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Solidarietà con i prigionieri politici spagnoli in sciopero della fame per il raggruppamento! Carcere di Marino del Tronto, documento di Pietro Coccone e Giovanni Senzani

Dal 30 novembre 1989 i prigionieri dei GRAPO e del PCE(r) sono in sciopero della fame per ottenere il raggruppamento. Da un mese circa anche i prigionieri dell’ETA sono scesi in sciopero per lo stesso obiettivo.

Cinque prigionieri dei GRAPO e del PCE(r) si trovano da qualche tempo in stato di coma.

In Spagna viene praticato un black out totale su questa lotta prolungata per consentire al governo Gonzales di portare avanti la sua politica di distruzione dei collettivi rivoluzionari che in carcere continuano a lottare, ad affermare la loro identità comunista e a sostenere la lotta armata.

E lo stesso avviene in tutta l’Europa Occidentale dove ai prigionieri rivoluzionari vengono riservate condizioni di prigionia “speciali” per fiaccarne la resistenza. Il modello controrivoluzionario europeo è uguale in tutti i paesi: risocializzazione/abiura o annientamento!

Questi sono i binari su cui si sviluppa sempre più la politica carceraria in Germania come in Francia e Belgio, in Italia come in Spagna e Portogallo, in Irlanda come in Turchia…

Come dicono i compagni dei GRAPO e del PCE(r) la strategia europea occidentale è semplicemente un tentativo di «abolire i prigionieri politici in vista del 1992». Come nello sciopero dei prigionieri GRAPO e PCE(r) del 1981 venne ucciso il compagno Juan Crespo Galende, così oggi il governo socialista spagnolo si mostra pronto ad altre «soluzioni finali».

La lotta dei prigionieri spagnoli per il raggruppamento è parte dello scontro rivoluzionario nell’area europea, ed è quindi parte della nostra lotta in carcere e fuori dal carcere. Da anni ormai la contraddizione dei prigionieri della guerriglia è una realtà che l’imperialismo vuole seppellire in tutta l’Europa. Ma è anche un terreno stabile di lotta e di mobilitazione del movimento rivoluzionario. Sempre più la solidarietà militante è una pratica attiva per rafforzare la resistenza dei prigionieri rivoluzionari e, contemporaneamente, per sviluppare la lotta contro l’imperialismo.

In Germania, di fronte alla mobilitazione di massa a sostegno della lotta dei prigionieri della RAF e della Resistenza per il raggruppamento, lo Stato tedesco ha cercato di innalzare lo scontro per portare all’estremo il braccio di ferro contando sul ricatto di alcuni compagni morti.

In Francia continua l’isolamento dei compagni di Action Directe e dei prigionieri rivoluzionari che da anni si battono contro una politica governativa che li vuole distruggere.

In Italia, ad una politica di risocializzazione sempre più spinta sulla base delle disposizioni premiali della legge di riforma si abbina un attacco diretto a quei compagni e a quelle situazioni collettive che continuano a sostenere la lotta armata. In questo paese il baratto e la svendita della propria identità sono la normalità che il Ministero cerca di imporre. Anche con la forza delle sue guardie. Come è successo il 30 gennaio scorso nel carcere di Novara con l’attacco premeditato di uno squadrone di guardie contro il “blocco B” e il relativo pestaggio di tutti i compagni «rei di non farsi risocializzare».

E non è diverso lo scontro in atto oggi nelle carceri sparse nel territorio europeo.

Contro questa politica del baratto/svendita e dell’annientamento noi riaffermiamo la nostra identità di comunisti in lotta contro questo Stato, contro questo sistema di sfruttamento e repressione imperialista. E ribadiamo con forza la nostra solidarietà militante internazionalista verso i compagni dei GRAPO e PCE(r) e dell’ETA, come verso tutti i prigionieri rinchiusi nelle carceri imperialiste dell’Europa Occidentale.

Per questo il 18 febbraio abbiamo fatto una fermata all’aria assieme ad altri prigionieri.

La solidarietà è un’arma!

Pietro Coccone, Giovanni Senzani

Carcere di Marino del Tronto, 18 febbraio 1990

Grazie di cuore alla democrazia italiana! Comunicato di Hamidan Karmawi, militante rivoluzionario arabo-palestinese

Nell’ultimo decennio la questione araba ed in particolare quella palestinese ha varcato i confini del Medio Oriente per riproporsi con forza a livello internazionale ed in modo particolare in Europa la quale si è assunta in prima persona il ruolo di mediatore del “conflitto”, intenzionata a non delegare più la difesa dei propri interessi nell’area agli Stati Uniti. Intervento che assume un peso sempre maggiore anche in conseguenza del fatto negativo del disimpegno diplomatico sovietico in tutta l’area.

Quest’impegno diretto non poteva non riprodurre le contraddizioni derivate dall’intervento sul campo fin dentro il cuore degli Stati che l’hanno prodotto e così gli anni ’80 hanno segnato di fatto il massimo livello di internazionalizzazione della rivolta arabo-palestinese contro le politiche imperialistiche in Medio Oriente.

Il governo italiano assume un ruolo di interlocutore privilegiato in questo progetto europeo di pacificazione forzata in quanto storicamente è il meno compromesso fra gli Stati europei proprio perché la sua politica coloniale non ha interessato direttamente questa zona. Questo gli permette di avere atteggiamenti amichevoli, dall’alto di una relativa, quanto formale, neutralità politica che è fatta sì di aiuti al Popolo Palestinese, ma è anche fatta di forniture di armi al “regime sionista”, le stesse armi con le quali si consuma il genocidio del Popolo Palestinese. In realtà l’intervento diretto del governo italiano nella complessa situazione arabo-palestinese fa sì che il governo italiano si faccia interprete dei vari progetti di pacificazione che, per essere consoni agli interessi imperialisti nell’area, devono tradursi in una imposizione di risoluzioni da fare accettare alla resistenza palestinese ad ogni costo. Così, se fino ai primi anni ’80 la neutralità italiana si traduceva in una relativa non ingerenza verso le forme di auto-organizzazione nella resistenza palestinese, verso la fine della prima metà degli anni ’80 questo atteggiamento muta radicalmente e nel volgere di poco tempo l’Italia diventa il paese europeo con il maggior numero di militanti della resistenza palestinese imprigionati.

All’aumento dei prigionieri arabo-palestinesi nelle carceri italiane, corrisponde anche un salto di qualità nel loro trattamento. Se prima i pochi prigionieri avevano di fatto un riconoscimento politico, sia per quanto riguarda la reale effettuazione della pena che per lo stesso trattamento carcerario, in seguito questo informale status di prigionia politica cede il passo ai vari accordi internazionali che, equiparando le lotte di liberazione in ogni parte del mondo alla categoria del terrorismo, utile a nascondere le ragioni sociali e politiche di tali lotte, fa sì che i prigionieri comincino ad essere usati come veri e propri ostaggi e come forma di pressione contro la resistenza palestinese. Per la prima volta i prigionieri arabo-palestinesi vengono immessi nel circuito delle carceri speciali e sottoposti ai peggiori trattamenti di distruzione psico-fisica che di fatto integrano e prolungano le tecniche di annientamento messe in atto nei campi di concentramento sionisti. Il trattamento dei prigionieri tende a diventare il mezzo per condizionare le scelte politiche delle diverse organizzazioni della resistenza palestinese nella sua lotta di liberazione. Inoltre l’individualizzazione del trattamento messo in atto negli speciali, trasforma questi luoghi in laboratori in cui sperimentare le tecniche di frantumazione della resistenza palestinese. In pratica le sperimentazioni vengono effettuate immettendo negli speciali i militanti rivoluzionari per verificare, dividere e catalogare le reazioni dei prigionieri in relazione alla provenienza organizzativa ed accumulare conoscenza controrivoluzionaria utile non solo a differenziare più scientificamente i prigionieri ma anche ad usare questa conoscenza al fine di poter operare chirurgicamente nel corpo palestinese in rivolta.

In questo quadro si inseriscono tutte le forme di compressione al fine di sperimentare anche contro di noi i sistemi, già affinati precedentemente, atti a creare artificiosamente la figura del dissociato.

Il carcere speciale di Livorno ha indubbiamente questo tipo di funzione. La relativa concentrazione di militanti rivoluzionari arabo-palestinesi (siamo in cinque di cui tre nella sezione speciale) lungi dall’essere una concessione per far riunire in un carcere i prigionieri politici arabi, come abbiamo anche chiesto più volte, corrisponde al tentativo di creare contraddizioni tra di noi ed indebolire così la nostra identità. La gestione rigidamente militare di questo carcere non è nient’altro che la versione occidentale dei campi di concentramento di Ansar, Ashkelon, ed altri… La dissacrazione dei simboli della nostra lotta, della nostra cultura, le aggressioni, il rifiuto opposto alle più elementari richieste, l’asfissiante e disumano controllo quotidiano e persino la registrazione scritta di ogni attimo dell’ attività giornaliera di ogni singolo prigioniero, sono solo alcuni aspetti del trattamento riservatoci. Questo trattamento però, contrariamente ai suoi intenti, sta creando in noi solo una maggiore coscienza di tutto ciò che si nasconde dietro la maschera amica del governo italiano, e per questo noi non possiamo far altro che ringraziare il Ministero di Grazia e Giustizia, perché di questa nuova coscienza saprà fare tesoro il Popolo Palestinese nella scelta dei suoi amici.

Nasconderci in questi sepolcri o disperderci nelle prigioni o isolarci totalmente come nelle celle di Marassi (il carcere di Genova) non servirà a nascondere, disperdere e isolare la lotta del Popolo arabo-palestinese di cui siamo parte integrante.

Intifadah fino alla vittoria!
Solidarietà con il popolo palestinese!
Solidarietà con il popolo libanese!
Unità del fronte antisionista-antimperialista
Unità del movimento di liberazione araba!
Onore ai martiri di Yarun (Sud Libano)
Onore agli eroi di Ismailia (Egitto)

Hamidan Karmawi, Militante rivoluzionario arabo-palestinese

Carcere speciale di Livorno

15 febbraio 1990

Napoli: Lottare insieme. Alcune compagne del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta del carcere di Latina. Susanna Berardi, Anna Cotone, Natalia Ligas, Rosa Mura, Caterina Spano, Maria Pia Vianale

Nella prima metà di febbraio si è manifestata un’iniziativa di forte solidarietà a fianco dei compagni del “Blocco B” di Novara da parte dei prigionieri rivoluzionari nelle carceri speciali italiane.

La risposta del corpo prigioniero al pestaggio del 30 gennaio è stata un’azione piena del senso di collettività, del senso di lotta per l’identità rivoluzionaria e contro ogni progetto di annientamento. Un’iniziativa, inoltre, consapevole del significato politico di quello che è stato messo in atto contro i nostri compagni e allo stesso tempo diretto contro tutti noi.

Insieme a noi si sono mossi compagni e collettivi del movimento rivoluzionario. È stato un fatto importante, ciò dimostra che il significato complessivo della truppa di Novara è chiaro a molti oltre che a noi.

In quest’ultimo anno, qui in Italia, abbiamo visto gli “sgoccioli politici” dell’ipotesi soluzionista e affini, che ha svelato il suo definitivo carattere di “commercio” seppur rivestito di una supposta dignità. Si è concluso il processo di Insurrezione a cui lo stato voleva dare un carattere di “fine di un ciclo” per calare una definitiva cortina di silenzio sulla storia rivoluzionaria degli ultimi venti anni. È stato anche fatto giocare il dato degli arresti dei compagni BR-PCC per accreditare questa presunta “chiusura di un ciclo”; a tal fine si adoperano – per la verità in modo abbastanza fallimentare – tutte le ipotesi di lettura depoliticizzate della storia, del presente e del futuro della guerriglia metropolitana.

È chiaro dunque, che i fatti di Novara si inscrivono in questo contesto e nel contesto più ampio di cambiamento che si sta verificando nella gestione della crisi economica, politica e sociale della borghesia imperialista in questa fase, del rinnovarsi qualitativo delle tensioni in ogni ambito proletario e delle spinte verso la politicizzazione che l’antagonismo di classe genera.

La qualità dell’attacco dispiegato che a vari livelli si sta attuando contro ogni espressione dell’antagonismo di classe in realtà non paga abbastanza per la loro necessità di “governo” delle contraddizioni. Essa è solo annientamento per la classe, ma non riesce a rafforzare la loro normalizzazione.

Essa tradisce solo la loro paura, e la loro possibilità è unicamente quella di intervenire frontalmente prima che le contraddizioni sociali, l’antagonismo di classe e la politicizzazione delle lotte si uniscano ed evolvano verso un nuovo e diverso sviluppo.

Tradiscono inoltre la paura di fronte all’esistenza della guerriglia in Europa Occidentale, che da venti anni è la realtà che ha aperto una falla irreversibile nel cuore del sistema imperialista e che rappresenta in maniera sempre più unitaria la prospettiva di emancipazione sociale del proletariato metropolitano.

Allo stesso modo i prigionieri rivoluzionari in Europa Occidentale – e la loro presenza politica e militante, la loro lotta – incarnano, per gli stati imperialisti, una contraddizione politica da annientare che rimanda sempre alla natura inconciliabile dello scontro tra le classi e al divenire del processo rivoluzionario nella metropoli imperialista. Per questo nelle carceri, in questi anni, si sono visti all’opera diversi progetti miranti ad attaccare l’identità dei prigionieri rivoluzionari, a “risolvere” in qualche modo la contraddizione che rappresentano. Ovunque, in Europa, nelle sezioni speciali vive l’attacco della Borghesia Imperialista e ovunque c’è la lotta contro l’annientamento.

Dal 30 novembre nelle carceri spagnole i compagni del PCE(r), dei GRAPO e dell’ETA sono in lotta con uno sciopero della fame. Il loro obiettivo concreto è riottenere il raggruppamento e porre fine alla politica di dispersione dello stato spagnolo nei loro confronti. Ma ciò che è in gioco è la liquidazione politica dei prigionieri rivoluzionari nel contesto politico di riunificazione europea che ha nel 1992 una tappa determinante. Poiché la condizione determinante per il “salto” alla globalizzazione della borghesia imperialista europea è il drastico ridimensionamento della lotta rivoluzionaria; e dunque anche della soggettività dei prigionieri rivoluzionari.

