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Roma: La mia assenza è un atto d’accusa. Comunicato del militante arabo Hamidan Karmawi Ibrahim

La mia assenza dall’aula di questo tribunale è un atto d’accusa contro una sentenza che è stata già decisa nel momento in cui questa istruttoria è cominciata. Una decisione frutto dell’accordo italo-francese e per conto degli interessi imperialisti occidentali che ha il compito di disarmare i legittimi rappresentanti del popolo palestinese e delle sue organizzazioni che resistono all’aggressione e all’occupazione sionista.

L’ambizioso compito di questa corte è quello di decretare l’illegalità di un popolo che lotta per la sua esistenza e per la sua identità, un compito tanto arduo che non potrà non infrangersi di fronte alla volontà dei milioni di oppressi in tutto il Sud del mondo di riprendere in mano il proprio destino.

Voi siete chiamati a dire, a nome dei vostri governi, che allo sfruttamento, alla deportazione, al genocidio, si può solo rispondere porgendo l’altra guancia e che la libertà del popolo palestinese potrà arrivarci solo dalla vostra presunta magnanimità.

Voi avete il compito di stabilire quali sono tra i palestinesi-arabi coloro che più ne rappresentano le aspirazioni e i diritti, cioè siete chiamati ad eleggere a rappresentanti dei palestinesi coloro che più si accordano con gli interessi dei governi che rappresentate.

Voi avete il compito di stabilire qual è il giusto prezzo che il nostro popolo deve pagare per essere libero… di servire gli interessi imperialisti nella regione araba, ma il popolo arabo-palestinese non si lascia soggiogare e autonomamente sceglie le adeguate strategie di lotta che gli permetteranno di riconquistare la propria libertà.

Volete processarci per “banda armata”, perché il vostro pensiero è troppo piccolo per contenere la grandezza di un popolo che non si lascia intimorire dalla potenza bellica nemica e dei suoi sostenitori, perché il potere che rappresentate sa imporsi solo come una banda che con armi alla mano sostiene il sionismo e i suoi complotti. L’unica banda armata che il popolo arabo-palestinese conosce è quella di Shamir-Sharon-Bush e dei loro sostenitori.

L’Organizzazione “15 Maggio per la liberazione della Palestina” è una delle organizzazioni che il popolo arabo-palestinese si è dato e la sua legittimità mai potrà essere messa in discussione dai vostri tribunali speciali; il suo solo riconoscimento gli viene dal sostegno del popolo stesso.

Condannando me in realtà voi volete condannare un popolo che autonomamente si organizza per resistere alla barbarie sionista, ma il vostro è – e resterà – un sogno che diventerà un incubo finché continuerete ad ignorare il diritto ad esistere dei palestinesi e della nostra Lotta di Liberazione.

Fate pure i vostri giochi in quest’aula, io non ci sarò, perché sarò sempre e soltanto là dove il popolo arabo-palestinese rimetterà in gioco il grigio futuro al quale vorreste costringerlo.

La Lotta di Liberazione del popolo palestinese non si processa!

Abbasso il terrorismo sionista-amerikano e quello dei loro sostenitori!

Viva la Lotta di Liberazione dei popoli di tutto il mondo!

Viva l’Intifadah!

Il militante arabo Hamidan Karmawi Ibrahim

Roma, 17 settembre 1990

Il tallone imperialista nel Tricontinente e la “crisi del Golfo”. Carcere di Novara – Documento del militante delle Br-Pcc Sandro Padula

Un determinato rapporto esiste fra la generale situazione del Tricontinente (America Latina, Africa, molti paesi dell’Asia meridionale) e la “crisi del Golfo”. Per comprenderlo fino in fondo può essere utile analizzare come i principali avvenimenti economici internazionali si sono riflessi, negli ultimi decenni, sia nella maggior parte del Tricontinente che nella realtà costituita dall’OPEC.

Fra tali avvenimenti, quello di fondamentale rilievo e da cui occorre partire è, nella seconda metà degli anni ’60, l’emergere della sovraccumulazione capitalistica nell’area OCSE.

In quegli anni, lo sviluppo della sovraccumulazione capitalistica porta con sé una sviluppata e determinata sovrapproduzione di capitale monetario, cioè una massa enorme di capitale monetario che non riesce a trasformarsi in capitale produttivo di plusvalore e che, in dialettica alla crescita del deficit della bilancia dei pagamenti degli USA, ha tra le proprie espressioni anche quella costituita da un’alta quota di xeno-dollari.

Si crea così una situazione tale da mettere in risalto l’obsolescenza del sistema monetario internazionale stabilito a Bretton Woods e basato sui cambi relativamente fissi e sulla convertibilità del dollaro in oro.

La rottura del trattato di Bretton Woods avviene ufficialmente nell’agosto del 1971, ad opera del presidente degli USA Richard Nixon. In seguito, nel dicembre dello stesso anno e nel febbraio del 1973, il dollaro viene svalutato; di conseguenza perdono valore gli xeno-dollari che fra l’altro sono detenuti anche dalle banche centrali di moltissimi paesi in giro per il mondo e si crea così un decisivo canale di internazionalizzazione dell’inflazione.

In quelle condizioni viene alimentata una dinamica di crescita dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale, che sono espressi in dollari e che ricevono spinte verso l’alto anche grazie alla domanda costituita dalla “ripresa” del 1971-1972 ed a forti accaparramenti speculativi: sulla base di queste premesse scaturisce un forte “shock petrolifero” subito dopo la guerra del Kippur nell’ottobre 1973.

I “petro-dollari”, ricavati dall’aumento del prezzo del petrolio e detenuti dai paesi OPEC, cominciano ad essere riciclati, una parte in cambio di armi e di altre merci dei paesi a capitalismo avanzato ed il resto va ad aggiungersi al mercato internazionale dei capitali.

A quel punto, specialmente durante e dopo la recessione internazionale del 1974-1975, la sovrabbondante liquidità internazionale viene in buona misura drenata dalla bancocrazia dei paesi a capitalismo avanzato e si sviluppa una gigantesca catena di prestiti, anche perché i debitori in quegli anni devono rimborsare tassi di interesse che, in termini reali, sembrano sopportabili in una situazione di alti tassi di inflazione.

Da allora l’economia mondiale si caratterizza per la formazione di una grande catena di debiti interni ed internazionali. I paesi a capitalismo avanzato sono i principali fruitori di prestiti esteri; i debiti esteri del Tricontinente, al contrario, costituiscono una parte minoritaria dell’indebitamento estero complessivo. Nonostante ciò, di fronte al più gigantesco sistema di usura mai esistito sulla faccia della terra, nel giro di un decennio il debito estero diventa sempre più una specie di catena attorno al collo del Tricontinente.

Nel corso degli anni ’70 i flussi creditizi che la bancocrazia dei paesi capitalisticamente avanzati indirizza verso il Tricontinente confluiscono soprattutto in un ristretto numero di paesi, nei paesi che allora risultano più “dinamici” in campo economico (Messico, Venezuela, Argentina, Brasile, Corea del sud, ecc.). Però, a diverso grado, tali flussi tendono anche a confluire negli altri “paesi in via di sviluppo” ed alla fine del 1979 l’indebitamento estero della totalità di questi paesi raggiunge la non trascurabile cifra di 475 miliardi di dollari.

Gli avvenimenti successivi dell’economia capitalistica internazionale – il rialzo dei tassi di interesse negli USA nel 1979, il secondo “shock petrolifero” prodottosi sul finire dello stesso anno in connessione alla “rivoluzione islamica” in Iran e la recessione internazionale dei primi anni ’80 – provocano una situazione in cui all’accresciuto carico del servizio del debito corrisponde dialetticamente un’accresciuta difficoltà del Tricontinente a rispettare gli impegni verso i creditori e tutto ciò porta alle dichiarazioni di insolvenza del 1982-1983.

Tutto ciò, inoltre, significa che molti paesi della periferia del sistema capitalistico internazionale sono letteralmente prigionieri del debito estero e lo sono proprio perché alla base del sistema usuraio che li attanaglia ci sono economie locali extra-vertite e dipendenti a livello produttivo, commerciale e tecnologico nei confronti dell’imperialismo.

Soprattutto dopo la recessione del 1974-1975 la penetrazione delle imprese capitalistiche transnazionali nei paesi del Tricontinente si indirizza sempre più verso investimenti ad alta composizione organica di capitale, cioè verso quegli investimenti che vengono definiti “ad alto contenuto tecnologico” e che hanno la necessità di un numero relativamente basso di lavoratori. Questo tipo di orientamento, che nei paesi del Tricontinente si avvale dell’utilizzo di una forza-lavoro a costo molto più basso rispetto a quella dei paesi a capitalismo avanzato, è riconducibile alla necessità di ogni impresa transnazionale di “pianificare” le proprie attività in modo da garantire che le merci prodotte siano destinate soprattutto al mercato mondiale e siano adeguatamente concorrenziali a tale livello.

In pratica le imprese capitalistiche transnazionali contribuiscono ad orientare le economie locali del Tricontinente verso uno “sviluppo” sempre più extra-vertito e squilibrato e tale “sviluppo” contribuisce a far crescere le migrazioni di forza-lavoro dalle campagne alle città. In questo senso, la penetrazione delle imprese capitalistiche transnazionali contribuisce ad accelerare il ritmo di crescita dell’urbanizzazione sul Tricontinente, il cui costo è in ampia misura sobbarcato dagli Stati locali. Questi ultimi a loro volta, vedendo ingigantire il debito pubblico, ed a fronte di fughe di capitali, crescenti spese militari, bilance commerciali in disavanzo e controlli stranieri su quote significative delle locali risorse reali e liquide, sono costretti a ricorrere in continuazione ai prestiti dall’estero ed a cercare di aumentare le esportazioni per pagare il corrispondente “servizio del debito”.

Soprattutto dopo la recessione del 1974-1975, fra il capitale esportato dai paesi sviluppati ai paesi del Tricontinente, si contrae il capitale da prestito statale ed interstatale mentre aumenta, insieme al flusso degli investimenti diretti nella produzione capitalistica, il flusso di capitale da prestito privato. Quest’ultima forma di esportazione di capitale subisce però un netto calo dopo l’esplodere della crisi finanziaria del 1982, cioè dopo le dichiarazioni di insolvenza iniziate con quella del Messico, e da quell’anno il Tricontinente paga per il servizio del debito estero più di quanto riceve a livello di finanziamenti.

Il debito estero del Tricontinente in rapporto al prodotto interno lordo rimane però abbastanza alto: dal 1985 al 1990, pur diminuendo in modo leggero, tale rapporto ammonta a oltre un terzo. Per molti versi è come se i governi e le banche creditrici dei paesi a capitalismo avanzato avessero la proprietà di oltre un terzo di questo prodotto interno lordo. E’ ovvio che si tratta di una proprietà soltanto potenziale, ma i “signori del denaro” non si fanno tanti scrupoli per trasformare una parte di essa in proprietà effettiva!

Proprio con la scusa del problema debitorio, infatti, le politiche del FMI e della Banca Mondiale, che in genere vengono preconfezionate nei vertici dei ministri finanziari e/o dei governatori delle banche centrali dei principali paesi dell’OCSE, puntano a rafforzare la subordinazione economica dei paesi del Tricontinente rispetto ai paesi a capitalismo avanzato, alle imprese ed alle banche imperialiste transnazionali.

Come dimostrano il piano Baker ed il successivo piano Brady, le “soluzioni” che vengono lanciate nelle assemblee congiunte del FMI e della Banca Mondiale per affrontare il problema del debito estero dei “paesi in via di sviluppo” presuppongono sempre l’accettazione di una più forte dipendenza economica da parte di questi paesi all’interno del sistema capitalistico internazionale. Il problema del debito estero costituisce infatti una specie di “cavallo di Troia” per accrescere il potere dei capitali oligopolistico-finanziari transnazionali e per disarticolare il peso economico effettivo degli Stati del Tricontinente nelle rispettive economie. Non a caso, mentre i paesi debitori del Tricontinente continuano ad essere divisi fra loro, aumentano fra le stesse oligarchie autoctone di questi paesi gli orientamenti favorevoli alla conversione di parte dei debiti esteri in titoli negoziabili o in investimenti diretti, così come aumentano le tendenze favorevoli alle privatizzazioni delle imprese statali ed alla creazione di condizioni più idonee alla penetrazione dei capitali e delle merci provenienti dai paesi a capitalismo avanzato. In pratica, la via intrapresa da molte oligarchie autoctone dei paesi della periferia del sistema capitalistico internazionale per “governare” la spinosa questione del debito estero sembra essere quella di accettare una maggiore dipendenza economica dall’imperialismo e di scaricare sulle spalle delle masse popolari i costi di questa accentuata subalternità economica.

Le politiche economiche di queste oligarchie autoctone dei paesi del Tricontinente suscitano spesso rivolte proletarie e popolari contro il peggioramento delle condizioni di vita e contro l’accettazione dei “programmi di aggiustamento” stabiliti dal Fondo Monetario Internazionale.

Nei paesi del Tricontinente si approfondisce la dipendenza economica nei confronti dell’imperialismo e con questo presupposto strutturale, proprio in risposta ad esso, si sviluppano non solo le rivolte proletarie e popolari ma anche i nuovi e grandi flussi migratori di forza-lavoro dal Sud del mondo verso i paesi a capitalismo avanzato.

I neocolonialisti dei paesi a capitalismo avanzato prima fanno di tutto per saccheggiare le risorse reali e liquide del Tricontinente e poi fingono di non capire i motivi di questi nuovi e grandi flussi migratori internazionali! Comunque, al di là di questa totale ipocrisia, è indubbio ormai che la presente crisi debitoria costituisce sempre più un pretesto per il dispiegamento del neocolonialismo e quindi per una più ferrea dipendenza economica del Tricontinente verso i paesi a capitalismo avanzato ed in particolare verso le imprese e le banche imperialiste transnazionali.

Negli anni ’80 perfino i paesi OPEC subiscono una compressione della propria forza economica nell’ambito del sistema capitalistico internazionale. Infatti questi paesi, che dopo il 1973 acquisiscono una grande abbondanza di risorse valutarie, negli anni ’80 cessano di svolgere il ruolo di “nuovi finanziatori” a livello internazionale ed il Giappone comincia a prendere il loro posto rispetto a tale funzione.

Dopo la recessione internazionale del 1980-1982, il relativo completamento della prima grande ondata di ristrutturazione tecnologico-produttiva basata sull’informatica all’interno dei paesi a capitalismo avanzato, il grande rialzo del dollaro nel triennio 1983-1985, il successivo calo del dollaro ed il “contro-shock petrolifero” del 1986 con i grandi e continui ribassi del prezzo del petrolio, i paesi OPEC vedono peggiorare drasticamente la propria situazione economica rispetto agli anni ’70 e molti di essi diventano debitori verso l’estero.

L’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi sono fra i pochi paesi dell’OPEC che negli anni ’80 riescono ad avere una situazione economica non troppo dissimile, anche se in genere peggiorata, rispetto a quella del decennio precedente.

Le condizioni diventano difficili per la maggior parte dei paesi dell’OPEC specialmente quando, dalla metà degli anni ’80 ed a partire dagli USA, emergono nell’area OCSE diversi sintomi di una crescita economica oscillante verso la stagnazione e/o verso la recessione, quei sintomi che fra l’altro provocano i crolli delle borse mondiali nell’ottobre 1987 e nell’ottobre 1989, i nuovi cali del dollaro e le nuove difficoltà per la Borsa di Tokio nella prima metà del 1990.

In questo caotico teatro dell’economia capitalistica internazionale, pertanto, si accumulano le contraddizioni sul mercato mondiale, si acutizzano nel Tricontinente le contraddizioni fra i paesi OPEC e i paesi produttori di petrolio non aderenti a tale organizzazione (soprattutto per la crescita delle quote di mercato dei “nuovi produttori” come l’Angola e l’Egitto) e poi esplodono le contraddizioni all’interno dell’OPEC fra i paesi – come l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi – che puntano ad aumentare molto l’estrazione del petrolio e quelli che invece – come l’Irak, l’Iran e la Libia – puntano a non farla aumentare troppo per evitare prezzi del petrolio troppo bassi ed inadeguati rispetto alle esigenze delle proprie economie.

Per questo motivo, a cui si aggiunge il vecchio desiderio di avere un significativo sbocco nel Golfo Persico, l’oligarchia autoctona dell’Irak giunge alla decisione di occupare il Kuwait.

Dopo aver ricevuto per anni, dagli stessi paesi a capitalismo avanzato e dagli stessi paesi OPEC più ricchi, quelle montagne di crediti (e di armi) utilizzate per condurre la guerra contro il “pericolo iraniano“ e per reprimere la locale parte della popolazione curda, l’Irak arriva al punto di rendere operativa la decisione di invadere il ricco sceiccato del Kuwait.

Con la “crisi del Golfo” apertasi ad agosto si alza così il sipario per una nuova ondata di rialzi del prezzo del petrolio e per un clima politico ed economico strumentalizzato soprattutto dagli USA e, con particolare sciacallaggio, dalle principali compagnie petrolifere del mondo: Exxon (USA), Royal Dutch (Olanda), Mobil (USA), British Petroleum (Gran Bretagna), Texaco (USA), Chevron (USA) ed Amoco (USA).

La “questione petrolifera” torna quindi alla ribalta della cronaca internazionale e con essa emerge di nuovo e con gravità il più generale problema del rapporto di dominio economico dei paesi a capitalismo avanzato rispetto ai paesi del Tricontinente.

Dopo il 1973 i paesi a capitalismo avanzato danno vita all’Agenzia Internazionale per l’Energia (allo scopo di contrastare e di addomesticare le politiche dell’OPEC) e cominciano a prendere misure per approfondire la diversificazione delle fonti energetiche da utilizzare. La “questione petrolifera”, comunque, continua a mantenere una propria specifica importanza ed il petrolio, che nel 1989 copre il 40% del mercato mondiale dell’energia, mantiene ancora lo scettro della principale fonte energetica mercificata.

L’URSS, l’Arabia Saudita e gli USA sono i principali paesi produttori di petrolio. Un ruolo significativo è svolto anche dalla Gran Bretagna, in particolare dal 1975 con l’estrazione del petrolio del mare del Nord. Ad ogni modo, i principali riflettori della “questione petrolifera” sono puntati sul Medio Oriente, un’area in cui si trovano i 2/3 delle riserve conosciute di petrolio e da cui oggi viene garantito il 20% circa delle esportazioni mondiali petrolifere.

I paesi del centro del sistema capitalistico internazionale hanno molteplici interessi in Medio Oriente, ad esempio, attraverso determinate articolazioni di proprie banche e di proprie imprese, fra cui determinate articolazioni di proprie compagnie che estraggono e/o raffinano il greggio. Inoltre i paesi a capitalismo avanzato, compresi gli stessi Stati Uniti d’America, sono grandi importatori di petrolio. Per questi motivi economici a cui si affiancano determinati interessi politico-militari da molto tempo chiariti dal Pentagono e dalla NATO, il Medio Oriente viene considerato come un territorio di “interesse vitale” dagli USA e dall’intero blocco dei paesi capitalisticamente sviluppati.

Non per niente, infatti, l’attuale politica degli USA e degli altri paesi a capitalismo avanzato rispetto al Medio Oriente punta a mantenere e rafforzare il controllo dei flussi petroliferi, ad approfondire l’addomesticamente delle scelte dell’OPEC, a comprimere il peso complessivo (proprietà e rendite) degli Stati locali nei confronti delle rispettive economie, a porre un argine contro lo sviluppo del “fondamentalismo islamico“, ad indebolire il sostegno arabo ed internazionale alla lotta dei palestinesi, ad isolare e distruggere le forze rivoluzionarie, e ad indebolire l’influenza effettiva dell’URSS nel mondo arabo ed in particolare rispetto ai paesi arabi moderati e/o reazionari con cui dalla metà degli anni ’80 Mosca mantiene regolari rapporti diplomatici o migliora le relazioni. Tutto ciò è collegato anche alla considerazione che diversi paesi dell’Est europeo (come Polonia, Cecoslovacchia ed Ungheria), mentre diventano più aperti alla penetrazione delle imprese capitalistiche transnazionali, continuano a richiedere petrolio sovietico, ma a differenza del passato lo devono pagare a prezzi di mercato (dal primo gennaio 1991 con dollari o altre valute convertibili) ed hanno intenzione di aumentare i propri rifornimenti petroliferi dall’area mediorientale.

Se questi sono gli scopi politici comuni dei paesi a capitalismo avanzato rispetto al Medio Oriente, è altrettanto vero che la “crisi del Golfo“ risulta strumentalizzata soprattutto dagli USA. Infatti, proprio con la scusa della “crisi del Golfo“, gli USA foraggiano il proprio complesso militar-industriale-scientifico anche per dare una risposta all’avanzamento della recessione economica interna a quell’avanzamento della dinamica recessiva iniziato nella prima metà del 1990 e provocato dalla sovraccumulazione capitalistica (e dalla connessa caduta del saggio di profitto) determinatasi nel 1989 all’interno della propria economia. Inoltre, sempre con la stessa scusa, gli USA puntano particolarmente a rendere duratura e stabile la propria influenza politico-militare in Arabia Saudita ed a costituire una «struttura di sicurezza regionale che garantisca pace e prosperità nel Medio Oriente» (dichiarazione di James Baker, segretario di Stato degli USA del 5 settembre 1990), cioè un’organizzazione, finanziata da diversi paesi, simile alla NATO e sostanzialmente integrata alla NATO stessa.

In pratica, dopo il 1989 dell’Europa dell’est, le condizioni internazionali dischiudono nuovi spazi di manovra all’arroganza degli USA e degli altri paesi capitalisticamente sviluppati.

Mentre il “blocco dell’est” risulta drasticamente ridimensionato e l’URSS, sconvolta da gravi problemi interni, conduce politiche estere di compromesso a tutti i costi con i paesi a capitalismo avanzato rispetto alle crisi internazionali e regionali, il “blocco dell’ovest” guidato a livello politico-militare dagli USA si sente più libero di sviluppare la propria politica imperialista nell’area mediorientale e tende a far leva su tale politica anche per lanciare un messaggio di fermezza contro chi nel Tricontinente e nel resto del mondo non accetta di mettere o di mantenere la propria testa sotto il tallone dell’imperialismo e soprattutto contro chi lotta per liberarsi da esso.

Dalla fine della seconda guerra mondiale l’arroganza della borghesia imperialista e dei suoi rappresentanti politici non è mai stata grande come adesso, come in questo inizio degli anni ’90.

Questa arroganza, però, è suscettibile di far nascere, proprio di contro ad essa, una maggiore consapevolezza della grande barbarie generata dal modo di produzione capitalistico e dei limiti storici verso cui si incammina tale modo di produzione.

In questa situazione, infatti, si approfondiscono i motivi che rendono importante lo sviluppo di adeguate ed unitarie sensibilità di segno rivoluzionario nelle fila del proletariato internazionale e dei popoli oppressi.

In questa situazione, inoltre, diventa possibile e necessaria una maggiore coscienza che le cause fondamentali delle contraddizioni internazionali trovano le proprie radici più profonde nei paesi in cui il modo di produzione capitalistico è più sviluppato, cioè negli USA e negli altri paesi del blocco dei paesi a capitalismo avanzato.

Queste radici si trovano quindi anche nell’Europa Occidentale che tende a costituire un unico mercato per merci e capitali e che, attraverso una crescita della coesione monetaria, militare e politica, cerca di aumentare il proprio specifico potere nello scenario internazionale.

Queste radici si trovano allora anche in quell’Italia che tende a costituire una “Seconda Repubblica” caratterizzata da un maggior potere dell’Esecutivo per “governare” i conflitti sociali e da una politica estera di maggior impegno del “bel Paese” in quanto pilastro fondamentale del “fianco sud” della CEE, della UEO e della NATO.

In definitiva, è negli USA, negli altri paesi del blocco dei paesi a capitalismo avanzato, quindi nella stessa Europa Occidentale e nella stessa Italia che ci sono le radici più profonde delle contraddizioni internazionali, cioè le radici più profonde di un sistema sociale che cerca di conservare e rafforzare il tallone imperialista sul Tricontinente, sul proletariato internazionale, sui popoli oppressi ed in genere sul mondo d’oggi.

Il militante delle BR-PCC Sandro Padula.

Carcere speciale di Novara, Blocco B

Settembre 1990

NO ALL’ISOLAMENTO! Documento di un gruppo di compagni del carcere di Trani

Venerdì 12-10, i prigionieri della sezione speciale del carcere di Trani si sono fermati all’aria contro l’imposizione di una ulteriore misura di isolamento che ha colpito un compagno di questo carcere.

Una risposta ad un nuovo attacco rivolto non solo al compagno colpito dal provvedimento, non solo ai prigionieri di questo campo, ma che tocca direttamente l’insieme dei prigionieri comunisti presenti nel circuito speciale.

A metà di questo mese il compagno Giovanni Gentile Schiavone è stato messo in “isolamento diurno” per due mesi. Si tratta di una misura di “aggravamento della pena” stabilita in questo caso come in altre centinaia di casi, dalle sentenze che sono state e che vengono erogate dai tribunali speciali dello Stato.

“Isolamento diurno” significa detenzione cubicolare, esclusione da ogni tipo di socialità e contatto con gli altri prigionieri, aria da solo, per tutto l’arco della giornata e per tutto il periodo stabilito dalla sentenza.

Questa forma di annientamento viene ora integrandosi e sovrapponendosi al trattamento cui i prigionieri rivoluzionari sono già sottoposti (frazionamento dei prigionieri in diverse carceri, in gruppi limitati a composizione bloccata, con selezione dei colloqui, corrispondenza e di ogni forma di rapporto con l’esterno, sottoposti a pressioni continue, fino ad episodi come il pestaggio dei compagni del Blocco B di Novara…). È a tutti gli effetti uno strumento ulteriore di pressione mirante a restringere i residui spazi di vivibilità e soprattutto ad azzerare ogni forma di agibilità politica: «i prigionieri non devono svolgere nessuna militanza attiva nello scontro rivoluzionario».

Il significato politico di questa misura, la sua essenza, è resa evidente dal fatto che – al di là delle responsabilità proprie della direzione di Trani (che si è assunta il compito di aprire la strada all’utilizzo di questo nuovo strumento di attacco contro i prigionieri) – la decisione è stata presa dalla Procura Generale di Roma e dal Ministero di Grazia e Giustizia. Il fatto che questo tipo di isolamento, scarsamente utilizzato in passato, venga ripescato e applicato oggi, a distanza di anni, la sua possibile generalizzabilità, ne rivelano l’obiettivo reale: la distruzione dell’identità politica di quei prigionieri che non rientrano nei processi di riconciliazione e ricompatibilizzazione dello Stato.

In questo non c’è nulla di casuale. È sempre più evidente infatti il carattere unitario di questa strategia a livello europeo contro tutti i prigionieri della guerriglia: l’isolamento come linea di attacco che informa la politica controrivoluzionaria di ogni singolo paese.

L’attacco cui sono sottoposti i prigionieri rivoluzionari in Europa occidentale, la necessità di eliminarli come contraddizione politica, è un obiettivo tutto interno alle dinamiche di ridefinizione degli assetti internazionali e al processo di costruzione del blocco europeo occidentale.

A questo scopo le stesse modificazioni del ruolo e degli apparati dello Stato segnano qui e in tutta l’area europea una forte radicalizzazione delle contraddizioni di classe, esaltate ed accelerate dalle esigenze di produzione imperialista e di guerra.

La duplice dimensione di questo processo sta definendo sempre più concretamente quale sia il terreno su cui è possibile collocare e sviluppare la lotta dei prigionieri.

I termini in cui lo Stato qui sta affrontando la contraddizione rappresentata dai prigionieri rivoluzionari sono interni al più generale quadro determinato dai processi di ridefinizione degli Stati imperialisti e di ristrutturazione capitalista, che stanno determinando un modello di “impatto frontale” nella soluzione delle contraddizioni cui deve far fronte ad esempio tanto la ripresa dell’iniziativa operaia che il movimento di lotta alla ristrutturazione dell’università, che l’opposizione alla crociata imperialista nel Golfo. Tutto ciò porta alla luce il terreno e il livello attuale di scontro per tutte le forze proletarie e rivoluzionarie.

Così come è chiaro che, impattare realmente la strategia imperialista di annientamento dei prigionieri politici significa lottare contro le diverse situazioni di isolamento imposte dagli Stati europei nel loro insieme come lotta unitaria dei prigionieri e del movimento rivoluzionario in Europa occidentale.

Lottare insieme

Un gruppo di compagni del carcere di Trani

Trani, 13 ottobre 1990

 

Analisi sull’imperialismo. Documento di un gruppo di compagni detenuti nel carcere di Cuneo

Premessa

Dai primi anni ’80 in Italia si è acuito quel processo di: tendenza reazionaria, riforme istituzionali con caratteristiche autoritarie, esecutivizzazione ecc. di cui oggi si iniziano a vedere i “primi” risultati concreti.

Tutti i compagni in Italia si rendono conto di quanto queste tendenze stiano prendendo piede; ma essere d’accordo su questo dato non basta, la storia ci ha dimostrato che si può a volte partire dagli stessi elementi per arrivare a conclusioni diverse. Quel che è certo è che esiste un grosso ritardo di cui il movimento comunista internazionale soffre ormai da tempo; tanti sono i nodi insoluti sul piano teorico, strategico, tattico, politico, e questo crea confusione.

In Italia è ormai da tempo che s’impone un’analisi attenta della borghesia dominante, del grande capitale, dello Stato, dell’opposizione borghese (PCI o Partito Democratico della Sinistra o come si vorrà chiamare la “cosa”, e CGIL), dello sviluppo raggiunto dalla lotta proletaria nei suoi contenuti e forme di espressione, della trasformazione in atto delle classi sociali in un paese avanzato, dei compiti dei comunisti e dei rivoluzionari nell’attuale fase di sviluppo dell’imperialismo. Non è infatti possibile comprendere verso dove andiamo senza affrontare questi nodi.

Ciò che ci interessa in questa sede quindi è iniziare ad introdurre alcuni spunti di riflessione inerenti la natura dell’imperialismo in generale ed il modo in cui si è sviluppato il capitale fino ad oggi.

Negli ultimi tempi si fa un gran parlare nel movimento rivoluzionario di trasformazione della democrazia borghese in autoritarismo, affermarsi della reazione e negarsi del carattere progressista del capitalismo nell’attuale società avanzata, di differenza tra la fase di ascesa del capitalismo e la sua fase di disfacimento iniziata con l’era dell’imperialismo, di modificazioni avvenute e in atto nella forma dello Stato borghese, di distinzione tra fase del liberalismo e fase imperialista, di rapporto tra fase di sviluppo del capitalismo e crescita delle lotte proletarie, di relazione tra il periodo fascista e l’assetto mondiale determinatosi dopo il secondo conflitto. Questioni peraltro tutte importanti perché sono sintomatiche dell’evoluzione avvenuta nella società in cui viviamo. Interpretarle nel modo giusto è quindi fondamentale perché ci pone nella condizione di elaborare una strategia ed una linea politica conseguente; ma per far ciò va fornita a questi dati una giusta collocazione. Diversamente si rischia di cadere nell’estremismo o nel pressapochismo, arrivando o ad assolutizzare un aspetto del problema, e cioè la reazione (che certamente non può essere negata come dato emergente) giungendo a presagire la possibile rinascita (magari sotto altre vesti) di forme di violenza organizzata e legalizzata di tipo fascista dello Stato borghese, dimostrando di non aver compreso la storia e la natura dell’imperialismo; oppure, sempre assolutizzando quell’aspetto, arrivare alla conclusione che la borghesia dominante, essendo arrivata alla sua “ultima spiaggia”, ha creato le condizioni affinché dal secondo conflitto mondiale in poi, si aprisse un nuovo scenario caratterizzato dalla guerra tra le classi nei paesi imperialisti, per poi affermare, sempre guidati da quella logica, che è la “democrazia rappresentativa”, e cioè l’applicazione della massima “democrazia formale”, a informare il progetto di “rifunzionalizzazione dello Stato imperialista”. Chi dà questa interpretazione delle cose dimostra tra l’altro, oltre ad un’enorme confusione, da un lato di non capire neanche che differenza passa tra politica e guerra, da un altro lato di non sapere affatto perché, in che forma e con quali contenuti si produce la lotta e l’unità interborghese finalizzata allo sviluppo della società imperialista, e inoltre di ignorare del tutto le leggi che informano l’andamento ciclico delle lotte proletarie, espressione dell’antagonismo tra le classi; così la propria logica soggettivista raggiunge l’apice e colloca i fautori di queste tesi sempre più al di fuori del campo di analisi ed elaborazione marxista.

Una terza conseguenza degli errori di interpretazione e collocazione cui accennato sopra consiste nell’affermare genericamente che la società borghese con il suo sviluppo ha segnato da una parte la fine della democrazia borghese, tramutatasi in autoritarismo, e dall’altra ha creato le condizioni affinché la democrazia potesse svilupparsi, dimostrando in questo modo semplicemente che si vuole fare uso delle leggi della dialettica, non applicandole però nei fatti fino in fondo, in quanto così procedendo si rischia o di dire tutto e il contrario di tutto oppure di dare un giudizio inesatto di quello che la realtà ci pone dinanzi agli occhi.

Utilizzare il metodo storico e dialettico per analizzare i fenomeni è sempre positivo perché ci permette di vedere le cose in movimento, ci fornisce gli strumenti per comprendere che c’è sempre un aspetto che emerge su un altro e che nella contraddizione un aspetto principale può divenire secondario e viceversa ecc.; ma è pur vero che bisogna mettersi nella condizione di appropriarsi compiutamente di questo strumento per poterlo applicare in modo esatto.

È abbastanza chiaro a questo punto che se si continua a ragionare in modo estremista e/o approssimativo non si potrà né comprendere come combattere i nostri nemici né riuscire a superare questo momento di crisi del movimento rivoluzionario e di stasi del dibattito al suo interno.

