamente e professionalmente dell’assassinio dell’anarchico Serantini. Questo comportamento non si discosta da quello di altri medici nelle carceri italiane.

COMUNICATO DELL’ARAF [AZIONE RIVOLUZIONARIA AUTONOMIA FEMMINISTA]

L’aborto libero e gratuito è un obiettivo politico che le masse popolari femminili hanno inserito nell’ambito di una finalità rivoluzionaria assai più ampia: quella della liberazione delle masse popolari.
La condizione di subordinazione totale a cui è soggetta la donna è frutto di una società i cui essenziali valori strutturali sono il potere ed il profitto; intendendo questi due termini nel loro senso più totale e profondo. La discriminazione sessista è discriminazione razziale e classista e queste a loro volta agiscono sulle masse popolari in maniera onnicomprensiva e totalizzante. Donne, negri, prostitute, omosessuali, proletari, detenuti sono i nostri alleati politici.
La normativa parlamentare che regola l’aborto è stata uno squallido spettacolo della cricca padronale e social-riformista che agiscono attraverso i partiti legalitari.
Con l’approvazione degli articoli 2 e 5 la donna non ha il diritto di gestire in maniera completamente autonoma il proprio corpo e la propria vita. Con l’introduzione di emendamenti straccioni non si è minimamente toccato la sostanza della legge liberticida. L’articolo 5 bis, infatti, allarga la responsabilità della donna, ma l’autodeterminazione è negata e spetta al medico la decisione se la donna debba o non debba abortire. Pertanto si sono provocatoriamente create confusioni giuridiche e politiche. Autoresponsabilità non significa autodeterminazione. Il significato legiferante dell’autoresponsabilità consiste in una sottile manovra repressiva per cui la donna diventa poliziotto di se stessa.
Il medico-poliziotto dovrà indagare su un campo economico e sociale che è assolutamente estraneo alla sua presunta competenza di sanitario. Ecco quindi che il medico, reso pubblico ufficiale, diventa anello della catena repressiva dello Stato di polizia.
La celerità con cui il problema dell’aborto è emerso a livello politico culturale, sociale non è ascrivibile alla maggiore sollecitudine delle centrali politiche di potere, bensì alla decisa, cosciente, combattiva posizione assunta dalle masse femminili e dall’autonomia femminista che hanno costretto e inciso in maniera estremamente volitiva sull’acquiescente, abulica, reazionaria politica patriarcale. Sono le donne che hanno dato la sveglia al chiuso e bigotto mondo delle sezioni e delle commissioni di partito, provocando e mettendo in luce i torbidi intrallazzi di potere riscontrabili nelle alleanze opportunistiche fra partiti borghesi, sempre pronti ad unirsi di fronte al “pericolo” rivoluzionario, usando l’arma della dittatura fascista.
In questa ottica va vista l’alleanza DC-PCI-MSI volta a negare l’autodeterminazione politica, psicologica, fisica della donna. La spersonalizzazione operata dal sistema di profitto e di potere è ormai giunta a livelli nazisti: le donne, le masse popolari sono state derubate anche dell’ultima, inalienabile proprietà: quella del loro corpo.
ALL’ATTACCO PER LA CRESCITA DELL’AUTONOMIA FEMMINISTA.

Rivendicazione dell’attacco alla sede delle Edizioni Paoline

Con l’attacco alla sede delle Edizioni Paoline, rappresentanti il braccio culturale della setta vaticana, legata alla CIA e alle multinazionali americane, le forze rivoluzionarie femministe e proletarie hanno colpito un centro della loro oppressione millenaria.

Lo scontro generalizzato messo in atto dalle forze capitalistiche contro il proletariato, si è espresso anche attraverso la recrudescenza di una morale ultrarepressiva, propugnata nel documento sul sesso emesso dalle centrali pontificie e rifacentesi a testi pubblicati e divulgati dalle Edizioni Paoline.

Inoltre alla riuscita manovra parlamentare clerical-fascista di confermare l’aborto come reato e quindi di incrementare la piaga degli aborti clandestini, con cui i baroni della medicina borghese e antifemminista fanno vera e propria incetta di ricchezza sulla pelle di migliaia e migliaia di donne, le forze rivoluzionarie femministe rispondono con la propaganda e il sostegno alla lotta armata, per la loro liberazione.

Roma, 1977

Attaccare il cuore dello Stato attaccare le politiche centrali dell’imperialismo. Tribunale di Cuneo – Comunicato presentato il 18 dicembre 1990 dai militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

La nostra presenza in questo processo, come militanti delle BR-pcc prigionieri, si snoda essenzialmente su due elementi: la collocazione politica del “provvedimento coattivo” disposto contro di noi dalla magistratura e attuato dai carabinieri e guardie carcerarie nel maggio-giugno ’89 e, in relazione, la responsabilità che ci siamo assunti nel comportamento di resistenza attiva da noi opposto; il sostegno alla linea politica e all’attività di combattimento della nostra organizzazione.

Il provvedimento si inseriva in particolare nell’ambito della gestione, centralizzata a livello politico, dell’istruttoria-processo per l’azione della nostra organizzazione contro il senatore DC Roberto Ruffilli.

Una gestione politica tesa principalmente al ridimensionamento e spoliticizzazione dell’attacco portato al cuore dello Stato, nel tentativo di presentarlo come attività priva di progettualità politica e legittimità storica, negando così anche la contraddizione rappresentata dal processo stesso per lo Stato e in particolare per la DC; secondariamente come pressione sui militanti ostaggi nei diversi carceri.

Come militanti comunisti il nostro rapporto con lo Stato è un rapporto di guerra; siamo nemici politici e combattenti nemici. Di conseguenza ci opponiamo a ogni tentativo di criminalizzazione dell’attività combattente della nostra organizzazione, a ogni collaborazione e dunque anche all’“acquisizione di prove”.

Perciò, quando l’acquisizione di prove è stata disposta di forza, con le aggressioni alla nostra integrità fisica, altrettanto conseguentemente abbiamo organizzato e attuato la resistenza possibile nelle diverse situazioni.

Qui, abbiamo valutato possibile e necessario resistere attivamente nei diversi momenti di conflitto che abbiamo attuato, e dei quali ci assumiamo tutta la responsabilità politica.

La nostra condotta in questa occasione, e per quanto ci è possibile sempre, non risponde a una logica “carceraria“ di prigionieri, ma si riconduce prima a una logica di militanti, consapevole dell’estrema parzialità della condizione di prigionia e che implica una dimensione politica e strategica d’organizzazione, di partito, una dimensione collettiva dell’attività rivoluzionaria che perciò non parte dal carcere né ruota attorno a esso.

I prigionieri come tali non possono realmente essere soggetto politico autonomo: coltivare illusioni su ciò sarebbe l’opposto di uno sviluppo di soggettività rivoluzionaria, sarebbe stare del tutto al di sotto delle necessità imposte dal livello raggiunto dallo scontro. Impadronirsi politicamente e teoricamente delle dinamiche oggettive e non-aggirabili di sviluppo del processo rivoluzionario, che danno centralità alla guerriglia nel suo insieme – della quale i prigionieri sono solo la parte caduta – e che pongono il baricentro sempre nella guerriglia in attività è la condizione per sviluppare una condotta il più possibile coerente nel quadro della guerriglia, stando in questa situazione.

Partire dalla guerriglia come organismo, soggettività organizzata e strutturata a livello collettivo secondo un programma, un progetto strategico, un piano di conduzione dello scontro generale è dunque il solo modo non dispersivo ma produttivo in termini rivoluzionari di collocare la propria militanza reale; i prigionieri non sono niente se non conservano quel superamento che ogni proletario opera nell’aderire alla guerriglia, dove egli non è più l’operaio, il proletario, né tanto meno… il prigioniero, ma si ricompone come uomo nel collettivo che combatte: diventa, da ribelle, rivoluzionario – un militante, un comunista. In questa logica essere prigionieri indica solo il luogo fisico e politico in cui i militanti si possono trovare, e che impone il ruolo disciplinato che è loro proprio nel quadro della condizione generale dello scontro.

I militanti nelle mani del nemico non possono che essere sempre, nel conflitto generale, il fianco materialmente più debole del movimento rivoluzionario: lo sviluppo del processo rivoluzionario non può che decidersi sempre fuori, nel centro dello scontro reale, al livello imposto dallo sviluppo storico.

Questa concezione che ha informato e informa la nostra condotta in questi anni è stata per noi una conquista politica dell’esperienza nel confronto generale con la controrivoluzione, secondariamente con l’attività antiguerriglia rispetto al carcere.

Questo è valido a tutti i gradi del conflitto poiché sin dall’inizio l’organizzazione combattente agisce in un rapporto di guerra, e solo secondo queste leggi si può dare attività rivoluzionaria reale, produttiva, efficace del partito combattente. Lo sviluppo della guerriglia si dà nell’attacco pratico, nella capacità politica e pratica di costruirlo, nei colpi – anche – che inevitabilmente si subiscono, nella ricostruzione di nuova capacità d’attacco; così ancora si sbaglia, ma questa prassi, come è stato in tutto il nostro percorso storico, via via si precisa, cresce e in questa prassi si costruiscono i termini della guerra di classe.

Queste leggi valgono anche e particolarmente in carcere: qui, solo dentro questa disciplina – che è un’arma: lo strumento che lega alla lotta generale – è praticabile una condotta che sia organica allo sviluppo rivoluzionario complessivo, ed è anche questo il significato, l’utilità pratica, la continuità e il senso della militanza, anche nelle mani del nemico.

Solo così anche la oggettivamente limitatissima “prassi” dei militanti prigionieri smette di essere un dimenarsi, un attivismo di settore, di “categoria”, e anche le parole smettono di essere lamenti, “parole urlate” per diventare, nei loro limiti, cristallizzazioni più o meno grezze di esperienza effettiva, la quale non è “dei prigionieri”, ma dell’insieme del partito, della guerriglia. Soltanto così si può dare capacità di crescere, di imparare dallo sviluppo pratico di cui si è parte.

Ecco perché per noi, identità, militanza, prassi rivoluzionaria non è una “nostra prassi di prigionieri”, ma la prassi autentica: l’attività rivoluzionaria pratico-critica dell’organismo rivoluzionario che è il partito in costruzione, organismo nel quale noi, ogni militante, siamo soltanto un elemento, una parte – nostro ruolo è essere funzionali al processo della guerra di classe.

Questa logica, di partito, sta alla base della nostra condotta anche in questa particolare occasione.

Le Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente si sono conquistate una legittimità storica, politica, teorica a prendere la parola sul carattere attuale dello scontro di classe formandosi concretamente come parte attiva di questo scontro e sua direzione rivoluzionaria.

Il contesto storico dello sviluppo della lotta armata per il comunismo nei paesi del centro imperialista è caratterizzato dai mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo ha determinato con il secondo conflitto mondiale sul piano economico-sociale e storico-politico.

La divisione del mondo in “sfere di influenza”, Est/Ovest, vede il capitale, alla cui testa sono gli USA, nella necessità di assestare gli equilibri a suo favore. La controrivoluzione imperialista nel secondo dopoguerra è la risposta alla stabilizzazione della rottura rivoluzionaria dell’Unione sovietica, ai processi rivoluzionari decisi in Est-Europa dal nuovo equilibrio internazionale e alla necessità di stabilizzare la pacificazione dell’Europa attraversata dai risvolti rivoluzionari formatisi durante il conflitto – ciò anche a fronte dello sviluppo dei processi rivoluzionari nel mondo.

La crisi del 1929, con le politiche delle infrastrutture, del riarmo e lo sforzo bellico avevano innestato sia nei paesi vinti che in quelli vincitori, in special modo negli USA, un processo di sviluppo monopolistico. Per parte USA, l’enorme capacità produttiva sviluppata nello sforzo bellico richiedeva partner solvibili, pena la crisi economica immediata. Perciò, controrivoluzione imperialista e “piano Marshall” furono due facce della stessa medaglia con le quali fu normalizzata l’Europa, a partire dal punto critico costituito dalla Repubblica Federale Tedesca.

Il piano di internazionalizzazione e interdipendenza delle economie che ne seguì ha dato luogo ad un processo di polarizzazione tra le classi con la proletarizzazione di vasti strati della società, al formarsi di una frazione di borghesia imperialista aggregata al capitale finanziario USA – quest’ultimo si è innervato nella composizione dei gruppi monopolistici dominanti all’interno della catena imperialista -, e nel contempo al formarsi del proletariato metropolitano.

Come riflesso sovrastrutturale a questa fase dell’imperialismo, la democrazia parlamentare moderna assume il ruolo di rappresentare e portare avanti gli interessi della frazione dominante di borghesia imperialista.

Dal punto di vista economico si affina, data la conoscenza acquisita, la capacità di gestione e di governo dell’economia attraverso politiche economiche di supporto che, nella fase della crisi generale di valorizzazione assumono carattere controtendenziale, intervenendo per attutire gli effetti negativi della crisi dal momento che non possono agire sulle cause, che sono strutturali.

Dal punto di vista politico ancora di più si esalta il ruolo che lo Stato assume in riferimento all’antagonismo inconciliabile tra le classi. A partire dai rapporti di forza generali tra le classi che caratterizzano il quadro di scontro nel dopoguerra, la democrazia rappresentativa si organizza in modo tale da farsi carico del controllo e del governo del conflitto di classe superando il carattere essenzialmente repressivo che aveva informato la Stato fascista anteguerra, per servirsi delle istituzioni democratiche come ambito politico in cui convogliare e compatibilizzare le spinte e le tensioni antagonistiche che si riproducono nel paese, le quali, incanalate dentro le gabbie istituzionali, vengono svuotate di ogni contenuto destabilizzante per non farle collimare con il piano rivoluzionario. Partiti, sindacati, organismi politici istituzionali vengono delegati a “rappresentare” la classe e diventano l’unica “controparte” legittima in quanto strutturalmente lealista alle istituzioni democratiche e agli interessi della borghesia imperialista. La democrazia parlamentare ingloba così la nuova qualità della controrivoluzione imperialista, cristallizzandosi in quella che definiamo appunto “controrivoluzione preventiva”.

Nel quadro di queste modificazioni la strategia insurrezionalista (politica dei due tempi, doppio livello, ecc.) che aveva caratterizzato l’impostazione dell’Internazionale comunista rivela la sua inadeguatezza.

Con l’insieme dei dati storici oggettivi si è misurata la soggettività rivoluzionaria: a partire dalle esperienze delle rivoluzioni cinese, vietnamita, algerina, cubana… si viene formando un quadro di elaborazione teorica delle avanguardie rivoluzionarie sia del centro che della periferia che si coagulano attorno ai nuovi termini che assume la politica rivoluzionaria e afferma la lotta armata, la guerriglia, come l’unica strategia adeguata a questa fase dell’imperialismo e alla corrispondenti forme di dominio della borghesia imperialista per il raggiungimento dell’obiettivo di tappa (liberazione nazionale, rivoluzione socialista).

Le espressioni più mature di questa elaborazione sintetizzarono le prime linee teoriche e politiche di quello che va considerato sul piano dell’esperienza rivoluzionaria uno sviluppo vivo del marxismo: il concretizzarsi storico-pratico della teoria del proletariato rivoluzionario. Un’elaborazione che si sintetizza nell’attività rivoluzionaria nella periferia di forze rivoluzionarie come i feddayn palestinesi, i Tupamaros in Uruguay, Erp e Montoneros in Argentina…, nel centro imperialista con le organizzazioni rivoluzionarie nere-americane, con i Weathermen, la Gauche Proletarienne, la Raf, le BR…

La soggettività rivoluzionaria dunque afferma la lotta armata come il solo modo di operare in queste condizioni storiche, e specificamente per il centro imperialista la necessità di operare nell’unità del politico e del militare, e secondo i criteri offensivi di clandestinità e compartimentazione, presupposti che si confermano come indispensabili per la guerriglia nelle metropoli, unitamente al carattere di lunga durata della guerra di classe.

Questo quadro complessivo è dunque il contesto generale sul quale si afferma la lotta armata, la guerriglia nei centri imperialisti: il particolare contesto dello scontro di classe nei singoli paesi in cui si inserisce ne determina poi le caratteristiche specifiche di sviluppo.

Quello che possiamo affermare sulla base della nostra esperienza è che i caratteri generali fondamentali della guerriglia validi in ogni Stato del centro imperialista determinano un processo di maturazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che obbligatoriamente si generalizza in ogni contesto, in ogni Stato. Così, lo sviluppo di nuove forze rivoluzionarie che si formano in paesi che non hanno avuto precedenti deve misurarsi necessariamente con il livello dato nel contesto generale del rapporto rivoluzione/controrivoluzione a livello internazionale, e prendere atto di cosa è già determinato sul piano generale dall’attività di altre forze rivoluzionarie. Relazionarsi a ciò non significa travalicare il necessario calibramento politico che ogni forza è tenuta a misurare nel radicare la sua proposta politica e strategica, né tantomeno non tener conto del tipo di mediazione politica tra le classi entro cui si racchiudono le specifiche forzature, ma significa relazionarsi anche al livello che si è stabilito sul piano generale tra rivoluzione e controrivoluzione.