A 90 giorni di sciopero della fame di circa una cinquantina di compagni, il governo Gonzales ne sta prolungando l’agonia con l’uso continuato dell’alimentazione forzata e nessuna disponibilità a rispondere alle loro richieste, puntando in questo modo a imporre un rapporto di forza schiacciante su questo piano. È l’insieme delle politiche controrivoluzionarie al livello di integrazione raggiunto oggi che sta pesando sulla lotta e sula pelle dei compagni.

I compagni spagnoli sono parte del patrimonio di resistenza contro l’annientamento e della lotta per l’identità in Europa Occidentale. È necessario rompere il black-out attorno a loro e rompere la situazione di stallo che si è creata.

Nel carcere di Marino alcuni compagni hanno fatto una fermata all’aria in solidarietà militante internazionalista con la lotta dei compagni spagnoli.

Dalle carceri tedesche e francesi ancora una volta i militanti rivoluzionari sono mobilitati al loro fianco, per fare pesare di fronte alla controrivoluzione integrata la coesione dei rivoluzionari.

Oggi la lotta dei prigionieri rivoluzionari in Europa Occidentale è anche lotta per costruire solidarietà internazionalista come elemento politico determinante per il dibattito unitario e una comune prospettiva politica rivoluzionaria.

Uniti si vince

Lottare insieme

Solidarietà e forza per i compagni prigionieri del PCE(r), dei GRAPO e dell’ETA.

20 marzo 1990

 

Per una conoscenza critica dei lineamenti essenziali della “perestroika”. Carcere speciale di Novara, Blocco B – Il militante delle BR-PCC Sandro Padula

Premessa

Secondo i consiglieri di Gorbaciov la “perestroika” rappresenterebbe una serie di processi interdipendenti che si manifestano a livello economico, sociale, politico, culturale e scientifico.

Indubbiamente, però, le basi fondamentali della “perestroika” risiedono nella ristrutturazione economico-produttiva con cui dall’esaurito “modello estensivo” si dovrebbe passare ad un “modello intensivo” di utilizzo delle risorse naturali e della forza-lavoro. Per questo motivo il presente articolo sarà incentrato sull’analisi dei lineamenti essenziali della teoria e della prassi della “perestroika” rispetto ai problemi economici.

“Perestroika”, metodi gestionali dell’economia e sistema produttivo

Tanto per cominciare, la “perestroika” prevede una ristrutturazione economico-produttiva caratterizzata dal passaggio da metodi gestionali prevalentemente “amministrativi”, che solo in parte vennero limitati con le “riforme economiche” degli anni ’60, ad altri particolarmente basati sulla valorizzazione e sullo sviluppo dei criteri e dei rapporti “monetario-mercantili”.

La pianificazione tende a divenire più flessibile ed a combinarsi con una più profonda mercificazione dei valori d’uso. Con una determinata combinazione fra “piano” e “mercato”, mentre il sistema delle commesse statali viene notevolmente ridotto, la distribuzione dei mezzi di produzione cessa di essere centralizzata e vede accrescere il proprio grado di monetizzazione, ad esempio attraverso rapporti diretti fra le imprese produttrici di mezzi di produzione e le imprese acquirenti, oppure persino con lo sviluppo di rapporti mediati da agenzie di commercio all’ingrosso.

La “perestroika” marcia quindi sulle gambe di una più ampia autonomia economica dei principali organismi produttivi: l’impresa, il complesso di aziende, il kolchoz, la cooperativa, ecc. Questi organismi, che dovrebbero compiere un salto tecnologico complessivo per creare le basi di un “modello di sviluppo“ caratterizzato da un’alta produttività del lavoro e da un certo risparmio nell’utilizzo delle materie prime, puntano a sottoporre se stessi al pieno dominio dei soli criteri quantitativi del calcolo economico, cioè dei soli criteri di “razionalità” economica i cui parametri fondamentali sono rappresentati dagli aspetti monetari e mercantili.

Gli organismi produttivi dovrebbero inoltre adottare un “sistema di autofinanziamento e di autogestione”, ma in questo sistema l’autogestione sarebbe quasi simile a quella del “modello jugoslavo” e quindi, di per sé, non potrebbe portare allo sviluppo di una effettiva autogestione sociale e politica. A ciò bisogna aggiungere che, mentre una delle prime riforme connesse alla “perestroika” garantiva ai lavoratori il diritto di eleggere i dirigenti delle imprese, attualmente i manager vengono nominati e non più eletti.

Ad ogni modo, l’esperienza storica dimostra che l’autogestione intesa in senso strettamente economico-aziendale non garantisce di per sé un effettivo controllo dei lavoratori e della società rispetto alle condizioni concrete della produzione e della vita quotidiana e collettiva.

Precisato questo, una delle novità più importanti che emerge con l’adozione del suddetto “sistema di autofinanziamento e di autogestione” è quella secondo cui lo Stato non ha più il dovere di aiutare le imprese statali in difficoltà. In pratica un’impresa statale incapace di rispettare i propri impegni ed incapace di superare eventuali crisi non avrebbe la garanzia di ricevere aiuti statali. Al tempo stesso, anche per contrastare la tendenza alla crescita della disoccupazione, i “collettivi di lavoro” possono prendere in affitto dallo Stato l’impresa, diventando proprietari del prodotto finito, e possono pure diventare proprietari dell’impresa stessa avuta in leasing (legge sull’affitto del 23-11-1989, in vigore dal 1° gennaio ’90).

La proprietà statale, invece, tende ad essere ridotta complessivamente dall’odierno 80-85% a circa il 30%. La legge sulle forme di proprietà, approvata il 6 marzo ’90, prevede il diritto alla proprietà di Stato, collettiva, cooperativa, azionaria e quella dei “cittadini”, nonché tre diversi livelli: federale (dell’URSS), repubblicana e comunale. Questa legge stabilisce che le risorse naturali sono “patrimonio inalienabile dei popoli abitanti su un dato territorio”; inoltre prevede “la proprietà individuale” di una serie di beni (case, piccoli appezzamenti di terreno, azioni, ecc.), il connesso diritto di eredità e compravendita, nonché il diritto alla proprietà individuale di piccole-medie imprese e al relativo potere del proprietario di “concordare con un altro cittadino l’impiego del suo lavoro (manodopera)… purché ne sia garantito il pagamento, le condizioni di lavoro e i diritti economici e sociali previsti dalla legge”. Implicitamente viene esclusa la “proprietà individuale” delle grandi imprese. Queste ultime, infatti, dovrebbero rimanere statali, così come le industrie della difesa, quelle dell’energia e i servizi di particolare utilità sociale come quello ferroviario.

Rispetto all’agricoltura il 28 febbraio 1990 è stata approvata una legge che sancisce il diritto dei contadini di scegliere liberamente se lavorare in una fattoria collettiva oppure coltivare il proprio appezzamento individuale. In questo secondo caso i contadini possono dare in eredità la terra, ma non possono venderla, regalarla, ipotecarla o darla in subaffitto (vedasi Sole 24 ore, 1 marzo 1990). La legge stabilisce che le fattorie collettive debbono cedere a singoli contadini appezzamenti individuali di terra da coltivare e che i Soviet locali (di città, regione e repubblica), e non più i ministeri, debbono assegnare e controllare la gestione agraria.

In linea generale, il ridimensionamento della proprietà di Stato sembra essere sempre più complementare al processo di “snellimento” dell’apparato burocratico-statale.

La “perestroika”, infatti, tende ad eliminare gran parte della burocrazia amministrativa centrale e quella delle diverse repubbliche che compongono l’URSS. Contemporaneamente provoca la mobilità dei “lavoratori in eccesso”, proprio perché provoca la riduzione dei comparti considerati inefficienti e superflui dell’apparato burocratico e di quello produttivo. Accelera inoltre il processo di ridistribuzione della forza-lavoro fra i diversi settori e spinge verso una profonda riforma del sistema dell’istruzione.

Con la “perestroika” la quota delle donne inserite in occupazioni (remunerate) con giornata lavorativa normale potrebbe subire una leggera riduzione (oggi tale quota è di circa il 90%), mentre con diverse forme di part-time dovrebbe essere “valorizzata” l’attività socio-economica di tutti i gruppi della cosiddetta “popolazione non attiva” (pensionati, casalinghe, invalidi e studenti) allo scopo di affrontare la specifica situazione socio-demografica creatasi (come effetto storico delle perdite del periodo bellico) e per dare una risposta al problema della carenza della forza-lavoro in alcune zone del paese, nella sfera dei servizi e anche nel settore agricolo.

Dagli anni ’50 ad oggi gli occupati nel settore agricolo sono passati dal 35-40% a circa il 20% della “popolazione attiva”. Questa diminuzione è stata affiancata da fenomeni che hanno portato ad acuire il problema alimentare e all’insorgere di una carenza di lavoratori agricoli. Tale carenza, inesistente invece in una repubblica come l’Uzbekistan che si caratterizza per la crescita costante di un popolazione agricola attualmente di circa il 60%, è causata soprattutto da un livello relativamente basso di remunerazione per la forza-lavoro occupata nel settore e da cattive condizioni di lavoro. Ancora più acuto è il problema della carenza di forza-lavoro nella sfera dei servizi. Di conseguenza l’accrescimento dell’attività socio-economica della “popolazione non attiva” dovrebbe essere indirizzato soprattutto nella sfera dei servizi e dovrebbe essere effettuato anche tramite lo sviluppo di una “rete di cooperative di tipo nuovo”, una maggiore utilizzazione degli appalti e la crescita delle attività lavorative individuali.

Il Goskomtrud (Comitato statale per i problemi del lavoro) ritiene che debba essere aumentata l’occupazione connessa alle cooperative e al lavoro individuale; auspica l’ampliamento delle diversità nelle forme di organizzazione del lavoro e la suddivisione “ottimale” degli occupati fra settore industriale e settore terziario. Secondo stime di economisti sovietici, in URSS entro il 2000 potrebbe verificarsi una riduzione dell’occupazione pari a 15 milioni di unità nel settore manifatturiero delle imprese statali ed una gran parte dei lavoratori disoccupati sarebbe costretta a cercare lavoro nel settore terziario. Per questo motivo gli uffici di collocamento tendono già a trasformarsi in una rete di “centri per l’occupazione”, in una rete che avrebbe la funzione di “osservatorio delle professioni” e di offrire garanzie contro la disoccupazione.

Ufficialmente non viene rifiutato il principio di garantire la piena occupazione; si ritiene che essa dovrebbe essere realizzata in termini di “occupazione efficiente”, ma dietro il velo dell’“efficienza” si comincia ad accettare come qualcosa di normale il fenomeno della “disoccupazione temporanea”, anche visto e considerato che nella delibera comune del PCUS, del governo e dei sindacati del 29 gennaio 1988 per la prima volta in URSS si è iniziato ad usare il concetto di “sussidio di disoccupazione temporaneo”.

Le prime vittime della “perestroika”, in termini di disoccupazione più o meno “temporanea”, sono una buona fetta degli occupati nell’apparato burocratico-amministrativo, proprio perché questo apparato dovrebbe essere ridotto quasi della metà in tempi abbastanza brevi, ma già nei primi anni ’90 potrebbe cominciare a svilupparsi anche la disoccupazione in conseguenza della ristrutturazione tecnologica e produttiva.

Secondo l’economista Ilja Levin, di fronte alla suddetta dinamica, potrebbe essere necessario fare ricorso a misure già ampiamente conosciute nei paesi a capitalismo avanzato: cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, liste di collocamento straordinario, corsi di riqualificazione per i lavoratori licenziati e così via.

“Perestroika” nel sistema finanziario e creditizio

Se la “perestroika” implica una grande trasformazione nella struttura produttiva ed occupazionale, è evidente che essa solleciti anche una corrispondente e parallela trasformazione del sistema finanziario e creditizio.

Da quanto sostiene l’economista Nikolai Petrakov le entrate del bilancio statale dovrebbero essere rigidamente collegate agli indici con cui viene quantificata l’efficienza nell’uso delle risorse economiche da parte delle imprese e delle associazioni industriali; inoltre lo Stato non dovrebbe tassare i profitti realmente realizzati, ma solo le risorse economiche allocate nelle imprese (mezzi di produzione, risorse minerarie, terreni, ecc.). Ciò, comunque, non escluderebbe la tassazione, tramite imposte progressive, rispetto agli extra-profitti, anche perché questo mezzo finanziario servirebbe per tamponare gli effetti controproducenti dello sviluppo ineguale nell’ambito del sistema economico.

La spesa pubblica, invece, dovrebbe continuare a svolgere un ruolo di primo piano in relazione all’insieme degli investimenti nell’economia, ma il ruolo decisivo nelle spese di bilancio in questo campo dovrebbe essere quello dei progetti finalizzati di carattere intersettoriale, quindi rispetto alle infrastrutture produttive, ai sistemi di comunicazione, ai trasporti ed alla crescita economica nel complesso dell’URSS. Maggiori risorse finanziarie dello Stato dovrebbero essere indirizzate verso i programmi sociali, artistici, culturali e scientifici, ma contemporaneamente tendono ad essere ridotti i sussidi statali alle imprese in difficoltà. Come si è detto in precedenza, lo Stato non è più obbligato ad aiutare le imprese in difficoltà ma, oltre all’introduzione del leasing e della possibilità di acquisto delle imprese statali da parte dei “collettivi di lavoro”, è arrivato al punto di promuovere lo sviluppo della forma azionaria nei flussi di investimento. In concreto, con le società per azioni in parte potrebbero essere attutiti i problemi economici delle imprese statali in difficoltà, ma di sicuro diventa possibile lo sviluppo di una dinamica di concentrazione degli investimenti nelle aree più importanti. Petrakov sembra considerare positivo questo possibile sviluppo, ma tale opinione è solo un dito dietro il quale si nasconde il concreto pericolo di più acuti squilibri economico-sociali fra le diverse aree e le diverse repubbliche dell’URSS. Se poi, da quanto risulta, le imprese statali possono acquisire azioni di altre imprese statali, e viene così spezzato il “monopolio degli investimenti delle istituzioni centrali di gestione”, vuol dire che vengono create le condizioni idonee per lo sviluppo di veri e propri oligopoli economici. In altre parole, vuol dire che l’assetto economico dell’URSS tende sempre più ad essere caratterizzato dal dominio degli oligopoli produttivi e finanziari di Stato.