Proprio facendo uso del materialismo storico e dialettico possiamo vedere la relazione che esiste tra gli elementi che Marx individua come caratterizzanti il modo di produzione capitalista (MPC) e quelli stabiliti da Lenin come i 5 pilastri dello sviluppo dell’imperialismo. Solo in questo modo si può capire cosa intendeva dire Lenin quando affermava che l’imperialismo è solo un particolare stadio del capitalismo e che politicamente l’imperialismo è «… in generale, tendenza alla violenza e alla reazione», comprendendo che oggi, nella fase di imperialismo maturo, permangono tutte le caratteristiche del capitalismo esposte da Marx e Lenin, anche se alcune sono prevalenti rispetto ad altre.

Qualcuno a questo punto potrebbe obiettare che il marxismo non è un dogma e cioè che i suoi principi devono essere applicati alla realtà concreta. A costoro rispondiamo che i comunisti devono analizzare la società per trasformarla, quindi ne debbono capire l’evoluzione, debbono comprendere cosa si cela dietro un fenomeno, quali sono le leggi che lo guidano, in che senso un aspetto che divenga prevalente può assumere un carattere di “novità”, ma non debbono inventarsi mai nulla: non si può fare politica attraverso i “colpi di scena”.

Certamente è vero che il marxismo-leninismo non ha potuto approfondire tutti gli aspetti, così come è anche vero che esso non ci dice cosa dobbiamo fare negli anni ’90 o dovremo fare nel 2000, ed inoltre è giusto ritenere che l’imperialismo si sia trasformato; ma è anche vero che questa scienza è una guida per l’azione e quindi traccia le coordinate fondamentali relative alle leggi generali di sviluppo della società capitalista da un punto di vista strutturale e sovrastrutturale.

Alcuni potrebbero ancora obiettare che certi aspetti, soprattutto relativi all’ambito politico dell’imperialismo, sono stati analizzati insufficientemente da Lenin, così come egli stesso dice nell’introduzione al I capitolo dell’opuscolo sull’imperialismo: «Nelle pagine seguenti vogliamo fare il tentativo di esporre… la connessione e i rapporti reciproci tra le caratteristiche economiche fondamentali dell’imperialismo. Non ci occuperemo, benché lo meritino, dei lati non economici del problema». Avendo, comunque, precedentemente spiegato che: «L’opuscolo è stato scritto tenendo conto della censura zarista. Per tale motivo sono stato costretto ad attenermi ad un’analisi teorica, soprattutto economica, ma anche a formulare le poche osservazioni politiche indispensabili con la più grande prudenza, mediante allusioni e metafore… Come è penoso rileggere ora… quei passi dell’opuscolo che per riguardo alla censura zarista sono contorti, compressi, serrati in una morsa!». Ma è forse possibile credere che la trattazione che il marxismo-leninismo fa di alcuni elementi generali di politica relativi al carattere “democratico” e “reazionario” dell’imperialismo e dello Stato non siano sufficienti a fornirci i punti di applicazione teorici e strategici per comprendere come si sviluppa la nostra società?

Noi pensiamo che sia più onesto che ogni compagno faccia propri i principi del marxismo-leninismo e riconosca i limiti che il movimento comunista internazionale si porta dietro dal dopoguerra.

L’obiettivo che ci proponiamo con questo scritto è di iniziare a contribuire alla formazione di quadri comunisti, senza i quali non può neanche ipotizzarsi la fondazione di un Partito per il proletariato nel nostro paese. La formazione teorica di ogni compagno e il metodo dialettico storico e logico che ognuno di noi deve acquisire rappresentano la linfa di questo progetto.

Continuare nell’opera di analisi materialistica e scientifica della società borghese significa riuscire ad impadronirsi delle questioni e dei concetti del marxismo-leninismo, affrontare le cose isolatamente per poi pronunciarsi criticamente sulle modifiche avvenute nell’ambito economico, politico e sociale da quando i fondatori del socialismo scientifico da ultimi hanno spiegato l’evolversi della società nei suoi vari aspetti.

Se non si compiono questi primi due sforzi (formazione teorica e ripresa dell’analisi della società borghese, di ogni aspetto importante già visionato nei testi marxisti: per esempio, critica dell’economia politica-imperialismo, funzioni e compiti dello Stato borghese, ecc.) ogni iniziativa tesa alla ricerca dell’unità dei comunisti sarà destinata prima o poi a fallire.

 

Ottobre 1990

SCHEMA

Per comprendere meglio il problema di cui vogliamo trattare bisogna distinguere:

  1. A) Da un punto di vista economico:
    1 – Il carattere “progressista” del capitalismo e il suo carattere “conservatore”.
    2 – I periodi di accumulazione e di crisi del capitale.
    3 – La fase di ascesa e la fase di disfacimento del MPC.
    4 – Il rapporto crisi-guerra imperialista.
  1. B) Da un punto di vista politico:
    – Il carattere “democratico” della borghesia al potere e la sua espressione “reazionaria”.
  1. A) Da un punto di vista economico.
    L’epoca del capitalismo ha attraversato vari periodi di sviluppo in cui si è “trasformata” la sua esistenza.

1 – Il carattere “progressista” del capitalismo e il suo carattere “conservatore”.
La natura della nascente borghesia affermatasi nella lotta contro il feudalesimo ha assunto un carattere progressista in quanto è stata espressione, a differenza delle classi dominanti che l’hanno preceduta, di un continuo rivoluzionamento della produzione, di una insaziabile nonché inevitabile trasformazione dei mezzi di produzione, quindi dello sviluppo delle forze produttive a cui si accompagnava libera concorrenza, estensione della produzione e dei mercati, ecc.
Essa ha dovuto guidare sempre questo sviluppo sotto l’egida della proprietà privata, alla cui base si pone il rapporto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La borghesia si incarica quindi di informare i Rapporti Sociali di Produzione con la legge dell’accumulazione. Anche questi ultimi, però, vengono oggettivamente spinti verso una trasformazione, a causa del continuo rivoluzionamento delle forze produttive, ed ecco a questo punto fuoruscire l’animo conservatore e quindi reazionario della borghesia paurosa per il suo futuro.
La contraddizione tra carattere sociale della produzione e forma privata della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e di scambio è alla base, oltre che della contraddizione fondamentale del MPC, anche del dualismo che si crea tra carattere “progressista” e “conservatore” del capitalismo in tutte le sue fasi di sviluppo.
L’aumento maggiore del capitale costante rispetto al capitale variabile nella produzione non è altro infatti che l’espressione in termini di valore di un più alto grado di sviluppo delle forze produttive, che da una parte crea riduzione del tempo di lavoro necessario per la riproduzione della classe operaia (ciò che permette di allungare il plusvalore prodotto singolarmente) e consente di dare stimolo e possibilità al capitalista di immettersi sempre in modo nuovo e competitivo sul mercato; dall’altra genera riduzione crescente della massa di plusvalore sociale prodotto, crisi dell’accumulazione, contraddizione tra il carattere sociale della produzione (e cioè, per esempio, di una produzione che si trasforma in produzione per tutta la società) e carattere privato dell’appropriazione, nonché l’impossibilità da parte della maggioranza della popolazione di appropriarsi e godere della stragrande ricchezza prodotta nella società, a causa della continua riduzione della massa di plusvalore sociale prodotto.
Va anche detto che il progresso tecnico può a volte essere limitato dal monopolio capitalistico in singoli rami industriali, in singoli paesi e per periodi di tempo determinati, in quanto i capitalisti più forti, in condizioni particolari, possono arrivare a monopolizzare alcune fette di mercato e muoversi in questi rami come meglio credono (la concorrenza viene così ostacolata): ciò spiega Lenin nel paragrafo “Parassitismo e putrefazione del capitalismo” dell’opuscolo sull’imperialismo. Ma questo processo, tendenzialmente inevitabile nella nostra società, non agisce a senso unico.
Il monopolio capitalistico porta in sé la tendenza alla massima concentrazione e centralizzazione del capitale, e quindi alla stagnazione, ma produce anche aumento della concorrenza tra i grandi e quindi quel meccanismo che induce ogni capitalista a ridurre continuamente i costi di produzione e ad elevare i profitti operando una costante innovazione.
Ciò dimostra che «i movimenti del progresso tecnico e quindi di ogni altro progresso» possono, in una fase di dominio imperialista, essere paralizzati solo fino ad un certo punto poiché agiscono come tendenze, come processi che quando si producono lo fanno solo transitoriamente, come spiega sempre Lenin nello stesso opuscolo.
Il capitale non può quindi attestarsi ad uno stadio raggiunto dal suo sviluppo, ma deve sempre rimodernare: le sue macchine, le sue tecniche, la sua scienza, il grado di “specializzazione” della forza lavoro ecc., finalizzando il tutto all’estrazione del massimo profitto ed al mantenimento dei rapporti capitalistici di produzione.
Quindi è “innovatore” per natura ma è anche “conservatore” per necessità.

Conclusione
La borghesia se vuole sopravvivere, non può che “trasformarsi” continuamente e sviluppare la società, anche se questo processo deve costantemente essere “piegato”, in quanto genera la sua negazione.

 

2 – I periodi di accumulazione e di crisi del capitale
I periodi di espansione e quelli di crisi informano l’esistenza di tutto il MPC, dalla sua affermazione fino ai giorni nostri. Abbiamo visto nel primo punto che il sistema capitalista vive in funzione della crescita dell’accumulazione, attraverso la continua valorizzazione del capitale con sempre maggior plusvalore; questa necessità mette in moto quel meccanismo di incremento delle forze produttive tale da generare la caduta del saggio medio di profitto e da provocare la crisi.
Noi sappiamo che le crisi del capitale esprimono il carattere transitorio dell’attuale MPC, indicando il fatto che lo sviluppo delle forze produttive è talmente rapido e sfrenato da arrivare ad un punto tale da entrare in contraddizione con gli attuali rapporti di produzione, che quindi agiscono da ostacolo all’ulteriore sviluppo delle prime.
Ma sappiamo anche che le crisi sono cicliche, così come siamo a conoscenza del fatto che la caduta del saggio medio di profitto è tendenziale, cioè è ostacolata da quell’insieme di controtendenze che agiscono come argine alla legge di caduta.
Marx, nel capitolo del III Libro de “Il Capitale” dedicato alle “Cause antagonistiche”, spiega il fatto che gli stessi elementi su cui il capitale fa leva per generare valorizzazione, agiscono come causa della caduta del profitto, e quindi il capitalista non può che operare principalmente su essi per rallentare la crisi.
Tra queste controtendenze Marx cita: 1) l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro; 2) la riduzione del salario al di sotto del valore della forza-lavoro; 3) la diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante; 4) la condizione di relativa sovrappopolazione (e cioè l’esercito industriale di riserva che aumenta quanto più è sviluppato il paese capitalista in questione; 5) lo sviluppo del commercio estero; 6) l’accrescimento del capitale azionario.
Esse fanno in modo che a periodi di crisi di sovrapproduzione si succedano momenti di ripresa, a dire il vero sempre più brevi e difficili da realizzarsi e al cui seguito si pongono altri periodi di crisi sempre più insidiose, ravvicinate nel tempo ed estese.
Non è quindi la crisi che caratterizza i nostri giorni, visto che già nell’Ottocento il capitale ne ha dovute superare non poche; sono l’ampiezza e la portata della crisi capitalistica che sono diverse: nell’Ottocento si verificano crisi commerciali e industriali abbastanza circoscritte (a parte quella del 1873), nel nostro secolo crisi che o hanno anticipato la guerra (vedi il 1913 e la grande crisi del ’29) oppure hanno avuto ripercussioni in tutti i campi (vedi la recessione del 1963, la crisi del petrolio del 1973-’75, la recessione del 1980 e la crisi dei nostri giorni).
Le crisi sono sempre state accompagnate da misure e circostanze analoghe a quelle che attualmente assumono i connotati specifici di: da una parte, richiesta di massima innovazione (di processo e di prodotto), ricerca, sviluppo; da un’altra parte, sovrapproduzione che ostacola la completa valorizzazione; da un’altra parte ancora, messa in opera di meccanismi controtendenziali relativi alla riduzione del salario operaio (vedi le riforme operate sulla struttura del salario), all’utilizzo della forza-lavoro funzionale alle necessità del capitale (vedi flessibilità, mobilità), all’uso della forza-lavoro giovanile super sfruttata (vedi contratti di formazione), all’aumento dello sfruttamento del capitale sul lavoro (vedi il prolungamento dell’orario e il pieno utilizzo degli impianti attraverso il lavoro festivo, prefestivo e notturno), alla nocività sul lavoro (vedi la mancanza di norme di sicurezza), ai forti finanziamenti dati alle imprese a sostegno dell’accumulazione; e, per finire, dai momenti di relativo respiro che, pur con difficoltà, le imprese più forti riescono ad avere (vedi il brillante bilancio conseguito dalla Fiat nell’89 a seguito di un fatturato in aumento del 18% rispetto all’88).
Ma non basta dire che la crisi economica del capitale non è prerogativa della fase imperialista, oppure soffermarsi sul fatto che la differenza col passato è da ricercare nell’ampiezza e portata della crisi stessa: bisogna capire che relazione si stabilisce tra accumulazione e crisi.
Il processo di accumulazione si prefigge la massima estrazione di plusvalore, ma con l’aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile si ha caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Essa però non comporta una riduzione automatica della quantità dei profitti ottenuti: caduta del saggio medio di profitto ed aumento della massa dei profitti sono le due facce della stessa medaglia. Con il processo di accumulazione si ha quindi accrescimento del saggio del plusvalore, caduta tendenziale del saggio medio di profitto, aumento della massa dei profitti, diminuzione della massa di plusvalore sociale prodotto (queste circostanze, com’è ovvio, si realizzano dialetticamente, con eccezioni che possono riguardare singole imprese o branche della produzione).
Ciò che va osservato è che accumulazione e crisi agiscono insieme, convivono contraddittoriamente. Marx ci spiega che è la stessa legge dell’accumulazione a generare la caduta del saggio di profitto e quindi le crisi: «… le stesse leggi della produzione e dell’accumulazione aumentano in progressione crescente, insieme alla massa, il valore del capitale costante più rapidamente di quanto avviene per la parte variabile del capitale convertita in lavoro vivo. Le stesse leggi producono quindi per il capitale sociale un aumento della massa assoluta del profitto e una diminuzione del saggio di profitto» (“Il Capitale“, libro III).
Se ci soffermiamo un attimo ad analizzare la situazione di alcune grandi imprese noteremo come il loro andamento sia costantemente ondulatorio; da un versante assistiamo ad una continua produzione di capitale eccedente, cioè sovrapprodotto, accompagnata dall’applicazione di misure controtendenziali che permettano alle imprese di rallentare la riduzione del saggio medio di profitto, da un altro versante si verifica un aumento della massa dei profitti e quindi fatturati di fine anno più alti rispetto a quelli precedenti: cioè un bilancio positivo.
Mettendo in relazione i dati attuali con quelli fornitici da Marx in merito agli elementi propri dello sviluppo del capitalismo, ci rendiamo conto della continuità che si afferma nel tempo. Con l’aumento della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione il capitale riesce sempre meno ad avere respiro, di conseguenza finché è in vita è costretto ad usare tutte le “armi” che possiede: da un lato per trovare nuove fonti di profitto, dall’altro per mantenere gli attuali rapporti di produzione.
Il capitalismo infatti non crollerà mai da solo, nonostante la sua sempre più elevata instabilità. Esso è costretto continuamente a trovare il modo per arginare la contraddizione che lo perseguita. L’arroganza che la borghesia esprime con sempre maggior virulenza, manifesta la sua necessità di conservazione dinanzi ad una lotta di classe che, a seguito della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, diviene oggettivamente sempre più preoccupante.

Conclusione
– Durante lo sviluppo del modo di produzione capitalista si sono intervallati periodi di crisi, causati dalla riduzione del saggio medio di profitto, accompagnati da momenti di accumulazione ed espansione.
– Accumulazione e crisi sono due aspetti del medesimo processo: nel mentre si crea aumento del saggio di pv e aumento della massa dei profitti, si crea anche riduzione della massa di plusvalore sociale prodotto e riduzione tendenziale del saggio medio di profitto.
– Più il capitalismo entra in una fase di putrefazione, quindi si acuisce la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, e più le crisi da cicliche diventano permanenti e insidiose; ma questo non significa che si arresti lo sviluppo delle forze produttive, il capitalismo senza questo sviluppo non potrebbe alimentarsi.
– Inevitabilmente il carattere autoritario, che la borghesia aveva già espresso prima che sorgesse l’imperialismo, si afferma; ma a causa dell’impossibilità di negare lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, questo carattere autoritario non può essere l’aspetto definitivo e assoluto.
– L’autoritarismo e la reazione della borghesia non sono oggi più marcati che nel passato (vedi XIX secolo), oggi si esprimono “semplicemente” con maggiore continuità a causa della crisi e in modo più insidioso a causa dello sviluppo delle contraddizioni che esso stesso genera.

 

3 – La fase di ascesa e la fase di disfacimento del MPC
Abbiamo già accennato al fatto che il carattere autoritario non nasce con l’imperialismo, anche se in questa fase assume altri connotati.
La borghesia durante il periodo della sua affermazione (e quindi in un’epoca di espansione durante la quale il proletariato comincia a formarsi come classe) determinò degli eccessi enormi di sfruttamento in fabbrica. Le nuove macchine rendevano sempre più precarie le condizioni di vita degli operai, la concorrenza capitalistica e le crisi commerciali rendevano instabile il salario operaio.
Sin dalla sua nascita quindi la classe dei capitalisti non ha riguardi per la forza lavoro: solo i limiti storici e fisici imposti dalla società la costringono ad una relativa ed apparente “ragionevolezza” (nell’Ottocento, per esempio, sul limite della giornata lavorativa).
È evidente che in un periodo ancora di formazione delle due classi principali della società (il proletariato e la borghesia) ciò che anima la classe al potere (e cioè la bramosia di accumulazione) riesce ad affermarsi con poche difficoltà (pur dovendo ancora lottare contro i residui del vecchio modo di produzione).
Proprio per questo motivo, non avendo ostacoli determinanti, essa non pone limiti alla sua sete di dominio, soprattutto a ridosso di crisi.
Scrive Marx nel I libro de “Il Capitale”: «Gli ispettori di fabbrica riferiscono come segue sul periodo della crisi dal 1857 al 1858: “si può ritenere illogico che abbia luogo un qualsiasi sovraccarico di lavoro in un momento nel quale il commercio va così male; ma proprio questa cattiva situazione sprona gente senza scrupoli a trasgressioni; costoro si assicurano così un profitto straordinario… ” Lo stesso fenomeno si ripete su scala minore durante la terribile crisi del cotone del 1861-65».
Dunque a cosa servì e che caratteristiche assunse il progresso che pur si ebbe a quei tempi?
Se da una parte le leggi “liberali” di quel periodo si imposero come “leggi naturali del modo di produzione”, «i fabbricanti non permisero questo “progresso” senza un “regresso” che lo compensasse». Per esempio nel periodo dal 1844 al 1847 «… la giornata lavorativa di dodici ore ebbe validità generale ed uniforme in tutte le branche industriali soggette alla legislazione sulle fabbriche», ma nello stesso tempo sotto la spinta dei fabbricanti «… la Camera dei Comuni ridusse da nove a otto anni l’età minima dei fanciulli da consumare col lavoro, per garantire la “provvista addizionale di ragazzi di fabbrica” dovuta al capitale in nome di Dio e della legge».
Di esempi se ne potrebbero fare tanti – basterebbe citare altre frasi di Marx che troviamo su “Il Capitale” – per mostrare la barbarie naturale della borghesia e il fatto che il suo “progresso” ha sempre dovuto fare i conti con le proprie leggi di sviluppo e con la lotta di classe.
Questa situazione contraddittoria si manifesta, come abbiamo visto, in un periodo di ascesa del capitalismo.
Ciò che quindi distingue la fase di ascesa da quella di disfacimento del MPC non è l’espressione più o meno marcata della “arroganza” borghese, ma il modo in cui si manifestano ed alternano periodi di ripresa con periodi di crisi di sovrapproduzione.
Un’altra distinzione che si afferma con lo sviluppo del capitalismo la troviamo nel modo di estrarre plusvalore.
Fino a che è stato possibile, il capitalista ha operato lo sfruttamento dell’operaio produttivo attraverso il prolungamento della giornata lavorativa, estraendo così plusvalore assoluto; ma con il rivoluzionamento continuo delle condizioni tecniche e sociali del processo produttivo si è arrivati all’estrazione del plusvalore relativo.
Il prolungamento della giornata lavorativa e l’accorciamento del tempo di lavoro necessario rispetto al tempo di pluslavoro, sono entrambi mezzi usati dai capitalisti per aumentare il saggio di plusvalore, ma mentre il capitalista dell’Ottocento pur sfruttando i suoi operai e costringendoli a condizioni di vita e di lavoro disumane, non poteva allungare la giornata lavorativa oltre limiti fisici, storici e sociali – e quindi non poteva estrarre plusvalore all’infinito – il capitalista dei nostri giorni pur ricorrendo a forme di sfruttamento apparentemente più civili riesce ad ottenere un maggior saggio di plusvalore, intensificando i ritmi, aumentando la produttività, ecc.
Non è per caso che Marx definisce l’estrazione di plusvalore relativo come il «modo di produzione specificatamente capitalistico».
Se da un lato quindi i capitalisti, all’inizio, apparivano più barbari per il modo in cui applicavano le leggi del profitto, da un altro lato il loro sfruttare la classe operaia veniva limitato, non potendo svilupparsi oltre un certo grado. L’attuale capitalista invece, pur se appare nella forma più democratico, risulta nei fatti molto più “attrezzato” alla torchiatura della forza-lavoro.
Quanto detto si riferisce al tipo di relazione esistente tra estrazione di plusvalore assoluto e relativo da un lato, e progresso e conservazione, democrazia e reazione, dall’altro.
Se Marx definisce ne “Il Capitale” l’estrazione di plusvalore relativo come la forma specificatamente capitalistica dello sfruttamento, essa è sì meno brutale dell’allungamento della giornata lavorativa, ma più conforme al continuo sviluppo delle forze produttive nell’ambito dei rapporti di produzione capitalistici; quindi è oppressione e violenza di classe come e più dell’estrazione del plusvalore assoluto.
La dominanza dell’estrazione del plusvalore relativo si afferma ben prima dell’imperialismo, ma lo sviluppo di quest’ultimo ne fa in ogni luogo della terra la parola d’ordine di tutte le borghesie e loro frazioni.
La “conquista” dei mezzi per accrescere lo sfruttamento, il plusvalore relativo, è spesso faticosa per i paesi arretrati e portatrice di contraddizioni interborghesi, come è stato da Lenin ben spiegato ne “L’imperialismo” parlando della «… oppressione imperialista e lo sfruttamento della maggior parte delle nazioni della terra per opera del parassitismo capitalista di un pugno di stati ricchi…» e, dopo poche righe, dicendo che «L’esportazione di capitali influisce sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce, accelerando tale sviluppo. Pertanto… non può non dare origine a una più elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo» (1).
Nel periodo del tardo capitalismo le crisi, come abbiamo già detto, assumono sempre più un carattere generale, acuto, nonché si riducono i mezzi per prevenirle (tendenza questa che Marx ed Engels avevano già individuato nel “Manifesto del Partito Comunista”). Difatti con il suo avanzare il capitale, per far fronte alle sue difficoltà, si espande facendo assumere alla crisi un carattere mondiale.
«L’imperialismo nasce con la concentrazione della produzione, la formazione dei monopoli capitalistici, la fusione e simbiosi delle banche con l’industria, l’esportazione di capitali, la spartizione della terra tra le grandi potenze» – diceva Lenin. Ma, nello stesso opuscolo sull’imperialismo, egli pone l’accento sul fatto che la storia dei monopoli capitalistici non inizia con il XX secolo, anche se solo nel Novecento essi si sono definitivamente affermati come base del “nuovo capitalismo”.
Lenin spiega che tutte le caratteristiche dell’imperialismo erano già in nuce nella fase nascente del capitalismo. Egli fa riferimento alle opere dove Marx spiega come alla base della tendenza ai monopoli vi sia la spinta alla concentrazione della produzione, creata originariamente proprio da quella libera concorrenza che l’imperialismo tende ad ostacolare.
I monopoli, che nella fase dell’imperialismo sono alla base della formazione del capitale finanziario, sono sostenuti da quel «sistema creditizio, delle società per azioni, ecc. (che) permettono agli individui di trasformare il denaro in capitale senza divenire essi stessi dei capitalisti industriali» (“Il Capitale”, libro III).
Il credito bancario, la speculazione in titoli di borsa, le società per azioni, ecc., di cui Marx ci ha spiegato i meccanismi, dimostrano il parassitismo e l’imputridimento del capitalismo. Aumentano la concentrazione del capitale e le crisi economiche di sovrapproduzione, elementi che con lo sviluppo dell’imperialismo hanno assunto un’importanza eccezionale.
«Il sistema creditizio affretta dunque lo sviluppo delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione» (“Il Capitale”, libro III).
Il credito quindi crea meccanismi contraddittori: permette il rapido trasferimento di capitale da un settore all’altro grazie a prestiti o investimenti; accelera lo sviluppo di quelle società il cui capitale si concentra intorno all’emissione di titoli; aumenta la concorrenza, ecc.
Partendo da ciò che Marx diceva sul sistema delle banche e sulla relazione tra questo capitale e quello industriale, vediamo che rapporto si stabilisce tra i due.
Le banche hanno il compito di assorbire capitali o depositi: cioè avere una forte disponibilità finanziaria, vendere denaro, svolgere e finanziare attività di investimento. Tramite le banche quindi il capitale industriale e commerciale può disporre di tutti i risparmi monetari esistenti in un paese. In questo modo il capitalista può sia ricevere in prestito dalla banca un capitale (rappresentante di una parte di plusvalore prodotto precedentemente) che deve servigli per creare nuovo profitto e che deve essere restituito come capitale realizzato addizionato di interesse ad un saggio non troppo elevato in quanto più questo aumenta e più si riduce il profitto dell’imprenditore in questione; sia investire una parte del suo capitale eccedente in sempre nuove e più contorte attività che possano permettergli di concentrare nelle sue mani una massa sempre più alta di plusvalore prodotto nella società.
La riduzione del saggio medio di profitto causata dal minore impiego di capitale variabile in rapporto al capitale costante crea una produzione eccedente di capitali, in quanto il plusvalore che si ottiene è insufficiente a valorizzare la totalità del capitale; si generano in questo modo attività di speculazione, nuovi investimenti di capitali ecc. al fine di assicurare in un modo o nell’altro un extraprofitto. E si crea un vero caos in campo finanziario.
Il costituirsi di istituzioni bancarie sempre più concentrate e forti da un lato, e di concentrazioni monopolistiche nel campo industriale dall’altro, favoriscono la riproduzione del capitale finanziario e di una oligarchia finanziaria che concentra e centralizza il capitale bancario e industriale. Nella fase dell’imperialismo l’affermazione del capitale finanziario è necessaria e possibile in quanto per le sue caratteristiche (massima concorrenza e quindi concentrazione e centralizzazione, esportazione di capitali su ampia scala, sviluppo dei monopoli, ecc.) permette di rallentare la caduta del saggio medio di profitto anche se i suoi stessi meccanismi producono crisi. È un cane che si morde la coda.
Ciò che emerge dalla formazione del capitale finanziario è che se da un lato si stabilisce una stretta unità d’intenti tra industria e banche, dall’altro il capitale bancario sta dinnanzi al capitale industriale come una classe particolare di capitalisti.
Ma nonostante l’affermarsi del capitale finanziario nell’epoca del capitalismo maturo, ciò che ha importanza ai fini della produzione capitalistica è il capitale industriale che dirige il processo di produzione il quale a sua volta informa il processo di circolazione, senza i quali il capitale finanziario non avrebbe motivo di esistere in questa società (e lo dice anche De Benedetti in un’intervista: «… ho una certa capacità e una certa intuizione per la finanza e l’ho usata a vantaggio delle mie aziende…. Negli anni ’90 ci sarà un ritorno ai problemi industriali concreti, dopo un incredibile sviluppo della finanza che ha permesso di rivoluzionare il sistema industriale»).
Se è vero che con l’imperialismo il capitale finanziario si afferma, è anche vero che la crisi del capitale ha origine dalla produzione, ed è qui che il capitale agisce in primo luogo per arginare la propria caduta. La contrazione della base produttiva che si determina nella nostra società a causa della crisi, non può che produrre da un lato recessione economica, dall’altro riduzione delle entrate dello Stato a causa della compressione dei salari operai in termini reali e della riduzione della forza-lavoro impiegata nella produzione.
Abbiamo visto nei punti precedenti l’importanza che ha la produzione di plusvalore per i nostri capitalisti e quindi per tutta la società borghese e il caos che la sovrapproduzione determina. Abbiamo detto che le recessioni si allungano e divengono sempre più gravi, le “riprese economiche” si hanno con sempre più difficoltà e per brevi periodi; abbiamo inoltre affermato che, così come nel passato, si ha compressione del salario in tutte le forme, diminuzione dell’occupazione, intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro: tutti processi ormai acquisiti e consolidati particolarmente nei paesi avanzati dell’Occidente.
Sullo sviluppo intensivo di questo processo, oggi come ieri, la borghesia poggia la necessità e la possibilità di aumentare la propria competitività sul mercato internazionale, modificando la struttura del salario, subordinando questo alla produttività e quindi al profitto, riformando la contrattazione collettiva e il mercato del lavoro.
È ovvio che nella società capitalistica l’Esecutivo (come entità e non come coalizione) si adoperi per sostenere l’accumulazione e in questo senso orienti le sue politiche.
La riduzione del tempo di lavoro necessario alla riproduzione della classe operaia viene perseguita attraverso tutti i meccanismi che Marx già individuava come controtendenze alla caduta; inoltre – ripetiamo – la riduzione del costo del lavoro (praticata in questi anni attraverso vari meccanismi: attacco alla contingenza, fiscalizzazioine degli oneri sociali, attacco al salario indiretto), riducendo la paga netta dell’operaio, contrae anche le entrate dello Stato, nella misura in cui sono rappresentate anche da oneri sociali e tasse; quindi per controbilanciare questa contrazione diviene inevitabile l’aumento della tassazione diretta e indiretta, la diminuzione delle spese e il ricorso al debito pubblico. Quest’ultima circostanza aziona peraltro nella nostra società un contorto meccanismo anche nel campo finanziario: da un lato le banche investono parte dei loro depositi nell’acquisto di titoli di Stato riducendo così le proprie disponibilità finanziarie, dall’altro la domanda di credito aumenta facendo lievitare il costo del denaro; ciò si riflette negativamente sugli industriali, che dovranno pagare maggiori costi per proseguire nel processo innovativo.
Aumenta perciò il denaro offerto per l’acquisto dei titoli di Stato, ma il restringimento del complesso delle entrate statali, accompagnandosi alla crescente domanda di denaro, sempre da parte dello Stato, si risolve in nuove emissioni di titoli, ricominciando da capo il circolo vizioso.
A questo punto è chiaro che la necessità che il capitale ha di ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione dei mezzi di sussistenza della classe operaia innesca un meccanismo perverso in tutta la società, creando continua riduzione del salario e dei redditi diretti e indiretti, continuo aumento dello sfruttamento operaio, sempre nuovo ricorso al debito pubblico e costante contrazione della base produttiva; a ciò si accompagnano misure di prevenzione delle lotte, attività di controllo dei flussi e riflussi dell’antagonismo e forme di repressione dell’autonomia di classe (vedi per esempio la legge di modifica del diritto di sciopero).
Il quadro descritto dimostra quindi che, più che mai, nella fase di imperialismo maturo:

  1. a) la massa del plusvalore sociale prodotto è insufficiente a valorizzare l’insieme del capitale, quindi tutto si muove in funzione e per arginare questo limite;
  2. b) le prime controtendenze utilizzate dal capitale per frenare la sua crisi sono applicate direttamente al processo di produzione di plusvalore;
  3. c) il ricorso spropositato agli investimenti prettamente finanziari, la concentrazione e la centralizzazione in monopoli capitalistici ecc., sono tutte conseguenze dell’eccedenza di capitali che si determina e della riduzione della massa di plusvalore sociale estratto, ed agiscono anche come controtendenze;
  4. d) la necessità di stringere alleanze fa nascere il capitale collettivo, che con lo sviluppo dei monopoli acuisce le contraddizioni interborghesi in quanto eleva ed aumenta la concorrenza.