Condizione generale immanente che sovrasta lo sviluppo del processo rivoluzionario è l’accerchiamento strategico, determinato dal fatto che il potere è nelle mani del nemico completamente fino al suo rovesciamento: i rapporti di forza, intesi in termini generali, sono dunque sempre favorevoli al nemico di classe. La rottura dei rapporti di forza a favore del campo proletario che l’avanguardia rivoluzionaria opera è quindi sempre relativa. Contemporaneamente vige il principio che la guerra di classe è strategicamente vincente. Infatti, la borghesia vi interviene per mantenere il potere ma non può ’distruggere’ il proletariato, chiave di volta del modo di produzione capitalistico in quanto creatore di plusvalore; il proletariato rivoluzionario, al contrario, combatte per il potere e in questo processo vive e si sviluppa come classe rivoluzionaria nell’obiettivo di annientare la borghesia in quanto classe del capitale, liberando così lo sviluppo delle forze produttive dai rapporti di produzione capitalistici.

L’accerchiamento strategico, nel contesto dello scontro che si sviluppa negli Stati del centro imperialista, si carica di significati riconducibili al fattore dell’aumentato peso della soggettività nello scontro di classe generale, una questione da cui non si può prescindere se si vuole intervenire nelle dinamiche dello scontro. Più specificamente vi influiscono i termini del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che si è prodotto storicamente.

Sul piano del funzionamento della guerriglia, l’esperienza delle Brigate Rosse permette di precisare le importantissime implicazioni che vivono operando nell’unità del politico e del militare, implicazioni che condizionano tutto il modo in cui si sviluppa la guerra di classe.

In questo senso possiamo dire che l’unità del politico e del militare agisce come una matrice nell’intero processo rivoluzionario, dai meccanismi che consentono a una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi, al processo nel suo complesso.

La guerriglia nelle metropoli non è sempre semplice e sola guerra surrogata, essa agisce e può sviluppare una sua efficacia muovendosi ben dentro i nodi centrali dello scontro politico tra le classi. L’attacco al nemico perciò, per essere disarticolante, per incidere e avere spazio deve riferirsi strettamente a questo patrimonio generale. La guerriglia, dunque, nel costruire i termini della guerra di classe, esplicita la natura di guerra che vive nello scontro di classe, natura fortemente dominata dalla politica e che influenza tutte le dinamiche dello scontro, dal piano generale della lotta di classe al piano rivoluzionario.

Il processo rivoluzionario è processo di attacco politico-militare al nemico – cuore dello Stato, politiche centrali dell’imperialismo – e nel contempo, a partire da questo attacco è costruzione e organizzazione delle forze sulla lotta armata al grado imposto dallo scontro e dai diversi livelli delle forze che vi concorrono.

Il nodo della direzione rivoluzionaria nella guerra di classe è dunque un vero e proprio processo di costruzione-fabbricazione del partito combattente che si configura come tale nel percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe. La direzione rivoluzionaria dello scontro di classe si realizza in ciò che abbiamo definito «agire da partito per costruire il partito» e che è stata la condotta delle Brigate Rosse in tutta la loro storia.

Questa concezione fondamentale, così come il modulo politico-organizzativo secondo cui sono strutturate le BR, i criteri di clandestinità e compartimentazione, costituiscono elementi validi sempre, strategici, affinché la guerriglia possa agire con il suo portato rivoluzionario in queste condizioni storiche dello scontro tra le classi e che permettono il carattere offensivo della guerriglia.

Sul piano internazionale, il movimento economico che si è affermato in quest’ultimo decennio nel mondo capitalistico, a seguito delle ristrutturazioni e delle introduzioni di nuova tecnologia nella produzione, ha fatto da acceleratore nei processi di accentramento e centralizzazione monopolistica mettendo in movimento enormi quote di capitale finanziario.

Questa dinamica ha determinato un salto qualitativo in avanti nel livello di internazionalizzazione ed integrazione economica tra gli Stati della catena imperialista.

Sul piano politico questo ha portato alla esigenza di una maggiore coesione e di concertazione delle politiche economiche.

Gli Stati della catena imperialista, muovendosi all’interno di necessità comuni che in ultima istanza ne condizionano l’azione verso un comune obiettivo, devono però fare i conti con gli interessi dei propri singoli capitali (che sono in concorrenza tra loro e con i capitali degli altri paesi) e con la lotta di classe e rivoluzionaria interna che ha connotazioni specifiche dovute alla storia economica, politica, sociale di ogni singolo Stato. Quindi, il processo di integrazione e coesione economica, politica, militare invece di dissolvere i singoli Stati della catena imperialista in un unico “super-imperialismo” esalta le funzioni degli Stati di questo processo. Sono gli Usa, quale paese capitalista più sviluppato della catena imperialista, che hanno espresso le tendenze e le contraddizioni economiche affermatesi nel mondo capitalistico, e proprio per questa ragione hanno consumato per primi le tappe che conducono alla crisi. Le controtendenze messe in atto negli anni Ottanta (Reaganomics) hanno esaurito il loro effetto controtendenziale finendo con il produrre gravi scompensi nell’economia mondiale, aprendo le porte alla recessione produttiva.

Sono quindi le contraddizioni prodotte dalla crisi economica che caratterizzano il capitalismo nella fase imperialista dei monopoli che premono, nel loro interconnettersi, sul piano delle relazioni politiche e militari.

Quello che va maturando è un complesso processo che muove verso la tendenza alla guerra, manifestandosi con caratteristiche specifiche in questa fase imperialista.

Il riflesso di questi passaggi muove, sui piani economico-politico-diplomatico-militare, nella tendenziale ridefinizione dei rapporti di forza relativi al quadro storico post-conflitto della divisione del mondo in sfere d’influenza. Le differenze che si sono prodotte in questo processo decennale nella catena imperialista hanno spostato relativamente il peso economico verso l’Europa Occidentale, senza che questo significhi perdita della leadership USA, che nonostante la recessione economica, rimane il paese capitalisticamente più sviluppato, sia perché i monopoli Usa sono capillarmente presenti nell’intera Europa Occidentale, che per il ruolo politico-diplomatico-militare che a tutt’oggi vede gli Usa in grado di forzare e pilotare verso le sue scelte i partner della catena imperialista (pur tra relative contraddizioni). L’Europa Occidentale, in questo contesto generale, per i processi di coesione politico-militare che ha promosso, acquista un peso più rilevante, e questo proprio a partire dalle modificazioni delle aree periferiche.

All’interno di questa dinamica la Repubblica Federale Tedesca, “grande Germania”, ha assunto un peso e un ruolo centrali; infatti essa ha fatto pesare a suo favore le modificazioni degli equilibri dell’Est europeo.

L’arretramento ad Est e la risultante modificazione dei rapporti di forza in favore dell’imperialismo ha rideterminato il rapporto Est/Ovest, influenzando e riflettendosi sulla direttrice Nord/Sud e proletariato/borghesia sul piano internazionale.

Una dinamica che mette in evidenza come la pressione economica, politica, diplomatica e militare dell’imperialismo in questa fase muove tendenzialmente nella ridefinizione di tutte le aree geopolitiche per come si erano definite con Yalta. Un processo che apre lo spazio all’imperialismo per normalizzare-ridefinire le aree strategiche ratificando i rapporti di forza a suo favore a livello mondiale.

Una tendenza attraverso cui l’imperialismo ha teso a dare soluzione utilizzando tutto il suo armamentario controrivoluzionario, a partire dalla “bassa intensità”, unitamente allo strangolamento economico, e pressioni diplomatiche, fino all’attuale interventismo diretto nelle aree di crisi (Centroamerica, Medioriente…).

Una realtà che rende quanto mai demagogica la cosiddetta “soluzione pacifica” dei conflitti nelle aree geopolitiche di crisi, in primo luogo perché per l’imperialismo la soluzione della crisi da sovrapproduzione assoluta di capitali e mezzi di produzione non si dà nella sola “apertura” dei mercati.

Va detto che la crisi economica che investe a diversi livelli la catena imperialista è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali, che non possono essere utilizzati al saggio di profitto atteso dal capitalista. In questo senso non si tratta di merci che non trovano un mercato solvibile; questo semmai è un effetto. Perciò, l’“apertura” di nuovi mercati all’Est non può risolvere (nel lungo periodo) la contraddizione insorta a livello strutturale.

La tendenza alla guerra quindi, intesa come necessità per la borghesia imperialista di distruzione di capitali sovraprodotti per far ripartire il ciclo economico su una nuova base, rimane tutta intera, approfondendosi ulteriormente come tendenza di risoluzione critica delle contraddizioni economiche.

Sul piano politico-militare ciò significa per l’imperialismo la ridefinizione delle aree di influenza e di una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati capitalistici.

È dunque nel contesto della tendenza alla guerra, fatta di visibili e concreti processi politici, diplomatici, militari di compattamento all’interno della catena imperialista, pur nella diversità di ruoli e ai diversi gradi con cui si manifesta la crisi, che gli Usa spingono l’iniziativa diplomatico-militare adottando una strategia globale tesa a intervenire in ogni area di crisi.

Questa tendenza si sta esprimendo attualmente nella regione mediterraneo-mediorientale che per la sua importanza strategica (materie prime e rotte strategiche) vede un intervento complessivo dell’imperialismo che vi ha installato già dal 1948 l’entità sionista come suo avamposto.

Una regione dove oggi l’imperialismo Usa spinge per modificare l’equilibrio geopolitico in suo favore e in cui sono coinvolti in prima persona gli Stati dell’Europa Occidentale, perché loro “naturale” zona d’influenza.

Per questi motivi questa regione è l’area di massima crisi rispetto alle altre aree periferiche.

I recenti avvenimenti nel Golfo persico, che si intrecciano con la grande mobilitazione delle masse arabe attorno al cuore politico della nazione araba: la rivoluzione palestinese, l’intifada e l’eroica lotta delle forze rivoluzionarie palestinesi e libanesi nella Palestina occupata e nel Sud Libano dimostrano che l’imperialismo deve ancora fare i conti con la lotta di classe, sua prospettiva rivoluzionaria.

La vitalità dei processi rivoluzionari in tutte le aree di crisi, dove i rivoluzionari si stanno misurando con la nuova situazione, stanno a dimostrarlo. I fondamenti dei processi rivoluzionari stanno nelle cose, nei rapporti sociali dell’epoca imperialista: lì trovano alimento le forze rivoluzionarie, lì si riproducono, crescono, si sviluppano.

La ridefinizione in atto degli assetti mondiali lungo le storiche linee di demarcazione del mondo contemporaneo dovrà fare i conti, e già li sta facendo, con queste “potenze” reali.

Per questa ragione l’antimperialismo è la questione politica prioritaria che attraversa tanto i popoli in lotta nella periferia, quanto lo scontro di classe e rivoluzionario nel centro imperialista.

L’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo vive in unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato, costituendo entrambi i binari su cui le Brigate Rosse sviluppano e verificano la loro capacità di attacco e assolvono alle funzioni di direzione politica dello scontro.

Per la guerriglia nel centro imperialista si tratta di attualizzare l’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni di scontro della metropoli, sapendone collocare il piano e la portata rispetto all’antimperialismo praticato dalle forze rivoluzionarie nella periferia.

L’antimperialismo per le Brigate Rosse non è una mera questione di solidarietà internazionalista o di politica estera ma si tratta del contributo alla costruzione-consolidamento del Fronte combattente antimperialista quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo.

Il Fronte è innanzitutto un fronte oggettivo, costituito dai percorsi rivoluzionari che hanno luogo sia nel centro che nella periferia del sistema imperialista. L’assunzione soggettiva di questa realtà permette di connotare l’internazionalismo proletario all’interno della prassi adeguata alla profondità dello scontro tra imperialismo e antimperialismo.

Lavorare alla costruzione e al consolidamento del Fronte costituiscono dunque un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria.

La necessità del salto politico al Fronte combattente antimperialista si è posta e si pone in termini soggettivi a partire dal grado di sviluppo dell’imperialismo sia dal punto di vista economico che dal punto di vista delle politiche di coesione regionali che impongono la necessità da parte delle forze rivoluzionarie di costruire quei livelli di unità e cooperazione che permettono di incidere sulle politiche dominanti dell’imperialismo, pur senza esaurire con questa attività il complesso del lavoro che ogni organizzazione combattente porta avanti relativamente ai suoi obiettivi e alle caratteristiche storiche e sociali del paese in cui opera.

Deve essere infatti chiaro che i processi di coesione tra gli Stati del centro imperialista non significano la semplificazione del quadro di scontro sul solo piano internazionale: l’internazionalizzazione della formazione monopolistica, lo sviluppo integrato tra gli Stati e l’interdipendenza economica connessa muovono verso un processo tendenziale di formazione omogenea sia dei caratteri della frazione dominante di borghesia imperialista che del proletariato metropolitano. Un processo appunto tendenziale, che non dissolve la funzione degli Stati, ma anzi li esalta all’interno degli organismi internazionali. Ogni specifico percorso rivoluzionario dunque si sviluppa necessariamente all’interno del singolo Stato ed è caratterizzato dalle peculiarità storiche e politiche del contesto interno della lotta di classe. Si tratta dunque di due livelli differenti, che, sebbene reciprocamente influenzati, devono essere collocati sul loro piano distinto.

Dato l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico-militari, per lo sviluppo del processo rivoluzionario è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo in questa area geopolitica che abbiamo definito come “Europa Occidentale – Mediterraneo – Medio oriente”.

La necessità del Fronte si dà in quanto prassi offensiva che mira alla disarticolazione delle politiche dominanti dell’imperialismo per determinare quelle condizioni di instabilità politica nell’area, funzionali al procedere del processo rivoluzionario al livello dei singoli Stati.

Obiettivo del Fronte combattente antimperialista è dunque spostare a favore delle forze rivoluzionarie i rapporti di forza nei confronti dell’imperialismo su scala internazionale determinando una condizione di ingovernabilità nell’area; cosa questa, differente dall’impedire il processo di integrazione e coesione in atto a livello internazionale. Anche perché la stessa attività rivoluzionaria oggettivamente e soggettivamente antimperialista è uno degli elementi che contribuiscono allo sviluppo di questo processo di integrazione, poiché l’attacco all’imperialismo produce come conseguenza non una separazione tra i vari Stati, ma, al contrario, come dinamica rivoluzione/controrivoluzione, una risposta sempre più unitaria e centralizzata. Infatti l’acquisizione della prassi della guerriglia sul terreno dell’antimperialismo ha costretto la borghesia imperialista a rideterminare il terreno antiguerriglia. Già all’interno dei processi di coesione economica, politica, diplomatica, militare della catena imperialista, con particolare riguardo all’Europa Occidentale, uno dei punti qualificanti è quello che passa attraverso un più stretto coordinamento degli apparati di polizia e servizi segreti dei singoli Stati, con la tendenza alla omogeneizzazione degli strumenti repressivo-legislativi, con la definizione di iniziative comuni come la “soluzione politica” e come lo “spazio giuridico europeo” contro la guerriglia (Germania, Francia, Italia, Spagna…).

Ciò chiarisce come i termini dello scontro rivoluzione/controrivoluzione, imperialismo/antimperialismo si rideterminano soggettivamente rispetto al peso politico e strategico acquisito dalla guerriglia nell’intera area geopolitica.

L’approdo all’accordo politico con il testo comune Rote Armee Fraktion-Brigate Rosse del settembre ’88 ha portata storica, per il progetto politico che pone e per ciò che significa l’esperienza rivoluzionaria della RAF e delle BR, che fa ormai parte della materialità dello scontro di classe nel centro imperialista, e sancisce un salto in avanti nella politica del Fronte, misurandosi con la definizione più precisa della sua proposta politica, così espressa nel testo comune:

«(…) Il salto ad una politica di Fronte è necessario e possibile per le forze combattenti allo scopo di incidere adeguatamente nello scontro.

Per questo bisogna battere e superare tutte le impostazioni ideologiche e dogmatiche che esistono oggi dentro le forze combattenti e il movimento rivoluzionario in Europa Occidentale, poiché le posizioni dogmatiche e ideologiche dividono i combattenti.

Queste posizioni non sono in grado di portare la lotta e l’attacco al livello necessario di iniziativa politica.

Le differenze storiche, di percorso e di impianto politico di ogni organizzazione, differenze (secondarie) di analisi eccetera non possono e non devono essere di impedimento alla necessità di lavorare a unificare le molteplici lotte e l’attività antimperialista in un attacco cosciente e mirato al potere dell’imperialismo.