Tale tendenza risulta confermata anche dalla trasformazione del sistema bancario. A questo proposito sembra necessario un breve accenno per far capire quanto sia realistica la tendenza all’oligopolizzazione anche nel sistema bancario.

Con la “perestroika” viene superato il vecchio sistema bancario, che per tre decenni era costituito dalla Gosbank (Banca di Stato) e dalla Strojbank (Banca pansovietica per il finanziamento degli investimenti di capitale), e viene sviluppato un sistema contraddistinto da un piccolo gruppo di banche autonome e specializzate, che comunque rimangono statali.

Nel nuovo sistema bancario la Gosbank continuerà ad essere il pilastro centrale del sistema bancario, dirigendo e coordinando le banche specializzate senza però essere loro proprietaria o azionista principale.

In ultima analisi, sia a livello produttivo che bancario tendono a svilupparsi oligopoli economici di Stato e si manifesta una chiara tendenza verso il rafforzamento del potere della tecnocrazia di questi oligopoli, proprio mente si afferma la burocrazia “efficiente” nel quadro di una compressione differenziata e selettiva del potere della burocrazia delle istituzioni centrali e locali dell’URSS.

“Perestroika”, tendenza nazionalista e conflitti etnici

La crisi del “modello di sviluppo estensivo”, oltre a dischiudere ampi spazi di agibilità alla tendenza verso il potere egemonico da parte degli strati sociali tecnocratico-manageriali e dei ceti dell’alta burocrazia “efficiente”, ha pure fatto riaccendere i mai sopiti conflitti nazionali ed etnici in URSS.

Lo sviluppo dei Fronti Popolari di carattere nazionalista nelle repubbliche baltiche, i movimenti di difesa delle culture nazionali in Ucraina e Bielorussia, la rapida diffusione del movimento sciovinista russo Pamjat che coincide con la crescita dei movimenti per il diritto all’emigrazione tra i tedeschi sovietici, gli ebrei e gli armeni, le lotte violente tra azeri ed armeni ed i conflitti etnici in Kazakistan e in Jacuzia (repubblica autonoma, situata nella Siberia settentrionale, in cui la popolazione turca degli jacuti oggi rappresenta circa il 28% degli abitanti) sono tutti fenomeni che sostanzialmente vengono accentuati dalla crisi del “modello di sviluppo estensivo”.

Questo modello, fra l’altro, presupponeva una specifica politica delle nazionalità per garantire rapporti pacifici fra le numerose etnie dello Stato plurinazionale sovietico. Tale politica, a sua volta, si basava soprattutto sull’estensione dell’apparato burocratico-amministrativo in tutte le repubbliche dell’URSS e sul consenso di alcuni settori chiave di ogni gruppo nazionale.

Più precisamente, il federalismo sovietico era caratterizzato dal fatto che le nazionalità locali, nell’ambito del loro territorio, godevano di ampi privilegi, ad esempio nell’accesso all’istruzione superiore e nell’attribuzione delle professioni post-universitarie e degli incarichi amministrativi e direttivi. La politica del federalismo sovietico è poi cominciata ad entrare in crisi quando lo Stato non è riuscito a sopportare il peso dei relativi costi, e ciò è successo a partire dall’esaurimento della fase di sviluppo estensivo dell’economia. Secondo un famoso etnologo sovietico, infatti, “gli orientamenti allo sviluppo estensivo fino ad un certo momento hanno frenato l’insorgere di conflitti nel campo dei rapporti fra nazionalità, ma questi stessi orientamenti, esaurite le proprie possibilità, hanno iniziato ad agire in senso inverso, accrescendo la probabilità dell’insorgere di conflitti etnici” (A. A. Susokolov, “Etnosy pered wyborom”, in Sotsiologiceskie Osslidovinja, 6, 1988, pp. 35-36).

Inoltre, poiché la “perestroika” punta a rendere più forti i metodi meritocratici di selezione dei quadri dirigenti a tutti i livelli, quindi anche a livello di ogni singola repubblica, è evidente che in questo modo sono state ulteriormente accresciute le possibilità di esplosione delle controversie nazionali ed interetniche presenti nell’URSS.

La “perestroika” prospetta, per tutte le repubbliche dell’URSS, il passaggio dai vecchi trattamenti preferenziali dei gruppi etnici ai metodi meritocratici e tecnocratici di selezione dei quadri dirigenti, ma tale trasformazione non è per niente indolore. Sicuramente la crisi economica rende difficile l’unione in un unico Stato di numerosi popoli, ma la cultura politica della “perestroika” non garantisce lo sviluppo di un’adeguata coscienza internazionalista ed un’adeguata solidarietà e le differenze di peso economico-sociale fra le popolazioni dei diversi gruppi etnici si è conservata ed in certi casi anche rafforzata.

Oggi, ad esempio, le istanze provenienti dalle repubbliche del Baltico e dell’Asia centrale permettono di capire che i loro interessi economici sono diventati in gran parte opposti. Le repubbliche dell’Asia centrale hanno bisogno dell’aiuto economico delle altre repubbliche sovietiche per fronteggiare il boom demografico, la diffusa povertà ed i pericoli di disoccupazione di massa. Le repubbliche baltiche, invece, pur essendo ricche e pur avendo i tassi di povertà più bassi di tutta l’URSS, non intendono aiutare la popolazione dell’Asia centrale e cercano piuttosto di ampliare i propri rapporti con l’Occidente. Infatti è per questo motivo che le repubbliche baltiche, Lituania in testa, cercano di diventare indipendenti dall’URSS.

Tutto ciò significa che le controversie nazionali e inter-etniche presenti nelle repubbliche sovietiche economicamente avanzate sono quelle più minacciose per la stabilità politica complessiva dell’URSS. Con la “perestroika” lo sviluppo ineguale fra le aree e repubbliche dell’URSS potrebbe essere accentuato. Infatti, i discorsi di Gorbaciov favorevoli all’introduzione di meccanismi di “autofinanziamento repubblicano” sono il palese riflesso di una precisa decisione di abbandonare la politica di redistribuzione del reddito dalle repubbliche più ricche a quelle più povere. I problemi nazionali ed interetnici possono anzi diventare più gravi in dialettica ai possibili effetti di una “perestroika” che prospetta un rapporto di maggiore interazione fra l’URSS e l’economia mondiale.

A maggior ragione sembra necessario anche un breve accenno rispetto ai “canali di interazione” fra l’URSS ed il mercato mondiale.

“Perestroika” nei rapporti fra l’URSS e l’economia mondiale

I “canali di interazione” che secondo gli economisti sovietici dovrebbero essere sviluppati per approfondire i rapporti fra l’URSS e il mercato mondiale sono quello creditizio, quello valutario e quello istituzionale.

A livello creditizio una sola banca speciale, la Vnesekonombank (Banca per l’attività economica con l’estero), svolge una funzione a dir poco decisiva nell’organizzazione dei regolamenti economici internazionali dell’URSS, e la Gosbank dovrà invece coordinare il passaggio delle altre banche specializzate alla realizzazione di analoghe attività internazionali.

In campo creditizio, però, non si può dimenticare che l’URSS è debitrice verso i paesi a capitalismo avanzato. Pur tenendo conto del modo in cui sono ripartite le riserve valutarie, specialmente a livello di depositi interbancari, l’URSS si caratterizza soprattutto come paese debitore della bancocrazia occidentale.

Il grado di indebitamento estero dell’URSS è inferiore a quello di tutti i paesi dell’Est e del Terzo Mondo, ma è superiore a quello della maggior parte dei paesi OCSE e ciò è in palese contraddizione con il fatto che quella sovietica è una delle principali potenze mondiali. Di fronte a questa situazione l’aumento del debito estero, che alcuni economisti richiedono per aumentare le importazioni di generi di largo consumo, potrebbe avere effetti molto negativi se non venissero stabilite adeguate contromisure per frenarne lo sviluppo.

Una linea di questo tipo, infatti, priva cioè di adeguate misure controtendenziali, potrebbe trasformare il debito estero, oggi ancora ad un livello relativamente basso (è stimato in 40-50 miliardi di dollari), in un problema incontrollabile le cui conseguenze, come dimostrano numerose esperienze dei Paesi dell’Europa dell’Est e del Terzo Mondo, sarebbero politicamente destabilizzanti.

Oltre ai suddetti flussi strettamente creditizi, il canale creditizio comprende anche una relazione diretta con il mercato internazionale dei capitali, attraverso i tassi di interesse. Con lo sviluppo della possibilità di prendere in prestito valuta estera ai tassi di interesse praticati sul mercato internazionale, le imprese sovietiche andranno a scaricare questo “servizio del debito estero” nel calcolo dei propri costi e prezzi. Inoltre, per fare in modo che le imprese sovietiche siano attratte dai prestiti in valuta estera e l’URSS abbia le riserve valutarie estere necessarie a garantire una più attiva presenza del paese a livello di mercato mondiale, i tassi di interesse sovietici dovrebbero cessare di essere bassi e cominciare ad omologarsi a quelli principali che vengono stabiliti sul mercato internazionale.

Il “canale creditizio” comprende anche i flussi di capitale azionario. In genere questi flussi si presentano nella forma di investimenti azionari stranieri che contribuiscono alla creazione ed allo sviluppo delle “imprese miste”.

Con decreto del 13 gennaio 1987 n. 49, in URSS è possibile effettuare collaborazioni internazionali attraverso le “società miste”, cioè attraverso le “joint ventures”. In queste imprese attualmente il capitale straniero non supera il 49% del pacchetto azionario, la direzione rimane sovietica e l’imposizione sul profitto costituisce il 30%, più il 20% dei profitti trasferiti all’estero. Molte imprese dei paesi a capitalismo avanzato rimangono interdette di fronte a queste regole ritenute troppo rigide, ma se venisse dato ascolto al parere degli economisti sovietici tali condizioni potrebbero essere modificate prendendo a modello di riferimento l’esperienza cinese, dove esiste un sistema di zone economiche speciali per gli investimenti delle “imprese miste” e delle imprese straniere, dove le “imprese miste” sono alcune migliaia e la loro direzione può essere straniera per una decina di anni.

A quanto pare, solo a Nakhodka, porto sovietico in Estremo Oriente, dovrebbe essere stata avviata una zona economica speciale e si tratta di una zona che garantisce l’esenzione delle imposte per tre anni alle imprese straniere ed a quelle “miste”.

Oltre a ciò, occorre precisare anche che il “canale creditizio” fra l’URSS ed il mercato mondiale dovrebbe essere completamente rinnovato.

La “strategia creditizia” dell’URSS, infatti, prevede l’aumento del numero dei mutuatari autorizzati del paese nei confronti dell’estero, lo sviluppo del numero e della diversificazione dei creditori esteri, nonché l’arricchimento della gamma degli strumenti finanziari utilizzati (prestiti, assicurazione dei rischi, “ottimizzazione” della struttura del debito). Con questa “strategia creditizia”, inoltre, si ritiene necessario individuare nuovi mercati per quanto riguarda le valute e viene auspicato lo sviluppo di “operazioni attive” (investimenti; partecipazione all’organizzazione di prestiti obbligazionari; di crediti sindacati, cioè di crediti assicurati da un gruppo di banche) a livello internazionale.

Invece, per quanto concerne il “canale valutario” tra l’URSS ed il mercato mondiale, esso dovrebbe essere sviluppato a partire dalla determinazione di un corso del rublo accettabile dal sistema monetario internazionale egemonizzato dalle valute dei principali paesi capitalistici avanzati (USA, RFT, Giappone) e poi dovrebbe essere promossa la nascita del rublo convertibile.

In una prospettiva di medio periodo il ruolo principale del cambio, che verrà stabilito quotidianamente dalla Gosbank, diventerebbe quello di accrescere le esportazioni sovietiche (soprattutto quelle industriali) nei paesi OCSE.

Il corso del cambio dovrebbe rendere redditizia la maggior parte delle esportazioni industriali dell’URSS, ma questa scelta richiederebbe per forza di cose l’immediata svalutazione del rublo e quest’ultima, a sua volta, sarebbe accompagnata dal maggior costo delle importazioni e dalla crescita dei prezzi interni.

Insomma, si determinerebbe una situazione non certo gradita ai lavoratori, alle masse sovietiche ed in modo particolare alle popolazioni povere dell’Asia centrale.

Il corso del cambio dovrebbe esprimere in maniera adeguata il potere d’acquisto del rublo rispetto al mercato mondiale, e i prezzi interni verrebbero correlati a quelli internazionali attraverso un’operazione complessa che, oltre a considerare le principali aree valutarie del mondo ed un variegato paniere di merci, avrebbe il non certo facile compito di tener presente le differenze, fra la situazione interna e quella internazionale, per quanto riguarda i costi della forza-lavoro e la produttività del lavoro.

Per giungere alla convertibilità del rublo come minimo ci vorranno diversi anni perché essa necessita, dal punto di vista delle condizioni idonee, una profonda trasformazione del sistema monetario, l’attivazione di un mercato valutario interno e lo sviluppo della convertibilità nell’ambito del Comecon, e solo dopo tutti questi passaggi potrebbe essere realizzata la piena convertibilità del rublo con le monete dei paesi a capitalismo avanzato.

Nel periodo di transizione non è escluso che venga valorizzata in termini di scelte concrete l’esperienza di circolazione “parallela” di due valute effettuate in URSS negli anni 1922-1924: il sovznac, che era carta-moneta tendente alla svalutazione, ed il cervonec, che invece aveva una determinata copertura aurea. Con quella “doppia circolazione” di valute il cervonec riuscì a sostituire il sovznac ed in seguito, per un po’ di tempo, l’URSS ebbe una valuta convertibile. Attualmente la situazione è molto diversa, basti pensare alla demonetizzazione dell’oro, ma una circolazione “parallela” di due valute potrebbe accelerare, sia pure in modo non certo indolore, il passaggio ad un’unica valuta convertibile.

Anche in riferimento al “canale istituzionale” fra l’URSS ed il mercato mondiale, che poi è un aspetto suscettibile di svelare abbastanza bene i riflessi politici del “nuovo corso sovietico” nell’ambito dello scenario globale, vengono preannunciati passi significativi verso la partecipazione di questo paese a diverse istituzioni economiche e finanziarie internazionali attualmente egemonizzate dai paesi a capitalismo avanzato.