Il capitale quindi fa uso di varie controtendenze di cui alcune, incidendo direttamente sul processo di produzione di plusvalore (vedi le “cause antagonistiche”) assumono un’importanza maggiore rappresentando la base da cui le altre traggono alimento. Ma queste controtendenze agiscono innanzitutto come fondamento dello sviluppo dell’accumulazione.
Le spinte ai processi di integrazione e concentrazione economica, accompagnate alla maggiore competitività delle imprese sul piano internazionale, sono fenomeni quotidiani. Raccogliendo le proprie forze e continuando la lotta al loro interno, i singoli capitalisti possono riuscire a contrastare momentaneamente la riduzione del saggio medio di profitto; ne sono la prova le varie joint-ventures, accordi e fusioni nel settore industriale, in quello della distribuzione ecc., a livello nazionale e internazionale.
La centralizzazione dei capitali permette sostanzialmente ai più forti nei vari settori di divenirlo ancora di più e quindi di acquisire nuove fonti di profitto. Questo grazie al fatto che settori produttivi o commerciali sono inondati da una crisi talmente elevata da non permettere a tutti di fronteggiare la concorrenza, cosicché intere aziende vengono cedute o integrate ad altre gestioni.
Esiste poi una forma di concentrazione particolare che si determina tra capitale pubblico e privato: le “privatizzazioni” di settori quali sanità, trasporti, credito, ecc. Va rilevato che esse non nascono oggi; alcuni dati relativi ad un rapporto del CENSIS dimostrano chiaramente che una combinazione tra gestione privata e pubblica esiste da tempo (ancora sanità e trasporti e poi previdenza, PPTT, pubblica istruzione, ecc.) ma che essa, per come si presenta, è oggi insufficiente per permettere il pieno “risanamento” di questi settori.
Il sistema pubblico, a causa del forte debito in cui versa, non riesce a rendere competitiva la sua attuale gestione maggioritaria. Ma il positivo andamento dell’economia nazionale è nell’interesse di tutta la borghesia (e le privatizzazioni particolarmente interessano il capitale privato) quindi, seppure a malincuore per alcuni, questa ristrutturazione si impone come inevitabile.
La concentrazione e la centralizzazione del capitale si accompagnano alla ristrutturazione finanziaria. Il settore finanziario, unendo il capitale industriale a quello bancario, diviene il luogo ove maggiore è la lotta interborghese finalizzata alla concentrazione e centralizzazione monopolistiche.
Processi tutti molto dolorosi per la borghesia che, pur se da un lato è unita nella definizione dei progetti antiproletari, da un altro lato è in lotta al suo interno, anche se nella lotta è costretta a raggiungere la massima unità per cercare di recuperare quote di plusvalore sociale e utilizzarlo al fine di valorizzare il proprio capitale. Ma ciò crea accumulo di altro capitale eccedente e quindi nuove contraddizioni.
Possiamo a questo punto aggiungere che anche le indicazioni dei vari istituti economici internazionali (FMI, BM) creati dalla borghesia, operano controtendenzialmente alla crisi. Questi organismi, al cui interno convivono unità e lotta, si fanno portatori sul piano internazionale degli interessi antiproletari dell’imperialismo ed amministrano l’economia mondiale in modo ad esso confacente. In questo senso si indirizzano le politiche di queste istituzioni, sia nei confronti di quei paesi avanzati che più di altri attraversano una forte crisi economica e finanziaria (per esempio l’Italia), richiamandoli all’applicazione della politica del “rigore“; sia nei riguardi dei paesi della periferia verso cui il sostegno economico è sì fuori discussione, ma deve essere accompagnato da una gestione interna che si renda responsabile dei propri compiti dinanzi ad un’economia in sfacelo e che sappia quindi adeguatamente far valere la legge dell’accumulazione.
Le proposte di queste strutture sovranazionali indirizzano i governi, a livello mondiale, nella ricerca di un proprio “risanamento” attraverso una ferrea applicazione della regola del profitto, della massima produttività, dell’aumento dello sfruttamento, ecc., in cui la centralità è ricoperta dalla produzione.
L’applicazione delle principali “cause antagonistiche” esposte da Marx come elementi su cui i capitalisti agiscono per favorire l’accumulazione ed arginare, in periodi di crisi, la caduta del saggio medio di profitto, rappresenta un importante fine dei vari accordi stipulati in sede internazionale dai paesi più avanzati che militano in questi organismi.
In questo senso tali istituzioni operano anche in modo controtendenziale alle crisi odierne.
La necessità di trovare nuove fonti di profitto, abbiamo visto, induce i capitalisti ad esportare i propri capitali eccedenti; ciò aumenta su un versante l’integrazione internazionale e la concorrenza, sull’altro la dipendenza economica di alcuni paesi da altri. Questo andamento viene ovviamente guidato dai paesi più avanzati e quindi dai capitali più forti, sia in Occidente che nelle altre aree del mondo.
A parte i paesi avanzati, tra cui si creano monopoli, si stabiliscono concentrazioni e centralizzazioni, si effettuano tutte quelle operazioni che anche sul piano internazionale permettono di arginare la legge di caduta come appena descritto (paesi in cui più lo sviluppo capitalistico è avanzato e più le crisi di sovrapproduzione si fanno sentire), l’imperialismo riguardo alle altre aree si muove in diverso modo.
A questo proposito è il caso di riallacciarci a quanto detto più sopra in merito alle controtendenze alla caduta del saggio medio di profitto. Partiamo dal ragionamento di Marx nel libro III de “Il Capitale”, (cap. XIV sulle “Cause antagonistiche”): «I capitali investiti nel commercio estero possono presentare un saggio del profitto più alto soprattutto in quanto così fanno concorrenza a merci prodotte da altri paesi a condizioni meno propizie; in tal caso il paese più progredito vende i suoi prodotti a un prezzo più alto del loro valore, sebbene più basso di quello dei paesi concorrenti. Fintantoché il lavoro del paese più progredito viene impiegato come lavoro di un peso specifico superiore, il saggio del profitto aumenta, giacché il lavoro che non è retribuito come lavoro di qualità superiore, viene venduto come tale. La stessa situazione può stabilirsi nei confronti di un paese con il quale si abbiano rapporti d’importazione ed esportazione: esso fornisce in natura una quantità di lavoro oggettivato più alta di quella che riceve e ciononostante ottiene la merce ad un prezzo più basso di quanto non potrebbe produrre esso stesso… Del resto, quanto ai capitali investiti nelle colonie ecc., essi possono fornire un saggio del profitto superiore sia in quanto generalmente il saggio del profitto è più alto in questi paesi in seguito all’inadeguato sviluppo della produzione, sia in quanto… il lavoro viene sfruttato in maniera più intensa».
Sulla base di ciò il marxista Lenin ha potuto approfondire il concetto di esportazione di capitali quale dato caratteristico dell’imperialismo, quale ulteriore sviluppo della semplice esportazione di merci. Ma solo analizzando questo dato nella sua natura di “causa antagonistica”, di controtendenza alla caduta del profitto, si può chiarire un importantissimo aspetto economico dell’imperialismo: maggiore gravità e intensificazione delle crisi e conseguente sviluppo delle controtendenze. Ciò premesso riportiamo Lenin: «Finché il capitalismo resta tale, l’eccedenza dei capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse… ma ad elevare tali profitti mediante l’esportazione all’estero, nei paesi meno progrediti (2). In questi ultimi il profitto ordinario è assai alto, poiché colà vi sono pochi capitali, il terreno vi è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo» (3) (“L’imperialismo”).
Quindi da una parte nei paesi in via di sviluppo l’imperialismo può raggiungere maggiori profitti (paesi che peraltro sono fortemente indebitati con l’Occidente industrializzato ma ai quali, pur se sottoposti ad una forte pressione dagli istituti internazionali al fine di riavere i soldi stanziati, non si riducono i prestiti e non s’impongono grossi interessi, visto che non riuscirebbero mai a pagarli; tutto questo conferma la necessità che ha l’imperialismo occidentale di continuare ad invadere e sfruttare questi mercati, e l’interesse economico che pure muove le borghesie dei paesi arretrati a stipulare accordi con l’Occidente), dall’altra parte nel Sud-Est asiatico e nei paesi dell’Est europeo le potenze occidentali devono agire diversamente.
Per quanto riguarda il Sud-Est asiatico, se è vero che in quest’area ancora non sviluppata completamente è possibile per il “nostro” capitalista raggiungere comunque dei maggiori margini di profitto, avere forza-lavoro a costo minore, “piazzare” il proprio capitale, ecc., va detto che all’interno di questa zona (Corea del Sud, Taiwan, Hong-Kong, Singapore) si sta sviluppando l’industria nazionale ad un ritmo che le permette sempre più di attestarsi ad un livello di progresso capitalistico.
Per quanto riguarda invece l’apertura all’Est, l’Europa industrializzata e tutto l’impero occidentale iniziano a manifestare una particolare attenzione. Non vogliamo qui analizzare ciò che in questa parte del mondo sta avvenendo e perché, vorremmo solo accennare a cos’è che muove l’imperialismo verso Est. È chiaro che questa area geografica e politica è colpita da una grossa e forte crisi economica, quindi è costretta a modernizzare il suo apparato produttivo e renderlo competitivo sul mercato internazionale. Per far questo si agisce su vari fronti: ristrutturazione interna, modifica della struttura produttiva, convertibilità della moneta, allargamento delle esportazioni, creazione di joint-ventures per associare capitale straniero e nazionale.
Lo slancio degli scambi che in particolare l’URSS sta stabilendo con l’Occidente ha origine dal suo bisogno di modernizzazione tecnologica e dalle carenze produttive interne all’agricoltura, e dalla nuova possibilità che si crea in questo modo per i paesi occidentali di poter esportare parte di quel capitale che risulta sovrapprodotto.
È abbastanza chiaro a questo punto il motivo per cui gli occidentali vedono di buon grado l’apertura dei mercati dell’Est; non è un caso che essi si scannino tra loro per cercare di avere il migliore posto nell’invasione e penetrazione di questa area. Sentiamo cosa dice Agnelli al riguardo, e cosa propone: il mercato dell’Est rappresenta «il mercato mondiale che ha la più forte potenzialità di crescita (e) lo sviluppo dell’ECU come moneta europea deve essere visto come contributo all’integrazione dell’Europa occidentale e al tempo stesso come base della ricostruzione di quella orientale».
La recessione mondiale in cui si trovano ad operare i capitalisti, può essere in qualche modo “arrestata” momentaneamente con l’apertura di questi nuovi mercati.

La situazione internazionale fin qui descritta ci permette di tracciare cinque considerazioni:
1) Le potenze imperialiste non possono fare a meno di invadere e sfruttare nuove aree. 2) Tutto il mondo è ormai dominato dal capitalismo, e solo a causa di fattori strutturali interni storici, politici, economici e sociali i vari paesi si collocano su piani diversi. 3) Il MPC operante su scala mondiale rende necessaria ovunque la realizzazione della legge del valore. 4) In queste condizioni il proletariato, ormai esistente su tutto il globo, pur distinto per il modo in cui viene sfruttato, si trova ad avere immediatamente dinanzi un nemico interno da combattere rappresentato dalla propria borghesia, che per quanto in alcune zone possa essere ancora “stracciona”, non è certo da meno – nel suo rapporto con la classe avversa – della borghesia che controlla New York. 5) Il proletariato è quindi destinato a svilupparsi in intensità ed estensione, a livello internazionale, come classe e vedrà aumentare il suo sfruttamento.

Esportazione di capitali, spartizione internazionale del mercato, nascita di monopoli nazionali ed internazionali in tutti i campi, concentrazione e centralizzazione del capitale a livello mondiale, mostrano in definitiva di essere per un verso espressione della bramosia di accumulazione, quindi di sviluppo, e per un altro verso di essere accompagnati da sopruso, violenza, quindi dal regresso.
Abbiamo quindi spiegato sommariamente come la società borghese risulti immersa nelle contraddizioni. La formazione e la riproduzione di una borghesia dominante non significa infatti tranquilla convivenza tra i detentori del potere imperialista, anzi, più si accresce la crisi e più la lotta risulta acuta in seno alla borghesia, per quanto la necessità di rimanere uniti in certe condizioni divenga sempre più pressante.
Qualche compagno a questo punto potrebbe chiedersi se esista, dunque, un cuore nel corpo dell’imperialismo.
La scienza marxista ci insegna che la produzione rappresenta l’anima del capitalismo e quindi che il capitale industriale si distingue qualitativamente da tutte le altre forme di gestione economica (commercio, banche, finanza) e politica della società capitalistica, di cui in ogni modo non può fare a meno. Inoltre, da un punto di vista programmatico, sappiamo che in tutto il mondo capitalista si stipulano accordi, si emanano leggi, si creano cartelli, ecc. al solo fine di aumentare l’accumulazione, e che congiunturalmente esistono progetti di ordine economico e politico (che devono marciare conseguentemente a questo fine) che si pongono al centro di tutte le scelte, le lotte, le coalizioni della borghesia.
Ma sappiamo anche che i progetti sono sottoposti a continue trasformazioni; quindi, per quanto sulla base di obiettivi strategici da raggiungere emergano, a livello congiunturale, degli aspetti centrali – intorno ai quali si concentra l’attenzione dell’intera classe dominante in un dato paese – diciamo anche che questi aspetti: primo, non possono mai rappresentare da soli tutte le speranze di tutta la borghesia; secondo, pur avendo un’oggettiva centralità, essa non potrà che essere transitoria. Non esiste quindi un cuore dell’imperialismo.
Sempre riguardo al significato che si attribuisce al termine “borghesia dominante”, vogliamo dire due parole su quella parte di borghesia che esprime il proprio potere economico e politico attraverso l’illegalità. La formazione di questa borghesia si distingue dalla gestione centrale del potere economico, politico e finanziario.
La sua formazione e la sua esistenza derivano prevalentemente da quella divisione storica nel nostro paese, che neanche con l’unità d’Italia si è superata, che ha dato origine alla cosiddetta “questione meridionale” e che ha prodotto lo sviluppo separato (economico e politico) del Centro-Sud da una parte e del Nord dall’altra (con l’insediamento delle grandi industrie nell’Italia settentrionale).
La crisi generale del sistema capitalistico, la ricerca frenetica di sempre nuove strade per accaparrarsi profitti, la necessità – che si è imposta in alcuni periodi – di prevenire e reprimere movimenti proletari di lotta e fenomeni rivoluzionari nel nostro paese, hanno sicuramente favorito lo sviluppo di forme illegali entro cui venivano e vengono coinvolte varie frazioni di borghesia, e attraverso cui si è potuta svolgere una lotta intestina senza esclusione di colpi.
Tutto ciò invece che attenuarle, aumenta le contraddizioni in seno alla classe dominante, dove il grande capitale ha la parte del leone.
Nella lotta interborghese, insomma, quella che si afferma o si riafferma come borghesia dominante rappresenta, e continuerà a rappresentare, gli interessi del grande capitale.

Conclusione
– Il marxismo come scienza rivoluzionaria ci fa comprendere pienamente che l’imperialismo non rappresenta altro se non la degenerazione del capitalismo. Periodo in cui le contraddizioni si acuiscono, la crisi avanza, le controtendenze riescono sempre meno a porre rimedio alla legge di caduta.
– Ciò che distingue la fase di ascesa da quella di disfacimento del capitalismo è l’entità delle crisi economiche e finanziarie, tale da indurre il capitale nei suoi diversi periodi di sviluppo a far sempre più leva sulle controtendenze in suo possesso per poter sopravvivere. Questi mezzi però generano sempre più altra crisi, rilanciando ad un livello superiore quelle stesse contraddizioni che, ad un livello inferiore, avevano ostacolato.
– Tutti i meccanismi adoperati dall’imperialismo in funzione controtendenziale, si basano sulla necessità di porre un freno alla riduzione della massa di plusvalore sociale prodotto, quindi le controtendenze che il capitale privilegia sono quelle che incidono direttamente sul processo di formazione del plusvalore.
– La crisi, la nascita e la crescita dei monopoli, i giochi di borsa, la spartizione dei mercati, generano da una parte alleanza tra capitalisti, dall’altra lotta interborghese a livello nazionale e mondiale.
– La necessità del sostegno all’accumulazione produce unità nella distinzione tra capitale bancario, capitale industriale e Stato. Cosicché la borghesia dominante presenta il suo interno interessi omogenei, ma contraddittori nella misura in cui gli interessi della singola parte sono messi in discussione dalle altre.
– Nella unità e lotta che si genera nella borghesia solo gli interessi del grande capitale hanno la supremazia (interessi che peraltro sono sottoposti alle leggi della dialettica e quindi della continua trasformazione).
– La presenza dell’imperialismo nelle aree della periferia e l’apertura dell’Est all’Europa occidentale agiscono in modo controtendenziale alla crisi e quindi sono favorite e sviluppate ovunque siano possibili.
– La dominanza nell’imperialismo, proprio in quanto fase di sviluppo del MPC, è costituita dal rapporto che si crea tra: estrazione di plusvalore/crisi che questo genera/“cause antagonistiche” e ulteriori controtendenze che si affermano sul piano economico, finanziario, politico, informate però dalle prime (le “cause antagonistiche”).
– La contraddizione principale nel mondo è quella tra proletariato e borghesia.

 

4 – Il rapporto crisi/guerra imperialista
Le crisi del capitale possono essere quindi arginate con l’utilizzo di varie controtendenze. Ma arriva il momento in cui l’uso delle controtendenze fin qui esaminate diviene insufficiente allo scopo.
Nella società capitalistica la riduzione del tempo di lavoro necessario per la produzione dei mezzi di sussistenza operaia, la compressione del salario al di sotto del loro valore, l’invasione di nuovi mercati, la concentrazione, ecc., si affermano con sempre maggiore difficoltà a causa delle contraddizioni del capitale e dell’inevitabile lotta di classe che si genera.
Questa tendenza già operante induce gli Stati e i governi borghesi, ad un certo punto, a “far politica con altri mezzi”.
Le guerre imperialiste permettono di distruggere capitali e di rigenerare una nuova fase di accumulazione ed espansione. Le guerre capitaliste hanno sempre sancito sul piano economico l’instabilità di un paese, di un regime, di un sistema.
La storia è costellata di guerre continue; la guerra imperialista rappresenta l’ultima controtendenza a cui il capitale ricorre per poter ricominciare la corsa verso lo sviluppo e l’accumulazione. Le guerre sono sempre state anticipate da invasioni coloniali o imperialiste, penetrazioni di mercati da parte di capitali, ecc. (basti pensare alle espansioni coloniali inglesi nel Mediterraneo, in Africa e in Asia, o a quelle francesi, tedesche e russe dell’Ottocento, o all’invasione italiana della Libia e così via).
Vediamo ad esempio che alla prima grande guerra imperialista si accompagna un periodo molto ampio di depressione economica e di ristagno, nonché un forte contrasto tra gli imperi tedesco, francese e inglese; così come la grande crisi del ’29 e le invasioni mondiali accompagnarono il conflitto del 1939-’45. Che la borghesia lo voglia o meno, il superamento della crisi attraverso la guerra diviene inevitabile.
Abbiamo detto che le guerre imperialiste servono al capitale per aprire nuovi periodi di ripresa dell’accumulazione, la quale solo in periodi di relativa pace può svilupparsi pienamente (infatti solo alcuni settori – come quelli bellici – possono accentuare la propria produzione nei periodi di guerra). Il capitale vive in funzione dell’accumulazione e quindi le guerre imperialiste, proprio perché devastanti e distruttrici di capitali, non possono durare in eterno.
L’obiettivo per la borghesia dominante è il profitto e non la distruzione di capitali, quindi è la guerra che è funzionale allo sviluppo e non il contrario, sviluppo che perciò non può che affermarsi compiutamente in periodi di pace borghese.
Abbiamo detto che le guerre imperialiste ad un certo punto divengono inevitabili: aggiungiamo che la tendenza oggi operante è quella alla guerra imperialista; essa dovrà distruggere una quantità di capitali eccedenti spropositata.
Le guerre imperialiste si sono sempre accompagnate a periodi di grossa violenza; gli Stati borghesi, dinnanzi alle dimensioni che assumerà questo nuovo conflitto, dovranno quindi predisporre gli strumenti idonei per dirigerlo e per contrastare gli inevitabili “colpi di testa“ dei concorrenti, nonché la contrapposizione operaia e proletaria.
Se è vero che in un periodo di “pace”, in cui comunque aumentano le contraddizioni oggettive, la reazione del capitale si esprime in modo sempre più intensivo, è pur vero che questa reazione dovrà a sua volta trasformarsi a ridosso di un conflitto mondiale interborghese o alle porte di un conflitto tra proletariato e borghesia.
Se è vero che l’unità tra gli imperialisti cresce, e che contemporaneamente aumenta la divisione creata dalla lotta tra diversi interessi al loro interno, nel sistema imperialista si determinano aree più deboli, aree dove la contraddizione tra rapporti di produzione e forze produttive vive e si sviluppa pienamente, paesi in cui la lotta tra proletariato e borghesia assume dimensioni rilevanti, dove – in parole povere – si concentrano tutti i problemi legati all’imperialismo; questi paesi è quindi ipotizzabile che inneschino il futuro conflitto mondiale, per le forti contraddizioni e l’alta instabilità sociale che li attanagliano.
Se pur l’interesse dell’imperialismo sarà quello di distruggere in ultima istanza masse consistenti di capitali per rigenerarsi, nessuno vorrà pagare anche le conseguenze in negativo di una guerra mondiale; quindi le potenze imperialiste cercheranno, così come hanno fatto nel passato, di circoscrivere materialmente l’area ove avrà luogo il conflitto.
Noi non possiamo certo sapere quale sarà, nè dove si verificherà la scintilla che darà via al terzo conflitto mondiale – se nel Centro Europa, in Medioriente o altrove – ma possiamo sicuramente affermare tre cose: primo, che la guerra mondiale si configurerà come una guerra interimperialista e quindi come una guerra che vedrà in campo paesi eguali tra loro, ove la crisi imperialista sarà acuta e forte la necessità di darle soluzione; secondo, che l’“eguaglianza” tra le potenze imperialiste belligeranti non esclude le differenze al loro interno e, in particolare, l’esistenza di un “anello debole della catena imperialista”; terzo, che lo scatenamento di una guerra mondiale dovrà essere preceduto da forti contraddizioni tra i paesi dell’Occidente industrializzato, accompagnate da un’enorme recessione e da altri grossi fattori di crisi, economici e non, ai quali non potrà darsi soluzione pacifica.

Conclusione
– I conflitti nella storia delle società divise in classi sono sempre esistiti, e continueranno a prodursi fino a che esisterà il capitalismo.
– La guerra è la “continuazione della politica con altri mezzi” e rappresenta l’ultima ed inevitabile controtendenza per il capitalismo per poter rilanciare l’accumulazione.
– Durante i periodi di guerra imperialista si ha distruzione di capitali, quindi le guerre non possono essere perenni; la guerra è funzionale alla creazione di condizioni che permettano una maggiore estrazione di plusvalore. Quest’ultima però può ottenersi nelle migliori condizioni solo in periodi di “pace”.
– La tendenza oggi vigente è quella alla guerra interimperialista. I paesi che vi saranno direttamente coinvolti dovranno prepararsi ad affrontare questa situazione, premesso il dato che comunque la guerra non può essere pianificata, così come nulla può esserlo nella società borghese.
– La guerra, indipendentemente da dove si innescherà, vedrà in campo paesi che pur con delle differenze si configureranno come eguali tra loro, in quanto imperialisti.
– La violenza imperialista, che pure oggi emerge, non ha paragone nella forma e nell’entità, con quella che si esprimerà nel contesto di un conflitto.
– Ancora una volta la guerra imperialista avrà come teatro prevalentemente quei paesi imperialisti “anelli deboli” della catena. Ma è pure vero che proprio in questi paesi maturano più facilmente le condizioni affinché, ancora una volta, la tendenza alla guerra imperialista dia origine alla guerra rivoluzionaria. L’Italia è sicuramente uno di questi paesi.

 

  1. B) Da un punto di vista politico

«La repubblica democratica contraddice “logicamente” al capitalismo, perché “ufficialmente” eguaglia il ricco e il povero. È questa una contraddizione tra la struttura economica e la sovrastruttura politica. Nel mondo imperialista si ha la stessa contraddizione, approfondita e aggravata dal fatto che la sostituzione della libera concorrenza con il monopolio rende ancora più “difficile” la realizzazione di tutte le libertà politiche» (Lenin, “Intorno a una caricatura del marxismo”).
Il quesito si pone tra due termini, quello economico e quello politico.
– Il carattere “democratico” della borghesia al potere e la sua espressione “reazionaria”.
Nei vari punti sopra esposti abbiamo constatato come il capitalismo sia, da un punto di vista economico, “progresso” perché non può che proiettarsi in avanti, ma anche “conservazione” perché deve mantenere a tutti i costi gli attuali rapporti di produzione.
Ora cerchiamo di capire che influenza eserciti l’andamento economico sull’espressione politica del capitale nelle sue varie forme. Se infatti politicamente l’imperialismo esprime in generale reazione (anche perché, a causa della crisi, si muove guidato dalla volontà di sopraffazione, di rapina, ecc.), in particolare le forme di espressione politica dell’imperialismo possono, anzi debbono, far leva sulla massima “apertura democratica” tale da permettergli il più ampio movimento. Ed anche qui si crea una contraddizione inevitabile.
La democrazia borghese, che pure è stata espressione del progresso della società, del passaggio dal Medioevo ai giorni nostri, è formale: esprime cioè da una parte la libertà di pochi di arricchirsi, lucrare, ecc., e dall’altra “la libertà” per molti di vendere la propria forza-lavoro, di farsi sfruttare. Le conquiste che si sono ottenute sotto l’egida della borghesia (dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, riduzione della giornata lavorativa per tutta la forza-lavoro occupata nell’Ottocento, suffragio universale nel 1848, ecc.) sono state sempre il risultato di due elementi ugualmente importanti e complementari tra loro: le leggi proprie dello sviluppo del capitale e la pressione esercitata dalle lotte proletarie sull’andamento della società. Lotte che ovviamente all’inizio non erano espressione di una classe organizzata ma che con il tempo lo sono divenute.
Dicevano Marx ed Engels: «Il proletariato attraversa diversi gradi di evoluzione; la sua lotta contro la borghesia incomincia colla sua esistenza». Se il carattere democratico della borghesia è dunque formale, è anche vero che le lotte proletarie possono modificare l’andamento delle cose, naturalmente in modo relativo fintanto che permangono gli attuali rapporti di produzione.
Se è vero che la reazione è un aspetto emergente dell’imperialismo, è anche vero che la reazione in politica non è solo prerogativa di questo stadio di sviluppo del capitalismo. Guardando indietro, infatti, possiamo vedere che proprio alle spalle della nostra storia si verificano eventi che confermano questo dato. In un periodo in cui per esempio il liberalismo si affermò in politica, dopo l’unità d’Italia, si succedettero nel nostro paese coalizioni di destra e di sinistra.
Qui non ci interessa analizzare la differenza esistente tra la natura reazionaria, legata allo sviluppo e alle contraddizioni del capitalismo, che in politica l’imperialismo assume e le forme di espressione sovrastrutturali che si manifestano nelle varie forme dello Stato borghese. Ma possiamo dire che solo in alcuni periodi, e per ragioni ben precise, il suo carattere per natura reazionario si tramuta in violenza aperta. Il fascismo è in questo senso emblematico, esso ha rappresentato e rappresenta solo una forma della reazione imperialista.
Il fascismo si è manifestato in vari modi nella storia. Una cosa è stato quello nato prima del secondo conflitto mondiale e terminato con la guerra, un’altra cosa sono le dittature che anche dopo il ’45 hanno dominato in alcuni Stati. Non è questa la sede in cui vogliamo esprimerci in merito a tali differenze, anche se ciò sarebbe necessario, vogliamo qui soltanto sottolineare alcune cose.
Innanzitutto che nel primo caso la nascita così come il declino del fascismo sono stati funzionali alle esigenze delle diverse fasi di sviluppo dell’imperialismo in quei paesi collocati in una posizione geografica strategica, e che solo potenzialmente potevano affermarsi come vere e proprie potenze capitaliste.
Nel secondo caso queste dittature perpetuatesi nel tempo si sono rese necessarie per le borghesie di questi paesi a causa delle condizioni di arretratezza economica, di sottosviluppo della struttura produttiva, di miseria in cui era ridotta la maggioranza della popolazione, delle contraddizioni sociali molto forti.
Ma l’obbligo di ricorrere alla dittatura fascista era anche una forma di schiavitù per queste borghesie: se da un lato infatti la forma autoritaria di gestione statale era per loro l’unica possibile date le circostanze, dall’altro lo sviluppo interno ne veniva rallentato e le aspirazioni di crescita in senso imperialista risultavano così ostacolate fintanto che permaneva quella forma di potere statale.
Riprendendo il discorso sui diversi modi in cui si è manifestata la dittatura fascista, possiamo distinguere:
1) paesi centroeuropei (quindi con una posizione strategica) come l’Italia e la Germania, ove il fascismo si è imposto a fronte di una forte crisi (ad esempio la depressione del ’29 colpì in modo particolare la Germania), di eccessivi ritardi nell’industrializzazione (l’Italia, pur capitalista, era ancora un paese arretrato e diviso al suo interno; la disoccupazione e la miseria si aggravarono in Italia e in Germania dopo la crisi del ’29), di forti sommovimenti proletari e contadini, alimentati dalla povertà crescente e fortemente influenzati dalla recente e vicina rivoluzione bolscevica.
Tutte le conseguenze della grande depressione del ’29 e della crisi di sovrapproduzione di capitale erano presenti in quest’area (ove tra l’altro, con la guerra che seguì, si distrusse capitale eccedente) ma ciò non fu in contraddizione con lo sviluppo di nuove forze produttive in questi paesi ancora poco industrializzati. I dati parlano da soli: in Italia in quel periodo si ebbe uno sviluppo dell’industria nazionale, e in particolare del settore metallurgico; la costituzione dell’IRI; l’ultimazione dell’acquedotto pugliese; bonifiche integrali, soprattutto nella zona pontina; la creazione di infrastrutture; la battaglia del grano che portò ad un aumento della produzione cerealicola; e, contemporaneamente a ciò, diminuzione dei salari del 30% e dei redditi del 20%; aumento della disoccupazione, ecc.
Quindi con il fascismo da un lato si svilupparono le forze produttive e si determinò un progresso, dall’altro ci fu un immiserimento delle masse, repressione, distruzione (guerra).

2) Paesi come la Spagna, la Grecia, il Portogallo che si collocano ai margini dell’Europa e la cui arretratezza economica è testimoniata anche dalla composizione di classe interna. Questi paesi vengono investiti dalla dittatura fascista con tempi e modi differenti rispetto ad altri e vedono ripristinata la democrazia formale in tempi abbastanza recenti (metà degli anni ’70). Oggi Spagna, Grecia e Portogallo sono paesi imperialisti appartenenti alla CEE, e ciò si è reso possibile proprio grazie alla caduta di quei regimi autoritari che contrastavano con le necessità dello sviluppo imperialistico al loro interno.
Troviamo poi regimi totalitari che si sono stabiliti in aree geografiche della periferia. Queste zone sono esattamente quelle cui l’imperialismo è solito rivolgersi per sfruttare forza-lavoro, risorse ed esportare capitale. L’oppressione qui stabilitasi, generata dal grande immiserimento e dalle forti contraddizioni sociali (vedi America Latina), ha portato l’imperialismo, finito il colonialismo, a sostenere quelle dittature che permettevano all’Occidente industrializzato di assoggettare economicamente e politicamente quest’area, e quindi di poter intervenire senza essere “disturbato” da concorrenti interni o da lotte (non represse) proletarie e contadine.
Se volessimo essere esaustivi fino in fondo dovremmo considerare anche quelle zone del mondo ove lo sviluppo industriale si accompagna a varie forme di Stato facente uso della violenza (Sud Africa e Medio Oriente) (4); ma in questa occasione vorremmo solo delineare degli elementi sintetici.
Se è vero che ad un certo grado di sviluppo l’imperialismo entra in crisi acuta e a ciò si accompagnano regimi violenti, è anche vero che ove si afferma il capitalismo al suo stadio più maturo non può darsi dittatura fascista senza entrare in contraddizione con esso: il fascismo è utile alle borghesie dominanti di quei paesi ove lo sviluppo in senso imperialista viene sì perseguito, ma stenta ancora ad affermarsi.
La democrazia borghese anche in periodi di “pace” può trasformarsi in violenza aperta, ma la storia dei nostri tempi ci dimostra che ciò può verificarsi solo in quei paesi della periferia più o meno industrializzati che attraversano forti crisi economiche, con inflazione assai elevata, alti indici di povertà, ecc. (vedi ad esempio le giunte militari, quali forme particolari di fascismo, attuatesi nel Cile di Pinochet e nelle Filippine di Marcos).
La tendenza operante ai nostri giorni, che vede l’imperialismo occidentale spingere affinché si instaurino regimi “democratici” (ancora Cile e Filipine), è la conseguenza da una parte dello sviluppo interno di questi paesi e quindi dell’esistenza di una borghesia nazionale che può elevare la propria posizione nel mondo capitalista, e dall’altra di una situazione di instabilità sociale che anni di dittatura hanno generato.
I paesi imperialisti ovviamente non vanno contro i propri interessi e quindi non vedono di buon occhio l’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti, ma ciò non viene ostacolato nella misura in cui: a) si creano nelle aree di provenienza di questi nuovi concorrenti misure di concentrazione, monopoli, ecc. ove i capitali più forti hanno la supremazia; b) si favorisce la “pace sociale” interna e quindi, indirettamente, l’insediamento di capitale straniero.
Insomma la reazione fascista, direttamente espressione dello sviluppo in senso imperialista, che caratterizzò paesi come l’Italia e la Germania, deve essere distinta da quella affermatasi in altre aree europee e non, e più o meno industrializzate, colpite da crisi economiche devastanti. Ad esempio il fascismo italiano ha ben poco in comune con il “bonapartismo”, termine che i trotskisti nel nostro paese usarono scorrettamente durante la seconda guerra mondiale – distorcendo alcune affermazioni di Marx ed Engels – arrivando ad identificare il fascismo (espressione diretta dello sviluppo in senso imperialista) con il dispotismo personale.
Il fascismo nell’Europa centrale era guidato dalla grande borghesia quindi non poteva che prodigarsi per lo sviluppo industriale del paese in cui si era affermato. Invece la dittatura dei generali perpetrata nelle aree più arretrate, sia nei paesi capitalisti che in quelli della periferia, ha frenato lo sviluppo industriale nazionale aumentando la miseria.
Inoltre il fascismo centroeuropeo (e in questa occasione evitiamo di considerare quei paesi fascisti, come Polonia e Romania, che circondarono la Russia rivoluzionaria a cavallo delle due grandi guerre) non va assolutamente confuso con le forme di “democrazia violenta” esistenti in zone dell’Africa ecc., ricche di risorse naturali e quindi destinate ad una potenziale accelerazione dello sviluppo interno, ma dove ciò viene ritardato dalla situazione sociale.
Il fascismo è, come la democrazia, una forma di conservazione: una forma politica che assicura la conservazione dell’ordine e quindi il suo necessario sviluppo.
Un’ultima precisazione s’impone a questo punto per non creare inutili confusioni. La reazione che l’imperialismo esprime in mille modi è ben distinta dalla reazione connaturata alle classi intermedie esistenti nella società capitalista. Queste classi, che a causa dell’andamento del capitale continueranno ad oscillare tra proletariato e borghesia, sono conservatrici per natura, in quanto devono ostacolare costantemente il restringimento dei loro privilegi operato dalla borghesia. Per naturale reazione questi settori si oppongono allo sviluppo, cioè a quel meccanismo che genera crisi e quindi restrizioni sociali anche per loro; nel mentre (vista l’impossibilità per essi di frenare l’andamento oggettivo) provano ad ostacolare la propria caduta in uno stato di proletarizzazione cercando i riversare i loro costi sui ceti più deboli della società. Contrapponendosi in questo modo e alla borghesia e al proletariato.
La loro reazione “a doppio senso” è diversa dalla reazione imperialista della classe dominante, anche se è vero che l’imperialismo non disdegna mai di agire sulle contraddizioni, che peraltro esso stesso genera, in seno alle altri classi sociali per raggiungere i suoi fini. Anche l’uso che l’imperialismo fece del “movimento” fascista, espressione del malcontento piccolo borghese e sottoproletario in Italia, rientra a pieno titolo in questa attitudine. Del resto in quegli anni tali fasce sociali vedevano, in quella forma particolare di sviluppo imperialista del paese, la possibilità di elevarsi socialmente.
Oggi la situazione è completamente diversa: la crisi del capitale toglie alla piccola borghesia i privilegi passati, così come costringe il sottoproletariato a condizioni di vita sempre più precarie; è impensabile quindi che questi settori si rivolgano ad una qualsiasi componente della borghesia imperialista dominante per vedere risolti i propri “problemi”.
Per sintetizzare: con la degenerazione del capitalismo, da un parte il sistema dominante non può che fare uso in politica dell’autoritarismo, dall’altra la borghesia al potere non può annullare la sua “anima democratica” proprio perché altrimenti verrebbe meno la possibilità di affermarsi economicamente come modo di produzione ancora operante.
Il carattere democratico che esprime in politica è quindi legato alla spinta dello sviluppo economico; il carattere reazionario e autoritario all’aumento delle contraddizioni e alle difficoltà che la borghesia incontra nel riprodurre la sua società.