Non si tratta di fondere ciascuna organizzazione in un’unica organizzazione. Il Fronte in Europa Occidentale si sviluppa intorno all’attacco pratico in un processo cosciente e organizzato in cui si maturano successivi momenti di unità tra le forze combattenti. Perché organizzare il Fronte combattente rivoluzionario significa organizzare l’attacco; non si tratta di una categoria ideologica, né tanto meno di un modello di rivoluzione. Si tratta invece di sviluppare la forza politica e pratica per combattere adeguatamente la potenza imperialista, per approfondire la rottura nelle metropoli imperialiste e per il salto qualitativo della lotta proletaria (…)».

Gli elementi politici di fondo che rendono possibile e necessario il Fronte sono così espressi, in riferimento all’Europa Occidentale:

«(…)L’Europa Occidentale è il punto cardine nello scontro tra proletariato internazionale e borghesia imperialista.

L’Europa Occidentale per le sue caratteristiche storiche, politiche, geografiche è la parte dove si incontrano le linee di demarcazione classe/Stato, Nord/Sud, Est/Ovest.

L’inasprimento delle crisi del sistema imperialista, l’abbassamento del potenziale economico degli USA sono il motivo principale che, insieme ad altri fattori, determina una perdita relativa di peso degli USA. Questi fattori comportano un avanzamento (sviluppo) del processo di integrazione economico, politico, militare del sistema imperialista. In questo contesto e per le ragioni sopra dette la funzione dell’Europa Occidentale nel governo della crisi cresce di importanza.
– Sul piano economico: l’Europa Occidentale sviluppa un piano concertato di politiche economiche di sostegno e ammortizzamento delle contraddizioni economiche all’interno del governo della crisi dell’imperialismo.
– Sul piano militare: forzature verso una maggiore integrazione politico-militare nell’ambito dell’alleanza atlantica – Nato, sia con piani politici economici di riarmo all’interno della nuova strategia militare imperialista nei confronti dell’Est, sia con un intervento politico e militare integrato contro i conflitti che si inaspriscono nel Terzo Mondo, principalmente verso l’area di crisi mediorientale.
– Sul piano controrivoluzionario: la riorganizzazione ed integrazione degli apparati di polizia e dei servizi segreti contro lo sviluppo del Fronte rivoluzionario, contro le attività rivoluzionarie e contro l’estensione e l’inasprimento dell’antagonismo di massa. Riorganizzazione e integrazione che si avvale di precisi interventi politici contro la guerriglia, come ad esempio i progetti di “soluzione politica” che stanno avvenendo nei vari paesi europei.
– Sul piano politico-diplomatico: i progetti di “soluzione negoziata” dei conflitti al fine di consolidare le posizioni di forza imperialiste. Questa attività politico-diplomatica ha anche la funzione di rafforzare i processi di coesione politica dell’Europa Occidentale, un movimento dal quale nessun paese dell’Europa Occidentale è escluso. Un dato questo da cui nessuna forza rivoluzionaria combattente può prescindere nella propria attività rivoluzionaria. (…)
(…) – L’attacco unificato contro le linee strategiche della coesione dell’Europa Occidentale destabilizza la potenza dell’imperialismo.

– Organizzare la lotta armata nell’Europa Occidentale
– Costruire l’unità delle forze combattenti sull’attacco: organizzare il Fronte, combattere insieme».

La chiarezza degli obiettivi, il realismo politico nell’impostazione del Fronte ne determinano la valenza che va oltre l’unità immediata raggiunta, perché apre la prospettiva dello sviluppo del Fronte non solo tra le forze rivoluzionarie europee, ma con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area, avviando concretamente l’unità che già esiste oggettivamente tra le lotte del centro imperialista e i movimenti di liberazione della periferia.

Il complesso di fattori che caratterizzano sui piani politico, economico, diplomatico, controrivoluzionario i processi di coesione si riflettono infatti, oltre che in Europa, anche nella concretizzazione di iniziative tese alla normalizzazione e stabilizzazione dell’intera area geo-politica Europa Occidentale – Mediterraneo – Medioriente come obiettivo funzionale all’acquisizione di migliori rapporti di forza da parte dell’imperialismo.

Un progetto di normalizzazione e stabilizzazione dell’ordine imperialista che è poi il progetto politico dominante nell’area e che trova il suo maggiore ostacolo nella lotta antimperialista e antisionista condotta dal popolo palestinese e libanese, e nella lotta più generale delle masse arabe.

Lo specifico contesto di classe in Italia determina per la guerriglia, per le Brigate Rosse, il tipo di strategia e le particolarità di sviluppo della lotta armata nella costruzione del processo rivoluzionario della guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico generale.

Storicamente in Italia il plasmarsi della sovrastruttura statale sulle condizioni dettate dal ripristino dell’ordine imperialista e in un contesto di classe ricco di fermenti rivoluzionari ha condizionato la stessa “impalcatura” istituzionale e, ciò che è più importante, il personale e le forze politiche atte al suo funzionamento.

La stessa formazione della Democrazia Cristiana avviene in questo contesto assumendo nel dopoguerra la rappresentazione più fedele della borghesia imperialista, assicurandone gli interessi generali, attraverso le altre forze politiche in grado di articolare la necessaria dialettica interborghese. Nello stesso tempo, ottemperando alla funzione di normalizzazione e stabilizzazione del quadro politico interno, all’interno del quale l’insieme dei partiti costituiranno il “garante democratico” delle politiche antiproletarie e controrivoluzionarie degasperiane.

Una normalizzazione e stabilizzazione che si è avvalsa, nelle diverse fasi dello scontro, di forzature vere e proprie nelle relazioni tra classe e Stato, operate anche attraverso l’uso del terrorismo di Stato (da Portella delle Ginestre alle stragi degli anni ’70 e ’80).

È in relazione a queste caratteristiche che possiamo rilevare nel percorso storico e politico dello Stato, della borghesia imperialista nostrana, dentro il processo di assestamento delle forme di dominio della borghesia, un unico tratto antiproletario e controrivoluzionario inerente alla natura e allo sviluppo dello scontro di classe. Un filo organico, dentro al procedere non-lineare di questo scontro, che va dalla nascita della “democrazia rappresentativa” alla attuale “fase costituente” che evolve verso una “Seconda Repubblica”. Un processo storico, politico e sociale così sintetizzato dalla nostra organizzazione nel volantino di rivendicazione dell’azione contro Ruffilli:

«(…) Non a caso l’attuale fase politica in cui si è inserito il progetto imperialista evidenzia la continuità, pur nella rottura con le diverse fasi politiche e storiche vissute nel nostro paese. In altri termini c’è un filo continuo che lega la Costituente del ’48, espressione dei rapporti di forza usciti dalla Resistenza al nazifascismo, a questa nuova “fase costituente”. Un filo continuo che passa dalla restaurazione degli anni ’50 per controllare il movimento insurrezionale ereditato dalla Resistenza, al “centro-sinistra” degli anni ’60, al tentativo neo-golpista di stampo fanfaniano dei primi anni ’70 teso a contrastare in termini reazionari le forti spinte dell’antagonismo di classe e della guerriglia, l’“unità nazionale” morotea in un clima di forte scontro per il potere diretto e organizzato dalla strategia della lotta armata, alla “controrivoluzione degli anni’ 80”, vera e propria base su cui ha trovato forza questa fase politica».

La centralità dell’attacco allo Stato costituisce oggi più che mai per le BR uno dei principali assi programmatici attorno a cui costruiscono organizzazione di classe sulla lotta armata, costituendo insieme all’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo con il Fronte combattente antimperialista i due assi programmatici su cui si costruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata. L’attacco al cuore dello Stato è l’attacco politico-militare della guerriglia alle politiche dominanti dello Stato, atte a determinare nel paese equilibri politici tra classe e Stato funzionali all’attuazione dei programmi della frazione dominante della borghesia imperialista e mira, nelle diverse congiunture, a disarticolare l’iniziativa del nemico favorendo l’ingovernabilità delle tensioni di classe per rovesciarle e organizzarle sul terreno della guerra di classe di lunga durata contro lo Stato, dando così prospettiva rivoluzionaria allo scontro di classe.

Lo scontro politico tra le classi, e soprattutto il piano rivoluzionario avanzano nella misura in cui si rompono gli steccati e i filtri stabiliti dalle relazioni classe/Stato, la loro mediazione politica. Un dato che si riferisce sempre alla contraddizione dominante che oppone la classe allo Stato e che può esistere e affermarsi dentro gli equilibri politici che si formano nel paese tra le classi; gli equilibri inter-borghesi si formano secondariamente, di riflesso e accanto agli equilibri di forza e politici tra classe e Stato.

L’iniziativa della guerriglia è tesa a rompere, lacerare il piano degli equilibri tra classe e Stato e a costruire le condizioni per un equilibrio politico e di forza favorevole al campo proletario: ciò può avvenire soltanto intervenendo con l’attacco politico-militare al punto più alto dello scontro. Questo attacco si ripercuote poi come effetto su tutto l’arco dei rapporti fra le classi, fino al piano capitale/lavoro. Una dinamica di intervento che libera, anche se momentaneamente, energie proletarie; energie, vantaggi momentanei derivati dall’attacco operato che vanno tradotti in organizzazione e disposizione delle forze sul terreno della lotta armata.

La nostra esperienza sul terreno dell’attacco allo Stato ci ha consentito di superare pratiche dispersive che nel passato hanno caratterizzato un attacco teso a disarticolare, quasi si collocassero sullo stesso piano, i diversi centri della macchina statale, a livello periferico e centrale; ciò era in quella fase il riflesso di una visione ancora schematica dello Stato, i cui apparati erano visti nella loro separatezza di apparati politici, burocratici, militari… e derivava da una visione schematica, linearistica e ancora manualistica delle fasi rivoluzionarie della guerra di classe, che riconducevamo a due sole fasi principali: quella della costruzione-accumulo di capitale rivoluzionario e quella del suo dispiegamento nella guerra civile.

L’esperienza fatta dalle BR sul terreno del processo rivoluzionario ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nel quadro di un andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello Stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati; un dato questo ulteriormente approfondito dagli attuali processi di rifunzionalizzazione istituzionale.

Per queste ragioni l’attacco allo Stato, al suo cuore politico nelle diverse congiunture, va inteso nel giusto criterio, affermatosi nella pratica, che definiamo di “centralità, selezione, calibramento”.

Centralità: dato l’approfondimento dello scontro, la capacità dell’attacco di disarticolare, inteso sempre in termini relativi e non assoluti, risiede in primo luogo nella capacità politica di individuare, all’interno della contraddizione principale che oppone le classi, il progetto politico centrale della borghesia imperialista.

Selezione: sta nella capacità di individuare il personale che, nel progetto politico centrale, assume una funzione di equilibrio delle forze che sostengono il progetto stesso.

Calibramento: consiste nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado, irreversibile, di approfondimento raggiunto dallo scontro – anche negli inevitabili arretramenti, che sono costitutivamente interni alla dinamica del processo rivoluzionario, il livello di intervento non può prescindere dal punto di scontro più alto attestato -, allo stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie sul terreno della lotta armata, allo stato dei rapporti di forza tra le classi sia interni al paese che negli equilibri internazionali tra imperialismo e antimperialismo. Questi criteri guidano l’attacco, e permettono alla guerriglia di incidere nello scontro al livello imposto e necessario, traendone il massimo vantaggio politico e materiale. Sulla base della nostra esperienza possiamo affermare che questa logica, questi criteri saranno determinanti per diverse fasi ancora dello scontro, poiché solo in una fase di “guerra civile dispiegata” si dà la necessità-possibilità di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.

Di questa logica l’attacco al cuore dello Stato con l’azione centrale contro il senatore DC Ruffilli è un chiaro esempio. Una vittoria politica, non solo delle Brigate Rosse che l’hanno concepita e praticata, ma che segna per parte rivoluzionaria e proletaria un’intera fase dello scontro di classe in Italia, un suo passaggio centrale e decisivo.

Con il progetto demitiano di “riforma istituzionale” la DC si prefiggeva la ratifica e il consolidamento degli equilibri generali tra le classi conquistati dalla borghesia imperialista nei confronti del proletariato con la controrivoluzione degli anni ’80. Un progetto molto articolato, sia nelle tappe politiche da mettere in pratica sia nei fini perseguiti, i quali sono così espressi dalla nostra organizzazione nel documento di rivendicazione dell’attacco:

«(…) In termini generali questo progetto si inserisce nella tendenza attuale di ridefinizione-riadeguamento complessivo di tutte le funzioni e istituzioni dello Stato ai nuovi termini di sviluppo dell’imperialismo e ai corrispettivi termini del governo del conflitto di classe. Ossia, una tendenza generale di riadeguamento delle democrazie parlamentari quali forme di dominio più maturo degli Stati a capitalismo avanzato. Quindi un avanzamento delle forme di dominio della dittatura della borghesia imperialista.

Una tendenza generale che, nelle sue direttrici, seppur con tempi e modi diversi, interessa molti paesi europei (…) e che in Italia assume caratteristiche peculiari in relazione al ruolo economico e politico che il nostro paese, con la presenza della prassi rivoluzionaria portata avanti dalle BR in dialettica con i settori più avanzati dell’autonomia di classe, svolge e ai caratteri, infine, della classe dominante nostrana necessariamente prodotta dai primi due fattori.

(…) L’ossatura del progetto imperialista è imperniata sulla formazione di coalizioni che si possono alternare alla guida del governo dandogli così un carattere di forte stabilità, una maggioranza forte e un esecutivo stabile in grado di garantire da un lato le risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico internazionale. Questo è il massimo della democrazia formale, dove l’“alternanza” fa la funzione dell’opposizione e dovrebbe riuscire a contenere le spinte antagonistiche che si riproducono nel paese.

(…) Che questo progetto politico affondi le sue radici nella natura e nelle funzioni dello Stato ne sono ben coscienti gli elaboratori stessi, i quali si richiamano ai termini economici e di sviluppo di questa fase dell’imperialismo; di qui il puntare alla scadenza del 1992 il riferimento alla liberalizzazione dei capitali in modo da favorire la formazione di nuovi monopoli.

Per quanto riguarda il conflitto sociale, una delle riflessioni fondamentali parte proprio dalla constatazione del fatto che in Italia si è prodotto uno scontro di classe che ha trovato nella guerriglia il suo punto più alto. La controffensiva dello Stato negli anni ’80 parte dal presupposto che, senza assestare un duro colpo alla guerriglia, non si sarebbe potuto procedere alla ristrutturazione economica che la crisi rendeva impellente. Una dinamica controrivoluzionaria che, a partire dall’attacco all’organizzazione e ai settori più avanzati dell’autonomia di classe, ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe costruendo i termini dei nuovi rapporti di forza a favore dello Stato.

È in questo rapporto di forza che può essere varato il patto neo-corporativo; esso ratifica un avanzamento della controrivoluzione; un modello di relazioni che, a partire dal rapporto classe/Stato, ha costretto tutti i soggetti sociali dell’opposizione istituzionale a modificare il proprio ruolo.

Un riadeguamento che, dovendo ruotare intorno al processo di rifunzionalizzazione dello Stato – in cui tale progetto è inserito -, ha nella sostanza modificato, sulla base dei nuovi rapporti di forza, il carattere della mediazione politica tra classe e Stato, la funzione degli strumenti e dei soggetti istituzionali con cui lo Stato si rapporta al proletariato, il modo stesso di governare il conflitto di classe. Per questo possiamo dire che nella mediazione politica tra classe e Stato vi è incorporato il salto di qualità operato dalla controrivoluzione degli anni ’80.

(…) L’obiettivo è quello della “democrazia governante”, dove al massimo dell’accentramento del potere reale corrisponde il massimo della democrazia formale. È questo il progetto politico demitiano, formalmente teso alla costruzione di una “democrazia finalmente matura”; nei fatti teso a concentrare tutti i poteri nelle mani della maggioranza di governo nel nome di un interesse generale del paese che nella realtà è solo l’interesse generale della frazione dominante di borghesia imperialista, nella normale dialettica tra maggioranza e opposizione, in cui la maggioranza ha gli strumenti di governo e l’opposizione ha facoltà di critica, senza però poter intervenire nei processi decisionali, in un gioco in cui apparentemente i partiti rappresentano l’intera società, nella realtà rappresentano solo gli interessi della frazione dominante della borghesia imperialista. Un progetto politico che nel complesso tende a svincolare il governo della società dalle spinte antagoniste, garantendo la stabilità politica del sistema; è per questo che il progetto demitiano è in questo momento “il cuore dello Stato”, in quanto da un lato sancisce l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi della borghesia imperialista, dall’altro assesta e ratifica i rapporti di forza tra classe e Stato in favore di quest’ultimo: da ciò il suo carattere controrivoluzionario e antiproletario.(…)».

È all’interno di questo contesto che il progetto demitiano, centralmente dominante nei rapporti tra classe e Stato, viene attaccato e disarticolato dalla nostra organizzazione.