L’URSS è già pronta ad aderire al GATT, è stata fra i principali paesi che hanno promosso la stipulazione di trattati fra il Comecon e la CEE, ha stabilito accordi economici pluriennali con la CEE, sta smussando le obiezioni interne ad una propria partecipazione alla Banca dei regolamenti internazionali ( a cui partecipano già quasi tutti i paesi dell’Est europeo) oppure – ad esempio – alla Banca Asiatica di sviluppo. Inoltre ci sono forti polemiche, all’interno del PCUS, e preventive opposizioni da parte di diversi paesi a capitalismo avanzato (specialmente da parte degli Stati Uniti) a proposito dell’opportunità di una partecipazione dell’URSS al FMI ed alla Banca Mondiale.

In linea generale, lo sviluppo dei “canali di interazione” fra l’URSS ed il mercato mondiale tende ad approfondire più che a smussare le principali contraddizioni esistenti a livello interno ed internazionale.

“Perestroika“ e sistema politico-istituzionale

La ristrutturazione dell’economia sovietica e la tendenza ad una più attiva interazione fra l’URSS ed il mercato mondiale producono una “sinergia” per utilizzare e valorizzare la quale, di fronte all’acuirsi delle contraddizioni sociali ed inter-etniche, è necessario il supporto di un sistema politico-istituzionale di tipo nuovo.

In questo quadro si colloca il varo della repubblica presidenziale e la modifica degli articoli costituzionali che prevedevano il ruolo guida del PCUS. Questa scelta, effettuata il 13 marzo 1990 dal “Congresso dei deputati del popolo”, sancisce la nascita dello “Stato di diritto” in URSS e dimostra che la transizione verso criteri di gestione economica basati sul rafforzamento dei rapporti monetario-mercantili è affiancata dalla transizione verso criteri di governo politico-istituzionali incentrati su regole del gioco in cui denaro e diritto fungono da referenti astratti della connessione dei rapporti sociali.

Mentre il sistema sociale in URSS diventa, in modo chiaro e legale, un sistema ad economia mista con oligopoli di Stato ed i rapporti sociali di produzione tendono ad essere caratterizzati dall’egemonia dei ceti tecnocratici, il sistema politico-istituzionale tende ad affermare il formalismo delle regole e del diritto.

In questa maniera, al di là delle riforme politiche che in apparenza rilanciano i Soviet, viene prospettata una soluzione tecnocratica alla crisi di un sistema sociale e politico che, burocratizzandosi e sclerotizzandosi, non è riuscito a garantire lo sviluppo di adeguate forme di democrazia diretta e sostanziale, e quindi non è neanche riuscito a promuovere una politicizzazione rivoluzionaria di massa, una reale fratellanza fra i popoli dell’URSS ed una crescita adeguata della coscienza internazionalista a favore delle lotte rivoluzionarie che si determinano nel mondo.

Conclusioni

La “perestroika” è una particolare risposta alla crisi economica e politica dell’URSS, e questa crisi in parte è stata determinata ed accelerata dalle dinamiche di crisi-ristrutturazione dell’assetto capitalistico internazionale iniziate alla fine degli anni ’60 e tuttora in corso.

Gli sbocchi della “perestroika“ sono incerti. In URSS, infatti, le contraddizioni sociali tendono ad accentuarsi piuttosto che a vedere ridotto il proprio grado di intensità; l’ormai evidente formazione legalizzata di un’economia mista con oligopoli di Stato è affiancata dalla crescita del potere della tecnocrazia e dalla polarizzazione fra “aree avanzate” ed “aree arretrate”. Tendono inoltre ad accentuarsi i conflitti nazionali ed inter-etnici; cresce la povertà, che già colpisce circa 40 milioni di persone (pari ad un settimo della popolazione complessiva dell’URSS); aumenta la mobilità della forza-lavoro ed il “costo della vita”.

A livello globale, invece, l’effetto più sicuro della “perestroika” dell’URSS è quello di rafforzare moltissimo la capacità di attrazione del mercato mondiale (anche sugli altri paesi del Comecon), ma proprio su questa base tende a svilupparsi un processo di grande accumulazione di tutte le contraddizioni esistenti su scala planetaria. Detto in altre parole, la massima forza di attrazione del mercato mondiale è, infatti, la precondizione della massima condensazione delle sue principali contraddizioni storicamente determinate.

In questo senso la “perestroika” è un fenomeno che, oltre a rendere più dinamica la lotta fra le classi in URSS, contribuisce ad approfondire le contraddizioni nel mondo piuttosto che a creare un clima di effettiva distensione internazionale.

Ormai è chiaro che l’URSS intende rinnovare l’economia del paese per colmare il “gap tecnologico” rispetto ai paesi a capitalismo avanzato e per mantenere la parità militare con gli USA e, nei limiti del possibile, fra i due blocchi (Nato e Patto di Varsavia).

I sovietici sanno benissimo che senza rinnovamento della propria economia i rapporti di forza globali verrebbero drasticamente alterati a vantaggio degli USA e degli altri paesi a capitalismo avanzato. Al tempo stesso in URSS il settore produttivo dei “mezzi di produzione” non riesce di per sé a garantire un complessivo rinnovamento economico del paese. Da ciò deriva, in modo particolare, la spinta sovietica ad incrementare i rapporti col mercato mondiale.

Contemporaneamente la borghesia imperialista, cioè la grande borghesia mondiale che ha il “retroterra” del proprio potere nei paesi a capitalismo avanzato,spera che in URSS la ristrutturazione economica giunga a scardinare la proprietà statale e “collettiva” delle grandi imprese. Spera inoltre che l’URSS, come già sta succedendo in diversi paesi dell’Est europeo, diventi territorio completamente libero alla penetrazione delle imprese capitalistiche e delle banche private transnazionali.

In questo senso la contraddizione fra i paesi a capitalismo avanzato ed i paesi, come l’URSS, ad economia mista egemonizzata da oligopoli di Stato è una contraddizione destinata ad accentuarsi a causa delle dinamiche che spingono verso l’espansione del dominio delle imprese capitalistiche e delle banche private transnazionali.

In particolare è destinata ad accentuarsi la contraddizione fra Stati Uniti ed URSS, anche perché i primi – al di là delle belle parole – cercano di ostacolare una più attiva presenza dell’URSS rispetto al mercato mondiale.

D’altra parte, “le continue barriere politiche che gli Stati Uniti frappongono ad una crescita degli scambi con l’URSS, e che riescono ad imporre con più facilità al Giappone che all’Europa Occidentale, lasciano come unica alternativa all’URSS quella di accrescere i rapporti con l’Europa Occidentale che comunque già assorbe oltre l’80% degli scambi sovietici con il mondo capitalista. Peraltro la struttura produttiva dell’URSS e quella dell’Europa Occidentale hanno un buon grado di complementarietà e solo in alcuni settori c’è una sovrapposizione come nella siderurgia e nel settore aerospaziale; più precisamente nel settore aerospaziale esiste un chiaro predominio sovietico” (Riccardo Parboni, “Il materialismo storico e la crisi mondiale”, pag. 53, in Dinamiche della crisi mondiale, A. A. V. V., Editori Riuniti, 1988).

Tutto ciò significa che il contenzioso fra USA ed URSS, in quanto contraddizione fra le due principali potenze politico-militari mondiali, vive in un quadro caratterizzato da una grande trasformazione tecnologico-produttiva che attraversa tutte le aree industrializzate e che condiziona tutte le principali dinamiche economiche, politiche e militari a livello mondiale. Questo quadro è lo stesso in cui, mentre nei paesi capitalistici avanzati vengono effettuati numerosi investimenti nei nuovi settori (microelettronica, biotecnologie, spaziale, fusione nucleare, ecc.), c’è la possibilità che in futuro la tendenza alla sovrapproduzione di capitale coinvolga proprio i nuovi settori.

A quel punto la tendenza alla sovrapproduzione di capitale uscirà di nuovo dallo stato di latenza e provocherà nuove e gravi recessioni, creando così condizioni suscettibili di alimentare nuove e forti tensioni nelle relazioni internazionali. Se poi le tensioni dovessero superare i limiti di “tollerabilità”, molto probabilmente gli USA tenderanno a fare dell’URSS il capro espiatorio a cui attribuire la responsabilità principale della situazione di logoramento delle relazioni internazionali. Non a caso, già oggi, gli USA sono all’avanguardia nella ricerca scientifica per cercare di rendere realizzabili scontri nucleari al di sotto dell’olocausto totale e per cercare di rendere calcolabile una guerra contro l’URSS mediante l’utilizzo di armi di nuova qualità (armi neutroniche, nucleari tattiche e chimiche).

I governanti dell’URSS sono consapevoli dei rischi bellici connessi alla presente e grande trasformazione tecnologico-produttiva dei paesi a capitalismo avanzato e per questo motivo l’ideologia che funge da supporto alla “perestroika” considera la “pace” sulla terra e la “sopravvivvenza dell’umanità” come principali obiettivi da realizzare nel mondo. D’altra parte questa ideologia è talmente incosciente da prospettare la realizzazione di tali obiettivi proprio all’interno di un contesto in cui i vincoli del mercato mondiale opprimono la vita di miliardi di donne, uomini e bambini.

Al di là dei suoi richiami formali al marxismo-leninismo, è un’ideologia che annichilisce i principi dell’internazionalismo proletario, della lotta di classe e della solidarietà rivoluzionaria internazionalista.

Per questo motivo concreto, e non tanto per purezza ideologica, le forze rivoluzionarie presenti nel Terzo Mondo e nei paesi a capitalismo avanzato non possono assolutamente far propria l’ideologia del “nuovo corso” dell’URSS. In caso contrario ne trarrebbero vantaggio la grande borghesia dei paesi a capitalismo avanzato e le forze controrivoluzionarie del Tricontinente.

Il principio di un equilibrio di interessi che l’URSS ha proposto per risolvere i conflitti regionali e rivoluzionari nel mondo è una scelta finalizzata alla ricerca di “soluzioni politiche” ad ogni costo. In genere, però, come dimostrano i sionisti in Palestina, le forze controrivoluzionarie conoscono una sola “soluzione politica” ed è quella rigidamente subordinata alla strategia dell’annientamento nei riguardi delle forze rivoluzionarie. Pertanto le forze rivoluzionarie in attività nel Terzo Mondo e nei paesi a capitalismo avanzato sono costrette a sviluppare una lotta rivoluzionaria di lunga durata per modificare i rapporti di forza a svantaggio del nemico e per fare ciò debbono rinnovare la propria strategia ed approfondire l’unità nella lotta su scala internazionale e particolarmente nelle diverse aree in cui operano.

In pratica, la progettualità di queste forze rivoluzionarie può rinnovarsi in modo adeguato soltanto se riesce ad essere un’arma nella lotta contro la grande borghesia e le forze controrivoluzionarie, quindi contro un sistema capitalistico internazionale che opprime e sfrutta la maggior parte dell’umanità.

Nei paesi a capitalismo avanzato e nei paesi del Tricontinente una conoscenza critica della “perestroika” è una delle condizioni indispensabili per fare in modo che le forze rivoluzionarie, oltre a non cadere nelle sabbie mobili delle “soluzioni politiche”, rinnovino la propria progettualità per essere all’altezza del livello raggiunto dallo scontro di classe nel mondo.

Nella direzione di un rinnovamento della progettualità rivoluzionaria deve essere chiaro però che il presente articolo è solo un contributo al dibattito e non ha certo la pretesa di essere qualche altra cosa! A buon intenditor… poche parole!!

 

Il militante delle BR-PCC, Sandro Padula
Carcere speciale di Novara, Blocco B

25 aprile 1990

Prima Corte d’Assise di Roma, Processo “Tarantelli”, Dichiarazione di Antonino Fosso allegata agli Atti.

Come militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente mi riconosco nell’interezza dell’attività rivoluzionaria della mia Organizzazione e ribadisco la validità politica di ogni atto concreto in cui tale attività si è espletata.

Attività che ha rappresentato e rappresenta i reali percorsi politici compiuti dall’avanguardia rivoluzionaria in questo paese, all’interno del più generale scontro di classe.

Essa si esplicita e si dispiega con l’unica strategia adeguata, al livello raggiunto dallo sviluppo capitalistico, per mettere in discussione il potere della borghesia: la lotta armata per il comunismo, attraverso la quale inoltre si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe in grado di sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato.

Le Brigate Rosse hanno coscientemente perseguito tale obiettivo in tutte le fasi in cui, attraverso l’intervento controrivoluzionario dello Stato, la borghesia aveva ottenuto dei grossi successi, riuscendo a recuperare le conquiste politiche e materiali ottenute dalla classe e dalle sue avanguardie in anni di dure battaglie.

Proprio nei momenti più duri per il processo rivoluzionario, le Brigate Rosse non solo hanno mantenuto aperta l’opzione rivoluzionaria ma sono riuscite, per quanto parzialmente, ad effettuare dei passaggi politici significativi per lo sviluppo del processo stesso, dimostrando nei fatti e contro il perpetuo ripresentarsi di varie forme di opportunismo liquidazionista, non sempre mascherato, la necessità – possibilità concreta di incidere nei rapporti di forza generali tra le classi.

La controffensiva sviluppata dallo Stato nel corso degli anni ’80 si è basata principalmente sul presupposto che senza assestare un duro colpo alla guerriglia non si sarebbe potuto procedere alle ristrutturazioni economiche che la crisi rendeva impellenti, sviluppando una dinamica che, a partire dall’attacco alle Brigate Rosse, ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe (calibrata s’intende ai vari livelli), costruendo i termini di nuovi rapporti di forza a favore dello Stato.

Da ciò genera un clima politico idoneo all’approfondimento delle forme stesse di dominio della borghesia imperialista.

In concreto è stato possibile per la borghesia intraprendere la selvaggia ristrutturazione industriale (che vide la Fiat capofila nell’attacco alla classe operaia per spezzarne la rigidità, per rompere con “l’anomalia italiana”), per poter meglio integrarsi al resto dei paesi imperialisti che esprimevano migliori condizioni politico-economico-sociali per la riproduzione del capitale.