Conclusione
– Il fatto che politicamente l’imperialismo, in generale, esprima reazione vuol dire che la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione esistenti è arrivato al suo massimo culmine; oltre il quale il capitalismo non può che cercare di procedere “controcorrente”.
– Quanto sopra non significa che la forma particolare di espressione del dominio borghese coinciderà con la dittatura fascista, tutt’altro. Le attuali condizioni impongono la massima apertura e quindi democrazia formale, entro cui si possono formare o sviluppare monopoli, alleanze internazionali, esportazione di capitali, ecc.
– Leggi oggettive del capitale e lotte proletarie sono i due fattori che provocano cambiamenti all’interno della società borghese.
– Reazione e democrazia formale non rappresentano le prerogative rispettivamente dell’imperialismo la prima e del capitalismo nascente la seconda. La storia dimostra che esse si intersecano, anche se con forme ed intensità diverse.
– La reazione dell’imperialismo è cosa diversa (e ciò vale anche in relazione ai periodi in cui si espresse nella forma di dittatura fascista nei paesi capitalisti del Centro Europa) dalle dittature delle giunte militari, o dal tipo di reazione che per natura alcune classi intermedie sono solite esprimere nell’epoca dell’imperialismo.

Riassumendo:

– Il MPC si fonda sull’accumulazione e quindi sull’estrazione del plusvalore, che deve essere tanto più elevato quanto più deve valorizzare un capitale crescente.

– Lo sviluppo della società e delle forze produttive viene informato da un lato dalla necessità che ha il capitale di trovare sempre nuove fonti di profitto, di innovarsi, di competere con altri; dall’altro dalla sua necessità di ridurre il tempo di lavoro necessario alla riproduzione del salario operaio, aumentando così il plusvalore estorto e quindi il profitto.

– Lo sviluppo delle forze produttive e la spinta alla riduzione del tempo di lavoro necessario (quindi l’estrazione del plusvalore relativo) fanno aumentare in proporzione maggiore il capitale costante su quello variabile impiegati nella produzione, per cui risulta un aumento del plusvalore prodotto da ogni singolo operaio e la riduzione della massa di plusvalore sociale, quindi la caduta tendenziale del saggio medio di profitto e le crisi di sovrapproduzione di capitale (pur crescendo la massa dei profitti).

– Lo sviluppo delle forze produttive non può arrestarsi, anche se “piegato” ai fini del mantenimento dei rapporti di produzione capitalistici; cresce quindi continuamente la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione.

– I periodi di accumulazione e quelli di crisi si sono sempre alternati ciclicamente nella società borghese; così come la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione ha sempre fatto convivere il carattere progressista con quello conservatore propri del capitale, in tutte le fasi del suo sviluppo.

– La riduzione della massa di plusvalore sociale atta a valorizzare l’intero capitale rende le crisi sempre più insidiose; la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione aumenta; il capitale entra in una fase di “sofferenza” profonda. Si accentua così la sua reazione; esso vorrebbe accrescere il suo dominio, ma dovrebbe anche ostacolare il suo proprio sviluppo, il quale genera crisi.

– Progresso e conservazione, democrazia e reazione, pur essendo tutte caratteristiche del capitalismo, entrano sempre più in contraddizione, facendo emergere con maggior evidenza la vera natura dell’imperialismo.

– Nell’andamento del capitale si alternano periodi di ripresa a periodi di crisi; alla basa di ciò è il fatto che la caduta del saggio medio di profitto è tendenziale, e cioè ostacolata da controtendenze. Prime fra queste troviamo le “cause antagonistiche”, che agendo sui meccanismi della valorizzazione informano tutte le altre controtendenze messe in opera dai capitalisti sul piano economico e politico.

– La natura e il funzionamento delle “cause antagonistiche” dimostrano tra l’altro che le controtendenze, prima di agire come tali, agiscono a favore dello sviluppo capitalistico.

– Con l’imperialismo il capitale, a causa della sua “bramosia“ di accumulazione e della crisi, si organizza in monopoli, aumenta d’importanza le sue componenti che operano come capitale finanziario, si concentra e centralizza come non mai, viene esportato ovunque, invade nuovi mercati determinando la spartizione del mondo.

– Viene così a formarsi una borghesia dominante che si muove spinta dalle leggi dell’accumulazione del capitale (all’interno di essa il grande capitale ha la parte del leone, naturalmente) e che a causa di queste stesse leggi e delle crisi conseguenti, è sempre più divisa ed impegnata in lotte di frazione, tese ad affermare, nel collettivo, l’interesse di una parte contro le altre.

– La legge dell’accumulazione capitalistica è quella dominante e che informa l’andamento di tutta la società borghese, generando e riproducendo in continuazione la contraddizione principale nel mondo, tra proletariato e borghesia.

– Quando le contraddizioni dell’accumulazione capitalistica avranno portato la crisi al massimo grado di tollerabilità, la borghesia non potrà che ricorrere all’estrema controtendenza, la guerra imperialista: quel mezzo che le permetterà di distruggere masse elevate di capitali eccedenti, rivitalizzando così l’accumulazione in un nuovo ciclo.

– Una guerra imperialista non può essere stabilita a tavolino, né il suo andamento può essere controllato oltre un certo grado. Ogni potenza imperialista cercherà, domani come ieri, di combattere la guerra al di fuori dei propri confini, giacché le enormi distruzioni che ne conseguono possono portare la nazione ove ha luogo ad un “arretramento”, ridimensionando il potere economico e politico della borghesia ivi dominante e aumentando la dipendenza dalle altre potenze.

– È ipotizzabile che la guerra abbia luogo prevalentemente nell’ambito dei paesi più deboli della catena imperialista (pur essendo una guerra mondiale), ove maggiori sono le contraddizioni e i conflitti sociali. La guerra imperialista potrà quindi trasformarsi in guerra rivoluzionaria.

– La tendenza alla guerra interimperialista è oggi vigente. La distruzione che provocherà sarà senza precedenti. La borghesia dominante dovrà essere, nella misura del possibile, preparata all’evento e in grado di governare lo stato di cose che si genererà. La reazione che attualmente la borghesia esprime non è paragonabile a quella che si manifesterà a ridosso e durante un conflitto.

– La guerra imperialista è funzionale all’accumulazione, e non viceversa, quindi non può e non potrà che essere limitata nel tempo; anche se più acute sono le contraddizioni, più lunga e distruttrice sarà la guerra.

– La reazione propria dell’attuale imperialismo, che può esprimersi in modo anche molto violento, è cosa ben diversa sia dalle dittature fasciste, che dalle democrazie che ricorrono apertamente e direttamente alla violenza statale. In uno dei paesi imperialisti l’instaurazione di siffatti regimi, contrasterebbe con gli interessi della borghesia dominante.

– Dal lato economico il capitalismo non può che essere favorevole sia al suo progresso che alla conservazione dello stato di cose presenti. Dal lato politico il capitalismo non può che essere democratico (e quindi favorevole alla libertà di sfruttare, invadere, farsi sfruttare, ecc.) e autoritario nella misura in cui deve ostacolare l’eccessiva concorrenza al suo interno e tutte le spinte che possano portare alla trasformazione dei suoi rapporti sociali di produzione.

– I mutamenti interni alla società borghese si verificano sempre per l’azione di due elementi, entrambi importanti e che si informano a vicenda: le leggi proprie del capitale e la lotta di classe (che non a caso Marx qualificava come il motore della storia). I comunisti e i rivoluzionari debbono costantemente tenerne conto.

 

Una doverosa precisazione sulla nostra firma.

Conformemente al nostro obiettivo, che è di contribuire alla formazione dei quadri comunisti che fonderanno il Partito, adottiamo una sigla che richiama il pilastro fondamentale per la costruzione di ogni comunista. Si tratta della data in calce alla Prefazione di Marx alla prima edizione del primo libro de “Il Capitale”, scritta nel 1867.

“25 LUGLIO”

Novembre 1990 (a cura di un gruppo di compagni detenuti nel carcere di Cuneo)

 

Note

  1. Oggi vediamo pienamente confermata questa tesi e possiamo dire che alcuni aspetti dell’imperialismo come l’oppressione delle borghesie forti sulle nazioni deboli, sono solo la forma che ricopre il nocciolo: lo sfruttamento operaio, l’estrazione di plusvalore, che sempre più si confermano la vera identità dell’imperialismo, fase ultima del capitalismo. L’assolutizzazione delle contraddizioni Nord/Sud oppure Est/Ovest è fumo negli occhi; la priorità assegnata agli aspetti appariscenti ed esteriori, sottovalutando quelle che sono le vere cause, conduce ad un vano tentativo di riformare l’imperialismo.
    Nell’attuale grado di sviluppo solo i proletari, nella contrapposizione con la propria borghesia (ricca o stracciona) e unendosi ai proletari degli altri paesi e a chi si riconosca nel programma della rivoluzione proletaria, possono condurre la lotta all’imperialismo.
  1. Ciò ovviamente nulla toglie al fatto che la stessa funzione venga svolta anche dall’esportazione nei paesi di pari progresso, ove con altre modalità possono essere realizzati extraprofitti derivanti dal controllo monopolistico. (NdA)
  1. Sappiamo poi che la destinazione degli extraprofitti, oltre a quella di funzionare da controtendenza, consiste anche nel corrompere una elite del proletariato.
    Questo aspetto è tuttavia legato alla grandezza e incisività della crisi, e lo stesso Lenin ce lo insegna; le famigerate “briciole” sono soggette all’andamento ciclico, e attualmente più che l’elevazione economica di aristocrazie operaie vige il peggioramento degli strati collocati immediatamente sopra il proletariato. (NdA)
  1. Questi ed altri paesi sono detentori di prodotti fondamentali come petrolio, minerali radioattivi, minerali preziosi, ecc.; prodotti che, costituendo parte del capitale costante – in quanto materie prime – e operando come capitale produttivo (oppure per altri motivi), ricoprono una funzione strategica nel mondo delle merci.
    L’imperialismo occidentale che ha grossi interessi in queste aree (poiché il controllo delle fonti di quei prodotti può direttamente incidere sulla riduzione del prezzo degli elementi del capitale costante, operando così in modo controtendenziale alla legge di caduta) vorrebbe dirigere il monopolio di queste merci. Ma si vede costretto a fare i conti con la relativa autonomia in cui operano questi paesi da un punto di vista economico e politico, forti del monopolio che essi ne detengono e consapevoli della collocazione particolare che hanno nel mondo.

Appunti per una discussione interna ed esterna

[Di questo documento esistono due stesure, alquanto differenti tra di loro, una pubblicata da “Controinformazione” n. 13-14 del 1979 (che qui riproduciamo), e una pubblicata da “Anarchismo” n. 25, gennaio-febbraio 1979. Le differenze tra le due stesure – certe volte notevoli – vengono da noi indicate tra parentesi o in nota].

Crisi e piano del capitale [1]
La crisi che ha investito il nostro paese è parte di una crisi generale che ha investito tutte le economie occidentali. Essa assumerebbe la forma di una crisi generale di sovraproduzione se il capitale non fosse estremamente concentrato e quindi in grado di controllare la produzione e il mercato. Se questo controllo impedisce le forme classiche della sovraproduzione, un surplus di merci che non trovando mercato perdono valore, non può impedire tuttavia che questo processo di devalorizzazione si trasferisca dalle merci al capitale investito nella loro produzione, il quale risulta sottoutilizzato rispetto alle sue capacità. I costi maggiori di questo sottoutilizzo si scaricano, grazie a quel controllo, sui prezzi, aggravando il normale processo inflazionistico.
Il capitale investito e sottoutilizzato subisce quindi un processo di devalorizzazione che provoca a sua volta una scarsa incentivazione all’investimento, col risultato che il capitale sotto forma di denaro si devalorizza a sua volta, perché la sua capacità di trasformarsi in materie prime, mezzi di produzione e salari per produrre profitto subisce a sua volta una sottoutilizzazione; parzialmente inoperante il capitale investito, parzialmente inoperante il capitale circolante, il saggio d’interesse del capitale denaro diminuisce a proporzione di questa inoperosità. La crisi si trasferisce dal sistema di produzione al sistema creditizio. Il capitale-denaro, più mobile, svalutandosi, reagisce a questa devalorizzazione dando vita a una serie di manovre speculative sul mercato valutario col risultato di non poter mutare il quadro d’insieme ma di indurre anche la crisi monetaria. La devalorizzazione complessiva ha una sua rappresentazione sintetica nella crisi del dollaro che costituisce il capitale denaro di riferimento.
A livello sociale questa devalorizzazione comporta una diminuzione della popolazione attiva rispetto all’insieme della popolazione: se gli operai, per una serie di rigidità istituzionali, non vengono licenziati, non vengono neanche assunti e infatti i dati concordano nel rilevare che la disoccupazione è un fenomeno che riguarda per metà i giovani.
Le riduzioni più o meno drastiche di produzione cui è stato costretto il capitale derivano da vari fattori, di cui alcuni tradizionali come la concorrenza della fascia esterna ai paesi occidentali; è noto, ad esempio, che in una serie di settori di base, dai prodotti siderurgici a quelli alimentari, la concorrenza di questa fascia esterna si è fatta sentire imponendo drastiche riduzioni. Altri fattori sono meno tradizionali e inerenti allo stesso modello di sviluppo capitalistico centrato sulla produzione di “beni” di consumo durevoli; ora, l’espansione del mercato interno ha raggiunto ormai i suoi limiti e il grande ciclo tirato dall’automobile, dal frigorifero, ecc. appare prossimo alla fine, non solo ma questo modello sta esponendo pericolosamente il capitale a un condizionamento sempre più stretto da parte della “domanda operaia”, cioè della massa dei salari, che costituisce il mercato di quei “beni”. Un condizionamento che rischia di fare del salario una “variabile indipendente” dall’andamento del ciclo, nel senso che la dinamica al rialzo salariale per sostenere il mercato interno non può essere interrotta a piacimento e continua ad avanzare per proprio conto indipendentemente dalle condizioni della produzione. Le acrobazie cui è costretto Lama per arrestare questa dinamica sono note.
Il piano del capitale per uscire da questo vicolo cieco, la cosiddetta ristrutturazione, appare orientato da una parte a svincolarsi sempre più, nelle economie occidentali, dal costo del lavoro operaio e dalla “domanda operaia” e questo obiettivo lo può realizzare se il sistema non si regge più sulla produzione di “beni” di consumo di massa ma sulla produzione di mezzi di produzione e servizi, operando cioè nei paesi occidentali un salto tecnologico a più alta composizione di capitale, facendo cioè tirare il nuovo ciclo dall’industria nucleare, bellica, elettronica, telefonica, ecc. Dall’altra parte dislocando là dove esistono ancora enormi possibilità di espansione del mercato i nuovi investimenti nelle produzioni tradizionali, sulla fascia esterna, dove il costo del lavoro è bassissimo. In questo piano hanno la loro parte anche le preoccupazioni politiche derivanti dalla concentrazione di grandi masse operaie di cui diviene sempre più difficile il controllo.
Il piano del capitale è ardito e anche i più ottimisti non se ne nascondono le difficoltà. Innanzitutto gli investimenti in settori nuovi ad alta composizione di capitale avvengono su scala talmente ampia da non essere alla portata di tutti, in altre parole il capitale denaro in cerca di investimento è abbondante rispetto alle possibilità d’investimento nei settori tradizionali ma non lo è altrettanto rispetto alle possibilità d’investimento nei nuovi settori. Non solo, questo nuovo investimento ha in sé tutti i rischi dell’innovazione, e richiede notevole esperienza scientifica e tecnica ma soprattutto un mercato sicuro data l’ampiezza degli investimenti. La Liquichimica non fa testo ma dà un’idea dei rischi che si corrono, tanto più che il mercato dei nuovi “beni” si presenta alquanto incerto. L’industria bellica, anche quella italiana (Agusta fra le altre) ha armato di un esercito poderoso un tirannello odioso come lo Scià, c’è da dubitare che questo armamento continui e un mercato “sicuro” come quello iraniano si sta rivelando una palude che inghiottirà molte illusioni. Lo stesso dicasi dell’industria nucleare: certo, una volta insediate sarà impossibile smantellare le centrali nucleari, ma ciò che si sta verificando un po’ dappertutto, ultimamente anche in Austria, è la difficoltà di insediarle. In Italia, se non vi insistessero i somari burocratizzati del nuovo capitale, i picisti, le centrali forse le costruirebbero i somari dell’Ansaldo ma non per il mercato interno.
La massa ingente di capitali richiesti, le più sofisticate tecnologie, le nuove fonti energetiche come l’uranio danno oggettivamente agli USA la guida di questo processo di ristrutturazione e alle grandi banche americane, cui sono confluiti e confluiscono i capitali accumulati da gran parte dei paesi produttori di petrolio, una posizione decisiva. Una guida che tuttavia pare incontrare resistenze nelle economie nazionali più forti, come la Germania Federale e il Giappone che, grazie a una classe operaia integrata, riescono a esportare una massa incredibile di prodotti e a realizzare un formidabile attivo nella bilancia dei pagamenti. Gli USA stanno chiedendo a questi paesi di modificare il modello di sviluppo. L’area della CEE si trova legata da una parte all’egemonia americana ma è anche fortemente influenzata dalla stabilità e dalla forza dell’economia tedesca, “il prossimo periodo deciderà se da questo tipo di braccio di ferro si uscirà col rafforzamento dell’egemonia USA o con una più acuta fase di contrasti”. La situazione è in pieno movimento, come mostrano gli ultimi accordi sul serpente monetario e l’accelerazione dei processi di costruzione dello Stato europeo, fenomeni imprevisti e sottovalutati che fanno pensare a un rafforzamento dell’influenza tedesca e a un sistema non del tutto omogeneo delle multinazionali.
L’altra parte del piano del capitale, la dislocazione cioè delle produzioni tradizionali, appare la più compromessa nelle analisi di parte leninista. I limiti che il capitale occidentale troverebbe nell’area del “socialimperialismo” e nei paesi decolonizzati lo spingerebbero a trovare una via d’uscita nella guerra. La situazione appare in realtà capovolta dopo gli ultimi sviluppi in Cina: il suo prossimo ingresso nell’area occidentale allarga smisuratamente i confini d’intervento del capitale occidentale sino al punto di capovolgere i rapporti fra le due aree imperialistiche, ponendo in gravi difficoltà, effettivamente suscettibili di condurre alla catastrofe nucleare, l’Unione Sovietica, la cui aggressività si va accentuando un po’ dappertutto, ultimo fatto clamoroso, il sostegno al Vietnam nell’invasione della Cambogia, ovviamente presentata, anche dai picisti nostrani, come liberazione della Cambogia!
Se a questo rinnovato accerchiamento dell’URSS aggiungiamo l’assenza di qualsiasi opposizione interna in quel regime, i pericoli del ricorso alla guerra nucleare appaiono provenire più dal “socialimperialismo” che dall’area occidentale, tanto più che gli appelli al “movimento operaio” contro l’accerchiamento non avrebbero oggi l’eco che ebbero gli appelli leniniani di 50 anni fa.
La caduta di tanti modelli d’intelligibilità e previsione ci deve rendere cauti quando ci avventuriamo sul terreno dei conflitti imperialistici. Fondare la propria azione su questo terreno paludoso può divenire letale per il movimento rivoluzionario.
Quello che si può prevedere con qualche probabilità è che la ristrutturazione aggraverà o lascerà inalterato quello che è il fenomeno più esplosivo indotto dalla crisi: la disoccupazione di massa, la quale, in Europa e negli USA, ha continuato a crescere, con la conseguenza che la classe operaia, un tempo comprendente la maggioranza della popolazione, tende ora a ridursi considerevolmente mentre cresce il numero di coloro che anziché produrre si limitano semplicemente a consumare o, nell’impossibilità di farlo, a espropriare in qualunque modo i possessori di capitale e di reddito, e sono quindi favorevoli a un’espropriazione generalizzata. È evidente che il fenomeno non è tutto positivo per il movimento rivoluzionario perché dall’altra parte un settore consistente di classe operaia accresce le sue tendenze corporative, si chiude nella difesa del suo “privilegio”.

“Nuovo fascismo” in Italia e in Europa
La situazione italiana, sostanzialmente omogenea a quella di altri paesi occidentali, presenta alcune caratteristiche che la rendono particolarmente esplosiva. Innanzitutto il capitalismo industriale italiano, sempre fortemente sottomesso al capitale finanziario con la progressiva statizzazione delle banche, si è trovato nella felice situazione di poter disporre di enormi capitali da investire senza esporsi praticamente a nessun rischio né controllo di chicchessia, dati i solidi legami con la classe politica che ha invaso lo Stato. Il tipo di imprenditore che si è venuto affermando in questa situazione si caratterizza soprattutto per la disinvoltura con cui opera manovre speculative, promuove operazioni produttive fallimentari, sicuro di poter poi contare su compiacenti salvataggi da parte dei suoi amici di Stato, con l’inevitabile avallo dell’opposizione interessata a “salvare” l’occupazione. Le centinaia di migliaia di miliardi bruciati da questi imprenditori non si contano più al pari delle imprese da “salvare”, dalla Montedison alla Liquichimica. La disinvoltura con cui questi personaggi pubblici e privati dissipano il denaro pubblico nella più assoluta impunità dice tutto delle forze politiche “costituzionali”, quelle che si riempiono la bocca dello stato di diritto. Lo Stato, da equilibratore della situazione interna, ne è divenuto l’elemento di maggiore squilibrio, senza considerare gli effetti non strettamente economici ma che hanno anche una rilevanza economica, come la corruzione generalizzata che si è spinta sino a coinvolgere strati proletari e costituisce il puntello politico-clientelare, la base di massa del regime democristiano. Certo, la situazione ha raggiunto i limiti di rottura e il mancato tracollo, paventato dai pennivendoli del regime, viene sbandierato da costoro come una prova della solidità del regime. Se, nonostante tutto e tutti, non si è arrivati al tracollo, lo si deve in parte alle strutture internazionali che sorreggono il capitalismo italiano, in parte alla riattualizzazione di forme di sfruttamento del secolo passato, lavoro nero vero e proprio, specialmente al Sud, che ha permesso a una parte del capitale di sopravvivere e crescere sulla disoccupazione di massa, in parte alla permanenza di strutture produttive medio-piccole in cui si trova probabilmente il meglio della produzione capitalistica italiana.
L’operazione morotea di associazione dei picisti alla maggioranza oltre che dai nuovi rapporti di forza parlamentare era verosimilmente dettata dalla necessità di controbilanciare in qualche modo le forze interne democristiane più strettamente clientelari imponendo un arresto al processo di dissipazione, coinvolgere una parte consistente di classe operaia egemonizzata dal PCI nell’operazione di ripristino dei criteri imprenditoriali nelle grandi imprese statali, imponendo al personale democristiano che le detiene un minimo di controllo, infine dare forza all’esecutivo per adeguare le scelte politiche alle presenti necessità della ristrutturazione, al suo dinamismo, di fronte al quale il mondo politico ci fa la figura del pachiderma. I picisti che ideologizzavano prima la centralità del parlamento, appena associati al potere hanno fatto subito il possibile per svuotarlo dando il loro apporto decisivo a che la vita politica si svolgesse tutta a livello di governo, di commissioni, di decreti legge, di corpi separati alla diretta dipendenza dell’esecutivo. Cosa passa, ci si chiedeva, fra lo sclerotico dibattito parlamentare sulle centrali nucleari e la velocità con cui il ministero dell’industria, per conto delle aziende nucleari italiane, ha condotto in porto l’accordo con l’ente di Stato canadese; cosa passa fra l’accordo Fiat-Algeria per la costruzione di un grosso stabilimento automobilistico in un mercato eccezionale come quello nordafricano e la decisione dello Stato in merito al finanziamento dell’operazione? I rapporti fra gli organi statali e le multinazionali pubbliche e private si fanno sempre più diretti e passano semplicemente le decisioni alla ratifica notarile del parlamento.
Questo processo di esecutivizzazione è stato già studiato nel processo che ha portato all’avvento del fascismo. Scrive Poulantzas: “Mentre la forma democratico parlamentare dello Stato sembrava a tutta prima ancora intatta, i rapporti fra la classe dirigente e le altre classi da una parte e l’apparato statale dall’altra, con gli inizi del processo di fascistizzazione, non intercorrono più attraverso i partiti politici, ma acquistano un carattere sempre più diretto…”, il che ha come conseguenza l’irrigidimento del ruolo dei veri e propri organi statali: della polizia, dell’amministrazione, della giustizia e dell’esecutivo. Questi organi statali diventano sempre più indipendenti. In tal modo l’ordinamento legale costituzionale viene capovolto. Il potere si sposta dal parlamento, cui ancora si indirizzano i partiti, agli organi statali stessi.
I processi di trasformazione dello Stato italiano non possono essere visti isolatamente dal contesto internazionale, sia per la forte dipendenza commerciale e finanziaria del capitalismo italiano, sia per i rapporti sempre più stretti che i suoi organi statali intrattengono con gli altri organi europei, sia per l’effettiva integrazione militare a livello Nato, sia infine nella prospettiva concreta dello Stato europeo.
I compagni della RAF prevedevano che la fase determinante della fascistizzazione in Europa non avrebbe avuto probabilmente luogo che quando questa fosse stata una tendenza politica precisa negli USA: “Negli USA si possono già osservare ogni giorno gli inizi di questo sviluppo… Quanto a noi ci resta poco tempo!”. Nella prospettiva della costituzione dello Stato europeo, per l’influenza egemonica che vi giocherà la Germania Federale, le trasformazioni avvenute nello Stato tedesco si rivelano decisive e con ogni probabilità il nuovo Stato europeo si costituirà come prodotto della germanizzazione e con una costituzione che sarà la sintesi delle costituzioni “speciali” che si sono andate accumulando sui corpi delle costituzioni originarie.
Di qui l’importanza di seguire le trasformazioni dello Stato tedesco dopo il ’8. Croissant definisce il prodotto di queste trasformazioni “nuovo fascismo”, un regime in cui il ricorso alla forza, il superamento dei limiti prima considerati legali, l’abbandono delle basi dello Stato di diritto vengono diretti e preparati centralmente: “caratteristico è il fatto che l’apparato di repressione statale non ricorre più soltanto a semplici violazioni del diritto… o che aumenti l’uso della violenza… ma che l’inquadramento di ogni singolo cittadino venga scientificamente progettato, preparato e realizzato con forza… Mezzo di questa strategia è la guerra psicologica con l’impiego di mass-media”.
L’insurrezione del maggio francese ha guidato, in negativo, tutto questo processo di trasformazione degli Stati che sono stati indubbiamente colti di sorpresa. Quanti ora ripropongono l’insurrezione come il prodotto di un lungo periodo di rivoluzione culturale dimenticano semplicemente che le leggi eccezionali e l’inizio della guerra psicologica furono varati all’indomani del ’68 e contro quella rivoluzione culturale, antiistituzionale, non contro le formazioni guerrigliere. “Il periodo di transizione è ancora ben lontano dell’essere concluso: ormai potrebbe essere stroncato solo dal massiccio e brutale impiego di tutti i mezzi di repressione”. Chi scriveva queste parole, R. Dutschke, e si illudeva che non si sarebbe arrivati a tanto, ne fu anche la prima vittima “illustre”. Se in Germania la guerra psicologica giunge a legalizzare e coprire la tortura e l’assassinio, in Italia il progetto controinsurrezionale inizia da parte degli apparati statali con la strage di piazza Fontana, il tentativo di farne ricadere la responsabilità sul “dissenso” e ottenere così forzatamente l’identificazione della popolazione con lo Stato attraverso il terrore e il disorientamento. Gli apparati statali, a forte composizione fascista, non potevano che ricorrere ai loro modelli tradizionali, il colpo di Stato militare, il vecchio fascismo e sortirono l’effetto opposto, quello di favorire lo sviluppo della controviolenza su tutto il territorio nazionale. Il nuovo fascismo, nell’accezione di Croissant, si è sostituito al vecchio e sta funzionando con una certa virulenza col “bipartitismo perfetto” DC-PCI e col livellamento-esecutivizzazione di tutta la stampa, radio, televisione, apparati vari produttivi d’opinione: “Gli apparati repressivi dello Stato cercano, tramite il livellamento dei mass-media di far credere al consenso della popolazione, al loro radicamento in essa e all’espressione del loro potere”. Ciò che non sono riusciti a fare con la violenza fascista, gli apparati statali cercano ora di radicarsi in mezzo al popolo poggiando sulla mobilitazione dell’apparato picista, sulle cui spalle ricade oggi lo scatenamento della guerra psicologica.
Il processo di trasformazione dello Stato nella direzione del nuovo fascismo non solo ha trovato infatti consenziente il PCI ma è da questi spinto sino alle sue estreme conseguenze; tutti gli istituti della tanto sbandierata “partecipazione”, dai consigli di quartiere a quelli di fabbrica, sono stati facilmente (essendo fittizi) stravolti ai nuovi fini del controllo sociale, politico, repressivo. Dai sindacati ai consigli d’istituto, tutto è divenuto cinghia di trasmissione degli ordini degli apparati centrali. I capicaseggiato, di cui paventa l’istituzione Croissant, sono fra gli obiettivi del comitatone per l’ordine repubblicano promosso dai picisti a Bologna, in attesa del poliziotto di quartiere le sue funzioni sono svolte dalle sezioni territoriali del PCI. Si indaga, si scheda… Gli stessi rinnovatori democristiani, gli hiltoniani, espressione diretta delle multinazionali private, sono stati sorpresi e spiazzati da quest’invasione dello Stato e dei suoi ruoli da parte dell’apparato piccista, con imbarazzo hanno respinto le profferte di formare milizie volontarie di vigilanza nelle fabbriche, nei quartieri… Di fronte allo svolgimento [stravolgimento: “Anarchismo”] operato dal PCI, gli hiltoniani hanno riscoperto il valore del liberalismo! Scrive Mazzotta: “A mio avviso il PCI tende a diventare un nuovo regime” con un triplice ruolo: “Un ruolo di forza d’ordine nei confronti di una situazione esplosiva… Un ruolo di repressione rispetto alle tensioni sociali… Infine un ruolo di guardiano, per un ritorno a concezioni protezioniste e di chiusura nei confronti del libero rapporto col resto del mondo”. Dopo trent’anni di regime democristiano gli hiltoniani riscoprono, di fronte all’invasione delle orde piciste, i valori della dialettica parlamentare! Mazzola, esperto DC di problemi dello Stato, teme che un’alleanza politica col PCI “condurrebbe sostanzialmente a un regime teso a chiudere anziché allargare gli spazi di libertà e a criminalizzare inesorabilmente il dissenso: un regime che poi sarebbe egemonizzato dal PCI e si trasformerebbe in una sorta di democrazia consacrata”. L’obiettivo degli hiltoniani è trasparente: ritornare alla dialettica democratica, ricacciando il PCI all’opposizione, dopo aver superato la crisi complessiva del paese. Obiettivo del PCI è esattamente l’opposto: instaurare il nuovo regime del compromesso storico utilizzando la crisi complessiva del paese come il “nemico oggettivo” contro il quale far valere come indispensabile l’alleanza politica.
Le trasformazioni in atto a livello statuale giocano obiettivamente a favore della strategia picista di un forte apparato statale, efficiente, programmatore in cui inserire un personale compatto, rispettoso dei vertici, provvisto di un’ideologia statalista.
Oltre il vantaggio di un partito dominato saldamente dal vertice tramite l’apparato, il PCI ha il vantaggio, decisivo in una fase di ristrutturazione, di egemonizzare una parte consistente di classe operaia, quell’aristocrazia operaia che è il perno della ristrutturazione; non solo, ma l’egemonia sta lambendo ormai anche la fascia dei quadri intermedi dell’apparato delle imprese statali nel nome dei quali il PCI chiede rispetto dei criteri di professionalità e imprenditorialità contro la borghesia di Stato medio-alta, di origini professionali incerte, raccogliticcia ma sicuramente ladra. È su questo blocco di forze a livello delle grandi imprese statali che il PCI punta per rilanciare il capitalismo italiano nel contesto internazionale e costituire quindi il puntello essenziale del nuovo regime. È ovvio che la carta dell’imprenditorialità, del ritorno al profitto è giudicata decisiva anche per limitare la forte dipendenza dal capitale americano e tedesco, con le sue inevitabili (nell’immediato) contropartite politiche di tipo straussiano (cui è particolarmente sensibile la destra DC) e col fine di rilanciare, con l’economia italiana, anche la propria presenza politica in Europa, il ruolo di mediazione con i paesi “socialisti”, un ruolo che non è visto negativamente dalla socialdemocrazia tedesca. L’accusa hiltoniana di protezionismo è probabilmente fuori luogo, lo sta a dimostrare l’adesione “critica” (che è pur sempre adesione) al serpente monetario. Vero è che al PCI, che gioca la sua carta decisiva nel rilancio capitalistico dell’Italia, stanno più a cuore le contropartite economiche dell’adesione allo Sme rispetto a quelle politiche, cui pare invece più sensibile la DC che, dopo aver saccheggiato quanto era possibile, spera più modestamente in un ancoraggio politico-repressivo al nuovo Stato europeo e in un aumento, se possibile, della dipendenza dalle più forti economie occidentali.