Questo intervento porta in sé tutte le potenzialità politiche e strategiche insite nel riadeguamento dell’avanguardia combattente, e in quanto tale capace di portare la sua iniziativa politico-militare ancora una volta al punto più alto dello scontro tra le classi, dove si determina la ridefinizione dei rapporti politici tra classe e Stato, dei rapporti di forza, delle modalità di governo relative alla mediazione politica tra le classi.

Questo intervento rivoluzionario, espressione dell’attività complessiva operata dalle BR, ha spostato e approfondito il livello dello scontro; una dinamica consapevolmente prodotta e calibrata dalle BR ai rapporti di forza generali e alle condizioni dello scontro, un contesto che si è riflesso sulla rideterminazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. L’attacco all’ideatore del progetto, elemento di spicco nel ricomporre e ricondurre le forze politiche intorno agli equilibri necessari per effettuare i passaggi del progetto, ha di fatto aperto un varco, avendo attaccato l’elemento centrale di coesione di quegli equilibri su cui dovevano stringersi le intese politiche; in questo senso ha contribuito sostanzialmente al suo ripiego e allo scompaginamento relativo del quadro politico istituzionale, poiché ha interessato l’incrinamento degli equilibri legati all’aspetto dominante della contraddizione classe/Stato, che per la sua importanza rimette parzialmente e relativamente in gioco gli equilibri tra le classi.

In questo senso la disarticolazione del progetto dominante della borghesia imperialista nella congiuntura permette di acquisire lo spazio politico, il termine relativo di rapporto di forza per l’avanzamento della dinamica complessiva dell’attività rivoluzionaria a partire dalla dialettica attacco-costruzione-organizzazione-attacco.

L’iniziativa politico-militare infatti non si riferisce ad obiettivi simbolici che servano a “svelare” la natura delle contraddizioni di classe – questo può essere semmai uno degli effetti -, ma essa è invece il concreto modo di procedere di questo particolare tipo di conflitto che è la guerra rivoluzionaria nelle metropoli imperialiste.

L’attacco quindi si pone l’obiettivo di danneggiare effettivamente il nemico di classe, di disarticolarlo sulla base di criteri di “centralità, selezione, calibramento” dell’attacco stesso, che permettono di ottenere il massimo di risultato con il minimo sforzo, data la disparità di forze esistente tra guerriglia e Stato.

Da questa prassi l’avanguardia combattente sintetizza il vantaggio materiale in forza politico-militare, attraverso la costruzione-consolidamento dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, adeguato ai livelli di scontro e agli obiettivi della fase.

Questa iniziativa politico militare delle Brigate Rosse esprime una qualità politica che lo sviluppo successivo della vicenda istituzionale in questi anni dimostra e conferma. In questo paese infatti la borghesia imperialista deve fare i conti, e lo si vede nel grottesco ma reale travaglio della riforma istituzionale, con contraddizioni e conflitti che hanno le proprie radici nella concretezza della lotta di classe e nella qualità impressa allo scontro da venti anni di attività e presenza della lotta armata, della guerriglia, delle BR.

Le BR hanno lavorato in questi anni e lavorano oggi a porre le basi alla fase di ricostruzione, la quale prende forma e consistenza all’interno della ritirata strategica.

Le condizioni politiche generali in cui fu aperta la ritirata strategica rimarcavano una sostanziale inadeguatezza dell’impianto e della linea politica dell’organizzazione rispetto ai termini dello scontro. Nella sconfitta tattica dell’82 si dimostrava l’incapacità di comprendere e anticipare lo sviluppo del processo controrivoluzionario: l’incapacità di cogliere i mutamenti che a livello dell’imperialismo stavano modificando il quadro degli equilibri generali a fronte della profonda crisi economica; per quanto riguardava l’analisi dello Stato e della situazione interna si riteneva che la “Campagna di primavera” del ’78 avesse lasciato la borghesia e lo Stato incapaci di ricompattare le proprie fila e di riformulare nuove intese politiche.

Questo era anche il prodotto di una visione schematica che da un lato assolutizzava il piano soggettivo, dall’altro schematizzava le funzioni dello Stato ad “articolazione locale del sistema imperialista multinazionale”. Soprattutto non si coglieva il movimento avviato all’interno della borghesia e dello Stato, teso a sferrare una controffensiva politico-militare alla classe a partire dalle sue avanguardie, col fine di operare una rottura a favore della borghesia nei rapporti di forza tra le classi, ridimensionando il peso politico acquisito dalla classe operaia e dal proletariato.

Una controffensiva senza precedenti, la quale non poteva che partire infliggendo un duro colpo alla guerriglia in modo che si riversasse sull’intero corpo di classe, dai settori più maturi dell’autonomia di classe in dialettica con la guerriglia, al movimento rivoluzionario, fino a pesare sulle condizioni politiche e materiali di tutto il proletariato a livello generale. Una controffensiva che, per proporzioni e metodi di dispiegamento ha assunto carattere di vera e propria controrivoluzione.

Le impostazioni e posizioni inadeguate allo scontro, prodotte principalmente dalla giovinezza politica della nostra esperienza, sono state battute e superate nelle battaglie politiche contro il soggettivismo idealista e l’operaismo fabbrichista.

Il ricentramento operato dalle BR con la “Campagna sulle fabbriche” e l’operazione contro la Nato nel 1981, sulla questione del piano classe/Stato e sulla questione dell’antimperialismo non impedì l’accumularsi critico delle contraddizioni e dei ritardi.

Il ripristino del corretto metodo dell’analisi materialista permise l’apertura della ritirata strategica, nonostante i limiti di comprensione che le BR stesse ancora avevano della stessa, ma che permise alle BR di ritirarsi e proseguire nel riadeguamento, pur nel quadro della pressione esercitata dalla controffensiva dello Stato.

La giustezza della scelta della ritirata strategica ha dimostrato nel tempo tutta la sua validità, poiché ha permesso alle BR, interpretando correttamente le leggi della guerra rivoluzionaria, di ripiegare da posizioni politiche non-avanzate, collocando correttamente la sconfitta tattica dell’82 nel quadro dell’andamento discontinuo dello scontro nel percorso di lunga durata. Quella scelta ha permesso di aprire una fase rivoluzionaria in cui le BR, ritirandosi da posizioni politiche niente affatto avanzate, hanno sottratto, per quanto possibile, forze al dissanguamento causato dalla controffensiva dello Stato, evitando così di cadere in una condotta avventurista: in tal modo hanno iniziato un lungo e difficile processo di riadeguamento complessivo di fronte alle modifiche avvenute nel contesto dello scontro e alla conseguente durezza delle condizioni politiche e materiali determinatesi nel tessuto proletario.

Questo processo di riadeguamento, dovendosi misurare con la materialità degli effetti prodotti dalla controrivoluzione nel campo proletario, è avvenuto e avviene, proprio per il suo svolgersi nel vivo dello scontro e dovendo confrontarsi “sul campo” con la controrivoluzione, in maniera non-lineare nelle contraddizioni che la dinamica controrivoluzionaria ha immesso in maniera differente sia nel movimento di classe che nelle stesse forze rivoluzionarie. Un processo dinamico ad andamento discontinuo e contraddittorio che, nella fase iniziale, ha dovuto fare i conti con i segni lasciati dall’offensiva dello Stato: l’incomprensione del reale livello di scontro prodottosi alimentava un piano di contraddizioni che riduceva di fatto la ritirata strategica ad atto difensivo e portava di conseguenza a subire l’iniziativa dello Stato, e al logoramento delle forze, la cui disposizione non adeguata ne limitava la funzionalità rispetto alle necessità dettate dalla fase rivoluzionaria stessa. La logica difensivistica cioè si dimostrava incapace, di fronte alle necessità imposte dal livello di scontro, impantanandosi nel possibile, inteso limitatamente alle condizioni materiali del momento. In questa dinamica contraddittoria hanno trovato spazio posizioni che, quando si sono chiaramente delineate nel dibattito interno all’organizzazione, sono state espulse per quelle che erano: posizioni liquidazioniste che, “interiorizzando” la sconfitta dell’82, e portando all’estremo la logica difensivistica, revisionavano la lotta armata fino a ridurla a “strumento di lotta”, sottraendosi perciò al livello dello scontro.

Il superamento della logica difensivistica ha segnato una tappa importante per lo sviluppo della fase di ritirata strategica, ed è maturata dalle BR nella prassi rivoluzionaria, come le iniziative combattenti contro Giugni, Hunt, Tarantelli, Conti, l’esproprio del febbraio ’87, Ruffilli e l’accordo politico raggiunto con la RAF stanno a dimostrare.

La ritirata strategica, per adempiere alla sua funzione, deve aderire concretamente alle caratteristiche dello sviluppo della guerra di classe, così come si sono formate nello scontro rivoluzionario in questo paese. Essa non si risolve con la sola chiarezza teorica e politica dell’impianto, ma il suo procedere è legato strettamente alla ricostruzione delle condizioni politiche e militari della guerra di classe, alla capacità delle BR di articolare un processo di attivizzazione e organizzazione delle forze proletarie a partire dalle condizioni create dall’arretramento; tenendo conto che per la guerriglia anche il riadeguamento si realizza nell’unità del politico e del militare, implica quindi che l’avanguardia combattente stabilisca una condotta della guerra rivoluzionaria i cui termini restano interni ai presupposti della ritirata strategica sino a che l’evolvere successivo dei livelli di ricostruzione non abbia maturato l’assestamento necessario per superare le posizioni di relativa debolezza nel complesso dei rapporti di forza.

Per questo la ritirata strategica è una fase rivoluzionaria di lungo termine il cui superamento implica un salto e una rottura delle attuali condizioni dello scontro.

La ritirata strategica caratterizza un lungo periodo del processo rivoluzionario e procede attraverso la ricostruzione di diversi passaggi sostanziali; all’interno di ciò le BR già lavorano alla ricostruzione delle condizioni per attrezzare la classe allo scontro con lo Stato.

Per sostanza, modi e tempi politici a cui deve essere finalizzata l’attività complessiva di ricostruzione, parliamo di fase rivoluzionaria e non di semplice momento congiunturale, tenendo conto che prende forma e consistenza all’interno della ritirata strategica, ma costituisce al tempo stesso il primo passaggio, la prima base su cui si modificano i rapporti di forza attuali tra campo proletario e Stato.

Le BR hanno lavorato in questi anni e lavorano oggi per porre le basi alla fase di ricostruzione. Queste basi poggiano sui passaggi effettivamente compiuti dall’avanguardia rivoluzionaria in termini di ricentramento teorico, politico e organizzativo attraverso la prassi messa in campo per portare l’iniziativa rivoluzionaria al punto più alto dello scontro tra le classi.

La fase di ricostruzione è un passaggio problematico e complesso per i molti fattori di contraddizione a cui l’avanguardia combattente deve dare soluzione.

A fronte della qualità richiesta dall’intervento rivoluzionario, quindi delle condizioni complessive per praticarlo, vi è la costante necessità di operare la ricostruzione dei mezzi e delle forze che devono essere disposte nello scontro. La necessità di mantenere l’equilibrio tra il confrontarsi con l’attività antiguerriglia e controrivoluzionaria dello Stato da una parte, e il processo di formazione delle forze rivoluzionarie dall’altra, comporta un andamento di avanzate-ritirate fortemente discontinuo.

Il grado di approfondimento dello scontro, le sue caratteristiche sono il perno principale su cui si misura la portata dell’intervento rivoluzionario relativamente ai rapporti di forza esistenti.

Ciò mette in luce una questione ineludibile per le forze rivoluzionarie, e cioè: per quanto un arretramento ponga problemi di assestamento dello stato stesso delle forze rivoluzionarie, questo assestamento può influire soltanto in termini relativi sulla portata dell’intervento rivoluzionario; al contrario, è lo stato delle forze rivoluzionarie che deve ricostruirsi e attrezzarsi per essere adeguato al grado raggiunto dallo scontro, al livello delle contraddizioni politiche dominanti che maturano tra classe e Stato e tra imperialismo e antimperialismo.

Occorre cioè sempre conquistare, costruire la capacità di operare la funzione di avanguardia dello scontro a partire dalle modifiche che l’attività guerrigliera stessa ha apportato nella dinamica dello scontro rivoluzione/controrivoluzione.

Le avanguardie di classe che si dispongono a contribuire al processo rivoluzionario in corso devono, sono obbligate a misurarsi con le caratteristiche reali raggiunte dallo scontro.

Le stasi apparenti e le condizioni provocate da ogni arretramento non significano mai ritorno-indietro del livello di scontro; non si possono ridare condizioni politiche generali proprie di periodi precedenti, l’andamento dello scontro procede sempre verso il suo approfondimento. Da ciò deriva l’impraticabilità reale di forme di intervento che possono aver avuto un qualche ruolo in fasi precedenti; l’inefficacia e l’improduttività di interventi che mettano in campo livelli deboli di organizzazione rivoluzionaria o supportati a situazioni di lotta.

L’adeguamento nella capacità di esprimere direzione al livello delle nuove condizioni dello scontro nella fase della ricostruzione è dato dal salto alla centralizzazione, che tende a muovere le forze dentro un piano organico di lavoro, come un corpo unico. Dunque non per apporto spontaneo, ma disposte e organizzate in modo da contribuire produttivamente: una dinamica cioè di “centralizzazione politica-decentralizzazione delle responsabilità”.

Non è infatti più sufficiente disporsi spontaneamente sul terreno della lotta armata ritagliandosi in piccolo i problemi posti dallo scontro. Si tratta invece di formare le forze all’interno di una disposizione che permetta di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro richiede, la dimensione del senso organizzato del lavoro rivoluzionario per rispondere alle necessità imposte da questo livello di sviluppo della guerra di classe.

Ciò all’interno dell’esigenza di operare, nell’unità del politico e del militare, alla ricostruzione degli strumenti politico-organizzativi per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato.

Tenendo nel dovuto conto l’approfondimento del piano di scontro rivoluzionario attuale – classe/Stato, imperialismo/antimperialismo -, è alle dinamiche che si sviluppano a partire dalla dialettica tra questi due fattori nel rapporto guerriglia-autonomia di classe sul terreno rivoluzionario che le BR fanno riferimento nel procedere alla ricostruzione delle forze e costruzione degli strumenti politico-organizzativi per attrezzare il campo proletario a sostenere lo scontro e nel perseguire le linee programmatiche di attacco allo Stato e all’imperialismo.

Su questi termini le BR-PCC sviluppano e verificano la loro capacità di attacco e assolvono alla funzione di direzione politico-militare della guerra di classe di lunga durata, all’interno della proposta strategica alla classe della lotta armata, e su questi termini di programma la nostra organizzazione lavora e dà sostanza all’unità dei comunisti.

Come militanti prigionieri rivendichiamo l’intero patrimonio teorico-politico della nostra organizzazione, che qui abbiamo riassunto in tratti generali, e che trova i compiuti punti di concretizzazione nell’attacco al cuore dello Stato con l’azione dell’aprile ’88 contro il senatore DC Roberto Ruffilli, nel raggiungimento della posizione unitaria nel Fronte nel testo comune con la RAF del settembre ’88 e nell’insieme dell’elaborazione teorico-politica che ne è complementare e che li ha costruiti.

In questo insieme teorico-pratico, frutto del confronto con la controrivoluzione, e con l’insieme dei problemi dello scontro, si ha il più alto grado di insegnamento della nostra esperienza storica come organizzazione, che si concretizza oggi nell’attività che le BR continuano a svolgere fuori di qui, nello scontro più concreto.

In quanto militanti della BR-PCC, forza attivamente operante nel quadro della politica del Fronte Combattente Antimperialista, ci riconosciamo nell’azione della RAF del luglio’90 contro Hans Neusel, segretario di Stato del Ministero dell’Interno di Bonn.

Rivendichiamo tutta l’attività politico-militare della nostra organizzazione.

Per noi e meglio di noi parla comunque la guerriglia, la nostra organizzazione, le Brigate Rosse.

Per quanto riguarda infine la nostra posizione in questo processo diciamo questo: ogni nostra iniziativa si svolge nell’ambito degli interessi della guerriglia, è una condotta dentro un conflitto in corso e non ha bisogno di alcuna giustificazione.

Perciò non c’è nulla da “giudicare”, e di certo noi non abbiamo niente riguardo cui “difenderci”.

Argomentare la nostra condotta sul terreno giuridico non ci interessa: il nostro terreno è il terreno della rivoluzione.

Onore alla combattente antimperialista Fadwa Hassan Ghanem caduta nell’azione del 25 novembre ’90 ad Arnon nel Sud Libano.

Onore a tutti i comunisti e combattenti antimperialisti caduti.