L’obiettivo a breve termine per la borghesia fu quello, che già le Brigate Rosse definirono, della regolamentazione istituzionale del rapporto antagonista tra le classi, che si riferisce alle condizioni ed ai meccanismi di compravendita della forza-lavoro; ratifica giuridico-legislativa dei rapporti di forza generali fra classe operaia e padronato dal punto di vista degli interessi borghesi.

Nel contesto mutato, in una fase tutt’ora aperta della Ritirata Strategica, il merito maggiore delle BR è quello di riaffermare nella pratica la validità della lotta armata come strategia.

Strategia che rende esplicito il rapporto di guerra che vige nello scontro tra proletariato e borghesia.

Riaffermando l’asse d’intervento strategico che caratterizza la continuità delle Brigate Rosse nella loro storia: l’attacco al cuore dello Stato, attacco alle politiche dominanti che nella congiuntura oppongono il proletariato alla borghesia; attacco che mira a rompere gli equilibri politici che fanno marciare i programmi della borghesia imperialista, sviluppandone da una parte le contraddizioni e dall’altra aprendo spazi politici allo sviluppo dell’autonomia di classe.

Conseguentemente dunque al quadro generale determinatosi, ha assunto un aspetto significativo l’iniziativa Giugni prima e Tarantelli poi.

Quest’ultima in particolare, dato che è andata a colpire uno dei massimi ideatori delle tappe più importanti tradotte in pratica dai governi succedutisi: dalla riforma del mercato del lavoro (chiamata nominativa, mobilità, part-time) a quella del salario (blocco e predeterminazione dei punti di contingenza, diversificazione salariale sottomessa alla produttività) a quella più generale della trattativa centralizzata Governo-Confindustria-Sindacati che sancisce il modello neo-corporativo.

“Patto sociale neo-corporativo” che tende ad essere sancito con varie forzature, grazie al quadro dei rapporti di forza tra le classi mutato: dal terrorismo del padronato in fabbrica a quello di Stato nei confronti dell’intero proletariato, attuato con licenziamenti, ricatti per chi resta nei posti di lavoro, alla criminalizzazione di massa per ogni forma di antagonismo espresso. Nonostante ciò la borghesia non riesce ad eliminare la conflittualità dai caratteri fortemente resistenziali, ma non meramente difensivistici, che nei settori più maturi rappresenta la continuità con l’autonomia di classe che si è sviluppata storicamente in Italia con l’apporto fondamentale della guerriglia.

Il carattere della mediazione politica che si afferma con lo sviluppo ulteriore dell’imperialismo affina costantemente la controrivoluzione preventiva come politica intrinseca degli Stati a capitalismo maturo, insita cioè negli strumenti ed organismi della democrazia rappresentativa, dando una precisa caratterizzazione al rapporto conflittuale tra le classi allo scopo di istituzionalizzarlo e mantenerlo entro gli steccati della compatibilità borghese per non farlo collimare con il piano rivoluzionario, dove tale processo è avviato.

La classe ha dovuto confrontarsi inoltre con i nuovi termini delle relazioni industriali propri del neo-corporativismo, atto ad imbrigliare e depotenziare ogni possibilità di espressione dell’autonomia di classe.

I tentativi da essa attuati per organizzarsi al di fuori di tali gabbie hanno prodotto di riflesso le cosiddette crisi di rappresentanza del sindacato e il continuo ridimensionamento del peso e del ruolo del PCI.

La peculiarità italiana ha prodotto da parte borghese dei progetti politici con cui si è misurata l’avanguardia rivoluzionaria dall’Unità nazionale di Moro, al patto sociale neo-corporativo, sino al più complesso tentativo demitiano di rifunzionalizzazione dei poteri e degli apparati dello Stato attraverso le modifiche istituzionali indispensabili a determinare un quadro politico stabile.

Progetto politico, quest’ultimo, lucidamente perseguito dal suo massimo ideatore: l’ex senatore Ruffilli, uomo di punta che in questi anni ha guidato la DC su questo terreno, sapendo ricucire, attraverso forzature e mediazioni, tutto l’arco delle forze politiche intorno a questo progetto, comprese le opposizioni istituzionali. Cosa che non sembra riuscire con altrettanta abilità ai suoi successori dato anche l’intervento della guerriglia che ha ulteriormente divaricato le contraddizioni dentro questo delicato passaggio della borghesia imperialista nostrana.

Progetto quindi fondamentale, in quanto teso ad affinare la democrazia formale, come sviluppo delle forme di dominio della borghesia imperialista e sancire l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi borghesi. In sostanza ratificare ed assestare i rapporti di forza tra classe e Stato al nuovo livello degli equilibri determinatisi.

Passi già compiuti con alcune riforme tese a rafforzare il potere dell’Esecutivo, imposizione di nuove regole del gioco che tradotte in pratica portano tra l’altro ad ulteriori forzature sul piano della contrattazione della compravendita della forza-lavoro, o meglio la modificazione stessa dei termini della contrattazione.

Modificazione che sottende un ulteriore aggravamento delle condizioni politiche e materiali della classe, incontrando per questo una vasta resistenza ed opposizione nel campo proletario.

Nelle varie fasi attraversate c’è una sorta di legame di ogni progetto politico della borghesia imperialista in questo paese, sostanzialmente volti a sconfiggere ogni possibilità di rottura rivoluzionaria, dare risposte allo sviluppo della crisi ed adeguarsi ai mutamenti avvenuti anche a livello internazionale.

Nello stesso tempo è evidente la continuità politica che ha legato l’attività delle Brigate Rosse nel contrastare e disarticolare i disegni criminosi della borghesia, attaccandone i progetti politici dominanti, dando prospettive di potere alla lotta di classe, contribuendo a determinare in sostanza lo spessore politico raggiunto dal movimento di classe, dato dal legame dialettico con l’attività rivoluzionaria diretta dalle BR, per la propositività che la proposta strategica della lotta armata alla classe ha determinato sul terreno rivoluzionario.

In sintesi è la dialettica: attività della guerriglia-autonomia di classe, che ha sedimentato una base di qualità che permane e si riproduce nel rapporto di scontro tra campo proletario e Stato. Non meccanicamente ma costretta dal livello di scontro raggiunto ed in cui le parti in causa hanno contribuito.

Una base di qualità che ha infatti prodotto, nei diversi momenti dello scontro, avanguardie rivoluzionarie e processi di aggregazione e organizzazione conseguenti.

Un ruolo rilevante ha giocato in ciò la capacità dell’avanguardia armata, che, nel vivo dello scontro, ha dovuto e saputo compiere quei salti politici che rientrano nel generale riadeguamento intrapreso dalle Brigate Rosse e che segnano un punto di non ritorno per il prosieguo stesso del processo rivoluzionario. I rovesci subiti non inficiano tali passaggi qualitativi, quanto invece evidenziano la complessità della fase di Ritirata Strategica al cui interno si colloca la ricostruzione e l’assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie e degli strumenti politico-militari per attrezzare il campo proletario nello scontro prolungato contro lo Stato. Salti politici evidenziati nella pratica di questi anni e sedimentati qualitativamente con l’attacco alle “Riforme istituzionali” e con la scelta politica del Fronte Combattente Antimperialista in cui l’alleanza RAF-BR ha sancito l’unità di forze rivoluzionarie nell’attacco alle politiche dominanti dell’imperialismo, come già affermato nel testo comune del settembre ’88.

Antonino Fosso militante delle Brigate Rosse per la costruzione del PCC

Roma, 12 luglio 1990

Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di “riforma” dello Stato. Corte d’Assise di Forlì, “Processo Ruffilli” – Documento dei militanti delle BR-Pcc Cappello Maria, Cherubini Tiziana, De Luca Antonio, Galloni Franco, Grilli Franco, Lupo Rossella, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio e dei militanti rivoluzionari Bencini Daniele, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco allegato agli Atti.

Oggi in questo tribunale lo Stato cerca la sua rivincita sulla Guerriglia. È la DC a volerlo, per essere stata ancora una volta disarticolata nel suo progetto politico centrale dall’attività rivoluzionaria delle BR per la costruzione del PCC.

La mostrificazione dei militanti delle BR e dei rivoluzionari prigionieri dovrebbe dare, nelle intenzioni dello Stato, un’immagine di forza sullo scontro rivoluzionario che politicamente è priva di gambe, e tanto più perché è attuata sui prigionieri. Significativamente, nell’ambito di questo processo, si evidenzia la debolezza politica dello Stato, e della DC nello specifico, rispetto alla dimostrazione pratica che la prassi rivoluzionaria può disarticolare ed inceppare i progetti politici centrali che rappresentano gli interessi della borghesia imperialista.

Le modalità di gestione del processo riflettono inevitabilmente le leggi della guerra, seppure nella particolare forma politica del rapporto Guerriglia/Stato, per cui sui prigionieri BR e rivoluzionari, in qualità di ostaggi in mano allo Stato, dentro agli equilibri generali dei rapporti di forza tra classe e Stato, si esprime il tentativo di gestione delle contraddizioni di classe sulle quali ha inciso la prassi rivoluzionaria; e ciò è tanto più vero se lo si relaziona alla situazione attuale dello scontro. Da qui la necessità di fare ricorso, in questa fase, anche a questo specifico piano di intervento. Ribaltiamo questo piano e ne evidenziamo i limiti e la povertà d’intenti in quanto nessuna mistificazione processuale, nessun stravolgimento della presenza politica dei militanti BR e rivoluzionari prigionieri, nessuna plateale dimostrazione di muscoli dello Stato può negare la contraddizione che questo stesso processo esprime, ovvero il dato politico che le BR nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione hanno posto nel determinare l’avanzamento del terreno rivoluzionario col quale lo Stato deve misurarsi.

Nonostante la rigida gabbia giuridica in cui si vuole relegare la contraddizione rappresentata in questo processo, esso mette a nudo impietosamente la realtà politica: il più organico progetto politico elaborato dalla DC per affrontare i delicati mutamenti del generale processo di riassetto dello Stato, è stato sostanzialmente incrinato negli equilibri politici che lo sostenevano ad opera dell’opposizione di classe e dell’attacco portato dalle BR.

La messa a punto del progetto politico demitiano nasce dalla necessità di riformare le istituzioni a partire dal modo con cui l’Esecutivo esercita il governo del paese, una necessità posta dai mutamenti emersi in questa fase dell’imperialismo e nel contempo dalla necessità di normalizzare il contesto di classe e il suo piano rivoluzionario.

Un difficile percorso delle forze politiche e delle istituzioni borghesi, proceduto per affrontamento contingente delle contraddizioni a partire dal fallimento del progetto di “unità nazionale”. I governi di coalizione a presidenza “laica”, che hanno ereditato i problemi irrisolti dall’incompiuto progetto moroteo, pur nell’apparente emergenzialità delle soluzioni, hanno effettuato in ultima analisi cambiamenti significativi del quadro istituzionale, ratificando modifiche di fondo nel rapporto classe/Stato. Ciò è potuto avvenire sulla base dell’offensiva controrivoluzionaria attuata dallo Stato negli anni ’80 per rompere gli equilibri politici relativi ai rapporti di forza tra le classi, permettendo così alla borghesia imperialista di acquisire il vantaggio su cui poi ha avviato i programmi antiproletari.

L’arretramento del progetto di “unità nazionale” lasciava irrisolte le ragioni di fondo in cui tale progetto si inseriva, vale a dire l’ulteriore balzo compiuto dal sistema capitalistico dopo quello attuato a tappe forzate del dopoguerra. Il progetto demitiano si colloca come ulteriore importante momento di progettualità politica tesa a dare corpo alle esigenze generali della borghesia imperialista e, per altro verso, come espressione del “rinnovamento” del Partito, teso al recupero delle condizioni politiche per riconquistare la Presidenza del Consiglio, ponendosi al centro degli equilibri da instaurare per l’affermazione del progetto medesimo. Ma questi equilibri politici non nascono ovviamente da mediazioni tra partiti e negli ambiti interborghesi, per quanto il grado di avanzamento delle contraddizioni si rifletta in una instabilità di tutti gli ambiti del potere dello Stato; la base principale su cui si sono potuti inserire questi nuovi equilibri politici, nasce dalle modifiche apportate con la controrivoluzione degli anni ’80 nella mediazione politica tra classe e Stato, poiché la sua sostanza è stata incorporata nelle relazioni politiche tra le classi.

Il riferimento ai modelli di democrazia rappresentativa europei, per non diventare un obiettivo vuoto, ha dovuto tener conto del tipo di conflitto di classe esistente in Italia; per questo il progetto demitiano presupponeva di potersi instaurare nel contesto di uno scontro di classe in cui fosse nettamente ridimensionata la presenza politica della sua avanguardia rivoluzionaria: le Brigate Rosse.

Questo si era proposto l’offensiva controrivoluzionaria degli anni ’80 attraverso i diversi livelli di controguerriglia messi in campo: dalle torture dell’82, al progetto di “soluzione politica” per la guerriglia, elaborato dai massimi vertici dello Stato. Ma invece di eliminare il problema dello scontro rivoluzionario diretto dalle BR, come nei propositi della borghesia e dello Stato, esso si è risolto paradossalmente nel salto di qualità della guerriglia, proprio a causa dell’approfondimento dei termini complessivi dello scontro classe/Stato, rivoluzione/controrivoluzione.

La maturità complessiva acquisita dalle BR, nonostante gli errori e la giovinezza politica, nonostante il duro attacco ricevuto, ha permesso, nella dialettica sul terreno rivoluzionario con le istanze dell’autonomia di classe, di misurarsi con i nuovi termini dello scontro di classe e di forgiare nelle condizioni della controrivoluzione il suo riadeguamento teorico, politico, organizzativo, mantenendo nel contempo ferme le discriminanti strategiche di fondo. Mentre sul piano generale della lotta di classe il quadro di scontro che si prefigurava era caratterizzato da una vasta conflittualità politica e sociale di molteplici settori di classe che, avendo fatto i conti con la controrivoluzione degli anni ’80 e con l’arretramento generale che essa ha provocato, cercava di dotarsi di strumenti idonei e forme nuove di organizzazione. Una conflittualità dai caratteri fortemente resistenziali, ma non difensivi, che nei suoi settori più maturi ha rappresentato la continuità con il filone dell’autonomia di classe storicamente determinatasi in Italia, e che è tale anche per la presenza ventennale della guerriglia. A lato di questo terreno prettamente soggettivo, riguardante tutti i piani dello scontro di classe, sullo sfondo si è maturato il progressivo montare delle contraddizioni generali che scaturiscono dalla crisi e il premere delle esigenze relative alla formazione dei nuovi termini monopolistici.