Il Partito-Stato e l’opposizione operaia
Sia i processi di ristrutturazione statale (rafforzamento dell’esecutivo, indipendenza degli organi statali dal parlamento, instaurazione della guerra psicologica) sia i processi di ristrutturazione economica vedono nel PCI una forza promozionale non secondaria a quella democristiana, specie nelle fabbriche dove il ruolo della burocrazia picista nel favorire la collaborazione e il controllo anche poliziesco è fondamentale. I compagni delle BR che teorizzano la centralità DC in questo processo rischiano di rimanere spiazzati dal ruolo dei “berlingueriani” che risalta nei loro stessi diari di fabbrica. Sarebbe errato in questa fase di esecutivizzazione valutare la forza di un partito coi criteri elettorali, quali che siano e saranno i rapporti di forza parlamentari il ruolo del PCI è centrale, pena il crollo verticale dello Stato e dell’economia.
La stessa gestione fortemente ideologizzata del potere, resa necessaria dalla crisi, va nella stessa direzione. È chiaro infatti che solo un’ideologia di “sinistra” può svolgere questo ruolo fra le masse operaie: “austerità”, “sacrifici” in nome dell’interesse nazionale sono falsi valori che solo la “sinistra” può imporre, “se prima l’operaio viveva una vita di stenti per acquistare l’automobile, il frigorifero, dopo continua a vivere una vita di stenti per acquistare il suo ruolo all’interno di una struttura (il partito) che dice di fare sacrifici per la ‘costruzione progressiva del socialismo’”. Se esiste un progetto su cui l’imperialismo può poggiare in questa fase la mobilitazione “fascista” delle masse, questo è il progetto berlingueriano dell’austerità, dei sacrifici, del senso dello Stato, della classe che si fa Stato, ecc. Il “Partito-Stato” con la sua miriade di burocrati sindacali e di partito, i suoi consiglieri di fabbrica, di quartiere, comunali, regionali è già una realtà operante e la lotta al “Partito-Stato” è già in atto un po’ dappertutto.
Il nuovo Stato che si va installando in mezzo alle masse proletarie è il nemico interno del movimento rivoluzionario che va spazzato via prima che si consolidi e svolga con pienezza tutta la sua funzione controrivoluzionaria e ciò è particolarmente urgente in fabbrica dove esso costituisce l’ultima trincea di protezione ideologica del capitale. Se è vero, infatti, che il capitale ha perso, metro dopo metro, le teste di ponte che aveva collocato nella famiglia, nella scuola, ecc. le ha ancora, e salde, nel cuore stesso della sua genesi. In questi anni si è rimesso in discussione tutto, il dominio è stato stanato anche dalle pieghe più recondite della coscienza, ma la radice di tutte queste alienazioni, la produzione di merci, ne è rimasta praticamente fuori. Vi sono esempi clamorosi e pericolosi, come quel convegno di tutti i consigli di fabbrica delle industrie degli armamenti che fu indetto nel ’76 per discutere la proposta di un “controllo parlamentare sulla produzione bellica” e andò deserto perché i consigli di fabbrica, su ammissione di un sindacalista della CGIL, temevano che il controllo ventilato potesse portare a qualche diminuzione della produzione, allora ed ora in grande ascesa. L’interesse dell’operaio va quasi esclusivamente alle condizioni di lavoro perché queste si ripercuotono su di lui in modo diretto mentre le conseguenze di ciò che produce si ripartiscono sull’insieme della società, come impoverimento generale delle risorse, inquinamento e beninteso profitto, cioè, possibilità di estensione del ciclo infernale. Ma le condizioni di lavoro sono il pascolo in cui sguazzano i porci, riformisti, sociologi, psichiatri. È il terreno della mediazione per eccellenza, del compromesso, della rivendicazione, del migliorismo, si migliora ma sempre all’interno delle condizioni date, queste non vengono mai poste in discussione. Ciò che temono padroni e riformisti non è il massimalismo rivendicativo della “nuova sinistra” ma l’opposizione senza mediazioni, assoluta, la non collaborazione: noi non accettiamo le condizioni date, né guardiani alle porte, né mura di cinta, né cartellini da timbrare, né cronometristi ad osservare e via dicendo, non vogliamo le condizioni del lavoro coatto né i suoi risultati, oggetti inutili e socialmente dannosi.
La grande scoperta fatta da Nanterre nel ’68 è che la contestazione frutta quando la si faccia direttamente e immediatamente nei luoghi in cui si esercita il potere borghese. Il rivoluzionariamento della scuola, della famiglia, della medicina, delle prigioni, del rapporto fra i sessi non viene rinviato all’indomani della rivoluzione economica e politica. Il modello secondo cui la rivoluzione deve prima sovvertire la proprietà, dopo di che tutto verrà di conseguenza, è morto e sepolto allo stesso modo del modello “democratico” dell’azione politica come azione indiretta, differita che alberga ormai solo nel PCI e nei suoi gruppuscoli. Si tratta di tutta una serie di movimenti che impongono e diffondono una nuova sensibilità che Duverger chiama più sovversiva che rivoluzionaria “nella misura in cui la rivoluzione implica il progetto coerente di una nuova società”. Sovversiva perché va alla radice delle cose e riconosce le diverse alienazioni istituzionali come forme specifiche di quella stessa struttura dell’alienazione che è lo sfruttamento. “Se il capitalismo può sopravvivere a una, due di queste contestazioni, non può che crepare col loro moltiplicarsi perché questo moltiplicarsi converge nella sua dinamica verso e contro le radici del capitalismo. Credere che sopravviverà vuol dire che il legame fra il profitto e le istituzioni non sia necessario e rigoroso”.
Noi crediamo che sopravviverà se la contestazione non varcherà le soglie della fabbrica, qui la nuova sensibilità sovversiva si diffonde ma lentamente proprio perché i giovani, in cui essa è particolarmente viva, o rifiutano il lavoro di fabbrica o se lo abbracciano divengono presto virtuosi dell’assenteismo. E anche l’assenteismo va valutato per quello che indica negativamente, l’assenza cioè di una comunità di lotta in cui riconoscersi e che renda interessante la fabbrica come luogo di contestazione.
Negli anni ’60 le interruzioni improvvise, gli scioperi selvaggi avevano creato una certa ingovernabilità; il sindacato sull’orlo della bancarotta dopo anni di cedimenti è riuscito a cavalcare facilmente l’ebollizione sessantottesca e a riproporre il modello sindacale, con la sua burocrazia, verticismo e deleghe, come il modello. Se tutto ciò ha fatto cadere molti miti operaistici ciò non significa che la fabbrica sia un corpo unico col suo Stato-Partito e cinghie di trasmissioni varie. Le contraddizioni immesse nel mondo sindacale dal nuovo e disinvolto sindacalismo alla sovietica di Lama sono sotto gli occhi di tutti ma l’immediata comparsa del massimalismo sindacale (cui aderiscono anche i sostenitori della resurrezione dell’USI) mostra ancora una volta come sia difficile abbandonare il terreno rivendicativo e alla fine il modello sindacale.
Se di un’opposizione operaia si può parlare, questa si è rivelata nel sabotaggio. Il fenomeno è stato soprattutto in sviluppo alla Fiat come sabotaggio agli impianti ma è presente al nord come al sud negli attentati a multinazionali italiane e straniere che hanno provocato danni talvolta colossali agli impianti, al prodotto finito, ai calcolatori elettronici. I detrattori della lotta armata sottovalutano il fenomeno perché non sarebbe opera dei produttori ma dei gruppi armati, come se questi dovessero essere necessariamente esterni alla fabbrica! È invece il fenomeno “terroristico” più importante di questi ultimi anni anche se il più “sottovalutato”. Perché? Noi pensiamo che tale sottovalutazione da parte del potere sia voluta e nasconda la sua estrema apprensione e il timore che esso si diffonda. Non si può spiegare diversamente, a livello di mass-media, il diverso trattamento che il potere usa nei casi di attentati interni ed esterni alla produzione, nel primo caso minimizza il fatto sino a smorzarlo nella lungaggine delle indagini, nel secondo dà fiato alle trombe per la caccia al terrorista. Ma vi sono anche ragioni riconducibili all’ideologia dei compagni che ne limitano la portata e il significato. È il caso dei sabotaggi al prodotto finito avvenuti in concomitanza con la minaccia della cassa integrazione: l’azienda ha difficoltà a smaltire la produzione accumulata e minaccia gli operai di metterli in cassa integrazione, il prodotto accumulato viene dato alle fiamme e la minaccia rientra. Quella concomitanza dà al messaggio che giunge da quest’azione un carattere puramente difensivo: per garantire la continuità dell’occupazione si può ricorrere a qualsiasi mezzo, anche alla distruzione di capitale, allo stesso modo che il capitalista, quando vede messo in forse il suo profitto, ricorre alla distruzione delle merci pur di non diminuirne il prezzo. L’azione anziché arricchirsi del significato che oggettivamente ha, viene a impoverirsi nel concetto che la continuità del rapporto di scambio lavoro-capitale va mantenuta a qualsiasi costo, col ricorso dall’una o dall’altra parte alla distruzione se viene messo in forse il profitto o il salario. D’altra parte l’anonimato che circonda spesso le azioni di sabotaggio alla Fiat parrebbe dettato da un’errata soggezione alla coscienza “media” degli operai, si teme l’isolamento politico perché “ci possono essere perdite secche di salario, gli operai s’incazzano”, ecc. In tal modo però le ragioni dell’ideologia concorrono con quelle del potere a fare scadere il sabotaggio a “metodo di lotta” in difesa degli interessi immediati della classe operaia. Marx aveva già avvertito contro la tragicommedia degli interessi immediati. In che razza di contraddizioni ci si possa ritrovare nella difesa degli interessi immediati è ben illustrato dal caso dell’Alfa.
A livello di senso comune capitalizzato le auto Alfa sono apprezzate per una serie di caratteristiche che dovrebbero piuttosto indurci a respingerle. Innanzitutto l’uso di materiali costosi richiesti dalle forti sollecitazioni cui vengono sottoposte dalla velocità e dalla ripresa del mezzo: un alto consumo di energia. Tali caratteristiche incidono negativamente sul sociale, a meno di non considerare positivo il flagello autostradale cui quella velocità contribuisce; l’alto consumo sottrae a sua volta energia ad altri usi e inquina irreversibilmente l’ambiente. Se queste considerazioni non bastassero a motivare il rifiuto di questa merce, guardiamo a chi è destinata, essenzialmente alla classe media che rimarca spesso il proprio status dal suo possesso, per non parlare dei clienti più affezionati, poliziotti e carabinieri che usano quelle caratteristiche per ammazzare i proletari. Non solo, l’Alfa chiude i bilanci in rosso e giungiamo all’assurdo che lo Stato sottrae risorse da altri settori per colmare le perdite.
Gli operai dell’Alfa sono rimasti i soli a puntellare una produzione che distoglie enormi risorse in mezzi, materiali e uomini da un uso sociale e inchioda una parte non esigua del proletariato alla disoccupazione e alla fame. Altro che omogeneità d’interessi immediati fra una parte e l’altra del proletariato! Questi interessi, beninteso, si possono ricomporre ma negando alla radice la produzione di merci. Una gran parte degli operai si è al contrario chiusa nella difesa dei propri interessi corporativi, chiede addirittura maggiori investimenti nel settore e si è messa a disposizione per lavorare anche il sabato. In risposta al blocco d’ordine che si è creato in fabbrica e ai più smaccati tentativi collaborazionistici, la guerriglia autonoma ha dato forza alla minoranza non collaborazionista con diversi attentati alle filiali e al prodotto finito che hanno praticamente vanificato gli aumenti produttivi realizzati nei sabati lavorativi. In questo caso il sabotaggio esemplifica abbastanza bene come esso possa divenire la forma specifica della resistenza delle minoranze non collaborazioniste e, svincolandosi dalla difesa degli interessi immediati, acquistare il significato di opposizione radicale alla produzione di merci.
La sua ripresa discende direttamente dalle condizioni della produzione capitalistica nella sua fase “matura”, che paiono riprodurre le stesse condizioni di emarginazione che caratterizzarono l’apparire della macchina nella sua fase di ascesa.
Giacché il lavoro vivo è sempre più marginale rispetto al capitale fisso, è relativamente facile per il padrone comprare la collaborazione di pochi che mettono in movimento una massa enorme di lavoro morto. Gli operai rivoluzionari non possono oggettivamente essere maggioritari, la democrazia non ha senso per la sproporzione di forze: il capitale ha dalla sua i milioni di lavoratori il cui lavoro si è oggettivato nelle macchine o è stato rimpiazzato da esse, dall’altra parte poche migliaia di lavoratori a metterle in movimento, una sproporzione che permette in ogni momento al capitale di corromperne una parte più o meno cospicua. In questa situazione gli operai rivoluzionari si trovano sommersi in un mare di “crumiri”, non viceversa, ma proprio la concentrazione e l’intensità del capitale esalta il ruolo di queste minoranze, perché possono riscattare la loro emarginazione “colpendo al cuore” non solo i vigilanti del nuovo o vecchio ceto politico ma soprattutto il lavoro morto. Se questo moloch non viene inceppato, il passato, il lavoro accumulato, estorto a intere generazioni di sfruttati, ci seppellirà.
Sull’organizzazione clandestina [2]
Costituire teste di ponte in fabbrica per colpire il cuore del capitale e del nascente “Stato-Partito” è il compito primario che sta di fronte alle organizzazioni combattenti in questa fase, se esse vogliono operare finalmente quella saldatura fra la lotta allo sfruttamento e la lotta antiistituzionale. La guerriglia in fabbrica non potrà essere innestata che dalle organizzazioni clandestine. Le obiezioni che da più parti dell’autonomia operaia vengono a questa impostazione si librano su un livello ancora astratto; si dice: noi non vogliamo diventare guerriglieri di professione, separati dal movimento, noi vogliamo far crescere l’autorganizzazione delle lotte, favorire forme di lotta più violenta e al livello reale, quello di base, e ciò è possibile solo vivendo la vita di tutti gli altri e con loro arrivare alla lotta armata, in modo che l’elevamento dello scontro non sia un fatto fittizio, spettacolare ma un fatto di massa, reale. È un’obiezione seria che dice molto del nostro stesso obiettivo, quello cioè di andare a organizzare tante cellule rivoluzionarie, “un contropotere di piccoli nuclei che lavorano autonomamente nelle diverse situazioni, combattono, intervengono, difendono, sono parte del lavoro politico di massa”, ma trascura il fatto che i compagni inseriti nelle strutture portanti del capitale si muovono in un’acqua ancora molto sporca, esposti alla repressione non solo delle gerarchie di fabbrica, della sua polizia interna ed esterna, ma anche della intera rete spionistica del sindacato e del partito: impegnati nel lavoro di fabbrica hanno scarse possibilità di procurarsi mezzi e strutture e in assenza di una struttura organizzativa adeguata sono condotti a forme di autolimitazione. La crescita, diffusione, sviluppo di nuclei di contropotere non può che essere promossa dall’organizzazione clandestina. In questa si saldano teoricamente e praticamente i nuclei che vanno a svilupparsi in fabbrica e quelli attivi nel territorio, contro i servizi essenziali del capitale, le banche, le immobiliari, i mass-media, le caserme, le carceri.
Se questa è parte fondamentale dell’attività dell’organizzazione clandestina, solo a questa possono riferirsi compiti altrettanto importanti come la liberazione dei compagni imprigionati, l’attacco, il meno fittizio possibile, alle strutture e al personale politico, tecnico, militare impegnato nei ministeri chiave della ristrutturazione economica, della guerra psicologica e della repressione. Il sabotaggio del cervello centrale della motorizzazione esemplifica questo settore di attività. Queste strutture centrali sono le più delicate e quindi le più protette, richiedono quindi azioni “militari” vere e proprie, necessarie tutte le volte che si affronta un nemico armato e attento, sostenute da una rete ricca di informazioni, mezzi, ecc. È chiaro che le strutture centrali non potranno essere attaccate seriamente che quando la guerra sociale avrà irrobustito enormemente la guerriglia, ma questa non deve vietarsi l’apertura di contraddizioni, il logoramento continuo di questi apparati anche con azioni dirette al centro. L’operazione Moro è stata variamente criticata ma tutti gli effetti che le sono stati attribuiti dai critici non si sono puntualmente verificati. Si è detto che avrebbe costituito la fine della guerriglia e invece questa si è ulteriormente generalizzata, si è detto che non avrebbe destabilizzato un bel nulla, mentre in realtà il quadro politico si è fatto alquanto più traballante e l’operazione ha avuto l’indubbio merito di rivelare in tutta la sua pericolosità il blocco di potere che si stava formando, i lineamenti del cosiddetto partito della morte. Noi non condividiamo gli orpelli ideologici dell’operazione, la “prigione del popolo”, il “processo”, la “sentenza”, “l’esecuzione”, un’imitazione inutile e macabra dello Stato e della sua violenza, ma questi sono orpelli, non la sostanza che sta nella capacità-maturità del movimento rivoluzionario nel suo insieme (e le Brigate Rosse si riconoscono parte di questo movimento) di assestare un colpo al centro. Chi non ricorda, del resto, le critiche che gli stessi ambienti rivolgevano alle BR prima dell’operazione Moro? E non era solo voce dei critici, era voce popolare: colpiscono in basso, quelli che contano poco, i veri assassini se ne stanno tranquilli a Roma. Certo, il colpo al centro ha risvegliato il sonno dei politici romani, chiusi nel bunker di Montecitorio a blaterare di giustizia e libertà coi carri armati alla porta; forse, si chiedono alcuni, se li avessimo lasciati dormire ancora un po’… È un’obiezione seria ma non viene dai critici-critici, il prezzo è stato pagato dal movimento clandestino per la guerra psicologica che si è scatenata, i sospetti, la caccia al brigatista, le vocazioni poliziesche risvegliate ma a ben vedere era un prezzo che doveva comunque essere pagato a breve termine perché è indubbio che la presenza di Moro, la bambagia accumulata attorno all’associazione dei picisti avrebbe portato al regime del compromesso storico senza le lacerazioni che oggi esso si porta dietro e avrebbero dato il via alla grande operazione controinsurrezionale.
Il guerrigliero della vita quotidiana
I critici della vita quotidiana rimproverano alla lotta armata di aver riproposto, estremizzandola, la politica; di negare la socialità del movimento per snaturarlo e assicurarsene la rappresentazione politica, di riproporre insomma il vecchio modello bolscevico di rivoluzione politica che affida al rivoluzionamento dell’economia, della società, della vita quotidiana a una fase di dittatura proletaria, in realtà di dittatura del partito, questa volta di partito combattente, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti, la vita quotidiana del giovane di Roma non ha certo nulla da invidiare a quella del giovane moscovita [degli anni ’30: “Anarchismo”], anzi… È chiaro che le forze più strettamente leniniste, le BR, hanno spiccata questa tendenza al “congelamento” del movimento nella dimensione separata del politico. In genere l’allargarsi della lotta armata e dei suoi obiettivi sul sociale non viene approvato dai compagni delle BR e questo atteggiamento viene motivato con ragioni tattiche, la dispersione di forze su contraddizioni secondarie anziché il loro concentramento nell’attacco allo Stato, ma il capitale non è solo economia, politica, repressione, è anche ideologia, mistificazione, menzogna, droga, spettacolo, ogni aspetto del suo dominio deve essere colpito. Per questo però occorre che le forze della sovversione totale scendano in campo e la guerra sociale acquisti in profondità e ampiezza, solo così il movimento rivoluzionario potrà creare un domani una situazione di non ritorno, irreversibile, rendendo inutilizzabili tutti i vecchi strumenti del dominio, le sue strutture, i suoi apparati, tagliando in profondità il vecchio corpo del dominio. Se la ferita sarà superficiale, il vecchio corpo ricomincerà a funzionare. Se si elimina il ceto politico ma si lasciano intatte le vecchie strutture del dominio chi può garantire che un altro ceto politico non avrà la tentazione di appropriarsene? Se non si aboliranno le banche, il denaro e tutto il resto chi garantirà la scomparsa dell’economia del profitto? Certo occorre armare anche gli spiriti, “spurgarsi dei valori e delle ideologie introiettate, vincere le rimozioni, affermare il desiderio, rifiutare le alienazioni che ci fanno cose, vibrare di passioni”, ma il soggetto meglio armato spiritualmente finisce sempre con l’avere la peggio contro il mondo di cose e di funzionari di cose che ci sovrasta, con i suoi ritmi, i suoi ruoli, i suoi ghetti e sarà rigettato nella quotidianità di sempre. La comunità ritrovata un momento, un giorno, un mese nella lotta viene presto dispersa e il soggetto si ritrova solo, coi problemi di sempre e in più il senso angoscioso di ciò che si è perduto; l’ideologia dello sballo e l’alienazione da molotov nascono sullo stesso terreno. Chi, dopo il maggio, aspettava la seconda ondata, è stato smentito: il qui e subito non si dà mai due volte.
“Insurrezione” ripropone ancora una volta il fluire ininterrotto della critica della vita quotidiana alla pratica della sua sovversione. In mezzo non c’è alcun salto rilevabile, nessun prima, nessun dopo. I germi del recupero che vengono visti operanti nell’azione delle formazioni armate, non vengono altrettanto individuati nell’ideologia dello sballo, nel ridursi della critica radicale a esercitazione culturale. Sappiamo che produzione di merci e produzione di ideologia procedono assieme. È possibile una distruzione pratica, immediata delle merci, perché esse sono un dato oggettivo, lavoro oggettivato appunto. L’ideologia al contrario è parte della base materiale umana, vera e propria infiltrazione nella soggettività, suo narcotico. Di fronte ad essa sembra funzionare solo il vecchio adagio maoista, “dell’avanzare ondata dopo ondata”, nel senso che occorre un continuo adeguamento della critica alla molteplicità e al riprodursi di situazioni in forme relativamente nuove. Non si può allora non intravedere che lo specifico tentativo di parte capitalista è quello di separare i due termini del problema: da una parte una critica delle armi sempre più proiettata nell’universo del politico e indifferente alla condizione umana, dall’altra le armi della critica diluite nell’esercitazione culturale che non soltanto di per sé è astratta, ma molto di più ha il difetto di essere il monopolio dei nuovi professionisti della cultura, i cinici senza passione. Non è forse vero allora che al guerrigliero della vita quotidiana manca per l’appunto il mitra? Il qui e il subito, la forzatura che a partire da oggi è operante.

Autonomia fittizia e autonomia reale
Ciò che più va criticato nell’area dell’autonomia è l’incapacità di cogliere la propria quotidianità come sostanzialmente organica al modo di vivere capitalistico, di cui riproduce la normalità dei ritmi e dei cicli e situazioni di ghetto. È proprio questa normalità che rappresenta l’insidia più grave per le capacità di resistenza e di rivolta degli individui, ciò che più tarpa l’effettiva secessione, l’autonomia raggiunta come sovversione operante in ogni istante della vita quotidiana. Ciò che appare movimento è un circolo che si richiude continuamente su se stesso, è stagnazione, depotenziamento delle capacità di emozione e di rivolta. Non saremo noi a scoprire la noia, le frustrazioni, il senso d’impotenza, il gelo della stupidità e del fittizio. Un’assemblea, una riunione sono spesso un’offesa all’intelligenza, ma si resta per la falsa opinione che sotto ci sia un fondo da riscoprire, che ci sia qualcosa da salvare, che comunque vi si giochino delle partite politiche. È falso. Tutto è già deciso dall’inerzia quotidiana, dalle stanche incombenze della militanza, dall’ideologia dell’accumulo, dall’impegno di lotta come garanzia dello sbocco rivoluzionario. La falsa antinomia fra lavoro e tempo libero si riproduce con la divisione fra tempo della militanza e vita alternativa, ma la miseria di questa alternativa si misura tutta nei sabati sera in piazza, lo scontento, la ricreazione del privato per le coppie, famiglie e tribù. L’ambizione dell’autonomia di essere un’alternativa al progetto delle forze combattenti è legittima ma dubbia: questo sarà forse in alcuni dei suoi gruppi e membri, per noi essa è soprattutto un modo d’essere, una palude di contraddizioni. Più che una linea politica, è una fenomenologia che si tratta di combattere, questa logica della talpa marxista che si vuole immaginare al lavoro poiché intorno non si vede nulla o almeno nulla di ciò che si vorrebbe vedere svilupparsi. Una logica e un metodo, quello dell’assemblaggio delle disponibilità personali più eterogenee ma tutte in genere attestate al di qua di una decisa scelta di lotta totale e di un definitivo rifiuto dell’ideologia e della politica intesa come ambito della mediazione incessante e fine a se stessa: agendo sulla psicologia dei compagni, sui loro sensi di colpa, sul bisogno di rendersi utili, sul sentirsi militanti impegnati per sfuggire al vuoto delle pratiche liberatorie separate (hippismo, filosofie individualistiche da osteria, ubbie “desideranti”), sul potersi considerare i fiancheggiatori dei “terroristi” senza correrne i rischi e sentendosi un po’ dentro la storia con l’alibi del discorso più avanzato.
Solo (e ci scusi la critica critica di questo primato) l’autonomia reale fatta progetto armato contro tutti gli aspetti della vita sociale, la costituzione di una rete di resistenza e attacco ai centri vitali del sistema dello sfruttamento e della morte, il viversi con pienezza nella coscienza di essere già parzialmente fuori della tenaglia del capitale può consentire l’inizio di questo cammino della liberazione. Ma anche qui, al livello del soggetto operante, come a livello sociale, occorre tagliare i ponti con la normalità quotidiana, creare una situazione di non ritorno, clandestinizzarsi. E qui bisogna anche smantellare le immagini di comodo che sono state create intorno alle organizzazioni clandestine, si pensa che il lavoro della guerriglia possa essere condotto solo in modo da sottoporsi a una pressione, a una strumentalizzazione di se stessi e degli altri. Ma le motivazioni che spingono molti compagni alla lotta armata sono le motivazioni della loro stessa liberazione. Come sottolineavano i compagni tedeschi delle Cellule Rivoluzionarie: “Noi crediamo che la guerra totale contro il sistema di dominio di uomini su uomini racchiuda in se stessa contemporaneamente e in egual misura la lotta contro il sistema capitalistico che è in noi stessi. La guerriglia urbana, armata nel modo migliore e militarmente meglio organizzata, è destinata a naufragare se non ha intrapreso questa lotta totale…”. Il gruppo guerrigliero che intraprende questa lotta totale assume tutti i caratteri di una comune armata, di una società sotterranea che combatte quotidianamente le divisioni gerarchiche, i manovali e i capi, non solo per ragioni teoriche ma essenzialmente pratiche: una formazione guerrigliera resiste se si adegua alla sua stessa definizione, un’idea cui crescono sempre nuove teste, al principio che ogni suo membro sia “in grado di potersi dirigere e di volerlo – che ognuno arrivi a poter agire da solo, che ognuno cioè sia il gruppo – possibilità e volontà che è a sua volta un processo collettivo, non un processo individuale – il guerrigliero è il gruppo, il che vuol dire che ogni singolo impara nel processo collettivo che è la prassi e in generale si impara così, nello scontro, poiché questo ci costringe a imparare e a cambiare noi stessi per giungere a questo: il guerrigliero è il gruppo”.
Se “la rivoluzione è abbandono dello spettacolo che passivizza, che rende oggetti, è moltiplicazione di soggetti critici capaci di riconoscere sempre più a se stessi (e sempre meno alle avanguardie dello spettacolo) la capacità di agire in modo creativo”. “Nulla si attaglia meglio della guerriglia che vive solo se esiste quella moltiplicazione dei soggetti critici (e le galere sono piene di questi soggetti) e vive nonostante coloro che la consumano solo come spettacolo, vittime dei mass-media. Se la violenza è spettacolo “che si consuma nella penombra della sopravvivenza” ogni villaggio, ogni città ha ormai il suo palcoscenico e i suoi attori; la violenza è uno spettacolo alla portata di tutti, purché provvisti di buona volontà.