 

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di “riforma” dei poteri dello Stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare le linee generali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica “Europa Occidentale-Mediterraneo-Medio Oriente”.
– Combattere insieme.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

 

Cuneo, 18 dicembre 1990

 

Comunicato in ricordo di Sergio Spazzali (Pino)

Compagni e Compagne,

nella notte del 22 gennaio è morto in Francia il compagno Sergio Spazzali, nome di battaglia Pino, fondatore e dirigente della Cellula Comunista per la costituzione del Partito Comunista Combattente.

I giornali di regime hanno svilito il suo ruolo di militante e dirigente comunista, descrivendolo come l’avvocato delle B.R., oggi povero esule in Francia che si arrabatta tra gli stenti, e prepara il suo rientro in Italia ormai stufo di tale situazione.

La militanza rivoluzionaria di Pino smentisce radicalmente questa versione edulcorata di regime, e ci rivela il suo impegno e dedizione alla causa dell’emancipazione proletaria e della Rivoluzione Comunista. A partire dagli anni sessanta, Pino rifiuta gli agi e i privilegi della casta avvocatizia, è sempre presente nelle lotte del movimento operaio e studentesco, presente nei gruppi Marxisti-Leninisti del periodo, presente nelle delegazioni in Cina e in Corea del Nord, fondatore del centro Franz Fanon. Pino è animatore di Soccorso Rosso prima e del comitato per la difesa dei detenuti politici in Europa, a fianco dei compagni Greci e Spagnoli e nel Sud del mondo con l’M.P.L.A. dell’Angola, è parte attiva nel percorso del movimento rivoluzionario degli anni settanta, avvocato degli operai, degli inquilini, avvocato militante al servizio delle Avanguardie Comuniste Combattenti. Sino alla scelta della clandestinità in Francia, dove rifiuta ogni tipo di patteggiamento con lo Stato Francese e si dedica totalmente a ricostruire una presenza Comunista combattente in Italia e in Europa.

In questo contesto nell’85 è tra i fondatori della Cellula per la costituzione del Partito Comunista Combattente e nell’89 della rivista Per il Partito, delle quali è militante, contribuendo attivamente al loro sviluppo fino alla sua morte.

La stessa scelta del rientro in Italia nulla ha a che vedere con presunte nostalgie della sua terra natia, ma si tratta di una scelta politica collettiva.

Per i Comunisti Rivoluzionari e i proletari coscienti la morte di Pino è una di quelle morti che pesano come una montagna, in noi, suoi compagni di lotta ed amici, la sua morte lascia un vuoto umano e politico incolmabile.

Ma non gioiscano le classi dominanti, sapremo far vivere Pino seguendo il suo esempio e continuando con determinazione la lotta per la costituzione del P.C.C. e per l’affermazione della Rivoluzione Comunista.

 

Onore al Compagno Pino
Pino vive nella lotta per il Comunismo

 

Cellula Comunista per la costituzione del Partito Comunista Combattente

 

Febbraio 1994.

Processo in Corte di Assise di Appello Roma “Banda armata-D’Antona”. Documento dei militanti BR-PCC Nadia Lioce, Roberto Morandi letto in collegamento video-conferenza e allegato agli atti – Udienza dell’11/05/2006

All’apertura di un altro processo cosiddetto alle BR, di pochi mesi successivo ai precedenti, le dinamiche politiche scaturite dal rilancio della strategia della Lotta Armata operato dalle BR-PCC, continuano a ipotecare i progetti della borghesia di assestamento del suo dominio tramite la rimodellazione economico-sociale e le corrispettive riforme politico- istituzionali in atto funzionali alle necessità odierne della borghesia imperialista di governo della crisi e del conflitto e alla stabilizzazione interna quale base di forza per la partecipazione del paese alle strategie di guerra e controrivoluzione dell’imperialismo. Dovendo essi marciare nel quadro di contraddizioni e tensioni dello scontro di classe attuale in cui la borghesia non può attaccare apertamente le posizioni del proletariato e conquistare rapidamente terreno, l’iter, i contenuti e la gestione dei momenti giudiziari che riguardano militanti BR e rivoluzionari prigionieri, vengono investiti dalla ricerca dello stato di ipotetici punti di forza politici funzionalizzabili a divaricare la classe dal terreno rivoluzionario. E questa volta lo stato può avvalersi dell’assenza dall’aula di alcuni militanti prigionieri e segnatamente di coloro che rappresentano soggettivamente il rilancio per attenuare il risvolto politicamente a suo sfavore che svolge la presenza stessa dei militanti BR e rivoluzionari che rivendicano tale percorso sul tentativo costante di negare l’attualità politica dell’opzione rivoluzionaria e di fare del processo un momento di riaffermazione del potere dello stato da riversare sullo schieramento di classe e rivoluzionario. Una condizione che, se è determinabile automaticamente con l’adozione di un regime di prigionia quale il 41 bis che prevede l’assenza dal processo di coloro a cui viene applicato sopperendola con artifici tecnologici, segnala anche come, rispetto ai trenta e più anni trascorsi, in cui lo scontro tra rivoluzione e controrivoluzione ha attraversato periodi in cui i rapporti di forza sono stati maggiormente favorevoli alla rivoluzione di quelli attuali e pur tuttavia i militanti prigionieri sono sempre stati fisicamente presenti nelle aule giudiziarie fino a qualche mese fa, si è notevolmente ridotta la soglia di tolleranza dello stato borghese alle contraddizioni per il suo potere, fattore che la dice lunga sulla sua debolezza politica odierna di fronte all’opzione rivoluzionaria e a quanto la strategia della Lotta Armata ha attestato nello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione e classe e stato.

Attestazioni che sono il portato del rilancio dell’attacco allo stato e della strategia della Lotta Armata realizzato dall’avanguardia rivoluzionaria di classe misurandosi con i termini con cui la borghesia ha rafforzato il suo dominio e assestato la subalternità della classe dominata a partire dagli anni ’80, stabilizzando una relativa irreggimentazione del conflitto sociale e gli strumenti e le modalità di depotenziamento ed emarginazione dell’iniziativa politica autonoma di classe. Termini di dominio con cui ha ottenuto una tendenziale disposizione difensiva del proletariato in un quadro generale di rarefazione dello scontro di potere per parte proletaria in quanto, nella stasi dell’intervento combattente delle BR e in assenza della politicizzazione che imprime al conflitto di classe, lo scontro è stato privato del ruolo politico svolto dall’affermazione degli interessi generali del proletariato e della loro prospettiva di potere e storica, contrapposto alla sua frammentazione nella molteplicità di interessi particolari e al convogliamento di parte di essi nelle compatibilità con le esigenze della borghesia imperialista, così che, ad ogni passaggio politico venivano a maturarsi ulteriori termini di approfondimento della subalternità politica della classe e di arretramento delle sue condizioni materiali. Il rilancio è stato praticabile da avanguardie rivoluzionarie che negli anni ’90 hanno assunto soggettivamente i termini complessivi di patrimonio rivoluzionario più avanzati, verificati dalle BR-PCC nello scontro allora ventennale con lo stato e la borghesia imperialista, ed in particolare nello sviluppo avuto nella fase politica di cui gli anni ’90 stessi erano l’evoluzione, con la riaffermazione della capacità offensiva politico-militare dell’avanguardia comunista combattente al punto più alto dello scontro nel quadro degli indirizzi della Ritirata Strategica a fronte della controffensiva dello stato e del suo dispiegarsi sulla classe provocandone l’arretramento dalle posizioni di forza e politiche su cui si trovava. Ciò perché solo in forza della proprietà offensiva della Guerriglia che incide nei rapporti di forza in qualunque condizione dello scontro e quindi anche nella più sfavorevole, e a partire dalle linee storicamente dimostratesi in grado di portare l’attacco allo stato e di incidere sul piano classe/stato, facendo fronte al suo contrattacco, e cioè di preservare nello scontro il ruolo dell’offensiva di classe autonoma al suo livello più alto mentre il dato controrivoluzionario si consolida, l’avanguardia rivoluzionaria operandone lo sviluppo corrispettivo alle evoluzioni dello scontro nella prassi rivoluzionaria messa in atto, poteva sottrarsi all’arretramento prodotto nel campo proletario e rivoluzionario da una fase politica connotata dalla sedimentazione nello scontro di classe di un processo controrivoluzionario che aveva mutato a favore della borghesia gli stessi termini della mediazione politica storica con il proletariato, e riavviare nel quadro di discontinuità determinatesi la ricostruzione di forze rivoluzionarie e proletarie e di posizioni di forza relativa nello scontro con lo stato e la borghesia. In altre parole, ad ogni avanguardia rivoluzionaria di classe che non volesse venir meno all’esercizio di un ruolo politico riferito agli interessi generali e storici del proletariato, si poneva ineludibilmente il nodo dell’approfondimento della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione per come vi aveva inciso la prassi rivoluzionaria e, per contro, per come lo stato, ridefinendo le strategie politiche e militari sperimentate per annientare le BR e sterilizzare il movimento di classe dalla politicizzazione favorita dalla dialettica d’avanguardia, vi si era contrapposto per contenerla. E questo a pena dell’impossibilità di definire una prassi adeguata ad evitare l’arretramento e viceversa ad incidere nello scontro e a trasformare i termini sul terreno rivoluzionario. Misurandosi con questi nodi politico-strategici, il percorso del rilancio ha sviluppato gli elementi di impianto strategico e costituito un avanzamento nel processo rivoluzionario e nella costruzione del PCC perché ha dimostrato che è possibile produrre un processo di costruzione autonoma che sia allo stesso tempo passaggio di costruzione del Partito perché ha realizzato un piano di attivazione centralizzato politicamente che esalta la capacità della linea politica e del programma delle BR-PCC di essere elementi concreti di direzione sulla classe e sul campo rivoluzionario e ha verificato il valore di tipo storico che ha la linea politica generale attestata dall’O. nello scontro.

Il rilancio dell’attacco delle BR-PCC, in specifico ai progetti della borghesia di riforma e rimodellazione economico-sociale e dello stato, rideterminando lo scontro intorno al nodo del potere, ha aperto un varco offensivo nella difensiva di classe, nel quale ha potuto rafforzarsi e avanzare relativamente la sua resistenza e le sue istanze autonome di contro alla offensiva della borghesia. Offensiva che la borghesia si prefiggeva di portare avanti governando il conflitto secondo le formule proprie al rapporto politico neocorporativo costruito dallo stato con la classe che avrebbero dovuto evolversi ed ottenere consolidamento con il “dialogo sociale” nel quadro della riorganizzazione delle relazioni tra le classi in cui le Riforme del Lavoro, con lo smantellamento delle conquiste operaie, sterilizzando a monte il conflitto, sono funzionali a garantire i livelli di sfruttamento oggi richiesti dal capitale e a spingere la classe verso la subordinazione politica. E che invece ha dovuto fare i conti con l’attacco delle BR-PCC con l’azione D’Antona nel ’99 e Biagi nel 2002, in dialettica con l’opposizione di classe alle riforme e con il rilancio dell’alternativa di potere proletaria alla crisi economica politica e sociale della borghesia imperialista.

Attacco dell’O. che ha tolto offensività all’azione della borghesia e degli esecutivi e ha fatto risaltare la vulnerabilità politica di progetti di rimodellazione e riforma della borghesia imperialista che, realizzandosi in un contesto economico generale che in questa fase storica non è espansivo, si contrappongono direttamente e pervasivamente tanto nella metropoli che nei paesi dipendenti alle condizioni del proletariato metropolitano e dei popoli. In specifico, la crisi del modo di produzione capitalistico si è riversata con particolare gravità sull’economia del nostro paese a causa delle storiche debolezze strutturali del capitalismo italiano e delle scelte compiute dal capitale monopolistico autoctono nel misurarsi con i termini di concorrenza ridefiniti dall’approfondimento dell’internazionalizzazione nel quadro della penetrazione a est in cui si andavano ridisponendo posizioni e gerarchia delle formazioni economico-sociali. Scelte che, sostenute dalle politiche degli esecutivi volti a favorirne la competitività, non sono state tali, né avrebbero potuto, da sviluppare produzioni di punta e attività economiche che, solitamente accentrate nei paesi capitalisticamente avanzati, preservassero posizioni elevate nella gerarchia delle F.E.S., flussi di capitali e tenuta complessiva dell’economia. Viceversa hanno indebolito la struttura produttiva ed inciso profondamente sulle condizioni del proletariato, dapprima rendendo stabile una diffusa disoccupazione e una condizione di bassi salari e tagli alla spesa sociale e poi, nel quadro dei patti tra Esecutivo, Confindustria e Sindacati hanno avviato una precarizzazione generalizzata della nuova forza-lavoro e l’abbassamento dei salari al di sotto della soglia storica di sussistenza, allargando l’impoverimento ad ampi strati sociali, nel perpetuarsi della tendenza all’arretramento dell’economia, nel complicarsi del quadro dei fattori economici da governare e nel permanere delle istanze della borghesia imperialista di ulteriore sviluppo di riforme che abbattono gli ostacoli ai livelli di sfruttamento di cui ha bisogno. Una situazione critica, in cui le linee economiche e le riforme strutturali richieste dalla borghesia imperialista asfissiano l’economia e paralizzano le contraddizioni antagoniste e che spinge lo stato ad assumere ruolo nelle strategie belliciste e controrivoluzionarie del polo dominante USA, oltreché per farsi carico delle necessità di tenuta e rafforzamento del dominio imperialista, anche al fine particolare di recuperare le posizioni perse, partecipando al depredamento dei popoli e usufruendo di contropartite agli impegni militari, scelte che poi fanno i conti con la resistenza che i popoli aggrediti oppongono all’assoggettamento all’imperialismo.

In relazione a questi fattori, nella passata legislatura, l’esecutivo CdL si è indirizzato a forzare le posizioni storiche della classe, in particolare rispetto alle tutele del lavoro dal ricatto del licenziamento, un bersaglio da tempo nel mirino dei programmi della soggettività politica della borghesia nel suo complesso, obiettivo perseguito nel quadro più generale di realizzazione delle linee di riforma elaborate nel Libro Bianco. Linee di riforma antiproletarie e controrivoluzionarie che trovano il sostegno di fondo di uno schieramento che includeva anche la gran parte dell’opposizione istituzionale e dei sindacati confederali.

È stato l’attacco delle BR-PCC dapprima al Patto di Natale e poi al progetto del Libro Bianco a rideterminare lo scontro relativamente a favore dell’opposizione ad esso che la classe aveva messo in campo. L’offensiva dell’Esecutivo e della borghesia è stata scompaginata dalla dialettica tra attacco dell’Organizzazione e opposizione di classe e le forze che sostenevano gli indirizzi di riforma del mercato del lavoro e il complesso   delle linee di rimodellazione hanno dovuto operare un riposizionamento politico in parte rinunciando a rivendicare esplicitamente l’attuazione o a perseguirne tutti gli obiettivi, in altra parte forzando ulteriormente. Rinunciando sull’articolo 18 e rinviando alla successiva legislatura la ridefinizione dell’intera legislazione del lavoro, l’esecutivo CDL ha dato alla luce quella che definirà la Legge Biagi. Un passaggio compiuto fuori da una cornice politica e negoziale quale quella del patto per l’Italia rimasta inoperante, contando sull’acquiescenza dell’opposizione politica e sindacale istituzionale convergente sugli obiettivi di fondo delle riforme e avvalendosi delle superiori prerogative legislative assunte dagli esecutivi in questi anni, e attuato senza disdegnare di surrogare la perdita di forza politica che ha contrassegnato questo approdo con un rituale che nella denominazione, nei tempi e nei modi di vararla, facesse di questo risultato un’esibizione di potere della borghesia verso al classe e la sua avanguardia. In realtà i risultati conseguiti con la Legge Biagi hanno aperto la strada a un relativo assorbimento dei suoi istituti negli accordi conflittuali, immettendo ulteriori contraddizioni nelle condizioni della classe, ma per un altro verso, per come ha inciso e pesato nello scontro il rilancio dell’attacco allo Stato e la sua dialettica con l’opposizione di classe alle riforme, da un alto sottraendo offensività all’iniziativa dell’Esecutivo e compattezza al vasto schieramento istituzionale a sostegno dei suoi indirizzi antiproletari e dall’altro mettendo al classe su posizioni più favorevoli nel confronto con lo Stato, non sono stati tali da potersi tradurre in una stabilizzazione del dominio della borghesia. Anzi l’insieme delle forzature e strappi operati hanno alimentato il conflitto e mantenuta aperta la divaricazione tra classe e Stato, così che nel passaggio all’attuale legislatura e nell’agenda della nuova maggioranza di centro-sinistra, le contraddizioni politiche sedimentate dallo scontro sulle riforme economico-sociali restano ancora tutte sul tappeto e in un contesto in cui il ritorno a quella linea di gestione delle contraddizioni economiche, sociali e politiche secondo i canoni sperimentati dalla formula concertativi nella negoziazione neocorportativa di cui Confindustria e sindacati confederali hanno ripreso a tessere il filo, dovrà fare i conti con disponibilità di margini economici assai ridotti per comporre un sufficiente equilibrio di interessi sociali compatibili con le istanze della borghesia, e con la sostenibilità del ricorso a ulteriori forzature in una prospettiva in cui al soggettività politica della borghesia stenta a formulare una progettualità generale in grado di rilanciare i termini del rapporto neocorporativo con la classe. D’altra parte non è sul versante del rapporto di dominio dell’imperialismo sui popoli che gli Stati imperialisti, con la partecipazione alla “guerra preventiva al terrorismo” dichiarata dal polo dominante USA all’indomani dell’11/09 contro il nemico interno ed esterno ovunque esso si senta minacciato, hanno tratto forza politica. “Guerra preventiva” che, se esercita una spinta sulle linee controrivoluzionarie interne ad assorbirne i termini politici e militari che la connotano, lo fa contraddittoriamente, sia in rapporto all’evoluzione storica delle prime che vengono forzate, che a causa del suo andamento concerto. Essa stessa infatti non è stata un piano d’avanzamento per le strategie dell’imperialismo, avendo risposto alla necessità di recuperare la perdita di potere deterrente subita con la violazione del territorio USA e di riaffermare la sua egemonia pena l’aprirsi di spazi dia agibilità nella contrapposizione all’imperialismo da parte dei popoli e del proletariato metropolitano spinta dalle contraddizioni antagoniste e fratture disseminate dai processi innescati dalle strategie dell’imperialismo degli anni ’90. Ed essendo le strategie di guerra e controrivoluzionarie del polo dominante rivolte prioritariamente a ridisegnare gli assetti economici, politici e istituzionali della Regione Mediorientale così da rendere funzionali alle necessità delle frazioni dominanti della borghesia e conquistare nei rapporti di forza internazionali posizioni più avanzate nel confronto ad Est, riassetto di cui snodo è l’assoggettamento dell’Iraq, la resistenza contrapposta all’occupazione imperialista dalla guerriglia e dal popolo irakeno fa gravare sugli occupanti lo stallo in cui versa il conflitto a tre anni dal suo inizio e il logoramento politico e militare che subiscono, e sulle evoluzioni delle strategie globali che l’imperialismo mette in campo per far fronte alla sua crisi, fa pesare l’impossibilità per un lungo periodo di stabilizzare il controllo sull’intera Regione dove l’imperialismo e sionismo si scontrano dalla Palestina al Libano all’Afghanistan, con l’indisponibilità dei popoli a piegarsi al loro dominio.