Questo è il quadro entro cui si erano coagulati i fragili equilibri che riconducevano al progetto demitiano, o, meglio, all’attuazione di alcuni passaggi del progetto di riforma (la regolamentazione delle funzioni delle due Camere per funzionalizzarle alle decisioni dell’Esecutivo; la riforma delle autonomie locali, con parziale sperimentazione delle nuove regole elettorali), mentre il nodo sostanziale della riforma, la modifica della legge elettorale, non poteva che essere un punto di arrivo in cui doveva (e dovrebbe) convergere non solo la maggioranza di governo ma anche l’opposizione istituzionale, essendo questa una modifica che tocca l’impianto costituzionale del paese, attraverso il consolidamento degli equilibri politici generali tra le classi. Un progetto molto articolato, quindi, sia nelle tappe politiche da mettere in pratica sia nei fini perseguiti, i quali sono così sintetizzati dalla nostra Organizzazione, nella rivendicazione:

«…l’obiettivo è quello della “democrazia governante” dove al massimo dell’accentramento del potere reale corrisponde il massimo della democrazia formale. È questo il progetto politico demitiano, formalmente teso alla costruzione di una “democrazia finalmente matura”; nei fatti teso a concentrare tutti i poteri nelle mani della maggioranza di governo nel nome di un interesse generale del paese che nella realtà è solo l’interesse generale della frazione dominante di borghesia imperialista, nella normale dialettica tra maggioranza e opposizione in cui la maggioranza ha gli strumenti di governo e l’opposizione ha la facoltà di critica senza però poter intervenire direttamente nei processi decisionali, in un gioco in cui apparentemente i partiti rappresentano l’intera società, mentre nella realtà rappresentano solo gli interessi della frazione dominante di borghesia imperialista. Un progetto politico che nel complesso tende a svincolare il governo della società dalle spinte antagoniste, garantendo la stabilità politica del sistema; è per questo che il progetto politico demitiano è in questo momento il “cuore dello Stato”, in quanto da un lato sancisce l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi della borghesia imperialista, dall’altro assesta e ratifica i rapporti di forza tra classe e Stato, in favore di quest’ultimo: da ciò il suo carattere controrivoluzionario e antiproletario…».

È all’interno di questo contesto che tale progetto, centralmente dominante nei rapporti politici tra classe e Stato, è attaccato e disarticolato dalla nostra Organizzazione, un intervento che porta in sé tutte le potenzialità politiche e strategiche insite nel riadeguamento dell’avanguardia combattente, e in quanto tale capace di portare la sua iniziativa politica e militare ancora una volta al punto più alto dello scontro tra le classi: ovvero laddove si determina la ridefinizione dei rapporti politici tra classe e Stato, dei rapporti di forza, delle modalità infine di governo relative alla mediazione politica tra le classi.

Un intervento rivoluzionario che, essendo espressione dell’attività complessiva operata dalle BR, ha spostato in avanti il livello dello scontro; una dinamica consapevolmente prodotta e calibrata dalle BR ai rapporti di forza generali e alle condizioni dello scontro, un contesto che si è riflesso sulla rideterminazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. L’attacco delle BR all’ideatore del progetto, nonché elemento politico di spicco nel ricomporre e ricondurre le forze politiche intorno agli equilibri necessari per effettuare i passaggi del progetto, ha di fatto aperto un varco, avendo colto l’elemento di coesione di quegli equilibri su cui dovevano stringersi le intese politiche; in questo senso ha contribuito sostanzialmente al suo ripiego e ad un relativo scompaginamento del quadro politico e istituzionale, questo poiché ha riguardato l’incrinamento degli equilibri legati all’aspetto dominante della contraddizione classe/Stato, che per la sua importanza rimette parzialmente e relativamente in gioco gli equilibri tra le classi.

In questo senso la disarticolazione del progetto dominante della borghesia imperialista permette di acquisire lo spazio politico, il termine relativo di rapporto di forza per l’avanzamento della dinamica complessiva dell’attività rivoluzionaria a partire dalla dialettica attacco-costruzione-organizzazione-attacco, chiarendo anche che l’iniziativa politico-militare non procede per “simbolismi” (non si riferisce cioè ad obiettivi simbolici) che servano a svelare la natura delle contraddizioni di classe (che caso mai ne è un effetto), ma essa è il concreto modo, storicamente determinato, di procedere di questo particolare tipo di conflitto che è la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli imperialiste. Quindi l’attacco si pone l’obiettivo di “danneggiare” il nemico di classe (disarticolazione) all’interno dei giusti criteri affermatisi nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione, calibramento dell’attacco stesso, che permettono di avere il massimo di risultato politico con il minimo sforzo, data la disparità di forze esistente tra la guerriglia e lo Stato.

Da questo agire l’avanguardia combattente sintetizza il vantaggio materiale in forza politica, attraverso la costruzione-consolidamento dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata adeguato ai livelli di scontro e agli obiettivi della fase rivoluzionaria. Il ridimensionamento del progetto di riforma della DC ha significato sostanzialmente uno spostamento di rotta nell’avanzare del processo di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, vale a dire che esso procede dentro a spinte e controspinte senza al momento ricondursi ad una precisa progettualità. Le attuali difficoltà non significano invalidamento assoluto delle linee direttrici su cui dovrà imperniarsi la riforma, e questo indipendentemente dalla situazione congiunturale molto contraddittoria.

La natura del contesto di scontro politico classe/Stato e il piano di scontro rivoluzionario chiariscono il portato di tali contraddizioni, da cui scaturisce l’impasse politico dello Stato a porre mano ai passaggi ulteriori, impasse propria dell’attuale fase politica che di riflesso si ripercuote sugli assetti politici della maggioranza stessa e, in primo luogo, non può che riflettersi dentro la DC in quanto forza politica che fino ad ora si è fatta carico dell’elaborazione e dell’attuazione degli indirizzi politici sui quali marcia il processo di riadeguamento dello Stato.

I passaggi e le proposte di legge su cui erano stati predisposti accordi, durante il governo De Mita, se non si sono arenati procedono con difficoltà (vedi legge sulle autonomie locali e referendum), sfasature che rientrano tra i costi politici derivati dalla caduta del progetto demitiano. Mentre per altro verso l’attuale Esecutivo, sulla base delle precedenti modifiche istituzionali, anche attraverso forzature della massima asprezza, ha operato per dare un forte impulso ai passaggi già fatti nella direzione di armonizzare agli accordi di maggioranza l’attività delle Camere, le quali devono tendere ad un ruolo di ratifica delle decisioni dell’Esecutivo.

Un contesto che, dentro la direttrice di rafforzamento del ruolo e degli strumenti dell’Esecutivo, investe tutto il quadro dei rapporti: Presidenza del Consiglio/governo, governo/maggioranza, maggioranza/opposizione; questo nel contesto di direttive di irreggimentazione che si esprimono a livello delle forze di maggioranza attraverso filtri di indirizzo-controllo la cui elaborazione è sempre più centralizzata; nonché sugli sviluppi parlamentari, nelle modifiche delle regole che vigono nell’attività del Consiglio di Gabinetto e nelle attività dei Ministeri. Queste modifiche, permanendo all’interno dell’attuale funzione istituzionale delle due Camere, producono una continua instabilità parlamentare, riflettendo la contraddizione, il contrasto fra rappresentanza istituzionale in quelle aule e il conflitto reale tra le classi nel paese; un conflitto reso assai acuto dalla possibilità di legiferare su questioni di enorme rilevanza per le condizioni di vita politiche e materiali del proletariato (ad esempio tagli alle spese sociali, revisione del diritto di sciopero, ecc.).

Il prodursi di modifiche sostanziali nell’ambito istituzionale attraverso una serie di colpi di mano crea sì una situazione di relativa instabilità, ma lavora anche alla preparazione di condizioni funzionali per impattare quello che è il vero nodo di questa fase istituzionale: la riforma elettorale. Questo in un contesto in cui non si formano equilibri politici stabili nella maggioranza ed è fumosa ed incerta la modalità di coinvolgimento delle opposizioni istituzionali, per quanto l’insieme dei partiti esprima palesemente una volontà di “piegare” le istituzioni ai propri schemi di potere nella futura configurazione della riforma elettorale.

Nella sostanza è molto problematico risolvere con formule varie di rappresentanza partitica l’urto del conflitto di classe, cosa che tra l’altro avviene solo formalmente; l’aspirazione a conformarsi verso i modelli di democrazia rappresentativa europei deve fare i conti con i caratteri tipici della situazione italiana, non solo per le particolarità di sviluppo dello Stato, ma soprattutto e in conseguenza del tipo di lotta di classe, per una coscienza anti-istituzionale e anti-statale affermatasi negli strati più maturi della classe. È questo il fattore che non permette evoluzioni scontate del sistema di rappresentanze istituzionali borghese e, d’altro canto, l’esigenza del governo delle contraddizioni necessario per legiferare, quindi formalizzare le decisioni prese, spinge verso una dinamica di rafforzamento del governo, del ruolo della Presidenza del Consiglio; un fattore politico che, nel quadro più complessivo del paese, prefigura ed avvicina la svolta ad una “Seconda Repubblica”. Inoltre, sulla situazione politica interna, si ribalta l’andamento determinato dal quadro politico internazionale, ovvero il movimento della catena imperialista all’interno di un preciso approfondimento della tendenza alla guerra.

Ciò si ripercuote nel nostro paese come elemento di accelerazione delle contraddizioni mettendo al contempo in risalto anche tutti i limiti e le caratteristiche inerenti alla formazione dello Stato in Italia. La tendenza al rafforzamento delle forme politiche della dittatura borghese è appunto un processo altamente contraddittorio a causa del contesto materiale su cui deve riflettersi; una concretezza che, oltre a dimostrare quanto sia difficile “pianificare” soluzioni istituzionali, mette in risalto le difficoltà nell’affrontare le contraddizioni prodotte dalla crisi economica e dall’approfondimento della dinamica dell’imperialismo, acutizzandosi molti ordini di conflitto, principalmente tra campo proletario e Stato e tra tutte le fasce di borghesia. Ciò provoca forti squilibri negli assetti dello Stato, il cui contesto deve essere governato negli interessi della frazione dominante di borghesia imperialista, interessi che divaricano maggiormente le contraddizioni, poiché le soluzioni prese investono le condizioni di vita del proletariato.

In sintesi, da un lato lo sviluppo dello scontro di classe nel nostro paese che esprime una elevata maturità per la presenza del processo rivoluzionario e dall’altro le contraddizioni generali della crisi, sono i fattori principali che decidono in ultima istanza l’attuabilità dei progetti borghesi, gli equilibri possibili e le modalità entro cui possono esplicarsi.

Per comprendere la complessità e contraddittorietà dei processi di riadeguamento che attraversano tutti gli Stati a capitalismo maturo, bisogna fare riferimento al grado di crisi-sviluppo in questa fase dell’imperialismo: nella misura in cui se ne approfondiscono e se ne definiscono i nuovi termini, ne deriva la necessità del riadeguamento degli Stati quali “involucri sovrastrutturali del capitalismo”.

La funzione degli Stati si è andata a complessificare attraverso salti di qualità in relazione alle tappe dello sviluppo storico del capitalismo. Le caratteristiche dello Stato contemporaneo nei suoi tratti fondamentali vanno fatte risalire alla grande crisi del ’29, una crisi che attraversò tutta la catena imperialista di quel tempo e costrinse gli Stati ad intervenire direttamente nell’economia (ad esempio furono definite politiche di bilancio specifiche a quel tipo di crisi, regolamentata la formazione del mercato del lavoro e del credito, lo Stato si fece capitalista reale); furono adottate in sintesi una moltitudine di interventi di politica economica per difendere e promuovere il proprio capitale monopolistico a base nazionale, indipendentemente dai caratteri assunti dalle forme-Stato di quel periodo. Esemplificativo di questo dato è lo Stato fascista, il quale faceva riferimento al nascente capitale monopolistico e che era contemporaneamente la risposta controrivoluzionaria della borghesia alla rivoluzione sovietica e ai moti insurrezionali combattuti dal movimento consiliare del biennio rosso.

Con la seconda guerra mondiale, nel contesto creato dal bipolarismo, con la nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati, espressione dello sviluppo ineguale del capitalismo e delle posizioni economiche e politiche acquisite nel corso dello stesso conflitto dalle borghesie nazionali, comincia quel processo di integrazione gerarchizzata della catena imperialista che nei suoi tratti principali a tutt’oggi conosciamo; un processo che sotto il dominio del capitale finanziario ha visto affermarsi un piano di internazionalizzazione delle economie e della produzione – pur all’interno della spinta concorrenziale e anarchica del capitale e delle sue ricorrenti crisi cicliche. Ciò ha trasformato il capitale monopolistico a base nazionale in capitale multinazionale-multiproduttivo; un processo che, fin dal suo inizio, ha portato alla formazione di una frazione dominante di borghesia imperialista e del proletariato metropolitano in ogni singolo Stato della catena imperialista.

Questo dato storico evidenzia come lo Stato abbia definito nel tempo un maggior peso e qualità dei suoi interventi di politica economica, pur permanendo essi nella sfera della circolazione. Infatti, più le politiche economiche assumono peso nel supportare e favorire il ciclo capitalistico, più le funzioni dello Stato tendono a complessificarsi; con ciò lo Stato non perde la sua natura, non diventa soltanto il comitato d’affari della frazione dominante della borghesia imperialista né tantomeno il “semplice“ mediatore del conflitto di classe; questa duplice natura viene invece esaltata nel ruolo e nella funzione politica dello Stato, poiché, quale organo delle forme mature di dittatura borghese, riflette nel rapporto conflittuale con il proletariato i livelli di controrivoluzione stabilitisi storicamente nel corso dello scontro di classe.