Il movimento del ’77 e la guerriglia [3]
Le difficoltà in cui si trova il movimento dopo la grande ondata del ’77 sono in alcune analisi imputate alla guerriglia che avrebbe espropriato la violenza di massa, aumentando i consumatori dello spettacolo della violenza, snaturato il movimento dandogli un contenuto solo politico. Innanzitutto lo stesso movimento del ’77 non nasce dal nulla, ha una sua storia alle spalle su cui hanno influito, è difficile negarlo, anche le azioni della guerriglia. Se ci si fosse limitati all’ironia, a Roma Lama avrebbe tenuto il suo comizio all’Università e quello che è stato un fatto storico, la cacciata di Lama dall’Università, sarebbe stato più modestamente un comizio disturbato, magari con intelligenza, ma pur sempre un comizio, quindi una vittoria di Lama e dei suoi accoliti. È difficile scindere il movimento del ’77 da tutto ciò che si è detto e fatto in questi anni, specie dai gruppi armati e dalla guerriglia autonoma.
Da allora il movimento ha perso progressivamente la piazza; l’apparato repressivo, nato e sviluppato contro le manifestazioni di piazza, è sceso in campo con tutta la sua forza. Era prevedibile. Il tentativo da parte dell’autonomia di riconquistare la piazza sul piano militare si è rivelato subito impraticabile. Dopo aver eroso la piazza, il potere ha chiuso sedi, giornali, radio, ha cominciato la caccia sistematica all’autonomo. Era anche questo prevedibile. La critica critica di Milano (ci riferiamo agli autori di “Insurrezione”) esalta il movimento del ’77, com’è giusto, ma contraddittoriamente, se ne nasconde le conseguenze. Si vuole la cacciata di Lama, l’assedio di Bologna, ma non si vogliono le conseguenze repressive. Queste, se ci sono, vanno imputate alla guerriglia. È una bella inversione! Come l’altra, che la guerriglia toglie spazio legale al movimento, accelera la sua criminalizzazione.
Abbiamo già detto che le leggi eccezionali sono state varate dopo il ’68, contro il movimento, e in un periodo in cui le merci erano ancora un solido veicolo di consenso. Oggi il potere ha bisogno di ideologizzarsi, di far arrivare alla gente messaggi concordanti e convergenti verso il consenso. Il dominio del fittizio non può che essere totalitario, come in una sinfonia, basta una nota stonata per rompere l’incanto, come in un bel comizio di Tronti sulla classe operaia che si fa Stato, basta un poderoso pernacchio. Si può allora azzardare l’ipotesi contraria: il movimento sarebbe stato già sbaragliato, nelle sue sedi, nei suoi giornali, nelle sue radio, se la guerriglia non facesse da parafulmine, attirandosi addosso tutto l’apparato repressivo. Obiettivo del potere in questa fase è isolare la guerriglia, sradicarla dal movimento e quindi snaturarla dei suoi contenuti e delle sue radici sociali e culturali e per far questo non può criminalizzare il movimento perché questo oggi troverebbe ad accoglierlo una società sotterranea in sviluppo. Il movimento ha lo spazio della guerriglia, se questa crolla, lo inghiottirà. Immaginate gli uomini del generale Dalla Chiesa liberi dai loro compiti “istituzionali”. La critica critica che tende ad isolare la guerriglia dal movimento è perfettamente funzionale al piano di repressione il quale usa la violenza contro la guerriglia e usa la critica (da Asor Rosa ai cinici senza passione) per isolarla. La critica critica, che sa tutto, non sa che isolando la guerriglia prepara anche le condizioni della propria precipitazione nella clandestinità, a meno che il capitale, nella sua grande ingenuità, come non sa riconoscere oggi i suoi amici e tortura, ammazza, perseguita i terroristi, domani non sappia riconoscere come sua unica nemica la critica critica e garantisca ad essa cattedre e palcoscenici.
La critica critica di Milano non è l’unico neo nel panorama dell’autentico, esiste anche la critica critica [dopo queste parole la versione di “Anarchismo” riporta: “di alcuni settori del movimento anarchico: ci riferiamo ad alcuni articoli apparsi di recente su “Anarchismo”, in cui …”] di Catania la quale, a differenza della prima, ha deciso di occupare “editorialmente” l’area di propaganda armata: ci riferiamo all’articolo apparso sul n. 21 di “Anarchismo” che dopo aver constatato il generalizzarsi del comportamento illegale e il carattere prerivoluzionario della fase attuale, vuole alfine dire una parola chiara su quelli che devono essere i compiti rivoluzionari degli anarchici. Date le premesse ci si sarebbe aspettati una risposta del tipo: gli anarchici devono cominciare a ribellarsi. Niente di tutto ciò: gli anarchici devono spingere gli sfruttati a ribellarsi. Nell’interpretazione malevola ciò può voler dire: è la vecchia solfa, i leninisti, gli stalinisti, gli operaisti si ribellano, perché gli anarchici devono limitarsi a spingere gli altri? chi spingerà gli anarchici? Non si troveranno fuori dalla storia ancora una volta? Nell’interpretazione benevola: spingere gli sfruttati a ribellarsi nell’unico modo in cui è possibile, ribellandosi, non con fiumi di inchiostro. Diamo per buona questa interpretazione e andiamo avanti. A meno di un ritorno a vecchie forme di individualismo (rispettabili se praticate, ma discutibili) ribellarsi significa organizzarsi se non ci si vuole esporre al massacro e se si vuole dare un minimo di continuità e di luce all’azione. La critica critica [a posto di queste parole la versione di “Anarchismo” riporta: “Nel n. 21 si…”] salta quest’inezia con un volo nel nulla: scrive: “gli anarchici devono capire che la sola alternativa alle BR non è un’organizzazione anarchica (AR o chicchessia) ma la lotta generalizzata armata, spinta sino al livello insurrezionale, fatto questo ben più significativo delle più elevate realizzazioni delle organizzazioni storiche”. Che significa? niente, o qualcosa di peggio, merda o giù di lì. Da una parte si consumano fiumi d’inchiostro, di morotea “cauta attenzione” alle organizzazioni “staliniste” per metterne in luce le potenzialità controrivoluzionarie, poi si scopre che il problema non è quello di organizzare le forze non leniniste ma di “generalizzare” la lotta. Visto che gli anarchici non hanno ancora preso posizione, organizzare le forze non leniniste non fa parte appunto di quella generalizzazione? Al di fuori di ciò, che senso ha dire che la generalizzazione è un’alternativa? Da quel che si sa gran parte di questa “generalizzazione” è stata veicolata e promossa dalle organizzazioni leniniste che ne detengono, a ragione, l’egemonia, o “Anarchismo” [a posto di questa parola la versione della rivista “Anarchismo” riporta: “questi compagni anarchici pensano…”] pensa che tutta questa gente che si ribella sia puro frutto del nulla o della lettura della rivista? o pensa, come i critici critici di Milano, che il fuoco insurrezionale brucerà tutte le forze che hanno appiccato il fuoco per lasciare libera espressione alla critica critica? Gli anarchici che hanno riflettuto seriamente sulla rivoluzione russa avevano molto meno ottimismo. Berneri, riflettendo sull’azione popolare insurrezionale, vi vedeva più “effetti” anarchici che “intenti” anarchici: “non credo, egli scriveva, che la funzione degli anarchici nella rivoluzione debba limitarsi a ‘sopprimere’ gli ostacoli alla manifestazione della volontà delle masse: vedo gravi pericoli e non poche difficoltà negli egoismi municipalistici e corporativi. Si aggiunga che l’iniziativa popolare non sempre conserva il suo slancio oltre il periodo insurrezionale, sì che v’è da temere non poco il ‘lasciar fare’ sul terreno politico amministrativo. Essere col popolo è facile se si tratta di gridare: Viva! Abbasso! o se si tratta semplicemente di battersi. Ma arriva il momento in cui tutti domandano: cosa facciamo? Bisogna dare una risposta. Non per far da capi ma perché la folla non se li crei”. I critici critici [a posto di queste parole la versione di “Anarchismo” riporta: “I redattori di ‘Anarchismo’”] dovrebbero sapere che non si tratta più di gridare Viva la lotta armata, viva la gioia armata: la propaganda la lotta armata se la fa da sé, non gli occorrono racket culturali, né si tratta semplicemente di battersi in un modo qualsiasi, in un gruppo qualsiasi com’è accaduto purtroppo per tanti militanti anarchici del passato. Organizzarsi è qualcosa di più di un semplice prendere le armi, darsi una struttura più o meno clandestina e cominciare a lottare. Significa anche dare una risposta alle questioni decisive della rivoluzione.
Makhno non ha mai imputato il fallimento del movimento anarchico in Russia alla repressione bolscevica. Sentiamolo: “L’anarchismo non aveva alcuna opinione chiara e concreta sui principali problemi della rivoluzione sociale… Sull’occupazione delle fabbriche esso non aveva alcuna concezione chiara e precisa, riguardante la nuova produzione e la sua struttura. Per quanto riguarda il principio comunista ‘da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni’ gli anarchici non cercarono mai di applicarlo nella realtà. Essi ignoravano quali forme deve assumere l’attività rivoluzionaria dei lavoratori e quale relazione deve intercorrere fra le masse e il loro centro ideologico. Scuotere il giogo delle autorità è giusto ma bisogna anche sapere con quali mezzi consolidare e difendere le conquiste della rivoluzione. Proprio queste carenze allontanano gli anarchici dall’attività delle masse e li votano all’impotenza sociale e storica”.

Verso una rivoluzione senza modello
Sui muri di Bologna è apparsa una scritta: URSS, Cina, Cuba, Vietnam, con quattro croci sopra. I modelli hanno fatto il loro tempo e crollano uno dopo l’altro e non sono solo i modelli politici, ma anche i modelli di pensare e prevedere gli eventi politici. Dopo tante acrobazie ideologiche per ricondurre gli eventi imprevisti entro i propri modelli di intelligibilità (e le tante cadute) tutti sono diventati più prudenti. Nella misura in cui il pensiero modellistico altro non è che la forma ideologica del potere non c’è che da rallegrarsi della sua liquidazione, perché questa significa possibilità che nasca una nuova forma di pensiero. La morte dei modelli e del pensare per modelli libera il pensiero. I modelli sono a un tempo strumenti e forme dell’esercizio del potere, come dicono i gauchisti francesi i modelli sono “piccoli capi” che abbiamo nel cervello. “Ogni qual volta un essere umano, un nuovo gruppo contesti il potere e cerchi di immaginare una vita diversa, ogni volta i modelli vedono ridursi la propria base sociale: essi resistono solo perché non hanno perduto la loro base economica, che è la concentrazione e la pseudorazionalità delle forze produttive. La liquidazione dei modelli passa attraverso l’aggravarsi e l’accelerarsi di questo conflitto, cioè della concentrazione fra ciò che gli individui sono costretti a fare e ciò che essi potrebbero fare senza esservi costretti”. “Controinformazione”, com’era “prevedibile” ci ha gratificati come un fenomeno singolare, utopistico nel panorama del realismo e dell’apoditticità. Esisterebbero due tipi di pensiero e due tipi d’individuo, da una parte i professionisti della politica che pensano e agiscono secondo modelli e concetti, dall’altra quelli che si sforzano di pensare senza modelli, utopisti e dolci poeti. Apparterremmo alla seconda categoria ma saremmo un fenomeno singolare, relegato ai margini della polis, come proponeva Platone. “Controinformazione” ragiona ancora secondo modelli e per di più idealistici perché presuppone che possano esistere modi di pensare indipendentemente dalle condizioni storiche e sociali del loro insorgere. Bisognerebbe saper dire perché e dove, nella società si formino il pensiero realistico e quello utopistico. I realisti, come si sa, nel Maggio fecero una ben magra figura, si limitarono a dar voce alla rivendicazione dei mille franchi al mese; il Maggio fu degli utopisti, di quelli che dicevano: ciò che importa è di essere realisti, di chiedere l’impossibile. Non di accettare la frattura fra il “reale” e il sogno senza modello, ma di spazzar via il primo in nome dei diritti del secondo. Il cambiamento per cui si oppone al reale non un altro reale o un altro modello, ma un’utopia sta compiendosi sotto i nostri occhi. Ciò che impedisce di vederlo sono le nostre abitudini intellettuali. Per vederlo, del resto, bisogna contribuire concretamente a farlo.
Modello è qualcosa che esiste: dalla cui contemplazione nasce la forma di un pensiero o di un’azione, ma oggi non esistono modelli. Quello che cerchiamo non è un modello ma un progetto, una realtà anticipata, qualcosa che non esiste; si dice che il pensiero utopico è inefficiente, ma gli argomenti in termini di efficienza sono nella loro essenza argomenti venuti fuori col capitalismo e che debbono scomparire con esso. È una sorta di sbirro nel cervello. Del resto, ogni argomento di questo tipo viene fuori dopo una rimozione: farei o direi questo o quello, ma sarebbe inutile, irrealistico, inoperante, allora sto zitto. Il progetto rivoluzionario è proprio questa rimozione iniziale, è ciò che il capitale fa tacere. E come sempre in simili situazioni, quando ciò che è stato rimosso viene esplicitato, ci si accorge che invece di essere un’enormità o uno scandalo o una cosa inconcepibile è al contrario del tutto ovvia, semplice, accessibile, realizzabile.
È accaduto già nella storia che la “decadenza” e il marciume erano tali che nuovi rapporti di oppressione sono apparsi come liberatori solo perché proponevano altro. Ma il capitalismo ha fatto penetrare l’oppressione in tutti gli spazi dell’esistenza e ciò ha permesso per la prima volta nella storia di mettere in discussione il fatto globale e universale del dominio, il che non significa certo che nuovi rapporti di oppressione non possano apparire liberatori ma che la battaglia fra rivoluzione e controrivoluzione ha una posta del tutto nuova nella storia, la scomparsa dell’oppressione stessa. Gli utopisti chiedono l’impossibile?

Socialismo e comunismo [4]
Il comunismo è avvento del regno della gratuità, scomparsa del denaro, del valore di scambio, fine della peste mercantile che ha pervaso ogni piega dell’esistenza umana. Abolizione dell’economia con tutte le sue categorie: salario, prezzo, profitto. “Stasi dell’economia” direbbero gli operatori economici del fittizio o “gestione alternativa dell’economia” ma economia non vi è più, le leggi dell’avere non sono più riconosciute, i crediti e i debiti non possono essere più riscossi o saldati.
Le obiezioni non si contano, peggio non si pongono neppure! “Senza il denaro come si farebbe?”. Tutto l’universo economico ci appare naturale come l’aria e l’acqua. Se il capitale si materializza in profluvio di merci, assegni e banconote, selva di antenne tv, elicotteri antiguerriglia, megalopoli, esso è anche rappresentazione: acquistando tutta la fisicità degli uomini, diventando sangue e pensieri, esso permane e si riproduce perché è tale nella testa di ciascuno, perché impone una rappresentazione di sé a se stessi mediata dalle forme inorganiche in cui si manifesta. Che questa colonizzazione non sia totale, che anzi al contenimento segua spesso un’inversione di tendenza, un dissolvimento del suo potere di soggiogare le coscienze è solo il segno della resistenza opposto dalla soggettività umana in rivolta. A riprova di ciò sta tutta una serie di atti e comportamenti che il movimento rivoluzionario ha cominciato a praticare in modo diffuso, saccheggi, autoriduzioni, occupazioni di case, sciopero degli affitti, tutti volti a deprezzare la funzione del denaro, a creare una “cosa veramente diversa” non a partire da un rifiuto puro e semplice del mondo attuale, ma utilizzando, trasformando quello che questo mondo produce, spreca.
Proprio perché il dominio dell’economico è il dominio del fittizio e il capitale rappresentazione, occorre mostrare tutta l’inutilità del denaro ai “civilizzati” ammaliati dalla filosofia che “così è sempre stato e così sempre sarà”. Il fascino del denaro consiste nelle opportunità che offrirebbe, ben poche invero per la grande maggioranza dei proletarizzati ma la sola opportunità reale concessa è una sopravvivenza miserabile, anche se lo spettacolo mercantile incoraggia allo scambio del proprio servaggio con gli oggetti più inutili e assurdi. Dunque il comunismo, che è soddisfazione illimitata dei desideri e dei bisogni umani, realizzazione piena della libertà di vivere secondo il proprio piacere e le proprie inclinazioni, abolirà questi meccanismi di costrizione.
L’indicazione comunista non può dunque separarsi dall’immediata visualizzazione della possibile riorganizzazione comunitaria, dalle conseguenze che implicherà in tutti i campi della vita sociale, dello scadenzarsi del progetto comunista lungo il processo della guerra rivoluzionaria. Non sono pochi coloro, sia fra quanti praticano o teorizzano la lotta armata, sia nell’universo dell’autonomia che pongono il comunismo come fine del proprio programma e delle proprie scelte di vita e di lotta. Ma troppo spesso si tratta di indicazioni parziali, che non chiariscono a fondo la profondità del superamento necessario e le linee distintive del nuovo mondo che è già possibile definire attraverso i moti del cuore, l’intelligenza delle verità elementari che il dominio ha velato in permanenza impedendoci perfino di pensare che fosse possibile cambiare lo stato di cose al di là dei limiti riconosciuti. L’esperienza quotidiana dei rapporti, gli scritti e i documenti dell’area rivoluzionaria ci lasciano il dubbio che non si vada oltre l’indicazione del contropotere, della giusta ma non meglio specificata realizzazione dei bisogni, di alcuni elementi di programma ancora tutti calati nella dimensione dell’economia come realtà separata o in problematiche di gestione alternativa della realtà mercantile. E il dubbio si fa atroce quando sentiamo adombrare una prospettiva di comunismo mediata dalla peggiore tradizione del marxismo volgare: modo “socialista” di produrre, uguaglianza salariale, assistenza generalizzata, nazionalizzazione dei mezzi di produzione e di scambio, gestione statale dell’economia, la dittatura politica di un partito o, nelle variabili soviettistiche, autogestione operaia delle imprese e un organo esecutivo con mandato imperativo e revocabile dei singoli consigli. Parliamoci chiaro, questo è socialismo, variabile non irrealizzabile dello sviluppo capitalistico nella sua fase anteriore, forma di organizzazione produttiva e sociale parzialmente realizzata nell’assetto attuale dell’area capitalistica occidentale e supporto ideologico di quella orientale. Quand’anche e se credessimo che una simile società del lavoro, della produzione di “valori d’uso”, della spersonalizzazione e dell’irreggimentazione per la costruzione di un “migliore domani” potesse realizzarsi nella sua interezza, non potremmo che schierarci “contro il socialismo”. Tanto più importante diventa dunque un dibattito collettivo sul contenuto del comunismo, compiere uno sforzo di visualizzazione della nuova comunità umana, del paesaggio che si trasformerà in modo così radicale da poterlo immaginare a fatica, definire le grandi linee che lo contraddistingueranno, gli elementi che tendono a prefigurarlo.
Il movimento rivoluzionario non può limitarsi a estendere e perfezionare l’esercizio delle armi e della critica all’esistente, attestarsi sul “negativo”, ma interrogarsi su se stesso, sul mondo che è possibile creare a partire dai bisogni, dai desideri, dai sogni, dal perseguimento violento e liberatorio di tutto ciò che la società nega ma anche a partire dalle possibilità che la società fa intravedere che un pensiero tutto preso dalle leggi dell’esistente si rifiuta di vedere. Ciò che più colpisce infatti è oggi l’apparente contraddizione fra maturità del comunismo sul piano materiale e la povertà dell’idea stessa. Contraddizione che per essere apparente non è meno aspra né di facile risoluzione, in quanto tale apparenza sembra affondare le proprie radici nella logica dello sviluppo capitalistico, nella perversione delle forze produttive, che hanno prodotto una vera e propria colonizzazione del pensiero, una mutilazione della capacità di intendere e volere altro dalla volontà e dagli interessi del potere e dei suoi funzionari. Il marxismo stravolto nella veste del determinismo non riesce più a rappresentare una rottura reale e un’alternativa teorica a questa logica del capitale: l’idea sembra aderire totalmente alla realtà, la concezione della comunità futura che nasce dai bisogni e dai desideri non più che dalle possibilità della loro realizzazione si riduce spesso all’enunciazione di uno slogan.
Certo l’idea della società comunista futura implica una tale distruzione di forze pervertite, un rovesciamento così totale da infondere sgomento e incredulità, più che paura e sfiducia in quanti se la prospettano superficialmente. Eppure lo stesso capitalismo ci ha abituato a una distruzione continua, disumana, profonda: le sue guerre hanno distrutto intere città, immense forze produttive, ma esso le ha ricostruite in quantità maggiore e le ha piegate sempre più al suo dominio. Segno che il livello ormai raggiunto del sapere sociale generalizzato è tale da consentire l’opera immane della eliminazione degli orrori dell’industrializzazione e commercializzazione capitalistica, la totale ricostruzione delle città e restaurazione della natura. Forse che il bisogno del profitto è più forte dei nuovi bisogni vitali della liberazione?

Guerriglia e/o insurrezione
La lotta armata in cui ci riconosciamo non presenta fin dai suoi inizi i caratteri che da un certo versante teorico le vengono attribuiti. Essa è invece guerra sociale, apertura e sviluppo di uno scontro tra le forze di un movimento comunista che si è manifestato in Italia a partire dal ’68/’69 e il nuovo dominio che il capitale sta preparando, uno scontro necessariamente condotto nelle forme della guerriglia; questa, radicandosi nel “movimento”, troverà forze e motivi che non la snaturino nella dimensione separata del politico e non la trasformino in una mera contrapposizione di apparati per la conquista del potere. Del resto i margini di questa possibilità si restringono sempre più; se qualcuno ha pensato di coinvolgere, attraverso la destabilizzazione del sistema politico, sezioni del movimento operaio e del PCI, avviando un processo di guerra civile con ovvie e davvero indesiderabili alleanze anche internazionali, si è dovuto ricredere per due ordini di motivi, primo perché il PCI è sostanzialmente “berlingueriano”, secondo perché le alleanze internazionali non si hanno più, la Cina è davvero vicina! L’ideologia, come si sa, è più lenta della pratica ma le “revisioni” prima o poi non tarderanno.
È opportuno allora chiedersi chi determina i tempi del precipitare della crisi. Solo allorché la guerra sociale avrà dispiegato tutte le sue potenzialità e saranno cadute sotto il maglio della critica tutte le ideologie della transizione al socialismo, solo allora acquisterà finalmente senso compiuto la frase “portare l’attacco al cuore dello Stato”.
Quale potrà essere lo sbocco vincente non lo possiamo prefigurare. Una insurrezione classica? Questo teorizzano alcuni e la cosa non può certo spaventare dei comunisti libertari. Certo, sarà una “insorgenza” che, proprio perché ha cominciato a manifestarsi, bisogna favorire con una continuità di iniziativa che la lotta legale o semilegale non consente più, occorre renderla viva, progetto di scuotimento incessante della normalità quotidiana [la versione di “Anarchismo” aggiunge: a proposito delle insidie del capitale!] nelle condizioni adatte la partecipazione [precipitazione: “Anarchismo”] a ciò che è inaccettabile è la contrapposizione fra guerriglia e insurrezione, l’idea ad esempio che la prima possa pregiudicare la seconda. Pensiamo anche che proprio nell’ipotesi pure improbabile di una improvvisa partecipazione insurrezionale o di una “grande fermata” tipo Maggio francese l’assenza di gruppi agenti preparati militarmente e teoricamente sia o possa essere esiziale all’avvenimento conducendo alla sconfitta o all’autoestinzione. Detroit, Parigi, Danzica, Bologna! scandiscono gli autori di “Insurrezione”. Lasciamo da parte l’analisi che evidenzierebbe la diversità delle situazioni o la loro importanza, vorremmo piuttosto non sentire più questa logica cantilenante: “e gli anni passano, i bimbi crescono, le mamme imbiancano…” per contro è storicamente dimostrabile che l’azione di gruppi armati e/o clandestini ha favorito sia lo sbocco rivoluzionario sia la vittoria nella stretta finale.
Colpire il cuore del dominio: banche e Stato [5]
Le forze della sovversione totale dovranno allora colpire fino in fondo il cuore dello Stato, prima che esso possa risorgere sotto altre vesti. “Più la nostra azione sarà risoluta e rapida, meno sangue scorrerà”. Tanto prima dunque, con più determinazione e assenza di scrupoli democratici si sradicheranno gli elementi vitali dell’organizzazione sociale, tanto meno o per nulla si porrà il problema di un’autorità che regoli, che diriga, che riorganizzi arbitrariamente. L’azione risoluta dei rivoluzionari, la loro iniziativa anche unilaterale è la sola che possa consentire l’autorganizzazione di più larghi strati di proletarizzati e poi della popolazione nel suo insieme. “Il raggruppamento di una parte della gente inizialmente ostile all’autogestione generalizzata è la prima pietra di paragone che permetterà di giudicare la riuscita delle prime misure adottate e delle loro validità per noi… Nondimeno bisogna fare i conti con le condizioni della gerarchia che le abitudini di schiavitù, il disprezzo di se stessi, l’ancoraggio alle inibizioni e il gusto del sacrificio spingono alla propria distruzione e alla distruzione di tutti i progressi della libertà concreta. Ecco perché è utile neutralizzare sin dall’inizio dell’azione rivoluzionaria i nemici dell’interno e i nemici dell’esterno”.
“La rivoluzione della vita quotidiana liquiderà le nozioni di giustizia, di castigo, di supplizio, nozioni subordinate allo scambio e al parcellare. Noi non vogliamo essere dei giustizieri ma dei signori senza schiavi che ritrovino, al di là della schiavitù, una nuova innocenza, una grazia di vivere. Si tratta di distruggere il nemico, non di giudicarlo. Nei villaggi liberati dalla sua colonna, Durruti chiamava a raccolta i contadini, domandava loro di indicare i fascisti e li fucilava immediatamente. La prossima rivoluzione rifarà lo stesso cammino. Serenamente. Noi sappiamo che non ci sarà più nessuno per giudicarci, che i giudici saranno assenti per sempre, perché saranno stati mangiati”.
La rivoluzione, all’inizio, avrà comunque bisogno di molti ostaggi per neutralizzare soprattutto le rappresaglie esterne. Le strutture centrali dello Stato saranno fatte saltare immediatamente decapitando il corpo della repressione-amministrazione e impedendo così non solo una possibile riorganizzazione della controrivoluzione ma anche le tentazioni autoritarie. “In caso di minaccia repressiva distruggere i luoghi e gli ostaggi. Ciò che non può essere espropriato a favore di tutti può essere distrutto; in caso di vittoria ricostruiremo, in caso di sconfitta, accelereremo la rovina della merce”. “Fin dall’inizio del movimento si tratta di impedire ogni ritorno indietro, di bruciare dietro di noi i vascelli del vecchio mondo, aiutando la sparizione delle banche, delle prigioni, dei manicomi, dei tribunali, dei palazzi amministrativi, delle caserme, dei commissariati, delle chiese, dei simboli oppressivi. Come pure gli incartamenti, gli schedari, le cambiali e gli impegni di pagamento, le cartelle delle imposte e ogni altro pezzo di carta di tipo finanziario”.