Se ci si riferisce a quest’insieme di fattori politici del quadro di scontro interno ed internazionale si può comprendere come il riadeguamento in atto delle linee controrivoluzionarie generali sia ancora lontano dal costituire un consolidamento del dato controrivoluzionario quale capacità assestata di divaricare la classe dal terreno rivoluzionario e di respingerlo nella difensiva, ma costruisca la risposta dello Stato che si avvale dei risultati militari conseguiti, alla verifica storica della riproducibilità della guerriglia e alla maturità che ha raggiunto la linea politica generale delle BR-PCC riconfermata dalla dialettica che è stata in grado di determinare con la resistenza di classe anche in una discontinuità di percorso rivoluzionario e storico-politica complessiva. Risposta che nel darsi in un contesto in cui lo Stato è impegnato permanentemente nella proiezioni bellicista e controrivoluzionaria dello schieramento imperialista guidato dagli USA e sulle sue linee strategiche si rapporta anche alle necessità che ne derivano per essere congrua a garantirlo e si avvale relativamente e contraddittoriamente dei passaggi politici che hanno consentito di avviarlo e di mantenerlo.

La verifica della riproducibilità della guerriglia e l’indisponibilità della classe a indietreggiare dalle posizioni di resistenza e istanze di autonomia politica rafforzate dal rilancio ha indotto lo Stato ad anticipare la soglia della prevenzione e del contrasto della traducibilità delle istanze di classe sul terreno rivoluzionario comprimendo il conflitto, chiudendo spazi di agibilità politica e intimidendo esplicitamente le espressioni antagoniste alle politiche istituzionali, in generale in funzione della divaricazione della classe dall’opzione rivoluzionaria, ma anche affinché da subito i programmi politici funzionali alle urgenze della borghesia imperialista non vengano vincolati dalla tenuta della resistenza di classe e dalla tendenza delle sue istanze autonome a coagularsi, le quali anzi devono essere erose e ridotte all’impotenza.

Negli indirizzi controrivoluzionari generali hanno ruolo anche le politiche antiguerriglia dello Stato verso i prigionieri rivoluzionari, che si modificano in funzione dell’attacco politico all’Organizzazione BR-PCC nel nostro caso, e dell’intimidazione, del disorientamento e della demoralizzazione del campo di classe e rivoluzionario. In questi ultimi anni con iniziative e forzature a largo spettro sui prigionieri politici , lo Stato ha avviato linee di gestione della prigionia che hanno fatto leva su mezzi più esplicitamente coercitivi quali misure segregative tese in generale ad annientare l’identità politica dei militanti prigionieri e a silenziarne l’espressione, come peraltro è intrinseco alla spirito del regime del 41 bis esteso ai prigionieri politici e applicato per la prima volta agli arrestati del 2003 a seguito dei processi dello scorso anno. Forzature consistite anche in vere e proprie nefandezze del resto rappresentative del degrado politico e civile della borghesia. Un’evoluzione del rapporto Stato/prigionieri che giunge a maturazione attraverso la celebrazione della stagione processuale del 2005 con la quale lo Stato ha concentrato una pluralità di processi coinvolgenti a vario titolo militanti BR e rivoluzionari prigionieri vecchi e nuovi, gestita da Magistratura e Ministeri in modo unitario e che avrebbe dovuto inscenare e dare risonanza sul piano propagandistico a una sorta di chiusura storica con l’opzione rivoluzionaria praticata e proposta a tutta la classe dalle BR, magari decretata persino nelle sentenze… Più concretamente, tale passaggio, in relazione ai rapporti politici reali tra classe e Stato nei quali è il rilancio, rappresentato nei processi dai militanti BR e rivoluzionari che in esso hanno il proprio riferimento politico, ad avere peso dominante, è andato a sfociare nella messa a punto delle condizioni formali su cui poggiare le decisioni segregative e censorie verso i militanti prigionieri, ma anche più in generale il contrasto di posizione antagoniste persino di dissenso che, rappresentando anche solo come presenza e parola una contrapposizione alle politiche statuali e della borghesia sono diventate oggetto ricorrente di iniziative delle procedure e di assalti e accerchiamenti mediatici. Una prassi che è riferibile all’attuale contesto di scontro in cui i rapporti di forza con la classe sono favorevoli allo Stato e alla borghesia, mentre i rapporti politici sono stati modificati dal rilancio relativamente a favore del proletariato, e alla conseguente necessità della borghesia di riconquistare il terreno politico perso e stabilizzare il rapporto di dominio sulla classe a un nuovo livello. In questa prospettiva anche la condotta dei militanti BR e rivoluzionari prigionieri che tradizionalmente nella prigionia e nei momenti processuali ne esprime l’identità politica, viene attaccata con vari espedienti formali criminogeni e mettendo in opera mezzi coercitivi di manipolazione della loro identità sociale e politica. Un attacco che viene riversato in termini di minaccia deterrente verso gli ambiti d’avanguardia e il cui indirizzo informatore è generalizzato calibratamene nel contrasto delle espressioni di autonomia della classe. Un indirizzo che se cela malamente nelle elucubrazioni giuridiche con cui viene motivato e prende forma la vulnerabilità politica e la condizione difensiva dello Stato borghese nel confronto con l’opzione rivoluzionaria della Strategia della Lotta Armata, integra la rideterminazione delle linee controrivoluzionarie che oggi si misurano con il problema della ricomposizione forzosa delle fratture immesse dal rilancio, per restituire agibilità alle politiche antiproletarie della borghesia ma che, in quanto e nella misura in cui intervengono a compensare con la compressione o la repressione del conflitto la perdita di efficacia degli strumenti e modalità di contenimento, raffreddamento e assorbimento dello scontro di classe che è derivata dalla direzione impressa allo scontro dall’intervento delle BR-PCC, politicamente sanciscono e approfondiscono la frattura che il rilancio ha immesso nel rapporto che lo Stato aveva costruito con al classe, frattura prodotta dal ripetuto attacco dell’Organizzazione allo Stato, nei nodi centrali della contraddizione dominante che appone le lassi in questa fase, che ha fatto emergere il carattere coattivo della mediazione politica neocorporativa con cui il proletariato viene costretto in una condizione di subalternità alla borghesia, politicizzando lo scontro di classe.

Per quanto ci riguarda come militanti BR-PCC, l’interesse al rito giudiziario che si svolge in questi giorni è unicamente quello di rivendicare tutta l’attività delle Brigate Rosse e di riaffermare la nostra militanza nell’Organizzazione. Dei nostri atti politici rispondiamo soltanto al proletariato e alle BR-PCC che ne sono l’avanguardia e lo rappresentano. Non abbiamo nulla di cui difenderci, non parteciperemo alla farsa del collegamento in video a meno di non avere qualcosa da dire.

La rivoluzione non si processa!

Onore al compagno Mario Galesi caduto combattendo per il Comunismo!

Onore a tutti i rivoluzionari e antimperialisti caduti!

I militanti BR-PCC Nadia Lioce, Roberto Morandi

Guerra alla guerra. Seconda Corte d’Assise di Roma – Processo “BR-Romiti”. Documento allegato agli atti di Luciano Farina e Giovanni Senzani del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta

Vogliamo ribadire la nostra identità rivoluzionaria e la nostra internità all’esperienza guerrigliera degli ultimi 20 anni in Italia. Esprimiamo il nostro sostegno militante alla pratica combattente delle organizzazioni guerrigliere che stanno costruendo il Fronte Rivoluzionario Antimperialista in Europa e nell’area mediterranea-mediorientale.

Riconosciamo nell’iniziativa della Rote Armee Fraktion che il 14 febbraio ha colpito l’ambasciata USA a Bonn un primo momento di solidarietà con il popolo iracheno massacrato dai bombardamenti della forza multinazionale.

Ormai è chiaro: i molti attacchi portati avanti dalle forze guerrigliere in Europa e in tutto il mondo contro la politica guerrafondaia dell’imperialismo occidentale stanno sviluppando significativamente la guerra internazionale di classe.

Sula parola d’ordine della guerra alla guerra le forze rivoluzionarie di tutto il mondo cominciano a far vivere concretamente l’unità con la lotta del popolo arabo e palestinese.

Come militanti comunisti non abbiamo nulla da cui difenderci. Il vero processo si svolge fuori da quest’aula e le migliaia di manifestazioni e di iniziative antimperialiste processano con chiarezza il vero imputato: il potere politico e militare degli USA e della NATO. Gli USA, la CEE e gli Stati europei, le multinazionali e gli oligopoli finanziari come la Fiat che stanno guidando l’aggressione al popolo arabo oggi sono sotto processo.

I proletari e i rivoluzionari in ogni parte del mondo hanno già cominciato ad individuare nello Stato e nel governo italiano, che ha mandato i Tornado assassini nel Golfo, uno dei nemici da combattere.

E ciò vale ancora di più per i proletari e i rivoluzionari di questo paese che si è trasformato tutto intero, dal Nord al Sud, in un’immensa base militare per favorire l’escalation della guerra nel Golfo Persico.

Insieme con i movimenti di massa e le forze rivoluzionarie nel mondo sviluppiamo la guerra alla guerra in Europa e nel Tricontinente del Sud!

Non abbiamo altro da aggiungere e revochiamo il mandato ai nostri avvocati difensori.

 

Alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta: Luciano Farina, Giovanni Senzani

 

Febbraio 1991

Contro la guerra imperialista. Seconda Corte d’Assise di Roma, processo “BR-Romiti” – Documento allegato agli atti di Luciano Farina e Giovanni Senzani del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta

Questo processo è stato istruito dallo Stato per difendere il boss Fiat Cesare Romiti, un personaggio – ben noto a tutti i proletari italiani – che ha guidato la ristrutturazione della multinazionale Fiat per tutti gli anni ’80 mandando sul lastrico migliaia di famiglie e che oggi fa parte di quel personale politico imperialista che spinge in avanti la guerra imperialista per risolvere la crisi sempre più profonda del capitalismo.

Anche Romiti è dietro ai bombardamenti che la forza multinazionale attua giornalmente contro il popolo iracheno per occupare l’area del Golfo Persico.

La guerra imperialista scatenata dall’Occidente con l’invasione del Golfo dimostra una volta di più che il capitalismo è barbarie.

La distruttività dell’attacco dell’imperialismo americano-sionista-europeo contro l’Iraq, contro il popolo arabo e palestinese, contro il Sud del mondo, è storia di questi giorni e lo sarà per molto tempo ancora. Per questo la guerra psicologica guidata dagli esperti del Pentagono tende a costruire deliberatamente lo scenario necessario per portare l’escalation militare al livello massimo.

Questa guerra è un attacco all’intero proletariato internazionale e a tutti i movimenti rivoluzionari delle aree del centro e dei continenti del Sud.

I bollettini trionfanti delle “potenze belligeranti” (USA, Gran Bretagna, Francia, Italia…) sulle decine di migliaia di bombardamenti realizzati in Iraq, non sono il pulito bilancio di una guerra tecnologica ma la disumana contabilità giornaliera degli uomini, delle donne, dei bambini arabi uccisi “in silenzio”. Il razzismo di questa guerra e della sua gestione massmediata è tale che la realtà dei morti non appare se non quando viene sparsa una goccia di sangue israeliano.

Quello che interessa alla borghesia imperialista e che viene conteggiato accuratamente è il costo delle sue macchine di guerra ad alta tecnologia e non la vita umana di intere popolazioni.

La natura reale di questa guerra è il suo carattere mondiale. Essa travalica i confini dell’area mediorientale perché oltre le ragioni concrete di controllo delle fonti energetiche, di riequilibrio di potere a favore dell’imperialismo, di depotenziamento globale della contraddizione rappresentata dalla lotta di liberazione della rivoluzione palestinese, ci sono tutte intere le ragioni della crisi strutturale capitalistica che spinge sempre più gli strateghi della borghesia a trovare soluzioni guerrafondaie.

Uno degli obiettivi è quello di ristabilire rigide leggi sulla produzione-circolazione-gestione della materia prima petrolio; un altro è quello di raggiungere con la forza la definizione e stabilizzazione del nuovo ordine capitalista mondiale forzando ulteriormente gli equilibri di Yalta a favore degli USA.

Le masse proletarie in ogni angolo del mondo hanno già capito il senso distruttivo di questa guerra e si stanno mobilitando in migliaia di manifestazioni contro di essa. Dai popoli arabi ormai in aperta rivolta contro le classi dominanti alleate dell’occidente e sempre più solidali con il popolo iracheno aggredito, ai movimenti di massa in USA ed in Europa sempre più in lotta contro la nuova estasi di potenza dell’occidente e della sua forza multinazionale. Le forze rivoluzionarie in Europa e in tutto il mondo sanno che l’unica soluzione è quella di trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria, sviluppando in avanti i processi rivoluzionari in ogni paese e l’attacco unitario contro l’imperialismo. La molteplicità e continuità delle iniziative di attacco realizzate in questi giorni in moltissime aree del mondo (dal Mediterraneo all’America Latina, dall’Europa alle Filippine…) è un primo segnale di questa nuova coscienza internazionalista.

Come comunisti prigionieri non possiamo che essere a fianco del popolo iracheno e dell’intero popolo arabo aggredito dalla forza multinazionale e di tutti i popoli e i proletari che combattono contro la barbarie imperialista.

Contro la guerra imperialista sviluppare la guerra internazionale di classe.
Guerra alla NATO e alla forza multinazionale.
Lottare uniti contro l’imperialismo in Europa e nel tricontinente del Sud.
Consolidare il Fronte Rivoluzionario Antimperialista in Europa e nell’area mediterranea-mediorientale.

Alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta: Luciano Farina, Giovanni Senzani

 

Roma, 28 gennaio 1991

Tribunale di Cuneo. Documento dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

La guerra di aggressione imperialista all’Iraq è un passaggio di importanza storica per il processo rivoluzionario a livello internazionale e anche per le sue implicazioni a livello interno. Sono, questi, “giorni che valgono anni”, che spezzano il tempo in maniera netta tra un prima della guerra e un dopo: niente rimane lo stesso e il processo storico assume qualità e velocità nuove; ogni cosa è messa alla prova da una crisi di dimensioni mondiali e i fatti impongono le loro lezioni.

Gli avvenimenti ancora in corso decideranno esiti e bilanci nello svolgersi delle lotte sul campo, nelle verifiche dei rapporti tra le forze su scala mondiale. Noi qui, come militanti prigionieri delle BR-pcc, intendiamo, rispetto ai movimenti in atto, collocarci, e soprattutto riaffermare la posizione internazionalista e antimperialista del nostro processo rivoluzionario, rivendicare l’internazionalismo e l’antimperialismo nella strategia, nel programma e nella prassi delle Brigate Rosse.