Le attuali tendenze di riassetto degli Stati per le contraddizioni provocate dalla crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali e mezzi di lavoro, sono soggette a percorsi contraddittori dovendo far fronte al portato di contraddizioni sul piano politico e sociale, poiché l’acutezza della crisi restringe il campo delle risposte possibili cui la borghesia imperialista può far ricorso. Dentro questo quadro complessivo l’erosione progressiva dei margini di manovra nell’attuazione di politiche controtendenziali, determina una crescente difficoltà per gli Stati a ricucire e spostare in avanti le contraddizioni che si producono su tutti i piani, derivandone una generale instabilità politica. Ciò si riflette nella necessità di rafforzare quegli strumenti politici di cui lo Stato dispone per pesare sugli equilibri generali a favore della borghesia imperialista determinando un “irrigidimento” della mediazione politica.

I processi di riassetto degli Stati sono collocati all’interno della tendenza dell’imperialismo in questa fase. Dal punto di vista generale si assiste all’approfondimento dei processi di integrazione e interdipendenza tra le economie della catena relativamente alla maturazione dei nuovi livelli di concentrazione e centralizzazione del capitale monopolistico, un movimento da cui scaturiscono le attuali condizioni della concorrenza intermonopolistica nei mercati capitalistici. Un processo economico di fondo che muove ad un maggior compattamento dei paesi della catena imperialista a partire dai livelli di integrazione politico-economico-militare affermatasi nel dopoguerra. Linee di compattamento caratterizzate nel loro movimento dall’avanzamento della tendenza alla guerra entro gli equilibri stabiliti dalla dominanza della contraddizione Est/Ovest a partire dall’aggravarsi della crisi economica.

Da qui la necessità per i paesi della catena imperialista di stabilire risposte concertate sul piano delle politiche economiche e per altro verso di ridefinire le relazioni politiche e militari tra i paesi del blocco. Questo spinge all’avanzamento qualitativo dei rapporti interimperialistici, principalmente a partire dai processi di coesione politica dell’Europa Occidentale che si riflettono sul piano politico e militare dell’Alleanza occidentale.

Un piano che investe tutti gli Stati della catena e che li spinge ad attivizzarsi intorno alla definizione di queste politiche (le quali procedono in modo nient’affatto lineare a causa delle contraddizioni interimperialiste). Scelte che si riflettono nel contesto di ogni Stato e che investono gli stessi processi di rifunzionalizzazione. In altre parole, la definizione qualitativa delle politiche concertate investe le funzioni politiche che riguardano il modo con cui lo Stato si relaziona al piano internazionale e assume il suo ruolo nella catena imperialista. Tale dinamica, nella misura in cui favorisce attraverso questi processi di coesione la definizione qualitativa delle scelte politiche dell’imperialismo, rafforza i singoli Stati relativamente alla loro collocazione nella catena e di conseguenza si riflette anche sulla forza politica di cui la borghesia imperialista può disporre nel rapporto generale col proletariato.

In sintesi, lo sviluppo integrato delle economie, di conseguenza le similitudini politico-sociali dei paesi della catena, determina una tendenza all’omogeneizzazione dei caratteri della forma-stato; una tendenza che, proprio perché investe il contesto di ogni Stato, dà luogo ad un processo che, contrariamente a quanto fenomenicamente appare, va ad esaltare la funzione dello Stato. Questo perché lo Stato, essendo la sovrastruttura del modo di produzione capitalistico, non può non riflettere la natura concorrenziale e di sviluppo ineguale dello stesso. I processi di coesione economica e politica avvengono in un contesto fortemente concorrenziale, non è quindi un processo pacifico di unità sovranazionale.

Non bisogna scambiare la tendenza naturale del capitale ad espandere la propria influenza con un processo di formazione di uno Stato sovranazionale, questo perché in primo luogo lo Stato, storicamente, è manifestazione e prodotto dell’antagonismo tra le classi e la sua forza concreta è sempre l’espressione della concreta lotta politica tra le classi; non può quindi la forma-Stato riferirsi ad una generica inconciliabilità tra le classi. Per questo complesso di fattori il superimperialismo è privo di fondamento scientifico.

Da questa analisi generale che definisce il quadro storico e la fase dell’imperialismo, ne discende sul terreno rivoluzionario l’assunzione dell’antimperialismo come dovere prioritario di ogni forza rivoluzionaria conseguente – a maggior ragione per le guerriglie dell’Europa Occidentale – poiché operano all’interno del cuore dell’imperialismo, sapendone però collocare il piano e la portata rispetto all’antimperialismo praticato dalle forze rivoluzionarie nella periferia. Per la guerriglia del centro imperialista si è trattato di attualizzare l’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni dello scontro nella metropoli imperialista.

Si è reso cioè evidente che, stante l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico-militare, è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo in quest’area geo-politica per realizzare il processo rivoluzionario, sia che si tratti di rivoluzione socialista, sia che si tratti di liberazione nazionale.

L’antimperialismo per le BR si materializza nel contributo alla costruzione e consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo. In altri termini, per la nostra Organizzazione la tematica dell’antimperialismo deve imperniarsi intorno allo sviluppo di politiche di alleanza con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo in quest’area geo-politica (europea, mediorientale, mediterranea) al fine di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo. Più precisamente, si tratta di lavorare a concretizzare, in successivi momenti di unità, l’attacco all’imperialismo, all’interno del criterio politico che l’attività del Fronte non deve essere impedita dalle peculiarità di analisi e di concezione politica delle diverse forze rivoluzionarie che vi lavorano, né tantomeno discriminare l’attività del Fronte come unica attività rivoluzionaria, ma essa deve stringere l’unità realizzabile nell’attacco pratico.

Per questo affermiamo insieme alla RAF che «non si tratta di fondere ciascuna organizzazione in un’unica organizzazione ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo». In questo senso cioè il consolidamento della politica di Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria.

L’antimperialismo per le BR vive in unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato, costituendo entrambi i perni su cui si costruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata.

Se dal punto di vista della sostanza dell’analisi leninista dello Stato nulla è cambiato nell’arco di questo tempo storico, l’espressione e il ruolo della macchina statale nella fase dell’imperialismo si sono però complessificati, rendendo relativamente più stabile la dittatura della borghesia. Il relativo affinamento delle sue forme di dominio è il risultato di un salto di qualità avvenuto con la fine del secondo conflitto mondiale.

Già il contesto creatosi col bipolarismo ha rafforzato quei processi di integrazione economica tra i paesi della catena stringendoli nel piano politico-militare dell’Alleanza Atlantica all’interno della contraddizione Est/Ovest.

In questo quadro va inserita pienamente la controrivoluzione imperialista capeggiata dagli USA che ha operato nella repressione-contenimento dei processi rivoluzionari e di liberazione sviluppatisi nel corso della guerra che attraversavano molti paesi europei. Dal tipo di restaurazione che ne è risultata con la normalizzazione imperialista ne è derivata l’incorporazione della sua sostanza nelle relazioni politiche che la borghesia ha instaurato con la classe, definendosi al suo interno un preciso tipo di relazioni: la controrivoluzione preventiva come politica costante finalizzata a contenere e a non far collimare l’antagonismo con il terreno rivoluzionario.

Gli Stati usciti dal dopoguerra sono quindi espressione dell’ulteriore sviluppo dell’imperialismo, e nelle sue forme politiche sono andati a consolidarsi i caratteri delle democrazie rappresentative contemporanee. La questione principale da rilevare è una relativa similitudine nella mediazione politica classe/Stato in tutti gli Stati a capitalismo maturo. In altre parole quel complesso di modalità, forme, strumenti con cui lo Stato si rapporta alla classe e governa l’insieme della società, a partire dal fatto che lo Stato è espressione dell’antagonismo inconciliabile tra le classi e contemporaneamente mediatore del conflitto, nonché rappresentante degli interessi generali della borghesia imperialista; quindi la mediazione politica è la risultante nelle forme e nei modi del rapporto di forza e politico dello scontro di classe, la cui sostanza viene appunto mediata, cioè veicolata, dagli strumenti e organismi politici istituzionalmente preposti a tale scopo. Al suo interno vi influiscono da un lato l’insieme dei “tamponi” politici che costituiscono la controrivoluzione preventiva, dall’altro la forza politica che la classe operaia e il proletariato si sono conquistati nei loro processi di lotta e di emancipazione generale a cavallo di questo secolo. Una risultante che per la sua consistenza storica è un dato affermato nei caratteri della mediazione politica.

Questi dati danno alla mediazione politica la caratteristica di “tenere” entro tempi determinati le lacerazioni e le forzature che lo Stato cerca di operare in determinate circostanze di scontro. Essa, in linea di massima, non consente un “uso indiscriminato” (di massa e prolungato nel tempo) degli strumenti coercitivi e repressivi straordinari (vale a dire uccisioni, torture…) contro l’opposizione di classe, pena lo stravolgere la mediazione, l’uscire quindi dalle forme politiche che si sono stabilite mediamente a livello generale, a meno di non riferirsi a specifiche condizioni di scontro nelle quali è attiva la presenza del processo rivoluzionario.

Ma anche in questo caso l’uso di questi strumenti è sempre calibrato agli specifici caratteri dello scontro, per come esso si è formato storicamente, che ad esempio “obbligano” ad un ricorso massificato di strumenti repressivo-coercitivi, in Irlanda, in Spagna, mentre per quanto riguarda la RFT, l’Italia e la Francia, il ricorso a misure “straordinarie” è necessariamente limitato a determinate circostanze dello scontro, con un più marcato carattere selettivo. Il fattore rivoluzionario, infatti, si riflette nella mediazione politica per l’influenza che ha nei rapporti di forza tra le classi; il conseguente contesto del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che si determina, sottopone la mediazione politica all’assorbimento delle modifiche sostanziali conseguenti all’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. Questo complesso sistema di pesi e contrappesi politici, giuridici e istituzionali che fanno capo all’uso della democrazia rappresentativa contemporanea è il relativo affinamento compiuto dalle forme politiche di dominio negli Stati a capitalismo maturo.

Quello che si può affermare quindi, è che i caratteri generali e fondamentali della guerriglia, validi in ogni Stato a capitalismo maturo, determinano un processo di maturazione nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione che obbligatoriamente si generalizza in ogni contesto e in ogni Stato. Cosicché l’avanzamento del processo rivoluzionario che si sviluppa anche in paesi che non hanno avuto precedenti, deve misurarsi per forza di cose con il livello dato, nel contesto generale, dal rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Sui caratteri della democrazia rappresentativa contemporanea italiana si sono inseriti il complesso di fattori che derivano dal contesto storico-politico ed economico-sociale in cui lo Stato stesso si è formato. Fattori che ne hanno in parte condizionato lo sviluppo dando luogo alla sua relativa originalità nello specifico percorso seguito dalle forme di dominio borghese.

La nascita della Repubblica è il risultato dei rapporti di forza proletariato/borghesia usciti dal dopoguerra, data la qualità del processo di liberazione dal nazifascismo che, per la storia politica del proletariato, così ricca di esperienze in termini di lotte sociali e tentativi di sbocchi rivoluzionari, era caratterizzata oggettivamente da un movimento insurrezionale di massa e con connotazione classista e, al tempo stesso, è il risultato di un processo molto originale nella formazione/sviluppo del capitale monopolistico a base multinazionale che nella sua evoluzione a tappe forzate ha portato l’Italia a trasformarsi nel breve arco di un quarantennio da paese agricolo industriale a paese industrializzato.

Da questi due fattori principali è necessariamente derivata la classe dominante e le sue rappresentanze politiche, le cui caratteristiche risentono, da una lato della velocità di formazione della democrazia rappresentativa nel contesto del bipolarismo, dall’altro del fatto che essa nel formarsi ex novo sulle condizioni mutate dell’imperialismo nel periodo post-bellico, aveva come riferimento storico concreto l’esperienza dello Stato liberale monarchico ed aveva ereditato in parte apparati e personale politico del regime fascista.

La collocazione dell’Italia nell’Alleanza Atlantica ne ha fortemente caratterizzato lo sviluppo politico ed economico, dato il rapporto instauratosi con gli USA che, se da un lato risentiva del più generale processo di normalizzazione dell’Europa Occidentale teso a creare le condizioni politiche necessarie alla penetrazione del capitale finanziario USA, dall’altro ha avuto con essa un tipo di relazioni bilaterali particolarmente stretto e su più piani, testimoniato sia dall’influenza statunitense nel quadro politico interno, sia dal supporto particolare offerto dal Piano Marshall, data l’arretratezza economica dell’Italia.

Il plasmarsi della sovrastruttura statale sulle condizioni dettate dal ripristino dell’ordine imperialista e in un contesto di classe ricco di fermenti rivoluzionari ha condizionato la stessa impalcatura istituzionale e, ciò che è più importante, il personale e le forze politiche atte al suo funzionamento.

La stessa formazione della DC avviene in questo contesto, assumendo nel dopoguerra la rappresentanza più fedele della borghesia imperialista e assicurandone gli interessi generali attraverso il concorso delle altre forze politiche in grado di articolare la necessaria dialettica interborghese. Nello stesso tempo ottemperando alla funzione di stabilizzazione e normalizzazione del quadro politico interno, all’interno del quale l’insieme dei partiti costituiranno il garante democratico delle feroci politiche antiproletarie degasperiane. Una normalizzazione e stabilizzazione che si è avvalsa, nelle diverse fasi dello scontro, di forzature vere e proprie nelle relazioni politiche tra classe e Stato, operate anche attraverso l’uso del terrorismo di Stato (da Portella delle Ginestre alle stragi degli anni ’70 e ’80). È in relazione a queste caratteristiche che possiamo rilevare nel percorso storico e politico dello Stato della borghesia imperialista nostrana dentro al processo di assestamento/approfondimento delle forze di dominio borghese, un unico tratto antiproletario e controrivoluzionario inerente alla natura e allo sviluppo dello scontro di classe, un filo organico dentro il procedere non lineare di questo scontro che va dalla nascita della democrazia rappresentativa all’attuale “fase costituente” che evolve verso una “Seconda Repubblica”.

Un filo che passa per il disarmo politico e militare del movimento di resistenza e per la restaurazione borghese degli anni ’50, attuata con feroci politiche antiproletarie così da ottenere un contesto pacificato necessario ai nuovi termini di produzione nell’ambito della concorrenza intermonopolistica e all’accumulazione del capitale in pieno ciclo espansivo. È non a caso di quegli anni il primo tentativo di “manipolazione” del sistema elettorale (la legge truffa) tendente ad agevolare forme di governo “forti” e stabili.