Un progetto [6]
Ratgeb (Vaneigem) pone a base del suo progetto l’autogestione generalizzata per opera delle assemblee degli operai rivoluzionari che occuperanno le fabbriche nel corso di uno sciopero generale selvaggio destinato ad allargarsi a tutto il territorio capitalizzato e a trasformarsi in insurrezione. Non si tratta di una pura riedizione dei vecchi progetti consiliari in quanto Ratgeb non affida le istanze decisionali alla classe autorganizzata ma agli operai soggettivamente rivoluzionari e non teorizza l’autogestione della produzione mercantile. Egli intende per autogestione generalizzata la riorganizzazione radicale in senso antimercantile e libertario della società. È chiaro a questo punto cosa ci divide da lui: innanzitutto la sua è un’ottica tutta francese che non considera la specificità dello scontro in atto in Italia; secondariamente egli è del tutto estraneo a quelle analisi che pur da angolature diverse hanno ripudiato la fabbrica come polo d’aggregazione dell’insubordinazione sociale e luogo d’organizzazione delle forze della rivolta; in terzo luogo egli rifiuta a tal punto l’idea dell’inglobamento operaio nella logica del capitale e quella della perversione delle forze produttive da attribuire al produttore di fabbrica il ruolo di soggetto storico rivoluzionario e da rifondare conseguentemente il mito dello sciopero generale che proprio l’esperienza del maggio ha rivelato nella sua inadeguatezza. Molto è tuttavia ciò che ci unisce a Ratgeb e a tutti quelli che cercano di vedere per cambiare. La condizione minima è l’accettazione della guerra, la discriminante di fondo la verifica del suo contenuto comunista.
“La fine della merce significa la nascita del dono in tutte le sue forme. Le assemblee di autogestione generalizzata organizzeranno dunque la produzione e la distribuzione dei beni prioritari. Esse registreranno le offerte di creazione e di produzione da un lato, le domande individuali dall’altro. Dai prospetti aggiornati ciascuno potrà prendere conoscenza degli stock disponibili, del numero e della ripartizione delle richieste, della localizzazione e del movimento delle forze produttive… Le fabbriche saranno riconvertite e automatizzate o, nel caso dei settori parassitari, distrutte. Un poco dovunque officine di libera creazione saranno messe a disposizione di tutti i talenti… Le costruzioni inutili (uffici, scuole, caserme, chiese…) saranno, su decisione delle assemblee di autogestione generalizzata, distrutte o preferibilmente trasformate in grandi collettivi, depositi, alloggi di passaggio, labirinti e terreni di gioco… Trasformare i supermercati e i grandi magazzini in centri di distribuzione gratuita…”.
Dunque, abolizione dell’economia, nel progetto di Ratgeb, distruzione delle banche e delle riserve auree. Distruzione immediata del potere che si fonda sul denaro e sull’oro, bisognerà aspettarsi una reazione violentissima della classe media la quale ha riposto tutto questo potere nelle casseforti e nelle cassette di sicurezza delle banche, i proletari al contrario non potranno che guardare con favore a questa misura, in banca essi ci vanno in genere per pagare le cambiali alla classe media. Se la rivoluzione resisterà a questa reazione violentissima, avrà superato la prima barriera. D’altra parte chiediamoci: che alternativa esiste? In alternativa non c’è che il controllo delle banche e di tutto l’apparato economico per “garantire la vittoria finale della rivoluzione”. Ma noi sappiamo che questo definisce la nascita di uno Stato, l’inizio del compromesso, una dinamica che parte dalla presa del palazzo d’Inverno e arriva ai giochi di prestigio della Nep, ai trattati commerciali con gli Stati “capitalisti” e tutto il resto. La rivoluzione porterà in sé una tale svalutazione della moneta che il suo possesso significherà ben poco, diversa è la situazione per le valute pregiate e l’oro di cui si adornano abbondantemente le classi possidenti, si tratterà di rastrellarlo e di distruggerlo o preferibilmente custodirlo da qualche parte in modo tale da poterlo rapidamente distruggere in caso di sconfitta. La sua custodia potrebbe rivelarsi utile per aprirsi qualche breccia nel fronte internazionale della controrivoluzione, il luccichio dell’oro fa miracoli agli occhi dei reazionari.
L’Italia è largamente dipendente dall’economia internazionale in alcuni settori di base fondamentali, quello alimentare soprattutto che nel processo rivoluzionario è decisivo. Per consentire la vittoria dell’insurrezione il controllo delle fonti agricole di approvvigionamento è fondamentale: in tutta la zona centrosettentrionale l’organizzazione politico sociale dei produttori agricoli (dalle aziende agricole ai piccoli proprietari) è funzionale al sistema esistente e interessata al suo mantenimento. L’integrazione produzione-distribuzione delle cooperative agricole, specie quelle emiliane (liberate dalla presa, non solo ideologica, dei picisti) può favorire la rivoluzione se questa non si abbandona ad atti boomerang. Come nota giustamente Ratgeb: “Senza la coscienza dell’autogestione generalizzata, il saccheggio nel migliore dei casi è una forma incoerente di distribuzione. È un atto separato delle condizioni rivoluzionarie in cui la collettività, che crea i beni, li distribuisce direttamente ai suoi membri. Per altro, rischia, causando carestia e mancanza di prodotti utili, di ingenerare confusione negli spiriti e provocare un ritorno ai meccanismi della distribuzione mercantile”.
Ci si dovrà attendere comunque una reazione non molto favorevole dei proprietari medi che dovranno essere sostituiti alla guida delle loro aziende ma non si potrà probabilmente sopravvivere senza un grande movimento migratorio verso la campagna, che coincide del resto col processo, anche questo indispensabile, di riumanizzazione-comunistizzazione del territorio. Questo movimento, esistente già oggi soprattutto fra i giovani e variamente ostacolato, troverà alcune strutture già pronte, utilizzando quanto la classe media ha costruito sulla liquidazione della campagna, in particolare “seconde” case vuote per la quasi totalità dell’anno, oltre alle strutture più antiche, in gran parte abbandonate ma tuttora abitabili. Buona parte della campagna potrà quindi essere rianimata in poco tempo da un movimento che, essendo in gran parte di origine cittadina, si troverà in gravi difficoltà se non avrà già acquisito le nozioni elementari di tecnica agricola e di trasformazione, nozioni che tuttavia, assieme a quelle dell’alimentazione alternativa, si vanno diffondendo. Tutto ciò che, nella sua parzialità viene oggi recuperato e controllato, rivelerà domani le sue possibilità di liberazione, anche a livello alimentare.
Superata questa prima barriera, altre se ne pongono subito. La produzione di massa, concentrata, richiede enormi quantità di energia. Vero è che lo stesso capitalismo tende a deconcentrarsi e costruire unità di media grandezza, vero è che molte produzioni socialmente dannose cesseranno, vero è che lo spreco energetico, specie quello autostradale, cesserà, tuttavia le strutture produttive che bisognerà riconvertire e automatizzare, anche medie e distribuite sul territorio, e quindi nella possibilità di utilizzare tutte le risorse energetiche del territorio avranno comunque bisogno sempre di un’enorme quantità di energia. Il movimento rivoluzionario si oppone, e giustamente, ai progetti nucleari per evitare la definitiva contaminazione della biosfera e la sua militarizzazione completa come compimento del progetto razionalmente e mostruosamente totalitario del capitale. A maggior ragione l’energia nucleare è inconcepibile nel comunismo. L’Italia è diventata la pattumiera d’Europa, vi si trasforma un’enorme quantità di petrolio in prodotti finiti, all’inizio la rivoluzione potrà utilizzare queste enormi riserve, è certo però che sarà facilitata se erediterà strutture che sfruttino altre forme di energia pulita, il vento, il sole, tanto pulite quanto intrinsecamente comuniste e di cui fortunatamente abbondiamo, il che comporterà finalmente una regolazione su tutto il territorio del regime delle acque, devastato dal capitalismo con le note conseguenze di scarsità d’acqua e alluvioni a volontà.
Superata anche questa barriera, se ne pone subito un’altra: la nostra industria è in gran parte industria di trasformazione ma cosa potremo trasformare se ci verranno a mancare le materie prime? Qui bisognerà davvero dare fondo a tutte le nostre risorse, riattivando tutta una serie di attività minerarie che il capitalismo ha abbandonato perché “antieconomiche” cioè improduttive di profitto, specialmente in Sardegna, Toscana, Valle d’Aosta, per non parlare del Sud, spogliato di braccia ma non ancora dei tesori del sottosuolo. Riattivando l’industria estrattiva, eliminando gli sprechi enormi e utilizzando fino all’osso le strutture produttive smantellate sia come materiali sia come mezzi di produzione, avremmo anche qui una buona autonomia che ci consentirebbe di resistere.
“Il lavoro forzato – scrive Ratgeb – produce soltanto merci. Ogni merce è inseparabile dalla menzogna che la rappresenta. Il lavoro forzato produce dunque menzogna, esso produce un mondo di rappresentazioni menzognere, un mondo capovolto in cui l’immagine tiene il posto della realtà. In questo sistema spettacolare e mercantile, il lavoro forzato produce su se stesso due importanti menzogne:
“– primo, che il lavoro è utile e necessario, e che è interesse di tutti di lavorare;
“– secondo, far credere che i lavoratori sono incapaci di emanciparsi dal lavoro e dal salario”.
Il comunismo è finalmente abolizione del lavoro. Ma questo non sarà possibile all’inizio della rivoluzione che parzialmente. Gli ostacoli che il capitalismo ha di fronte nell’automazione di interi processi produttivi non sono di natura tecnica né economica, sono piuttosto di natura sociale: dovrebbe liberare masse di lavoratori e, per non essere travolto dalla loro protesta, dovrebbe assisterli ma in tal modo diffonderebbe una tale disaffezione al lavoro in tutto il tessuto sociale che potrebbe essergli letale; quanti fossero ancora costretti a lavorare nella produzione semiautomatica chiederebbero tutti di essere assistiti, si creerebbe una situazione insostenibile. Il capitalismo pratica l’abolizione del lavoro solo come aumento controllato della disoccupazione. Gli enormi capitali accumulati nella produzione di massa, di fronte a questo blocco, hanno continuato a vagare e a penetrare tutti gli interstizi del sociale e del privato per trarne un profitto. Se la rivoluzione spezza in un punto questa spirale potrà volgere questa massa enorme di mezzi, materiali e uomini oggi investita nel dominio del sociale e del privato alla liberazione sociale del lavoro (che è ben altra cosa dell’automazione della produzione di merci). È una possibilità perfettamente immanente ai processi tecnologici in corso. Certo, all’inizio, solo alcuni processi potranno essere automatizzati, altri dovranno essere riconvertiti e deconcentrati. La deconcentrazione, oltre che permettere l’utilizzo di forme energetiche locali, ecc., oltre che favorire l’automazione, permette una riduzione drastica dell’orario di lavoro e un coinvolgimento collettivo in esso. Pensare ad esempio di ridurre drasticamente l’orario di lavoro in una azienda a grande concentrazione è inimmaginabile; poniamo che si effettuino turni di lavoro di due ore e tutti debbano essere coinvolti nella produzione per impedire che i “piaceri” di tale attività ricadano sempre sulle spalle di una parte. Pensare ad un avvicendamento ogni due ore è assolutamente ridicolo, la dislocazione di masse di persone ogni due ore comporterebbe in fabbrica praticamente una paralisi mentre la città cadrebbe nel caos più totale e i mezzi di trasporto di queste persone diverrebbero in breve una dannazione generale. Tutto ciò che è inconcepibile a livello di grande concentrazione urbana diviene perfettamente possibile a livello di medio-piccole concentrazioni sul territorio. La gente abita nelle vicinanze della produzione e il turno di due ore è perfettamente concepibile. Il coinvolgimento collettivo sarà la molla decisiva all’automazione di queste unità perché sarà la comunità intera a volersi liberare della schiavitù del lavoro, non una sola parte.
La scomparsa dell’economia mercantile porterà con sé l’abolizione di tutte quelle attività fittizie che sono oggi gran parte della “nuova” occupazione, il cosiddetto terziario, e restituirà milioni di individui all’ozio e all’attività sensibile (il cui bisogno rispunta non a caso nella diffusione nel “terziario” degli hobbies più disparati). Sotto questa luce si mostrano bene le contraddizioni di una prospettiva autogestionistica classica, il contrasto, cioè, fra il fittizio insopportabile che permea le mansioni attinenti alla sfera sempre più integrata di produzione e circolazione del capitale e l’idea che questi contabili, questi manovali della cifra, costretti a una ripetitività di gesti insensati, non meno alienante del lavoro a catena o del loro quotidiano riscontro nell’ambito familiare, possano limitarsi ad “occupare” questi luoghi come se vi fosse in essi qualcosa da salvare, da riconvertire, da gestire “autonomamente”. Se il Maggio ebbe il merito di infrangere il mito delle tute blu con l’estensione del movimento delle occupazioni ai lavoratori del “terziario” esso dimostrò pure che l’unificazione del proletariato occupato si era attestata su una linea di comune volontà di partecipazione e di potere dentro l’impresa, insufficiente a mettere in discussione il lavoro e il suo contenuto.
Le moderne metropoli sono l’espressione di un ipersviluppo, il capitale nella sua concentrazione urbana; agglomerato di grattacieli (sedi di centri direzionali, banche, assicurazioni, ecc.) di supermarket, negozi di lusso, ritrovi alla moda, possono ben essere considerati centri del consumo mercantile, non solo in virtù delle trasformazioni intervenute nelle modalità del dominio, ma soprattutto per come queste cittadelle impongono con la loro progressiva estensione il sigillo di una potenza ostentata e irreversibile, di un magnetismo malefico che convoglia in tempi e con funzioni differenti una massa socialmente diversificata ma unita in una presenza forzosa che è consenso passivo (quello attivo purtroppo non manca ma è meno totale e minato di contraddizioni), confluenza inerziale in un “forum” dove i fantasmi della comunità del capitale si sfiorano con sgomento senza potersi conoscere o fingono di incontrarsi in una recita collettiva la cui unica mediazione è la merce. L’imponenza (se vogliamo “l’altezza”) di questi megaedifici non è solo in funzione di una maggiore valorizzazione, di più alti profitti. È un messaggio minaccioso, un costante invito alla resa che l’esperienza quotidiana della permanenza e del passaggio in questi centri di comando del capitale consente di ascoltare in tutta la sua terroristica altisonanza: “Io sono il dio tuo, non avrai altro dio al di fuori di me”.
Ma è la città nel suo insieme che direttamente recita, nella conformazione assunta a partire dall’assunzione borghese della gestione del suo sviluppo, il verbo della sottomissione, della disumanizzazione. Le città sono dunque da distruggere radicalmente, non in quanto possibilità di socializzazione di rapporti umani, ma in quanto totale negazione di tale possibilità. E che il capitale abbia distrutto già da tempo la campagna, sia in termini di dissoluzione delle comunità contadine sia come erosione e contaminazione di un ambito propriamente naturale, è una verità acquisita da tempo.
Il comunismo sarà dunque riumanizzazione del territorio, suo rimodellamento sui bisogni e i desideri della comunità umana realizzata, non semplice integrazione di entità colonizzate irreversibilmente. Non vi sarà più né città né campagna ma una distribuzione diffusa sul territorio la cui scansione in agglomerati urbani o più libere distese sarà determinata dalle libere scelte della comunità e degli individui.
Il comunismo rovescerà come un guanto l’odierna realtà del territorio capitalizzato. Nell’immediato procederà all’espropriazione generalizzata. I manifesti insurrezionali preparati da Babeuf durante la congiura degli uguali erano di una “praticità spaventosa”: “Il Direttorio insurrezionale, considerando che il popolo venne sempre lusingato con vane promesse e che è tempo di provvedere alla sua felicità, decreta quanto segue: Art. 1. Ad insurrezione finita, i cittadini poveri che sono attualmente male alloggiati non rientreranno nelle loro case, ma saranno immediatamente installati in quelle dei pubblici nemici. Art. 2. Si prenderanno nelle case dei ricchi tutti i mobili necessari per arredare convenientemente le dimore dei sansculottes”. La scelta sarà libera ma si dovranno porre i sigilli alle porte degli appartamenti “popolari” non assegnati e si inviterà la popolazione delle case “popolari” a trasferirsi. Istituzioni come lo IACP saranno cancellate come vergogna del passato al pari del concetto stesso di casa popolare. Il centro degli affari sarà raso al suolo immediatamente. Quando la maggior parte degli abitanti avranno abbandonato i casoni dei ghetti, si darà inizio alla loro distruzione. La provvisorietà dello stesso movimento di occupazione-riappropriazione deve essere chiara sin dal primo momento. La logica del “quartiere” e particolarmente del quartiere operaio va combattuta instancabilmente. Essa configura una visione reazionaria e mistificata dello spazio di movimento della lotta rivoluzionaria e sanziona la perpetuazione dell’attuale assetto territoriale.
L’architettura capitalistica compie l’opera dell’urbanistica nel frantumare ulteriormente la comunità sì che si stenta a credere che dietro le migliaia di finestre, di portoni, i chilometri di muraglie vivano qualcosa di più che fantasmi. L’architettura (e questa caratteristica si accentua con l’intensificarsi della guerra di classe) rende visibili le separatezze, la frantumazione della comunità in tante esistenze separate, senza possibilità di incontrarsi che non sia il grande ricatto del contratto sociale, la palestra degli ambienti, delle associazioni, dei ceti, delle classi, dei falansteri di scuola, fabbrica, ufficio.
Il comunismo aprirà queste porte, spalancherà le finestre, abbatterà i muri divisori. La casa come nido dell’autonomia delle passioni, della pluralità dei talenti o delle disposizioni emozionali. La casa grande e luminosa come l’abitazione degli dèi che Marx rivendicava per i proletari e contro il “proletariato”, mai seguito su questa strada di libertà. – “E qual genere di vita stabilirai? – Lo stesso per tutti, farò della città una sola casa, abbattendo tutti i tramezzi in modo da poter andare liberamente l’uno dall’altro”. (Aristofane). A Munster assediata, le porte delle abitazioni erano aperte notte e giorno, per imposizione scrivono gli scrittori di storia e non vi sono prove per affermare il contrario, visto che la storia dei tentativi comunisti è stata quasi sempre scritta dai suoi nemici e che nel caso specifico lo sterminio fu pressoché totale. Dunque è già accaduto che gli assertori dell’abolizione del “mio” e del “tuo”, i soggetti della comunità ritrovata, i proletari che cercavano una nuova vita e non migliori condizioni di lavoro o ritagli di proprietà nell’assetto sociale, facessero di una città una sola casa. In quasi tutti i casi di comunità proletarie o contadine, non ancora piegate dal capitale, la casa di uno era la casa di tutti (e i segni si leggono ancora nel permanere di certe tradizioni). I comunisti riproporranno questa semplice verità libertaria senza schiavi su cui appoggiarsi, senza ideologie religiose o laiche con cui mutilarla.
Il comunismo è riconquista del tempo a una dimensione umana.
Il tempo è ora il tempo del capitale: “il tempo è tutto, l’uomo è nulla, è solo una carcassa del tempo”. (K. Marx). Le “grandi” realizzazioni autostradali e ferroviarie, cioè l’accorciamento dei tempi di percorrenza sono in funzione del ciclo di produzione del valore. Non a caso il mito della velocità e del dinamismo, assieme alla glorificazione del macchinismo, esprime un’esigenza ad una diminuzione del tempo di rotazione del capitale. Il capitale sgonfia e gonfia come una fisarmonica i flussi circolatori nelle sue metropoli secondo i suoi ritmi; il traffico urbano, ad esempio, non è un problema della vita delle città ma una concretizzazione del capitale, che riesce a far apparire quella che è una delle più palesi e mostruose manifestazioni della sua esistenza come una cosa normale, un problema da assessorato municipale.
“Non c’è che il presente che possa essere totale. Un punto di una densità incredibile. Bisogna imparare a rallentare il tempo, a vivere la passione permanente dell’esperienza immediata. Un campione di tennis ha raccontato che nel corso di una gara aspramente combattuta ricevette una palla molto difficile da prendere. All’improvviso egli la vide avvicinarsi al rallentatore, così lentamente che egli ebbe il tempo di giudicare la situazione, di prendere una decisione e di effettuare un colpo da grande maestro. Nello spazio della situazione il tempo si dilata. Nell’autenticità il tempo si accelera. A chi possiederà la poetica del presente capiterà l’avventura del Piccolo Cinese innamorato della Regina dei Mari. Egli partì alla ricerca di lei verso il fondo degli oceani. Quando tornò a terra, un uomo vecchissimo che tagliava le rose gli disse: ‘Mio nonno mi parlò di un ragazzino scomparso in mare che aveva precisamente il vostro stesso nome’”. (Vaneigem, Trattato).
Ognuno soffre quotidianamente le assurde contraddizioni imposte dalla dittatura del cronometro: un intoppo, un ritardo solleva rabbia e proteste, è un tratto di corda che va aggiunto alla punizione della mente e del corpo imposta da questo giudice invisibile. I ritmi del tempo morto (appuntamenti, impegni, scadenze, ecc.) sono tali da esacerbare l’esasperazione. Treni, trasporti urbani ed extraurbani, nulla deve fermare l’ansia di non giungere in tempo. Ma che mi importerebbe del ritardo se tutto il complesso dell’esistenza sociale non mi imponesse di non concedermelo? Se tutto è gratuito, se si può essere pigri, se si può andare lenti, se nulla ci grida “più in fretta”, quegli scorci di vita che sfugge, quelle conoscenze mancate ridivengono una concreta possibilità di rapporti da arricchire. Le sveglie non suonano più, non c’è nulla che crocifigga la libertà di darsi tempi propri. Nel comunismo il tempo sarà tutto a disposizione di questa riconquista del tempo.
“Il sistema mercantile impone le sue rappresentazioni, le sue immagini, il suo senso, il suo linguaggio ogni volta che si lavora per esso, cioè la maggior parte del tempo. Questo insieme di idee, di immagini, di identificazioni, di condotte determinate dalla necessità di accumulazione e di rinnovamento della merce forma lo Spettacolo, in cui ciascuno gioca ciò che non vive realmente e vive falsamente ciò che non è. È per questo che il ruolo è una menzogna vivente e la sopravvivenza un malessere senza fine… I giornali, la radio, la televisione sono i veicoli più grossolani della menzogna. Le immagini che ci dominano sono il trionfo di ciò che non siamo e di ciò che ci scaccia da noi stessi…”. Il comunismo, essendo la realizzazione dei sogni e dei desideri, non saprà che farsene dell’industria dei sogni e dei desideri, così come realizzando il significato finora compiuto dall’espressione artistica renderà priva di significato la riproposizione della stessa, ma chi intenderà realizzare in questo modo le sue fantasie potrà disporre di tutto l’equipaggiamento necessario: “Ciascuno ha il diritto di fare conoscere le proprie critiche, le proprie rivendicazioni, le proprie opinioni, creazioni, desideri, analisi, fantasie, problemi… allo scopo che la più grande varietà possa determinare le migliori possibilità di scontro, di accordi, di armonizzazione. Le tipografie, litografie, telex, radio, televisioni passeranno nelle mani delle assemblee e saranno messe, a questo scopo, a disposizione di ogni individuo… Nessuno si batterà senza riserve se non apprenderà dapprima a vivere senza tempi morti”.
Il comunismo è abolizione di ogni tipo di galera: carceri, manicomi, orfanotrofi, conventi, ospizi, e di ogni istituzione atta a giudicare e a condannare: non devono esistere né tribunali né prigioni “rosse”; rifiuto della concezione stessa di rieducazione, di evidente derivazione pedagogistica legata alla visione della società civile.
Nel corso della guerra civile ci possono essere necessità che possono comportare particolari forme di coazione come il momentaneo concentramento di prigionieri e ostaggi, si provvederà secondo un’alternativa più drastica: eliminazione degli infami della repressione e dei più pericolosi e ignobili rappresentanti della controrivoluzione nel campo politico, economico e istituzionale ed immediato disarmo e dispersione dei quadri medi, dei soldati semplici, inviandoli nei loro luoghi di origine. Che senso avrebbe il mantenimento di un solo carcere sia pure inteso come autodifesa? E quando pure gli si riconoscesse questo senso, non sarebbe meno ignobile dell’antica vergogna. Ogni carcere esistente sarà raso al suolo, sia il suo statuto simbolico, sia la sua memoria di luogo di oppressione, sia quasi sempre la sua forma architettonica volta all’orrore della pena e della reclusione non consentono neppure di pensare a un uso diverso. Lo stesso varrà per questure, tribunali, prefetture e nella maggior parte dei casi per i palazzi amministrativi. Nel comunismo non vi sono asili infantili, né scuole, né università, perché la creazione continua delle proprie condizioni di esistenza accompagna l’apprendimento di una realtà non separata e in continuo mutamento. Il comunismo non si pone il problema dell’educazione dei fanciulli perché la conduzione lungo la strada delle generazioni è un percorso di perversione disumana di cui si perderanno le tracce.
I preti faranno bene ad eclissarsi al più presto: una loro ricomparsa indurrebbe a “deplorevoli” eccessi che nessun storiografo potrà registrare. Alla larga dunque i centri cattolici e le parrocchie, sgomberati o incendiati a seconda dei luoghi o delle situazioni. San Pietro o il Duomo di Milano potrebbero fare un cascatone di prima grandezza. Riguardo agli ospedali il comunismo tende alla salute attraverso la soppressione della medicina. È chiaro che nell’immediato si dovranno potenziare i mezzi per guarire i guasti prodotti dal capitale. Pur nel suo evoluzionismo e nel suo positivismo le indicazioni di Jean Grave hanno ancora la loro validità: “I medici hanno notato che, durante i periodi tumultuosi, le malattie avevano molto minore effetto presso i popoli agitati: e questo è vero perché la lotta, il movimento, l’entusiasmo sviluppano le forze vitali dell’individuo e lo rendono meno vulnerabile ai colpi delle malattie. Il lungo periodo rivoluzionario che l’umanità dovrà attraversare, esaltando nell’individuo tutte le passioni che gli danno vitalità, contribuisce in gran parte a eliminare quei germi morbosi che trascinano l’umanità verso la decadenza. La società futura, col ricondurre l’uomo alle sue condizioni naturali di esistenza, l’emanciperà dai morbi e la ricondurrà sulla via del progresso”.

Utopia e realtà [7]
È difficile negare che il progetto comunista, qui abbozzato in alcune linee essenziali, non viva già oggi nel movimento in atto. Lo abbiamo sfrondato di tante particolarità soprattutto perché gran parte dei problemi che si porranno concretamente non potranno essere risolti che dalla creatività risvegliata: anticiparne oggi le soluzioni, anche solo con l’immaginazione, contraddirebbe in pieno l’assunto che sta al fondo del progetto stesso, un atto di fiducia nella creatività generale, il cui risveglio costituisce il fine e al tempo stesso la condizione della rivoluzione.
Il progetto vive negli uomini che hanno bruciato dietro di sé i vascelli del vecchio mondo, negli assalti alle banche, alle prigioni, ai tribunali, alle caserme, ai commissariati, alle chiese, alla merce, nella cattura e liquidazione degli ostaggi, delle spie, degli infami. La lotta allo Stato, alle sue strutture centrali di repressione, controllo e amministrazione degli uomini avvertirà la rivoluzione dei pericoli immensi della sua sopravvivenza e spingerà domani alla rapida decapitazione di questo apparato mostruoso sia per impedire una possibile riorganizzazione della controrivoluzione sia per impedire ogni tentazione autoritaria. La lotta alla democrazia avvertirà la rivoluzione delle sue immense capacità di “recupero”, l’avvertirà che tanto prima, con più determinazione e assenza di scrupoli democratici si sradicheranno gli elementi vitali dell’organizzazione sociale, tanto meno o per nulla si porrà il problema di un’autorità che regoli, che diriga, che riorganizzi arbitrariamente. L’azione risoluta dei rivoluzionari, la loro iniziativa anche unilaterale è la sola che possa consentire l’autorganizzazione di più larghi strati di proletarizzati e poi della popolazione nel suo insieme. Certo bisogna fare i conti con le condizioni della gerarchia che le abitudini di schiavitù, il disprezzo di se stessi e l’ancoraggio all’inibizione, il gusto del sacrificio spingono alla propria distruzione e alla distruzione di tutti i progressi della libertà concreta. Ecco perché è e sarà utile sin dall’inizio neutralizzare i nemici dell’interno e i nemici dell’esterno. La lotta alla merce libererà infine la rivoluzione dalla transizione, dall’ancoraggio alle leggi della sua riproduzione.
Quanto più radicale è e sarà la negazione, tanto più forte sarà la reazione interna e internazionale, toccheremo con mano l’unità mondiale del modo di produzione capitalistico. Le barriere cui si accennava per essere superate richiedono tempo e la rivoluzione, in qualsiasi punto del pianeta capitale si verifichi, a meno di non moderare la propria radicalità, dovrà affrontare nel migliore dei casi un boicottaggio economico che potrebbe far rimpiangere a molti i bei tempi del dominio della merce. Il capitale ci lascia in eredità il mondo unilateralizzato della divisione del lavoro, la rivoluzione dovrà propagarsi immediatamente all’area indispensabile della sua sopravvivenza e sviluppo, e ciò comporta una linea di sviluppo non ineguale della guerra di classe. La guerriglia deve accelerare i tempi della sua internazionalizzazione se non vuole soccombere alle “leggi” dello sviluppo ineguale.
Il nuovo Stato Europeo accentuerà quella unilateralizzazione e al contempo la repressione delle “provincie” ribelli, occorre che queste rompano l’isolamento propagando la guerriglia in modo che i tempi dello Stato Europeo siano anche i tempi della sua sovversione.