Tutt’altro che una “sorpresa” questa guerra di aggressione è invece un “risultato”, prodotto coerente e conseguente di tutto lo sviluppo del sistema imperialista negli ultimi anni, ed evidenzia, e a sua volta ridetermina, il nuovo contesto in cui hanno luogo oggi le lotte tra le classi e tra gli Stati nel processo di putrefazione dell’imperialismo.

La tendenza alla guerra è insita nella dinamica stessa del modo di produzione capitalistico: è questo il modo in cui esso storicamente ha superato via via le sue crisi, approfondendo, anziché risolvere, le sue contraddizioni di fondo. La distruzione di capitali, forza-lavoro, mezzi di produzione eccedenti, l’ottimizzazione delle condizioni di penetrazione finanziaria e commerciale e l’acquisizione diretta di nuove aree, la ridefinizione dei mercati per una nuova divisione internazionale del lavoro sono l’obiettivo e il prodotto della guerra.

L’ultima guerra mondiale è stata l’inevitabile sbocco della grande crisi del 1929-30 e ha disegnato l’attuale quadro mondiale dominato dall’imperialismo Usa, e in cui le contraddizioni interimperialistiche prima dominanti, sono state sostituite dalla contraddizione Est/Ovest, che è diventata terreno di realizzazione della tendenza alla guerra ed elemento determinante e condizionante nei conflitti succedutisi nel corso di questo dopoguerra.

L’esito attuale della “guerra fredda”, con i nuovi rapporti di forza determinatisi con la crisi interna dell’Urss e il suo ridimensionamento nella scena politica mondiale, e con la ridefinizione della linea di demarcazione a est e lo scioglimento del Patto di Varsavia, hanno consentito agli Usa di scatenare questa guerra imponendo via via le proprie decisioni politiche e militari senza sostanziali condizionamenti.

L’aggressione all’Iraq deriva dalla necessità di ratificare a livello mondiale questi rapporti di forza nel pieno di una grave recessione economica che dagli Usa è andata diffondendosi negli altri Stati del sistema imperialista. Una recessione che giunge dopo dieci anni di “reaganomics“ e di politiche di riarmo utilizzate come volano dell’economia, e nell’ambito della crisi di sovrapproduzione apertasi all’inizio degli anni Settanta, una volta esaurita la fase espansiva innescata dalla seconda guerra mondiale.

Cartina al tornasole per la misura dei rapporti di forza nell’ambito della contraddizione Est/ovest, la guerra all’Iraq segna, con la colossale esibizione di forza e l’insediamento americano nella regione, una pesante riaffermazione dell’egemonia Usa sull’intero sistema imperialista, e rafforza, con il controllo diretto delle fonti energetiche, il peso degli Usa nei confronti degli altri Stati del centro, particolarmente nei confronti di Giappone e Germania. Ed inquadra i processi di coesione tra i diversi Stati europei come coesione nell’insieme del sistema imperialista, riconfermando la sostanziale subordinazione alla leadership Usa; ogni specificità particolare di interessi si esalta nella relazione bilaterale che gli Usa separatamente stabiliscono con i diversi Stati imperialisti europei, subordinando a questo livello i processi di concertazione intereuropei.

La massiccia presenza militare diretta nella regione mediorientale pesa ulteriormente nei confronti della vicina Unione Sovietica, e tende alla risistemazione dell’intera regione, contro ogni spinta che si organizzi come forza tendente a un qualche grado di autonomia e indipendenza sulla base delle contraddizioni determinate dalla struttura economico-sociale dell’imperialismo alla periferia, contro le spinte antimperialiste e rivoluzionarie, e particolarmente contro l’avanguardia nella lotta delle masse arabe: la rivoluzione palestinese.

Ma, quale che sarà la misura del vantaggio immediato che ne deriva per l’imperialismo, questa guerra non risolve uno solo dei problemi che l’hanno prodotta. Al contrario, l’aver dovuto tentare di risolvere su questo terreno le proprie contraddizioni non fa che approfondirle e accelerarle in termini critici.

Del tutto irrilevante, ovviamente, ogni questione di diritto internazionale violato e balle varie: nel cielo inevitabilmente e completamente borghese del diritto internazionale, in sede Onu avviene soltanto la ratifica formale del rapporto di forza reale. L’Iraq, fatto oggetto di attenzione e di incombente ridimensionamento da parte di un Occidente che, se ben aveva gradito la guerra di contenimento nei confronti dell’Iran rivoluzionario, non altrettanto gradiva l’accresciuta forza regionale che ne era uscita, con l’operazione di incorporazione del Kuwait non ha fatto che muoversi per primo, prendendo l’iniziativa e cercando di determinare, per quanto rimaneva nelle sue possibilità, luoghi, margini e tempi di un affrontamento che era in ogni caso inevitabile e già deciso dalle politiche sionista e imperialista nella regione.

Le masse arabe sfruttate e oppresse hanno visto nella sfida dell’Iraq all’imperialismo ciò che, in altre condizioni storiche, ha rappresentato 1’Egitto di Nasser nella nazionalizzazione del Canale di Suez: il simbolo dell’orgoglio e della dignità dell’intera nazione araba. Milioni di uomini si sono mobilitati, dal Maghreb al Machrek, in questo che è un altro nuovo inizio di processi di lotta e organizzazione i cui frutti matureranno a lungo. La resistenza dell’Iraq ha reso visibile, concreta, viva, la possibilità del rivoluzionamento delle condizioni di oppressione e di sfruttamento di milioni di uomini.

Il rovesciamento dell’emiro del Kuwait, gli attacchi alle petrolmonarchie del Golfo hanno riaffermato nei fatti da una parte la realtà di una nazione araba divisa dal colonialismo e dall’imperialismo, di confini e Stati disegnati dalle potenze occidentali il cui ruolo è quello di agevolare il trasferimento delle risorse economiche arabe a vantaggio degli imperialisti, dall’altra che questa realtà può essere rovesciata.

Gli attacchi allo Stato sionista hanno dimostrato ancora una volta alle masse arabe che esso non è invulnerabile, e hanno riaffermato davanti al mondo che, dal suo insediamento nel 1948, “Israele” è in stato di guerra con tutti gli arabi.

La presenza dello Stato sionista come avamposto politico-militare delle metropoli imperialiste incuneato nella nazione araba è la base materiale sulla quale si fonda l’organizzazione soggettiva della rivoluzione palestinese, centro della mobilitazione araba. Ciò ne fa la questione fondamentale della pacificazione imperialista dell’area, poiché le forze rivoluzionarie palestinesi l’hanno trasformata in un processo rivoluzionario aperto nel cuore della regione.

Dal 1965, data d’inizio della lotta armata in forma organizzata, le avanguardie combattenti del popolo palestinese hanno saputo compiere i passaggi che hanno impedito l’attuazione di tutte le varianti del progetto centrale dell’imperialismo nell’area: la cancellazione della “questione palestinese” e la risistemazione politica della regione intorno allo Stato sionista. Nel ’68, lo stesso anno della battaglia di Karameh, che segna la rivincita della dignità araba dopo la sconfitta del ’67, l’avanguardia combattente palestinese porta la linea del fronte nel cuore stesso dell’imperialismo, in Europa, come già aveva fatto la rivoluzione algerina, affermando così con forza quella linea antimperialista che rende la rivoluzione palestinese un punto di riferimento essenziale per ogni processo rivoluzionario sia nella periferia che nel centro. I massacri che il popolo palestinese ha subito nel corso della sua storia, da Deir Yassin al “Settembre nero”, da Tall El Zatar a Sabra e Chatila, ai continui assassinii in tre anni di intifada, non hanno fermato la rivoluzione palestinese, e le forze rivoluzionarie non hanno mai smesso di combattere, anche in questi mesi, in una situazione che si è fatta oggi estremamente difficile.

L’imperialismo si è infatti, con questa operazione, massicciamente impiantato nella regione, determinando così l’imposizione di rapporti di forza ad esso favorevoli sui piani militare, politico-diplomatico, economico. Ma la presenza di mezzo milione di soldati Usa nella regione ha già attivato tutte le forze, nazionaliste e comuniste, che, ai bordi della Palestina occupata, hanno trovato un eccezionale momento di confronto e unità. La guerra rivoluzionaria riparte da qui con maggiore forza e qualità politica.

Nelle dinamiche attivatesi in questa guerra si è vista la realtà e il peso del dominio imperialista e, insieme, la materializzazione della prospettiva rivoluzionaria della storia.

L’Iraq è stato sopraffatto sul campo e questo, negli attuali rapporti di forza, è stato inevitabile; ma ha combattuto e resistito, e questa resistenza, per le questioni che ha posto e nel significato rivoluzionario che ha assunto per le masse arabe e per tutti gli antimperialisti, è stata davvero una vittoria. In questo l’Occidente ha perso: nella sua enorme forza tattica ha messo a nudo agli occhi degli oppressi di tutto il mondo anche la sua debolezza strategica, il suo essere una “tigre di carta“. La possibilità della resistenza, della lotta, è la possibilità della vittoria. Il fuoco che covava sotto la cenere è riemerso e non sarà facile soffocarlo: l’imperialismo stesso lo ha suscitato, ed esso troverà oggi e da oggi nuove forze rivoluzionarie e nuovi attacchi sulla sua strada.

Già immediatamente, nel corso della guerra, nel mondo intero, dalla periferia al cuore stesso dell’imperialismo, le forze rivoluzionarie hanno saputo attrezzarsi e combattere da subito contro questa guerra di aggressione, attaccando uomini, strutture e interessi della forza multinazionale imperialista, proseguendo e rilanciando la lotta contro i progetti imperialisti, la Nato, la macchina militare americana.

Nella nostra area geopolitica, oltre agli attacchi delle forze rivoluzionarie arabe, i compagni di “Dev-Sol” in Turchia, e in Grecia i compagni dell’organizzazione “17 Novembre” hanno sviluppato campagne offensive di largo respiro, i compagni della Raf hanno mitragliato l’ambasciata USA in Germania, colpi di mortaio hanno raggiunto il Ministero della difesa e il Ministero degli esteri britannici per opera dell’Ira, e altri attacchi sono stati portati un po’ dovunque, in rapporto alle condizioni delle forze rivoluzionarie e alla maturità delle situazioni.

Attaccare i progetti centrali dell’imperialismo, attaccarlo alle spalle, rendere insicuro il suo retroterra, cacciare gli imperialisti dalla regione mediorientale, nella prospettiva del rovesciamento dei rapporti di forza tra imperialismo e rivoluzione, è infatti il compito delle forze rivoluzionarie dell’intera area.

L’Italia è entrata in guerra. Lo Stato imperialista italiano ha partecipato alla pianificazione e all’attuazione di un’immane carneficina, condotta industrialmente al livello di sviluppo tecnologico contemporaneo, che in poche settimane ha prodotto in serie, in una grande catena di montaggio, un numero sterminato di cadaveri di uomini, donne e bambini iracheni.

Lo Stato italiano ha sempre svolto la sua parte nel ruolo che storicamente e strutturalmente è proprio del centro imperialista, e sempre si è adeguato alle esigenze dell’imperialismo nelle diverse fasi al livello necessario. Questo passaggio ratifica ora un livello di maturazione raggiunto, e ridetermina le nuove responsabilità che l’Italia va ad assumere in campo imperialista, la sua collocazione nel sistema, e i vantaggi in campo economico e politico che derivano dalla sua posizione nel dominio sulla regione.

Il ruolo assunto con la partecipazione attiva in questa guerra rende naturalmente ancora più urgente, e impone una nuova accelerazione, a quei riadeguamenti in campo istituzionale, a quella ridefinizione dei poteri dello Stato già all’ordine del giorno per la borghesia imperialista per adeguare lo Stato imperialista italiano al livello delle democrazie più avanzate del centro imperialista, ratificando in ciò i rapporti di forza acquisiti nei confronti del proletariato metropolitano. Questi rapporti di forza sono oggi il risultato di venti anni di scontro di classe, particolarmente della controrivoluzione degli anni Ottanta, e dei nuovi equilibri determinatisi negli ultimi anni a livello internazionale, fino a questa guerra.

Viene così ulteriormente riaffermata, imposta dai fatti, la piena attualità del progetto di riforma istituzionale che la nostra organizzazione ha individuato e attaccato con l’azione contro il senatore DC Ruffilli nell’aprile ’88, come il progetto centrale della borghesia imperialista in questo paese: quello che abbiamo definito il cuore dello Stato.

L’entrata in guerra ratifica anche un livello di sviluppo della controrivoluzione preventiva e dell’attività rivolta a incanalare le spinte antagoniste nello schieramento lealista e all’ingabbiamento delle spinte autonome di classe, finalizzata a ottenere il massimo grado possibile di pacificazione interna.

In ciò ha un ruolo anche una gestione ideologica costruita negli anni, e che ha sviluppato una coscienza imperialista a supporto del nuovo grado di impegno militare diretto: i movimenti di opinione che si sono “schierati” in questa vicenda sono infatti direttamente la sovrastruttura politico-ideologica di questa guerra di aggressione e dei suoi macellai. Interventisti da un lato e sostenitori dello strangolamento economico dall’altro, che hanno occupato la scena in questi mesi, sono due facce della medesima medaglia: la coscienza imperialista mobilitata.

Le ideologie della “superiorità civile” dei metodi non-violenti contro guerra e violenza, con il loro filantropismo caritatevole, poggiano sulla stessa sporca guerra che “disapprovano”, sulla base dei sovraprofitti derivati dal dominio imperialista sui popoli del mondo. L’“orrore per la guerra” non sviluppa nient’altro che buoni sentimenti antirivoluzionari se non è subito insieme orrore per la pace, per la “normalità” del sistema imperialista, del capitalismo contemporaneo – del quale la guerra è un aspetto. Sulla base di questa compartecipazione agli utili derivanti dal dominio sulla periferia poggia, sin dalla nascita dell’imperialismo, l’ideologia pacifista della piccola borghesia metropolitana, l’opportunismo, il revisionismo storico e l’integrazione del movimento operaio istituzionalizzato nella collaborazione con l’imperialismo.

Contro l’imperialismo nelle metropoli dell’Europa occidentale c’è soltanto la posizione rivoluzionaria della guerriglia, e dell’autonomia operaia e proletaria, l’autonomia di classe che in dialettica con la guerriglia si è sviluppata in due decenni di scontro rivoluzione/controrivoluzione, e che è tale, “autonoma”, in quanto antiistituzionale, antistatale, antinazionale e antimperialista. Il nemico interno dello Stato.

Questa è la situazione reale, e solo da qui, dalle dure e difficili condizioni imposte dall’approfondimento dello scontro è possibile sviluppare la lotta rivoluzionaria.

Solo sul terreno rivoluzionario, il terreno della guerra di classe, è possibile spezzare ogni compromissione del proletariato metropolitano con gli interessi imperialisti, sviluppare la sua autonomia e indipendenza strategica, il suo carattere rivoluzionario, dunque il processo unitario tra proletariato del centro e classi sfruttate alla periferia del sistema – condizione per la vittoria qui.

Il processo rivoluzionario condotto in Italia dalle Brigate Rosse è sin dall’inizio caratterizzato come processo rivoluzionario internazionalista e antimperialista.

La guerriglia nelle metropoli nasce infatti, tra la fine degli anni Sessanta e inizio Settanta, nel quadro dell’assetto storico-politico e economico-sociale del mondo capitalistico uscito dalla seconda guerra mondiale, dentro il mutamento a livello generale dei rapporti di forza tra proletariato internazionale e imperialismo determinato dallo sviluppo delle lotte di liberazione alla periferia del sistema e dalla nuova ripresa della lotta di classe nel centro: si sviluppano così lotte proletarie e operaie autonome dalla logica capitalistica e si forma una nuova soggettività rivoluzionaria che afferma la strategia della lotta armata per il comunismo come la sola politica rivoluzionaria adeguata a queste condizioni storiche.

Affermandosi nella tradizione storica e come parte del movimento comunista internazionale, la guerriglia pone la questione della rivoluzione proletaria nella metropoli nel quadro degli interessi del proletariato internazionale, poiché, per il grado materiale di sviluppo qui raggiunto dalle forze produttive, una vittoria rivoluzionaria nel centro è un obiettivo di portata decisiva per gli interessi generali del proletariato mondiale, per le possibilità che apre di sbloccare la situazione anche rispetto all’ulteriore sviluppo dei processi rivoluzionari alla periferia del sistema e nell’insieme del mondo capitalistico.

«La guerriglia è la forma dell’internazionalismo proletario nelle metropoli. È il soggetto della ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale» (Risoluzione della Direzione Strategica 1978). Si costituisce dall’inizio come parte e funzione della guerra di classe internazionale e sviluppa la lotta per il potere negli Stati del centro imperialista come parte della rivoluzione proletaria mondiale, subordinata e funzionale ad essa. Con ciò rivela l’inadeguatezza storica delle impostazioni “terzinternazionaliste”, e il carattere reale delle loro degenerazioni nelle “vie nazionali al socialismo” dei Pc revisionisti, particolarmente della contemporanea “via italiana” del Pci.

Le Brigate Rosse conducono il processo della guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico generale e l’instaurazione della dittatura proletaria in questa impostazione strategica. Internazionalismo e antimperialismo caratterizzano perciò i contenuti della dialettica tra guerriglia e autonomia di classe lungo tutto il processo rivoluzionario, per ragioni oggettive e soggettive, consapevolmente sin dall’inizio.

Questo carattere si è affermato nella prassi e nella prassi si è verificato e progressivamente precisato.

Con l’operazione contro la Nato del dicembre ’81, incentrata sulla cattura-processo del generale Usa Dozier, comandante Nato per il Sud-Europa, il principio strategico del carattere internazionalista e antimperialista del processo rivoluzionario veniva riaffermato con forza nell’attacco pratico contro i progetti centrali dell’imperialismo; muovendosi come sviluppo dell’offensiva dei compagni tedeschi della RAF contro la base militare Usa di Ramstein e contro il generale Usa Kroesen, in dialettica anche con l’azione contro l’addetto militare Usa a Parigi Ray compiuta dalle Farl libanesi e con altre iniziative di quella fase “contro gli uomini, i centri e le basi della macchina militare americana”, sviluppando il “programma di unità con i comunisti e di alleanza con i popoli oppressi dall’imperialismo”. Soprattutto la posizione antimperialista trovava un primo momento di concretizzazione nella proposta della «costruzione del Fronte Combattente Antimperialista in tutta l’area europea e mediterranea» (Direzione strategica 1981), parola d’ ordine fondamentale che ha caratterizzato in tutti gli anni Ottanta la prassi della nostra organizzazione.

Con l’azione contro l’amerikano Hunt, direttore della forza multinazionale in Sinai, costituita dall’imperialismo per garantire gli infami accordi di Camp David tra l’Egitto del “traditore Sadat” e l’entità sionista, che hanno costituito per una lunga fase il centro del progetto imperialista di normalizzazione della regione mediorientale sulla pelle del popolo palestinese, le Brigate Rosse attaccano un obiettivo e una struttura garante e agente di un equilibrio funzionale agli interessi strategici Usa e Nato in Medio Oriente, che vedeva, tra l’altro, uno dei primi momenti di intervento direttamente militare dello Stato imperialista italiano nella regione. L’attacco si collocava, nel febbraio ’84, nel quadro della grande battaglia delle forze rivoluzionarie antimperialiste libanesi e palestinesi contro la presenza della forza multinazionale a Beirut, mentre dalla corazzata Usa “New Jersey” partivano i cannoneggiamenti sui quartieri popolari musulmani di Beirut ovest, e alla vigilia della sconfitta di quel progetto imperialista con il rovinoso ritiro dei contingenti francese e americano sotto i colpi della resistenza libanese.

Immediatamente prima dell’aggressione imperialista contro la Jamahirija libica, partita dalle basi Usa e Nato in Italia, si colloca, nel febbraio 1986, l’azione contro Conti, stretto collaboratore dell’allora Ministro della difesa filo-sionista Spadolini, e trafficante di armi con “Israele”; azione nella quale si precisa la definizione della nostra area geopolitica come “Europa-bacino del Mediterraneo-Medio Oriente”, caratterizzata dal concentrarsi dei piani di contraddizione tipici del modo di produzione capitalistico, di quello tra i due blocchi, e di quello tra i paesi dell’Occidente industrializzato e i paesi dipendenti; si individua il carattere cruciale nell’area della questione palestinese; e si afferma la tendenza oggettiva alla “convergenza tra gli interessi del proletariato europeo con quelli dei popoli progressisti dell’area”. La parola d’ordine dell’“unità internazionale dei comunisti”, che ha sempre caratterizzato le Brigate Rosse, posta anche negli attacchi dell’81 contro Dozier e dell’84 contro Hunt, è precisata in opposizione al “purismo dogmatico” emme-elle astratto dalle dinamiche sociali reali e collocata invece nel quadro di un’imprescindibile prassi antimperialista che distingue livelli di unità e livelli di alleanza.

La prassi unitaria di Action Directe e Rote Armee Fraktion, con le azioni contro il complesso militare-industriale, contro Zimmermann, contro Audran, 1’azione comune contro la base militare Usa a Francoforte sulla base del testo AD-RAF del gennaio ’85 ha segnato, nel corso degli anni Ottanta, un’importante tappa politica alla quale le Brigate Rosse si sono rapportate nel processo che ha portato all’accordo politico, che consideriamo un ulteriore passo avanti di questo processo, e che si sintetizza nel testo comune RAF-BR e si è sostanziato nell’ attacco del commando Khaled Aker della RAF contro il Segretario di Stato al Ministero delle finanze tedesco Tietmeyer, nel settembre ’88.

Il lungo processo pratico di assunzione soggettiva della convergenza di interessi nella lotta contro l’imperialismo e del fronte che oggettivamente esiste tra i diversi – economicamente e storicamente determinati – processi rivoluzionari nella nostra area geopolitica, e dunque della costruzione e consolidamento del Fronte combattente antimperialista non è un processo lineare, ma ha i suoi passaggi di qualità, poiché si è svolto e si svolge nel confronto continuo con la controrivoluzione e con lo sviluppo delle lotte rivoluzionarie, nel fuoco concreto della storia.

Il risvolto proletario e rivoluzionario ai processi di degenerazione e di guerra dell’imperialismo è rappresentato, nel mondo contemporaneo, da un lato dai movimenti di liberazione dei paesi dipendenti della periferia, dall’ altro dalla guerra di classe nel centro imperialista.

La polarizzazione sviluppo/sottosviluppo, centro/periferia non descrive diversi gradi di una lineare evoluzione di un impossibile “progresso” capitalistico, ma il modo storico reale di funzionamento della forma di produzione del capitale. Il processo di accumulazione capitalistico comporta concentrazione e centralizzazione sempre più accentuate e sviluppo organicamente diseguale. Il capitale è costretto dalle sue stesse leggi di funzionamento a bloccare – nel cosiddetto “sottosviluppo” – lo sviluppo economico-sociale della maggior parte dei paesi dipendenti: i paesi della periferia non possono che progressivamente peggiorare la propria condizione economico-sociale nella progressiva polarizzazione centro/periferia. Ciò non attiene minimamente alla forma politica di indipendenza nazionale, ma alle leggi del mercato e della produzione capitalistici.

Le lotte sociali rivoluzionarie che nascono alla periferia del sistema, nei paesi dipendenti, hanno il loro fondamento nell’imperialismo, nel modo di produzione capitalistico contemporaneo, e non hanno assolutamente nessuna possibilità materiale di trovare soluzione in ambito capitalistico: perciò hanno carattere strutturalmente antisistema e rivoluzionario. A differenza che nel centro, queste lotte, per la struttura economico-sociale dell’imperialismo alla periferia, hanno protagoniste più classi sociali oltre il proletariato – piccola borghesia, contadini… – che si battono, più o meno conseguentemente a seconda dello specifico peso delle diverse classi e di altri fattori storici, contro il sistema imperialista per fondate ragioni materiali, ineliminabili. Il tipo di direzione che queste lotte possono storicamente esprimere costituisce differenze soggettive di rilievo, ma in tutti i casi la storia trova una strada e, nella misura in cui combattono a fondo l’imperialismo, hanno carattere pienamente rivoluzionario e sono oggettivamente inserite, nel processo storico contemporaneo, in una prospettiva strategicamente convergente con le lotte rivoluzionarie direttamente classiste che riescono a svilupparsi nel centro imperialista.

Si tratta di un processo storico unitario che si svolge su piani differenti. Perciò la contraddizione tra proletariato e borghesia, pur essendo la contraddizione fondamentale a livello internazionale nell’epoca del capitale, non si esprime universalmente in forma semplificata: non è affatto l’unica contraddizione del mondo contemporaneo.

E proprio per questo nella comprensione reale dell’imperialismo, compito imprescindibile, condizione stessa della presenza di una posizione effettivamente rivoluzionaria nelle metropoli è il collegamento strategico con il piano delle lotte rivoluzionarie alla periferia.

In ciò, tutt’altro dunque che una politica estera, una questione tattica contingente o una faccenda “umanitaria”, in ciò consiste fondamentalmente l’antimperialismo come processo mondiale, il carattere antimperialista dei processi rivoluzionari nelle metropoli.

In quella che abbiamo definito la nostra area geopolitica: Europa-Mediterraneo-Medio Oriente, si riassumono e si concentrano, intrecciandosi in una complessa unità organica, l’insieme delle linee di demarcazione che caratterizzano il mondo contemporaneo.

Polarizzata principalmente e sostanzialmente su due regioni, gli Stati dell’Europa occidentale e il mondo arabo, strutturalmente omogenee al loro interno e reciprocamente complementari, costituisce un’area organicamente unitaria. Variegata ed estremamente articolata, è il risultato di un lungo processo storico che ha formato una fittissima rete di interconnessioni a livello geografico, economico, militare, politico che legano la struttura del sistema imperialista qui, e contemporaneamente la struttura delle lotte di classe e delle lotte rivoluzionarie e antimperialiste che vi si sviluppano.

Le linee di demarcazione Classe/Stato, Nord/Sud, Est/Ovest vi convergono e si intrecciano facendone un’unica area geopolitica, che abbiamo definito area di massima crisi oggi nel mondo; e tutto il corso degli avvenimenti di questi ultimi anni lo dimostra nei fatti.

È perciò imprescindibile per ogni processo rivoluzionario, e per ogni forza rivoluzionaria, confrontarsi con l’insieme dei conflitti tra imperialismo e rivoluzione a questo livello e con una prassi combattente effettivamente adeguata alla profondità raggiunta dallo scontro. È nell’insieme di quest’area che è possibile e necessario sviluppare soggettivamente, nell’attacco ai progetti centrali dell’imperialismo, l’unità che già esiste oggettivamente tra i diversi processi rivoluzionari nei paesi dipendenti e nelle metropoli, realizzando una saldatura di portata storica per il processo rivoluzionario internazionale.

 

Il consolidamento e lo sviluppo del Fronte combattente antimperialista nell’area realizza l’organismo politico-militare in grado, con la sua prassi offensiva, di incidere nei passaggi politici che l’imperialismo sta praticando di normalizzazione e stabilizzazione dell’intera area, e di approfondire la sua crisi politica, destabilizzandolo e indebolendolo al punto che la vittoria in uno o più paesi dell’area si realizzi.

Affrontare l’imperialismo in piena coscienza, dentro una chiara strategia rivoluzionaria concretizza, nel combattimento e nella continuità dell’attacco, lo spostamento dei rapporti di forza a favore della rivoluzione su scala mondiale.

Deve essere chiaro, proprio per le caratteristiche dell’imperialismo negli Stati metropolitani del centro, che l’attacco all’imperialismo non esaurisce il complesso dei compiti che la guerriglia porta avanti relativamente all’obiettivo della conquista del potere politico e alle caratteristiche storiche e sociali dei diversi paesi in cui opera.

Così come a livello internazionale il conflitto antimperialista non si esaurisce nella sola contraddizione proletariato internazionale/borghesia imperialista, allo stesso modo è un errore semplificare i processi di coesione e integrazione degli Stati imperialisti del centro, particolarmente in Europa occidentale, in una loro dissoluzione in un unico super-Stato unitario. Al contrario, proprio la struttura dell’imperialismo nelle metropoli, e il lungo e complesso processo storico di formazione degli Stati nazionali che si intreccia con la nascita e lo sviluppo del capitalismo fino a svilupparli in potenze imperialiste, esaltano, anche all’interno degli organismi sovranazionali, la funzione dei diversi Stati imperialisti, la loro irriducibilità in ambito capitalistico. In questo quadro, la semplificazione dello scontro al solo piano internazionale, non aderendo alla struttura reale dell’imperialismo, depotenzia l’attività rivoluzionaria e la sua efficacia reale.

L’attacco allo Stato, ai singoli Stati imperialisti, è assolutamente fondamentale e centrale nei diversi processi rivoluzionari nel centro imperialista, in ogni fase, dall’inizio alla fine.

L’attacco allo Stato, al cuore dello Stato, ha carattere strategico poiché lo Stato è la sede reale, effettiva, del potere politico della borghesia imperialista, e l’obiettivo della conquista del potere politico generale e dell’instaurazione della dittatura proletaria è l’obiettivo storico del processo rivoluzionario nelle metropoli.

Nella nostra esperienza storica, chi ha cercato di sottrarsi al rapporto di attacco allo Stato, nella legge dello sviluppo del processo rivoluzionario a partire dall’attacco centrale – allo Stato e all’imperialismo -, è venuto meno ai compiti dell’avanguardia ed è stato divorato dallo sviluppo dello scontro. Invece, nonostante le difficoltà che l’approfondimento dello scontro comporta, e anzi proprio attraverso il continuo sviluppo del livello dello scontro, la costruzione del processo rivoluzionario a partire dall’attacco allo Stato è condizione per la costruzione del partito comunista combattente, condizione per la costituzione del proletariato in classe rivoluzionaria, per la sua indipendenza politica e strategica – ciò che costruisce la vittoria.

La nostra organizzazione – le Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente -, confrontandosi con la durezza dello scontro, determinata dallo sviluppo del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, lavora oggi, nel quadro della ritirata strategica e nella fase di ricostruzione, per sviluppare, a partire dagli assi strategici dell’attacco al cuore dello Stato e dell’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo, la dialettica con l’autonomia di classe per realizzare i livelli di ricostruzione politico-militare necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata per il potere e la dittatura proletaria.

È su questi termini di programma che si dà oggi l’unità dei comunisti per la costruzione del partito comunista combattente.

Come militanti prigionieri rivendichiamo l’intero patrimonio teorico-politico e l’attività politico-militare della nostra organizzazione. Ci riconosciamo nella prassi combattente antimperialista sviluppata in tutta l’area contro l’aggressione all’Iraq, contro i paesi della forza multinazionale imperialista.

Per noi e meglio di noi parla comunque la guerriglia, la nostra organizzazione, le Brigate Rosse.

A questo livello soltanto, non certo a un tribunale dello Stato, rispondiamo della nostra condotta.

Onore a Najah Abdallah, caduta il 10 marzo a Ramallah, in Palestina, combattendo l’occupazione sionista, e a tutti i rivoluzionari caduti combattendo contro l’imperialismo.
Onore a Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa, Riccardo Dura e Piero Panciarelli, militanti delle Brigate Rosse, caduti a Genova il 28 marzo ’80, combattendo per il comunismo.

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di “riforma” dei poteri dello Stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte combattente antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica ’Europa/Mediterraneo/Medioriente’.
– Combattere insieme.

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

 

Cuneo, 22 marzo 1991

 

Tribunale di Bologna: Dichiarazione dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli., Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

Noi militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente e militanti rivoluzionari prigionieri esprimiamo la piena adesione e il pieno sostegno politico all’attacco che la RAF ha portato contro la politica della Repubblica federale tedesca verso l’ex-Ddr colpendo il presidente dell’ente fiduciario incaricato di amministrare l’industria della ex-Ddr, Detler Rohwedder, uomo del governo federale in questa politica di asservimento e disoccupazione del proletariato tedesco.

Questa iniziativa politico-militare è centrale per lo sviluppo del movimento rivoluzionario in Europa occidentale; ciò dipende dal ruolo economico e politico che le grandi banche e il capitale industriale tedesco rivestono nel processo di coesione politica dell’Europa occidentale, nonché dal ruolo che la grande Germania svolge verso l’Europa dell’Est in un quadro integrato negli interessi imperialisti.

Per questo è una questione europea chiara e netta che va al di là dei terreni prioritari in cui ogni forza rivoluzionaria si misura relativamente alle caratteristiche dello scontro di classe nel proprio paese.

Questa iniziativa è oggettivamente un terreno unificante nella costruzione di un forte movimento rivoluzionario in Europa occidentale e del Fronte combattente antimperialista nell’area geopolitica (Europa-Mediterraneo-Medio Oriente).

Sosteniamo l’iniziativa politico-militare della RAF del 14 febbraio ’91 contro l’ambasciata Usa a Bonn.

– Attaccare le politiche di coesione in Europa occidentale!
– Organizzare la lotta armata in Europa occidentale!
– Organizzare il Fronte combattente antimperialista!
– Combattere insieme!

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Antonio De Luca, Franco Galloni, Franco Grilli., Rossella Lupo, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

 

Bologna, 4 aprile 1991