Abolizione dell’economia [8]
Ratgeb (Vaneigem) pone a base del suo progetto l’autogestione generalizzata per opera delle assemblee degli operai rivoluzionari che occuperanno le fabbriche nel corso di uno sciopero generale selvaggio destinato ad allargarsi a tutto il territorio capitalizzato e a trasformarsi in insurrezione. Non si tratta di una pura riedizione dei vecchi progetti consiliari in quanto Ratgeb non affida le istanze decisionali alla classe autorganizzata ma agli operai soggettivamente rivoluzionari e non teorizza l’autogestione della produzione mercantile. Egli intende per autogestione generalizzata la riorganizzazione radicale in senso antimercantile e libertario della società. È chiaro a questo punto cosa ci divide da lui: innanzitutto la sua è un’ottica tutta francese che non considera la specificità dello scontro in atto in Italia caratterizzato da una guerra civile strisciante e da un altissimo livello di repressione statuale che impone una diversa strategia al movimento rivoluzionario: secondariamente egli è del tutto estraneo a quelle analisi che pur da angolature diverse hanno ripudiato la fabbrica come polo d’aggregazione dell’insubordinazione sociale e luogo d’organizzazione delle forze della rivolta; in terzo luogo egli rifiuta a tal punto l’idea dell’inglobamento operaio nella logica del capitale e quella della perversione delle forze produttive da attribuire al produttore di fabbrica il ruolo di soggetto storico rivoluzionario e da rifondare conseguentemente il mito dello sciopero generale che proprio per l’esperienza del Maggio ha rivelato nella sua inadeguatezza. Molto è tuttavia ciò che ci unisce a Ratgeb e a tutti quelli che cercano di vedere per cambiare. La condizione minima è l’accettazione della guerra, la discriminante di fondo la verifica del suo contenuto comunista.
“La fine della merce significa la nascita del dono in tutte le sue forme. Le assemblee di autogestione generalizzata organizzeranno dunque la produzione e la distribuzione dei beni prioritari. Esse registreranno le offerte di creazione e di produzione da un lato, le domande individuali dall’altro. Dai prospetti aggiornati ciascuno potrà prendere conoscenza degli stock disponibili, del numero e della ripartizione delle richieste, della localizzazione e del movimento delle forze produttive… Le fabbriche saranno riconvertite ed automatizzate o, nel caso di settori parassitari, distrutte. Un poco dovunque officine di libera creazione saranno messe a disposizione di tutti i talenti… Le costruzioni inutili (uffici, scuole, caserme, chiese… ) saranno, su decisione delle assemblee di autogestione generalizzata distrutte o preferibilmente trasformate in grandi collettivi, depositi, alloggi di passaggio, labirinti e terreni di gioco… Trasformare i supermercati e i grandi magazzini in centri di distribuzione gratuita, esaminando l’opportunità di moltiplicare per regione i piccoli centri di distribuzione”.
Dunque abolizione dell’economia, nel progetto di Ratgeb, distruzione delle banche e delle riserve auree. Distruzione immediata del potere che si fonda sul denaro e sull’oro, bisognerà aspettarsi una reazione violentissima della classe media la quale ha riposto tutto questo potere nelle casseforti e nelle cassette di sicurezza delle banche, i proletari al contrario non potranno che guardare con favore queste misure, in banca essi ci vanno in genere a pagare le cambiali alla classe media. Se la rivoluzione resisterà a questa reazione violentissima, avrà superata la prima barriera. D’altra parte chiediamoci: che alternativa esiste? In alternativa non c’è che il controllo delle banche e di tutto l’apparato economico per “garantire la vittoria finale della rivoluzione”. Ma noi sappiamo che questo definisce la nascita di uno Stato, l’inizio del compromesso, una dinamica che parte dalla presa del Palazzo d’inverno e arriva ai giochi di prestigio della Nep, ai trattati commerciali con gli Stati “capitalisti” e tutto il resto. D’altronde la rivoluzione porterà con sé una tale svalutazione della moneta che il suo possesso significherà ben poco al pari della sua distruzione, diversa è la situazione per la riserva aurea e di valuta pregiata, queste perché distruggerle? Esse non subiscono la stessa svalutazione e costituiscono un punto di forza di una rivoluzione che non abbia dimensioni, diciamo, europee. Certo dovrà essere custodita in modo da poterla rapidamente distruggere in caso di sconfitta. La nostra economia è molto dipendente dalle altre in alcuni settori di base fondamentali, quello alimentare soprattutto che nel processo rivoluzionario è decisivo. Per consentire la vittoria dell’insurrezione il controllo delle fonti agricole di approvvigionamento è fondamentale: in tutta la zona centro-settentrionale l’organizzazione politico sociale dei produttori agricoli (dalle aziende ai piccoli proprietari) è funzionale al sistema esistente e interessata al suo mantenimento. L’integrazione produzione-distribuzione delle cooperative agricole può favorire la rivoluzione se questa non si abbandona ad atti boomerang, nota giustamente Ratgeb: “Senza la coscienza dell’autogestione generalizzata, il saccheggio nel migliore dei casi è una forma incoerente di distribuzione. È un atto separato dalle condizioni rivoluzionarie in cui la collettività, che crea i beni, li distribuisce direttamente ai suoi membri. Per altro, rischia, causando carestia e mancanza di prodotti utili, di ingenerare confusione negli spiriti e provocare un ritorno ai meccanismi della distribuzione mercantile”.
Ci si dovrà attendere comunque una reazione non molto favorevole dei proprietari medi che dovranno essere sostituiti alla guida delle loro aziende ma non si potrà probabilmente sopravvivere senza un grande movimento migratorio verso la campagna, che coincide del resto col processo, anche questo indispensabile, di riumanizzazione-comunistizzazione del territorio. Questo movimento, esistente già oggi soprattutto fra i giovani e variamente ostacolato, troverà alcune strutture già pronte, utilizzando quanto la classe media ha costruito sulla liquidazione della campagna, ci riferiamo alle “seconde case” vuote per la quasi totalità dell’anno, oltre alle strutture più antiche, in gran parte abbandonate ma tuttora abitabili. Buona parte della campagna potrà quindi essere riabitata in poco tempo e potrà essere rianimata da un movimento che, essendo in gran parte cittadino, si troverà in gravi difficoltà solo se non avrà prima acquisito le nozioni elementari di tecnica agricola e di trasformazione. Nozioni che assieme a quelle dell’alimentazione alternativa si vanno del resto diffondendo.
Nel caso probabile che questo movimento migratorio non si dispieghi con il ritmo necessario, una riserva aurea, ammesso che qualche paese sia disposto a non intralciare la rivoluzione, può essere di grande utilità nella prima fase, soprattutto per garantire che la carestia non uccida la rivoluzione.
Ma superata questa prima barriera, altre se ne pongono subito. La produzione di massa, concentrata, richiede enormi quantità di energia. Vero è che lo stesso capitalismo tende a deconcentrarsi e a costituire unità di media grandezza, vero è che molte produzioni socialmente dannose cesseranno, vero è che lo spreco energetico autostradale cesserà, tuttavia le strutture produttive che bisognerà riconvertire o automatizzare, anche se medie e distribuite nel territorio, e quindi nella possibilità di utilizzare tutte le risorse energetiche del territorio, avranno comunque bisogno sempre di un’enorme quantità di energia. Se la rivoluzione non sarà stroncata dalla carestia, potrà esserlo rapidamente dalla mancanza di energia. Il movimento rivoluzionario si oppone e giustamente ai progetti nucleari per evitare la definitiva contaminazione della biosfera e la sua militarizzazione completa come compimento del progetto razionalmente e mostruosamente totalitario del capitale. A maggior ragione l’energia nucleare è inconcepibile nel comunismo. L’Italia è diventata la pattumiera d’Europa, vi si trasforma un’enorme quantità di petrolio in prodotti finiti, all’inizio la rivoluzione potrà utilizzare queste enormi riserve, se avrà buoni rapporti con alcuni paesi arabi relativamente indipendenti dall’imperialismo americano o sovietico potrà essere anche rifornita per un certo periodo, è certo però che se non erediterà strutture che sfruttino altre forme di energia pulita, dovrà avviarsi immediatamente verso la loro creazione, soprattutto il vento e il sole, tanto pulite quanto intrinsecamente comuniste e di cui fortunatamente abbondiamo, al pari beninteso dell’energia idroelettrica, di cui pure abbondiamo il che comporterà finalmente una regolazione su tutto il territorio del regime delle acque, devastato dal capitalismo con le note conseguenze di scarsità d’acqua accompagnata dal suo contrario, alluvioni a volontà.
Ammesso che anche questa barriera sia superata, se ne pone subito un’altra, la nostra industria è in gran parte industria di trasformazione, ma cosa trasformare se ci verranno a mancare le materie prime? Qui bisognerà dare davvero fondo a tutte le nostre risorse; per i minerali di ferro noi dipendiamo dal terzo mondo, bisognerà intrattenere buoni rapporti con questi paesi se non vogliamo fermare in breve la nostra produzione, a meno di non riattivare tutta una serie di attività minerarie che il capitalismo ha abbandonate non perché improduttive ma solo improduttive di profitto, specialmente in Sardegna, Toscana, Valle D’Aosta, per non parlare di tutto il Sud di cui il capitalismo ha spogliato solo le braccia ma che nasconde tesori nel suo sottosuolo. Riattivando questa parte dell’industria estrattiva ed eliminando gli sprechi enormi e utilizzando fino all’osso le strutture produttive smantellate sia come materiali che come mezzi di produzione, avremo anche qui una buona autonomia che ci consentirebbe di resistere.
“Il lavoro forzato produce soltanto merci. Ogni merce è inseparabile dalla menzogna che la rappresenta. Il lavoro forzato produce dunque menzogne, esso produce un mondo di rappresentazioni menzognere, un mondo capovolto in cui l’immagine tiene il posto della realtà. In questo sistema spettacolare e mercantile, il lavoro forzato produce su se stesso due importanti menzogne:
“– primo, che il lavoro è utile e necessario, e che è interesse di tutti di lavorare;
“– secondo, far credere che i lavoratori sono incapaci di emanciparsi dal lavoro e dal salariato”. (Ratgeb).
Il comunismo è finalmente abolizione del lavoro. Ma questo non sarà possibile all’inizio della rivoluzione che parzialmente. Gli ostacoli che già il capitalismo ha di fronte nell’automazione di interi processi produttivi non sono di natura tecnica né economica, sono piuttosto di natura sociale, dovrebbe liberare masse di lavoratori e, per non essere travolto dalla loro protesta, dovrebbe assisterli ma in tal modo diffonderebbe una tale disaffezione al lavoro in tutto il tessuto sociale che potrebbe essergli letale, oltre al fatto che quanti fossero ancora costretti a lavorare nella produzione semiautomatica chiederebbero tutti di essere assistiti; in breve si creerebbe una situazione insostenibile. Il capitalismo pratica l’abolizione del lavoro solo come aumento controllato della disoccupazione; gli enormi capitali accumulati nella produzione di massa anziché essere investiti nell’abolizione del lavoro vagano alla ricerca degli investimenti più assurdi, penetrano in tutti gli interstizi del sociale e del privato pur di trarne un profitto. Se questo dominio viene spezzato in un punto queste produzioni inutili scompaiono, oltre che liberare il sociale dalla presa della morte, delle forme inorganiche, si può distogliere tutta questa massa enorme di mezzi, materiali e lavoro dal dominio che essi esercitano sul sociale e volgerli alla liberazione sociale dal lavoro. È una possibilità perfettamente immanente nei processi in corso; certo all’inizio solo alcuni processi saranno automatizzati, per altri bisognerà procedere a una riconversione del processo di produzione; la sua deconcentrazione permette una serie di vantaggi, oltre che permettere l’utilizzo di forme energetiche pulite, locali, essa permette una riduzione drastica dell’orario di lavoro e un coinvolgimento collettivo in esso. Pensare, ad esempio, di ridurre drasticamente l’orario di lavoro in un’azienda a grande concentrazione è inimmaginabile, poniamo ad esempio che si effettuino turni di lavoro di due ore e tutti debbano essere coinvolti nella produzione di massa per impedire che i “piaceri” di tale produzione ricadano sempre sulle spalle di una parte, pensare a un avvicendamento ogni due ore è assolutamente ridicolo, la dislocazione di masse di persone ogni due ore comporterebbe in fabbrica praticamente una paralisi mentre la città cadrebbe nel caos più totale e i mezzi di trasporto di queste persone diverrebbero in breve una dannazione generale. Tutto ciò che è inconcepibile a livello di grande concentrazione urbana, diviene perfettamente possibile a livello di medio-piccole concentrazioni di villaggio, paese, piccola città o sezione della grande città. La gente abita nelle vicinanze della fabbrica e un turno di due ore è perfettamente concepibile. Il coinvolgimento collettivo sarà la molla decisiva all’automazione di queste unità perché sarà la comunità tutta a volersi liberare dalla schiavitù del lavoro, non una sola parte.
Le contraddizioni di una prospettiva autogestionistica classica si mostrano bene nel contrasto fra il fittizio insopportabile che permea le mansioni attinenti alla sfera sempre più integrata di circolazione e produzione del capitale e l’idea che in questi contabili, questi manovali della cifra, costretti a una ripetitività di gesti insensati non meno disumanizzante del lavoro a catena in fabbrica o del loro quotidiano riscontro nell’ambito familiare, possano limitarsi ad “occupare” questi luoghi come se vi fosse in essi qualcosa da salvare, da riconvertire, da gestire “autonomamente”. Se il Maggio ebbe il merito di infrangere il mito delle tute blu con l’estensione del movimento delle occupazioni ai lavoratori del “terziario”, esso dimostrò pure che l’unificazione del proletariato occupato si era assestata su una linea di comune ma insufficiente volontà di partecipazione e di potere dentro l’impresa ma non a mettere in discussione il proprio ruolo di salariati, il lavoro, il suo contenuto.
Le moderne metropoli sono l’espressione di un ipersviluppo, il capitale nella sua concentrazione urbana, i centri del consumo e degli affari, agglomerato di grattacieli (sedi di centri direzionali, banche, assicurazioni, ecc.) di supermarket, negozi di lusso, ritrovi alla moda, possono ben essere considerate centri del consumo mercantile, non solo in virtù delle trasformazioni intervenute nelle modalità del dominio, ma soprattutto per come queste cittadelle impongono con la loro progressiva estensione il sigillo di una potenza ostentata e irreversibile, di un magnetismo malefico che convoglia in tempi e con funzioni differenti una massa socialmente diversificata ma unita in una presenza forzosa che è consenso passivo (quello attivo purtroppo non manca ma è meno totale e minato di contraddizioni), confluenza inerziale in un “forum” dove i fantasmi della comunità del capitale si sfiorano con sgomento senza potersi conoscere o fingono di incontrarsi in una recita collettiva la cui unica mediazione è la merce. L’imponenza (se vogliamo “l’altezza”) di questi megaedifici non è solo in funzione di una maggiore valorizzazione, di più alti profitti. È un messaggio minaccioso, un costante invito alla resa che l’esperienza quotidiana della permanenza e del passaggio in questi centri di comando del capitale consente di ascoltare in tutta la sua terroristica altisonanza: “Io sono il signore dio tuo, non avrai altro dio al di fuori di me”. Ma è la città nel suo insieme direttamente che recita, nella conformazione assunta a partire dall’assunzione borghese della gestione del suo sviluppo il verbo della sottomissione e della disumanizzazione. Le città sono dunque da distruggere radicalmente, non in quanto possibilità di socializzazione di rapporti umani, ma in quanto totale negazione di tale possibilità. E che il capitale abbia distrutto già da tempo la campagna, sia in termini di dissoluzione delle comunità contadine sia come erosione e contaminazione di un ambito propriamente naturale, è una verità acquisita da tempo. Il comunismo sarà dunque riumanizzazione del territorio, suo rimodellamento sui bisogni e i desideri della comunità umana realizzata, non semplice integrazione di entità colonizzate irreversibilmente. Non vi sarà più città né campagna ma una distribuzione diffusa sul territorio la cui scansione in agglomerati urbani o più libere distese sarà determinata dalle libere scelte della comunità e degli individui senza alcuna pianificazione, ma secondo un’armonica ricongiunzione fra base e deriva, attraverso l’intelligenza di una ricostruzione delle proprie condizioni d’esistenza basata sulla passione creativa, le risorse tecniche, l’umanizzazione della natura.
Il comunismo rovescerà come un guanto l’odierna realtà del territorio capitalizzato. Nell’immediato si procederà all’espropriazione.
I manifesti insurrezionali preparati da Babeuf durante la congiura degli uguali erano di una “praticità spaventosa”: “Il Direttorio insurrezionale, considerando che il popolo venne sempre lusingato con vane promesse e che è tempo di provvedere alla sua felicità, decreta quanto appresso: Art. 1. Ad insurrezione finita, i cittadini poveri che sono attualmente male alloggiati non rientreranno nelle loro case, ma saranno immediatamente installati in quelle dei pubblici nemici. Art. 2. Si prenderanno nelle case dei ricchi tutti i mobili necessari per arredare convenientemente le dimore dei sansculottes”. L’occupazione immediata degli stabili “migliori” dei senza-casa, da parte dei giovani che intendano abbandonare la forzata coabitazione familiare, da gruppi che ritengano di voler sperimentare forme comunitarie senza i condizionamenti prima imposti dal capitale, da coloro che si trovino costretti in case fatiscenti o comunque oppressive, di quanti per qualsiasi ragione intendano spostarsi dalle precedenti dimore, sarà resa possibile dall’ovvia abolizione di ogni proprietà immobiliare e fondiaria e dallo stroncamento deciso di ogni opposizione al riguardo. La requisizione degli schedari e la controinformazione di zona forniranno le basi per la realizzazione di questo bisogno elementare, che sul piano dell’approvvigionamento dovrà pesare in gran parte sull’espropriazione in grande stile dei ceti possidenti. La scelta sarà libera ma si dovranno porre i sigilli alle porte degli appartamenti “popolari” non assegnati e invitare la popolazione a trasferirsi. Istituzioni come lo IACP saranno cancellate come vergogna del passato al pari del concetto stesso di “casa popolare”. Il centro degli affari sarà raso al suolo immediatamente. Quando la maggior parte degli abitanti avranno abbandonato i casoni dei ghetti si darà inizio alla loro distruzione. La provvisorietà dello stesso movimento di occupazione-riappropriazione deve essere chiara sin dal primo momento. La logica del “quartiere” e in modo particolare del quartiere operaio va combattuta instancabilmente. Essa configura una visione reazionaria e mistificata dello spazio di movimento della lotta rivoluzionaria e sanziona la perpetuazione dell’attuale assetto territoriale, prodotto di uno sviluppo che il comunismo vuole appunto spezzare.
Sembrerebbe impossibile che dietro quelle migliaia di buchi neri e poco illuminati, finestre, portoni e chilometri di muraglie possa vivere qualcosa che non sia un fantasma. Migliaia di esistenze carcerate nei loro sonni angosciosi, nelle loro storie separate, senza possibilità d’incontro che non sia il grande ricatto del contratto sociale, la palestra degli ambienti, delle associazioni, dei ceti, delle classi, dei falansteri di scuola, di fabbrica, di ufficio.
Il comunismo aprirà queste porte, spalancherà le finestre, abbatterà i muri divisori. La casa come nido dell’autonomia delle passioni, della pluralità dei talenti o delle disposizioni emozionali.
La casa grande e luminosa come l’abitazione degli dèi che Marx rivendicava per i proletari e contro il “proletariato” (condizione proletaria e sua autovalorizzazione), mai seguito su questa strada di libertà. Errori di gioventù! – E qual genere di vita stabilirai? – Lo stesso per tutti. Farò della città una sola casa, abbattendo tutti i tramezzi in modo da poter andare liberamente l’uno dall’altro”. – A Münster assediata, le porte delle abitazioni erano aperte notte e giorno, per imposizione scrivono gli storici, e non vi sono prove per affermare il contrario, visto che la storia dei tentativi comunisti è stata quasi sempre scritta dai suoi nemici e che nel caso specifico lo sterminio fu pressoché totale. Dunque è già accaduto che assertori dell’abolizione del “mio” e del “tuo”, i soggetti della comunità ritrovata, i proletari che cercavano una nuova vita e non migliori condizioni di lavoro o ritagli di proprietà nell’assetto sociale facessero di una città una sola casa. In quasi tutti i casi di comunità proletarie e contadine, non ancora piegate dal capitale, la casa di uno era la casa di tutti (e i segni si leggono ancora nel permanere di certe tradizioni). I comunisti riproporranno questa semplice verità libertaria senza schiavi su cui appoggiarsi, senza ideologie religiose o laiche con cui mutilarla.
Il comunismo è riconquista del tempo ad una dimensione umana
Il tempo è ora il tempo del capitale “il tempo è tutto, l’uomo è nulla, l’uomo è solo una carcassa del tempo” (K. M.). Le “grandi” realizzazioni autostradali e ferroviarie, cioè l’accorciamento dei tempi di percorrenza, sono in funzione del ciclo di produzione del valore. Non a caso il mito della velocità e del dinamismo, assieme alla glorificazione del macchinismo, esprime una esigenza ad una diminuzione del tempo di rotazione del capitale. Il capitale gonfia e sgonfia come una fisarmonica i flussi circolatori nelle sue metropoli secondo i suoi ritmi; il traffico urbano ad esempio non è un problema della vita delle città, ma una concretizzazione del capitale, che riesce a far apparire quella che è una delle più palesi e mostruose manifestazioni della sua esistenza come una cosa normale, un problema da assessorato municipale.
“Non c’è che il presente che possa essere totale. Un punto di una densità incredibile. Bisogna imparare a rallentare il tempo, a vivere la passione permanente dell’esperienza immediata. Un campione di tennis ha raccontato che nel corso di una gara aspramente combattuta ricevette una palla molto difficile da prendere. All’improvviso egli la vide avvicinarsi al rallentatore, così lentamente che egli ebbe il tempo di giudicare la situazione, di prendere una decisione e di effettuare un colpo da grande maestro. Nello spazio della situazione il tempo si dilata. Nell’autenticità il tempo si accelera. A chi possiederà la poetica del presente capiterà l’avventura del Piccolo Cinese innamorato della Regina dei Mari. Egli partì alla ricerca di lei verso il fondo degli oceani. Quando tornò a terra, un uomo vecchissimo che tagliava le rose gli disse: ‘Mio nonno mi parlò di un ragazzino scomparso in mare che aveva precisamente il tuo stesso nome’”. (Vaneigem, Trattato). Ognuno soffre quotidianamente le assurde contraddizioni imposte dalla dittatura del cronometro: un intoppo, un ritardo può sollevare rabbia e proteste, è un tratto di corda aggiunto alla punizione della mente e del corpo imposta da questo giudice invisibile. I ritmi del tempo morto (appuntamenti, impegni, scadenze, ecc.) sono tali da esacerbare l’esasperazione, costringono a penare per i più piccoli inconvenienti, rendere tragica la mancanza d’amicizia e d’amore. Treni, trasporti urbani ed extra-urbani, nulla deve fermare l’ansia di non giungere in tempo. Ma che mi importerebbe del ritardo se tutto il complesso dell’esistenza sociale non mi imponesse di non concedermelo? Se tutto è gratuito, se si può essere pigri, se si può andare lenti, se nulla ci grida “più in fretta”, quegli scorci di vita che sfugge, quelle conoscenze mancate ridivengono una concreta possibilità di rapporti da arricchire. Le sveglie non suonano più, non c’è nulla che crocifigga la libertà di darsi tempi propri. Nel comunismo il tempo sarà tutto a disposizione di questa riconquista del tempo. La fasulla contrapposizione del privilegiamento fra mezzi pubblici ed auto private non mette in discussione le direttrici forzate dei tempi e dei luoghi su cui innestare la marcia. Nella trasformata rete viaria del territorio comunista tutto procederà rallentato e quieto, l’impennata veloce definirà una situazione di effettivo bisogno, e per quanti avessero assimilato come bisogno permanente l’andare veloci vi saranno velodromi o ampie distese riservate all’ebbrezza della corsa. Depotenziamento del servizio pubblico con diffusione di piccoli “bus” senza direzioni prestabilite e generalizzazione della pratica di guida, creazione dell’auto elettrica (e tendenziale scomparsa di quelle a benzina) e facoltatività del possesso con un’opera costante di propaganda a favore di prototipi a chiave d’apertura ed avviamento universali in modo che ognuno possa utilizzare ogni mezzo quando e dove gli serva e gliene si presenti l’occasione. Ritorno di mezzi quali biciclette e cavalli.
Il comunismo essendo la realizzazione dei sogni e dei desideri non saprà che farsene dell’industria dei sogni e dei desideri (cinema, televisione, fotoromanzi), così come realizzando il significato finora compiuto dell’espressione artistica renderà priva di significato la riproposizione della stessa, ma chi intenderà realizzare in questo modo, le sue fantasie potrà disporre di tutto l’equipaggiamento necessario.
“Ciascuno ha il diritto di fare conoscere le proprie critiche, le proprie rivendicazioni, le proprie opinioni, creazioni, desideri, analisi, fantasie, problemi… allo scopo che la più grande varietà possa determinare le migliori possibilità di scontro, di accordi, di armonizzazione. Le tipografie, litografie, telex, radio, televisioni passeranno nelle mani delle assemblee e saranno messe a questo scopo, a disposizione di ogni individuo.
“Nessuno si batterà senza riserve se non apprenderà dapprima a vivere senza tempi morti.
“I giornali, la radio, la televisione sono i veicoli più grossolani della menzogna. Non solo essi allontanano ognuno dal vero problema – del ‘come vivere meglio’ che si pone concretamente ogni giorno – ma in più spingono ogni individuo in particolare ad identificarsi con delle immagini artefatte, a mettersi astrattamente al posto di un capo di Stato, di una vedette, di un assassino, di una vittima insomma a reagire come se fosse un’altra persona. Le immagini che ci dominano, sono il trionfo di ciò che non siamo e di ciò che ci scaccia da noi stessi, di ciò che ci trasforma in un oggetto da classificare, etichettare, gerarchizzare secondo il sistema della merce universalizzata.
“Esiste un linguaggio al servizio del potere gerarchizzato. Non solo nell’informazione, la pubblicità, le idee artefatte, le abitudini, i gesti condizionati ma anche in ogni linguaggio che non è posto al servizio dei nostri piaceri.
“Il sistema mercantile impone le sue rappresentazioni, le sue immagini, il suo senso, il suo linguaggio ogni volta che si lavora per esso, cioè la maggior parte del tempo. Questo insieme di idee, di immagini, d’identificazioni, di condotte determinate dalla necessità di accumulazione e di rinnovamento della merce forma lo spettacolo in cui ciascuno gioca ciò che non vive realmente e vive falsamente ciò che non è. È per questo che il ruolo è una menzogna vivente e la sopravvivenza un malessere senza fine”. (Ratgeb).
Nel comunismo non vi sono asili infantili, né scuole, né università, perché la creazione continua delle proprie condizioni di esistenza accompagna l’apprendimento di una realtà non separata e in continuo mutamento. La mistificazione delle scienze finirà nel bidone della spazzatura con tutti i rifiuti ideologici che essa ha prodotto. Il comunismo non si pone il problema dell’educazione dei fanciulli perché la conduzione lungo la strada delle generazioni è un percorso di perversione disumana di cui si perderanno le tracce. Comunque (nell’immediato) è chiaro che i piccoli saranno educati in un clima libertario senza alcuna oppressione familiare o sociale. Essi apparterranno solo a sé e si dovrà favorire questa loro autonomia immediatamente.
Il comunismo è abolizione di ogni tipo di galera: carceri, manicomi, orfanotrofi, conventi, ospizi, ospedali e di ogni istituzione atta a giudicare e a condannare: non devono esistere tribunali o prigioni rosse; rifiuto della concezione stessa di rieducazione di evidente derivazione pedagogistica legata alla visione della società civile. Pericolo che si restauri con la moderna concezione antimanicomiale e anticarceraria dell’affidamento sociale del “minorato” alle strutture territoriali – (CDQ-CDZ) – o dell’invalido curato a spese della collettività fuori dall’ospizio, la vecchia figura medioevale o precapitalista dell’emarginato tollerato e, nel caso dei “pazzi” una sorta di riedizione dello scemo del villaggio. Nel corso della guerra civile ci possono essere necessità che possono comportare particolari forme di coazione come il momentaneo concentramento di prigionieri ed ostaggi, si provvederà secondo un’alternativa più drastica: eliminazione degli infami (in genere ufficiali delle forze di repressione) e dei più pericolosi ed ignobili rappresentanti della controrivoluzione nel campo politico, economico, e istituzionale, ed immediato disarmo, dispersione dei quadri medi, dei soldati semplici, in questo caso con l’invio ai luoghi d’origine o l’immissione progressiva nelle strutture che la rivoluzione comunista verrà a darsi nel corso della lotta. Nel comunismo affermato scompaiono evidentemente tutti quegli elementi, quei meccanismi come il denaro, lo scambio mercantile, la ricerca del successo, la gerarchia dei valori, la disperata affermazione di una identità qualsiasi in un ruolo sufficientemente non sgradevole che determinano sia il cosiddetto “delitto”, sia la sopraffazione quotidiana nella gara del potere, sia la concreta possibilità per le forze controrivoluzionarie di utilizzare le proprie forze contro il movimento rivoluzionario. Se non si può vendere né comprare, se il circolante è scomparso e ha perduto ogni valore, se i beni materiali sono liberamente disponibili per tutti, se non si sa che cosa promettere a chi, quale persona o gruppo di persone potranno agire contro il comunismo, appoggiandosi a chi, con quali prospettive militari (quando la disponibilità delle armi sarà rimessa alla comunità in modo totale, sotto il provvisorio controllo delle frazioni comuniste che si saranno messe effettivamente contro il vecchio mondo)? Che senso avrebbe quindi il mantenimento di un solo carcere, sia pure inteso come autodifesa? E quando pure gli si riconoscesse questo senso non sarebbe meno ignobile dell’antica vergogna. Ogni carcere esistente sarà raso al suolo, sia il suo statuto simbolico, sia la sua memoria come luogo di oppressione, sia quasi sempre la sua struttura architettonica specificamente volta all’orrore della pena e della reclusione non consentono neppure di pensare ad un uso diverso. Lo stesso varrà per questure, tribunali, prefetture e nella maggior parte dei casi per i palazzi comunali ed edifici simili. Quale prostituzione poi potrà esistere con la scomparsa del danaro, la gratuità generalizzata e la liberazione dei rapporti umani e della sessualità?
I preti faranno bene ad eclissarsi al più presto; una loro ricomparsa indurrebbe a “deplorevoli” eccessi che nessun storiografo, nessun recuperatore potrà registrare. Alla larga dunque i centri cattolici e le parrocchie sgomberati o incendiati a seconda dei luoghi o delle situazioni. Il Duomo di Milano o il più modesto ma storicamente infame Duomo di Torino potrebbero fare un cascatone di prima grandezza. Riguardo agli ospedali il comunismo tende alla salute attraverso la soppressione della medicina. È chiaro che nell’immediato si dovranno potenziare i mezzi per guarire i guasti prodotti dal capitale. Non è più tollerabile il sistema di padiglioni e corsie né la divisione in ospedali e cliniche private. Pur nel suo positivismo ed evoluzionismo le indicazioni di Jean Grave hanno ancora la loro validità: “I medici hanno notato che, durante i periodi tumultuosi, le malattie avevano molto minore effetto presso i popoli agitati: e questo è vero perché la lotta, il movimento, l’entusiasmo sviluppano le forze vitali dell’individuo e lo rendono meno vulnerabile ai colpi delle malattie. Il lungo periodo rivoluzionario che l’umanità dovrà attraversare, esaltando nell’individuo tutte le passioni che gli danno vitalità, contribuirà in gran parte a eliminare quei germi morbosi che trascinano l’umanità verso la decadenza. La società futura, col ricondurre l’uomo alle sue condizioni naturali di esistenza, lo emanciperà dai morbi e lo ricondurrà sulla via del progresso”.
[1] Crisi e piano del capitale internazionale: “Anarchismo”
[2] I compiti dell’organizzazione clandestina: “Anarchismo”
[3] Il movimento del ’77 e la guerriglia anarchica: “Anarchismo”
[4] Socialismo o comunismo?: “Anarchismo”
[5] Questo paragrafo non risulta nella versione pubblicata da “Controinformazione”
[6] Questo paragrafo, intitolato da “Controinformazione” Un progetto, nella versione di “Anarchismo” porta il titolo: Abolizione dell’economia ed è profondamente cambiato in molti punti, per cui riteniamo opportuno riportare alla fine il testo completo del paragrafo pubblicato da “Anarchismo”
[7] Questo paragrafo conclusivo manca del tutto nella versione di “Anarchismo”
[8] Versione del paragrafo di cui sopra intitolato: “Il Progetto”, che è stata pubblicata da “Anarchismo” con considerevoli varianti di grande interesse. Per questo motivo la riproponiamo qui di seguito.

Attacco alla sede della DC di Aosta

Nella notte tra il 18 e il 19 giugno 1978 abbiamo colpito la sede della Democrazia Cristiana di Aosta. Questo, come avviso, affinché sia revocato il permesso concesso al movimento sociale italiano di continuare a parlare nelle piazze di Aosta; perché la DC è simbolo di speculazione, sfruttamento, di cui il caso Leone è solo un esempio. La DC vuole farci scendere in piazza per farci scontrare con i fascisti e massacrare dalla polizia. Non permettiamo che altri compagni vengano uccisi in piazza ed allora usiamo queste armi contro i fascisti e coloro che gli permettono di parlare. Quest’azione è la dimostrazione della nostra forza e della nostra intenzione. Non è che l’inizio.

CREARE 10, 100, 1.000 NUCLEI ARMATI.

Il bunker della libertà

[Il 24 febbraio 1978 una bomba al tritolo viene fatta esplodere di notte in Corso Garibaldi 88, a Milano, dove si trovano gli uffici amministrativi del “Corriere della Sera”]

Il “Corriere della Sera” si sta attrezzando per far fronte al nuovo corso della libertà italiana. La libertà, si saranno detti i vari direttori che da un po’ di tempo si avvicendano alla guida di questa prestigiosa macchina della verità, è un valore così prezioso e raro che val la pena di custodirlo anche in un bunker. Oggi i direttori non vengono più scelti in base alla loro perizia grafica ma per la loro esperienza nelle arti della difesa, sono un po’ come gli architetti militari di una volta e la loro fama si misura non dal numero di lettori del “fondo” domenicale ma dal numero di attentati che sono riusciti a sventare. Sono come i procuratori della repubblica, che per custodire la giustizia approntano fortilizi anziché tribunali. Giustizia e libertà vanno assieme nel nostro paese. Si sentono tutti in prima linea e, come tutti i giornali che hanno un certo passato, anche il “Corriere”, per sparare a zero contro i nemici di giustizia e libertà, non usa solo mitragliette ultimo tipo ma anche vecchi tromboni e da questi oggi vengono le bordate più grosse e assordanti. Se Di Bella bada alle fortificazioni, Valiani si permette qualche sortita offensiva (“vecchio” è riferito a trombone) spara veleno e sprizza livore da tutti i pori, tanto da avvelenare con Solferino anche le vie adiacenti. Storico insigne, si crede nei panni del generale Custer, spara agli indiani come se fossero mosche fastidiose, carica e ricarica il suo trombone con la bava alla bocca. I suoi uomini giacciono a pezzi attorno a lui, se ne avvede, è un massacro, ma lui continua imperterrito; è solo ormai a difendere lo straccio della democrazia occidentale. Stanco, lacero, impolverato, par di vederlo nel suo sgabuzzino di via Solferino sparare gli ultimi colpi. Ma scusi, generale, alla fin fine anche questi indiani sono cittadini di questa sua democrazia, ma lui non sente; ma scusi, generale, l’isolamento carcerario è tortura, non misura di sicurezza; ma scusi generale, il fermo di polizia… i supercarceri… È inutile, il suo orecchio di storico è sordo alla verità. Generale, le conviene fare attenzione, sono le ultime pallottole e non arrivano “i nostri”, “Ma come? E gli operai con le loro mani callose… e le cento, duecentomila firme contro il terrorismo?”. “Generale, o sono state estorte o sono fanfaluche del bunker de ‘L’Unità’. Sa, a Torino faticano a mettere in linea dieci soldati!”.
È un mondo, marcio, che sta andando a pezzi. Lo illumina soltanto il congruo assegno mensile ma… spenderlo in un bunker!
Oscuri pennivendoli del “Corriere”, insensibili a ogni mutamento di proprietà, direzione, (ma non di stipendio) Custer vi manderà al macello. Non credetevi al sicuro nel vostro bunker, ben altre fortezze hanno dovuto cedere alla verità e questa non ha mai sdegnato, pur di far breccia, di ricorrere alla dinamite. Chiedetelo al vostro storico insigne, ve lo confermerà!

Ai compagni del movimento

[Distribuito a Bologna nel corso del Convegno sulla repressione del 23-25 settembre 1977]

Noi militanti rivoluzionari dell’organizzazione combattente Azione Rivoluzionaria, ci rivolgiamo a tutti i compagni partecipanti al Convegno di Bologna sulla Repressione per precisare alcune cose in merito alle recenti azioni da noi realizzate a Torino, azioni che sono state strumentalizzate in modo meschino dalla stampa di regime e dalla stampa reggicoda.
La prima cosa da chiarire è la funzione delatrice svolta dal Giornale “Lotta continua” che si trova in mano ad una banda di profittatori della buona fede rivoluzionaria di diversi compagni, i quali credono ancora nella funzione del loro giornale. Le accuse che questo fogliastro ci ha rivolto bastano a qualificare da sole tutta la politica conservatrice che il gruppo dirigente dell’organizzazione Lotta continua intende perseguire, sulla testa dei compagni e fregandosene di tutte le indicazioni di lotta che vengono dal movimento. L’averci chiamati “fascisti” perché abbiamo dato la lezione che meritava ad un servo del PCI e perché abbiamo attaccato il più grosso giornale del padronato industriale, non può più consentire dubbi sulla direzione che Lotta continua intende dare al movimento.
Il secondo punto che vogliamo indicare è che noi militanti combattenti di Azione Rivoluzionaria siamo qui, accanto a voi, per partecipare al Convegno sulla Repressione, perché non ci consideriamo un “partito militare” avulso dalle lotte reali di massa e dai momenti comunitari di chiarificazione. Per questo motivo rigettiamo ogni tentativo – da qualsiasi parte venga – di farci passare per un’altra versione dei partiti combattenti che di fatto, oggi, agiscono nella realtà rivoluzionaria italiana e internazionale.
Il nostro scopo è quello di realizzare una struttura combattente il più possibile aperta verso la base, che consenta la massiccia partecipazione degli sfruttati, degli emarginati, dei non garantiti e di tutti coloro che vogliono attaccare il padronato e i suoi servitori, senza che a filtrare questa base ci sia un partito militare che assuma la direzione delle lotte.
Questo il nostro concetto di lotta armata. Semplice e non demagogico. Oggi la lotta armata non è solo un progetto, ma è una realtà, una realtà che nessun servo del PCI o di Lotta continua potrà mai mistificare.
Abbiamo attaccato il PCI, contro cui tanti rivoluzionari a parole rivolgono delle critiche brucianti, chiamandolo fonte fra le principali della reazione. Solo apparentemente questo può sembrare un ardito salto qualitativo. In pratica non abbiamo fatto altro che realizzare quello che tanti compagni teorizzano.
Il futuro delle lotte sarà sempre più diretto a chiarire sia il ruolo della reazione dei cosiddetti partiti della sinistra, sia il ruolo, non meno reazionario, di quanti (vestendosi da rivoluzionari) intendono cavalcare la tigre dell’autorganizzazione della lotta armata degli sfruttati.

Volantino relativo a una azione realizzata a Milano

Alle ore 5 del 28 settembre [1977] un nucleo di Azione Rivoluzionaria ha interrotto parzialmente le comunicazioni urbane di Milano e diffuso un volantino a nome della Confederazione. Volevamo attirare l’attenzione dei lavoratori sul problema della tortura e dei lager. Ci scusino i compagni se abbiamo vestito, ma solo per un momento, i panni luridi della segreteria confederale. Il solo pensare che gli apparati sindacali e di partito siano sensibili al problema della tortura e dei lager è peccare di grave ingenuità. Se qualche volta, nel passato, hanno agitato questi temi, l’hanno fatto solo strumentalmente; una volta associati al potere esauriscono presto i loro tratti democratici e rivelano il volto livido del potere. Domani non esiteranno a sparare sui lavoratori, come fanno già oggi contro i proletari emarginati, ammazzati come tordi su tutte le strade d’Italia, come fanno contro i compagni rivoluzionari.
Carniti lamenta lo strangolamento della democrazia e del dibattito politico operato dal compromesso storico, i socialisti scalpitano di fronte al puzzo tremendo che emana l’alleanza dei nuovi gesuiti laici con quelli clericali, ma chi può credere alle sincere aspirazioni democratiche di costoro?
Se davvero volevano la difesa, non rivoluzionaria, democratica dei diritti civili, dovevano porre un rifiuto netto agli assassinii quotidiani di proletari, alla tortura, ai lager. Un craxiano, Federico Mancini, è andato all’Asinara. Cosa ne ha ricavato? La sua preoccupazione non è stata la sorte dei detenuti politici e comuni, esposti all’arbitrio sadico delle guardie: l’Asinara ha detto, va abbandonata perché è un carcere insicuro!! Dopo tanti appelli umanitari (per salvare Moro) quando un “socialista” visita un lager a cosa si appella? all’umanità? no, alla sicurezza. Evidentemente per Mancini l’umanità è solo della borghesia, dei democristiani e degli idioti come lui. Ancora una volta sicurezza, ordine, potere sono gli idoli cui si sacrifica tutto, anche la moralità. Vi sarebbe una eccezione costituita dal neo-presidente Pertini. Si è fatto un gran parlare delle qualità morali che spiccherebbero in un uomo i cui orizzonti politici non vanno al di là del CLN di augusta memoria e la cui saggezza filosofica si sarebbe raffinata leggendo la cronaca sportiva di Antonio Ghirelli. Ma è tutto oro quel che luce?
I pennivendoli del regime hanno fatto un sacco di congetture sulle potenze straniere che sarebbero dietro il movimento rivoluzionario; di fronte a tanta malignità avanziamo anche noi una congettura che tanto maligna non è e chiediamoci, come il buon giudice Gallucci, innanzitutto chi aveva interesse alla morte di Moro. Moro era il candidato numero uno alla presidenza della repubblica. Chi erano i suoi concorrenti? Si fanno subito due nomi: La Malfa e Pertini. Pietà cristiana e moralità socialista volevano che i due concorrenti si astenessero almeno dal caldeggiare la linea di intransigenza che portava dritta al sacrificio del loro “amico” e “amato” Moro. La Malfa può dimostrare che le sue tendenze forcaiole risalivano a un periodo precedente alla cattura di Moro. È un’attenuante. Ma Pertini? Non ha scoperto troppo repentinamente la sua vocazione forcaiola? Chi l’ha spinto ad abbracciare il partito della morte, l’ala oltranzista e forcaiola del regime (PCI, PRI, DC) sino ai limiti della rottura col suo partito? forse Berlinguer, in cambio della presidenza? Oppure che si sia detto: “La Presidenza val bene una forca?”.
Altre domande si addensano alla mente. Cosa pensa la famiglia Moro del “socialista” Pertini? Gli regalerebbe una macchina blindata? e ancora: cosa ha detto veramente Craxi a Mitterrand a proposito della posizione anomala di Pertini?
Pennivendoli del regime, voi che siete capaci di trasformare Corrado Alunni nel più grande mostro del secolo, prendete il filo che vi abbiamo porto, ma per carità di fantasia non dite subito che Pertini è il mandante delle Brigate Rosse. Se volete trovare i complici dovete cercarli all’interno del più grande assassino del secolo, “l’uomo che uccise Aldo Moro”.
Compagni, facciamo nostre le indicazioni che ci vengono dai compagni detenuti all’Asinara. Essi scrivono: «In tutta l’area metropolitana il combattente antimperialista prigioniero è considerato un ostaggio nelle mani dello Stato che tende a sviluppare nei suoi confronti una duplice azione: da un lato un trattamento orientato alla progressiva distruzione della sua volontà, personalità, identità politica attraverso l’isolamento. Dall’altro il suo utilizzo propagandistico in funzione “deterrente” verso le forze rivoluzionarie e proletarie. Su tutta l’area metropolitana a questo “trattamento di guerra” il movimento rivoluzionario è impegnato a rispondere “con azioni di guerra”».
Compagni, rispondiamo al tentativo dello Stato di annientarci con altrettante misure di annientamento. Non credano i fautori della linea dura di nascondersi dietro l’ombra del generale Dalla Chiesa, né credano i fautori della linea morbida di rifugiarsi dietro le “necessità del quadro politico”. Cadranno tutti, travolti dalle macerie dei loro lager di Stato.

IL FALSO VOLANTINO DELLE CONFEDERAZIONI SINDACALI
PROCLAMATA DALLA FEDERAZIONE C.G.I.L. C.I.S.L. U.I.L. GIORNATA PROVINCIALE DI LOTTA CONTRO LA TORTURA, LE CARCERI SPECIALI E LA SVOLTA REAZIONARIA CHE SI VUOLE IMPORRE AL MOVIMENTO SINDACALE.
LAVORATORI,
la segreteria della Federazione CGIL/CISL/UIL vi chiama ad una giornata di lotta contro la svolta reazionaria in atto nel Paese.
Facciamo nostre le parole di Pierre Carniti: “Siamo in presenza di una svolta che tende a strangolare la Democrazia e il dibattito politico, e far divenire lo Stato onnipotente, di un tentativo, da parte di alcuni partiti d’imporre una svolta moderata al Sindacato”. Una volta che il partito si è fatto Stato, è nella sua logica perversa trasformare il Sindacato in una cinghia di trasmissione. Di qui “il ridimensionamento della contingenza, la regolamentazione dello sciopero e le precettazioni”, di questo passo ci avviamo a una situazione tipo est-europeo, in cui gli apparati di partito dominano incontrastati con la polizia e l’esercito, su milioni di lavoratori e la dissidenza segregata nei manicomi e nelle carceri, viene praticamente annientata.
La Segreteria Confederale non può non denunciare i pericoli insiti in questo processo che ha di fatto portato anche in Italia alla legalizzazione della tortura contro i dissidenti. I fatti di Puteano, di Alcamo, di Roma, fra gli altri, stanno a dimostrare come la tortura stia divenendo prassi normale contro i dissidenti.
I Sindacati non possono, inoltre, ignorare quanto sta avvenendo nelle carceri. Non possono accettare le distinzioni a dir poco bizantine, fra carceri punitive avanzate e lager a proposito dell’Asinara. Infatti, quando un detenuto è costretto in una cella 22 ore su 24 e le due ore d’aria le passa in un cubicolo coperto da una rete metallica tipo gabbia vietnamita, si trova in un lager o in un carcere punitivo? Se ogni protesta viene punita con pestaggi fino ai limiti dell’esistenza, cosa dovremo pensare? Prima di parlare di lager dovremo forse attendere catene di “suicidi” come a Stammhein? In Italia abbiamo già avuto l’esperienza del manicomio di Aversa.
Continuare a tacere su questi punti significherebbe dare il proprio avallo a questa svolta reazionaria i cui fautori sono purtroppo presenti all’interno del Movimento Sindacale.
Continuare, infatti, a negare l’esistenza di detenuti politici in Italia, come è stato fatto da certi leader sindacali, significa appoggiare questo processo liberticida, oltre che negare l’evidenza; infatti, se non esistono detenuti politici, che senso ha la legge che li discrimina dai detenuti comuni e richiede per essi un trattamento speciale?
A forza di negare l’evidenza ci troveremo coinvolti in un processo che con la libertà distrugge anche la verità.
COMPAGNI LAVORATORI, NOI VI CHIAMIAMO AD UNA GIORNATA DI LOTTA PER L’ABOLIZIONE DELLA TORTURA, DEI LAGER, PER RINTUZZARE QUELLA SVOLTA REAZIONARIA CHE VUOLE UN MOVIMENTO SINDACALE SUCCUBE, INERTE OLTRE CHE CIECO E OTTUSO.
SMASCHERIAMO I REAZIONARI CHE SI ANNIDANO NEL MOVIMENTO SINDACALE E VOGLIONO LA SUA MORTE!
ISOLIAMO GLI STRANGOLATORI DELLA DEMOCRAZIA E DEL DIBATTITO POLITICO!
METTIAMO IN CONDIZIONI DI NON NUOCERE LE SPIE DEL NUOVO STATO!
La Segreteria milanese della
Federazione CGIL-CISL-UIL

Comunicato sull’attacco contro la costruzione delle nuove carceri di Firenze e Livorno

Oggi 17 luglio 1977 sono state colpite e sabotate le costruzioni di nuove “carceri-modello”. Veri e propri lager, (tombe per i vivi in cui viene praticato l’annientamento totale del prigioniero) contemporaneamente a Firenze e a Livorno, città in cui si è resa possibile l’azione tecnico-operativa.
Con il preciso intento di individuare, rendere manifesto, e controbattere il criminale progetto di ristrutturazione capitalista, che risolve l’antagonismo di classe con l’annientamento di proletari, rivoluzionari e oppositori al suo piano omicida. I compagni riaffermano l’unità del movimento di classe nella solidarietà e nella resistenza armata con il proletariato lagherizzato dal capitale e dallo Stato.
Contro il riassetto capitalistico, contro la detenzione–sterminio. Libertà ai compagni prigionieri.