Per giungere poi alla politica del centro-sinistra degli anni ’60, tesa ad adeguare il governo del paese alla nuova situazione economico-sociale, quando con i fatti di Piazza Statuto si ravvisa l’esordio politico della nuova figura operaia nata dal modello tayloristico adottato nella nuova organizzazione del lavoro, frutto del salto tecnologico compiuto nella produzione e nei conseguenti nuovi livelli di sfruttamento: dunque il centro-sinistra come l’equilibrio politico più adatto alle necessità di adeguare la sfera della mediazione politica attraverso un nuovo quadro politico-istituzionale per smussare e contenere gli aspetti più avanzati della lotta di classe.

È poi la volta del tentativo neo-gollista di stampo fanfaniano dei primi anni ’70 teso a contrastare in termini reazionari le forti spinte dell’autonomia di classe e dell’esordio della guerriglia.

Nell’evolvere della crisi economica, l’unità nazionale morotea è tesa a porre gli elementi di superamento del sistema di potere costruito intorno allo “stato sociale” nel suo duplice senso: di tentativo di cooptazione della classe alle scelte borghesi tramite le rappresentanze istituzionali (anticipando così la sostanza del “neocorporativismo”) e di processo di riqualificazione dei partiti, così da porre mano alle modifiche istituzionali indispensabili a determinare un quadro politico stabile. Ciò in presenza di un forte scontro politico di classe e del suo legarsi dialetticamente alla strategia della lotta armata. Due elementi il cui peso andrà a determinare la messa in crisi del progetto moroteo.

Per giungere alla controffensiva dello Stato degli anni ’80, vera e propria controrivoluzione che consente alla borghesia imperialista di riconquistare posizioni di forza nei confronti del campo proletario.

Una controffensiva che si colloca proprio a partire dallo spessore del conflitto di classe e che ha trovato nel terreno rivoluzionario diretto dalle BR il suo punto più alto e la sua risoluzione di potere. E per questo è partita dall’attacco alla nostra Organizzazione e alle espressioni più mature dell’autonomia di classe, per riversare il suo peso sull’intero corpo di classe, incidendo sulle condizioni politiche e materiali del proletariato. Una dinamica controrivoluzionaria che, per le sue caratteristiche, ha modificato la mediazione politica tra classe e Stato, il modo stesso di governare il conflitto di classe in riferimento all’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione e alle dinamiche di sviluppo dell’autonomia di classe, poiché le loro caratteristiche sono influenzate dalla dialettica instaurata con la guerriglia. Un elemento politico questo che ha comportato una pressione estesa su tutte le componenti dell’autonomia di classe dentro specifici calibramenti, finalizzati ad impedire che si esprimesse e si coagulasse l’antagonismo contro lo Stato. Un intervento che ha permesso in questo contesto di aprire la strada e gestire le ristrutturazioni economiche rese impellenti dalla crisi. All’interno di questo quadro poi si sono rese possibili le forzature necessarie per dare corso alle prime ratifiche sul piano istituzionale dei rapporti di forza favorevoli alla borghesia, di cui i Patti neocorporativi sono stati primo elemento e base di ulteriore avanzamento, concretizzando, nella modifica delle relazioni industriali, con l’avocazione al vertice della contrattazione, i termini verso i quali devono conformarsi le parti sociali, che sanciscono nella sostanza il modello di rappresentanza istituzionale sganciato dagli interessi di classe.

Da questo passaggio politico significativo assestato nei confronti della classe sono scaturiti i momenti di equilibrio all’interno delle coalizioni (i governi “laici”) che hanno dato concretizzazione, dentro la tendenza alla centralizzazione delle funzioni politiche dello Stato, ai processi di esecutivizzazione. Processi che nell’ultimo decennio hanno maturato sostanziali passaggi tesi a svincolare e impermeabilizzare l’azione di governo, nella forma, dalle spinte di natura particolaristica dei partiti, nella sostanza, dalle spinte della lotta di classe.

Dentro alla tendenza generale di riadeguamento dello Stato, calato nello specifico contesto italiano, è scaturito il progetto politico demitiano.

Non di un tentativo “reazionario” si tratta ma di avanzamento delle forme di dominio della borghesia imperialista, di affinamento della democrazia formale. Un progetto da un lato teso a sancire l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi della borghesia imperialista, dall’altro a ratificare e dare assestamento ai rapporti di forza classe/Stato. Riferito quindi alle esigenze della frazione di borghesia imperialista nostrana e all’altezza delle posizioni che l’Italia deve assumere nel contesto imperialista, soprattutto nello specifico europeo, e che possono avanzare solo dentro la ridefinizione dei rapporti di forza tra classe e Stato che permettono di procedere all’attuazione di quei provvedimenti di politica economica imposti dal ciclo, attraverso la modifica degli strumenti e dei soggetti istituzionali con cui lo Stato si rapporta al proletariato, nel modo di governare il conflitto di classe, teso a sancire, assestare e dare avanzamento ai caratteri della controrivoluzione incorporandoli nel quadro della mediazione politica classe/Stato.

L’ossatura del progetto politico demitiano per questo era imperniata sulla formazione di coalizioni che si possono alternare alla guida del governo, dandogli così un carattere di forte stabilità, una maggioranza ed un Esecutivo in grado di garantire da un lato risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico interno e internazionale. Il massimo cioè della “democrazia formale”, dove l’alternanza fa la funzione dell’opposizione per riuscire a contenere le spinte conflittuali che si producono nel paese.

Un disegno complesso che necessita anche di stimolare la funzione della democrazia rappresentativa attraverso strumenti ad hoc nella raccolta di consenso attivo attorno alle scelte dell’Esecutivo e della maggioranza che lo presiede.

Un processo teso, attraverso fasi di transizione, ad approdare ad una nuova fase che nello snodo della riforma elettorale apra il terreno ad una “Seconda Repubblica”. Passaggi transitori di un’importanza fondamentale sia nel verificare la tenuta politica degli schieramenti, sia nel tradurre sul piano concreto i processi di riformulazione degli apparati dello Stato, riferiti all’armonizzazione del loro ruolo intorno alle scelte politiche dell’Esecutivo (Magistratura, Corte Costituzionale, Corte dei Conti, autonomie locali). La proposta di riforma degli enti locali intendeva fornire un terreno concreto alla sperimentazione dei termini di rifunzionalizzazione complessiva, da un lato tesa a funzionalizzare i poteri decentrati – sia in termini di spesa che di gestione – all’Esecutivo, dall’altro e soprattutto, come primo banco di prova della praticabilità di una nuova legge elettorale.

Infatti il nodo più delicato è il processo di modifica del ruolo e delle funzioni che le forze politiche devono rivestire dentro una nuova geografia politica, in quanto questo terreno investe i rapporti politici tra le classi, cioè gli strumenti attraverso i quali la rifunzionalizzazione dello Stato deve essere mediata in relazione alle condizioni politiche generali del paese. Strettamente legate a ciò sono le esigenze, ben presenti nel progetto demitiano, di riadeguamento dei partiti nel ruotare intorno a questo processo di rifunzionalizzazione, dentro ad un “modello“ di “democrazia compiuta” che il progetto politico persegue.

Un progetto politico che rappresenta il secondo tentativo organico da parte delle forze politiche borghesi di rapportarsi con una visione complessiva al problema del riassetto dello Stato, e in entrambi i casi, è stata la DC a farsene carico. Con il fallimento del progetto moroteo, nella sostanza restano irrisolti tutti i nodi che ne avevano determinato l’elaborazione, dalle contraddizioni politiche e sociali, allo scontro di classe e rivoluzionario, alle contraddizioni interborghesi fin dentro la stessa DC. E’ proprio il fallimento dell’unità nazionale che determinerà in quel momento la realizzazione di “staffette” che vedranno le forze “laiche” alla guida degli Esecutivi, quali forze politiche dotate dell’elasticità/trasformismo necessari per garantire la governabilità e funzionalità del sistema, un elemento questo che rende conto della complessità della democrazia rappresentativa e di quanto gli equilibri politici che si instaurano tra le forze di maggioranza siano relativi al livello di scontro generale tra le classi.

Successivamente l’interconnettersi di due fattori, ovvero la dinamica di avvitamento delle stesse forze laiche incapaci di fare i conti con il complesso di fattori posti dalla nuova fase politica, e l’elaborazione del progetto demitiano, nel percorso interno al partito che ne ha permesso la definizione, consentirà alla DC di riacquisire il ruolo di perno degli equilibri politici attorno a cui far ruotare le forze politiche borghesi (di maggioranza e di opposizione) e di maturare un importante passaggio nel processo di riadeguamento.

Il progetto demitiano, riallacciandosi alla “terza fase” morotea, intendeva colmare lo scarto derivante dal tipo di sviluppo storico dello Stato in Italia rispetto alle esigenze che il quadro di crisi imperialista poneva sempre più all’ordine del giorno “pianificando” i passaggi volti al rafforzamento della democrazia rappresentativa (le “staffette” travestite da “alternanza”) in un processo di accentramento della sostanza del potere nell’Esecutivo.

Ma ancora una volta, per la seconda volta, il progetto democristiano ha dovuto fare i conti con la realtà dello scontro di classe e con l’intervento dell’avanguardia combattente: una realtà che, contrariamente alle velleità borghesi, non si presta ad essere pianificata e sistematizzata.

Come la storia ben dimostra, essendo la Dc per il suo ruolo da sempre individuata dal proletariato come il nemico dichiarato, è per questo oggetto di numerosi atti di giustizia proletaria. Sul piano generale della lotta di classe il quadro di scontro che si configurava veniva così giustamente focalizzato dalla nostra Organizzazione nella rivendicazione:

«… la classe, dopo un primo momento di difesa delle precedenti condizioni di vita politiche e materiali, ha dovuto confrontarsi subito con i nuovi termini di relazioni industriali propri del neocorporativismo, messi in campo per imbrigliare e depotenziare qualsiasi possibilità di espressione di autonomia e organizzazione di classe. Quindi non tanto di classe sulla difensiva si può parlare (ciò sarebbe una visione statica dello scontro) ma di una classe non propriamente pacificata che cerca di fornirsi degli strumenti idonei a sfondare gli steccati costruiti dal neocorporativismo, nonostante i durissimi attacchi politici e materiali che lo Stato in prima persona decide di operare.

I tentativi della classe di organizzarsi al di fuori delle gabbie neocorporative producono di riflesso le cosiddette crisi di rappresentatività del sindacato.

Una spinta conflittuale che trae forza dallo spessore della lotta di classe sviluppatasi in Italia, che non riempie le prime pagine dei giornali ma che vive costantemente sia nei principali poli industriali sia nei centri della piccola industria. Una lotta tenacemente perseguita dalle avanguardie di classe, che pur vivendo nella condizione generale di controrivoluzione (basti pensare al clima da caserma nei posti di lavoro), si misura concretamente con essa…».

Lo sforzo di fare apparire il progetto demitiano come asettico e idilliaco, privo di riferimenti con le condizioni politiche e materiali vissute nello scontro, come una cosa che riguarda solo il modo di sedersi a Montecitorio, si è infranto con la realtà, facendo i conti con la nostra Organizzazione che, attaccando il nodo centrale dei progetti borghesi antiproletari e controrivoluzionari, ha inciso dentro le contraddizioni politiche riferite al terreno materiale di praticabilità, scompaginando gli equilibri politici atti a far marciare il progetto, portandone al punto critico le contraddizioni, le quali solo all’apparenza si riferiscono all’ambito interborghese, nella sostanza fanno i conti con gli equilibri generali, politici e di forza tra classe e Stato e con quanto su questo terreno l’attività rivoluzionaria ha inciso.

Una dinamica che si ripercuote sui caratteri della fase attuale, nel senso che, pur non essendo inficiata la linea di tendenza contenuta nel progetto, questa si caratterizza per un procedere non lineare e contraddittorio: le modifiche del quadro istituzionale si arenano intorno al nodo sostanziale del riassetto istituzionale parlamentare sulla base delle modifiche della legge elettorale.

Si assiste al proliferare di proposte tra loro divergenti, non tanto perché espressione pura di interessi particolaristici (come quella del PSI), ma perché incapaci di portare ad una sintesi politica quale quella contenuta nel progetto demitiano. Nei fatti tali proposte, a parte le improponibili oscillazioni intorno a “modelli di importazione” sganciati dal contesto politico italiano, non fanno che ruotare per approssimazione intorno agli elementi del progetto stesso, cioè intorno al modello di “riforma elettorale” imperniato sulla formazione di coalizioni alternative da sottoporre alle scelte dell’elettorato.

Un’ipotesi questa in cui va a ruotare il PCI stesso, attivizzandosi in funzione di garante del “rinnovamento delle istituzioni borghesi” e della modifica delle “regole del gioco” spacciandole come condizioni atte a favorire l’alternanza del PCI. Un’ipotesi che mostra tutta la sua velleità, perché non tiene conto che, stante gli equilibri politici con cui si approda al modello di riforma elettorale, nella sostanza favorisce la stabilità e la funzionalità degli Esecutivi formati dalle forze di regime, consentendogli di superare gli scogli di una situazione in cui al dirigismo del governo non si è più in grado di affiancare sul piano formale la dialettica maggioranza/opposizione sulla quale s’impernia l’attuale democrazia rappresentativa.

Un processo quindi niente affatto lineare e che si riflette nelle oscillazioni del PCI tra il conformarsi alla sua nuova collocazione entro il quadro borghese, e la necessità di operare una funzione di controllo e incanalamento delle tensioni di classe; il tutto in presenza di uno scontro di classe e rivoluzionario che per la sua storia e i suoi livelli di maturità non si cancella certo con colpi di spugna.

In questo senso le necessità sulle quali il progetto demitiano è sorto permangono tutte e si approfondiscono, si aggrava cioè il divario tra quadro politico-istituzionale e contesto reale delle contraddizioni che deve governare, e che rende necessario un salto nella modalità di governo, tanto più sostanziale quanto più, dentro a questo sfasamento, alle vecchie contraddizioni irrisolte, si aggiungono quelle riproducentesi ad un nuovo livello.

Lo stallo dell’ipotesi politica organica di cui il progetto demitiano era espressione più avanzata, si è tradotto in questa fase in ripercussioni interne alla stessa DC, da un lato legate allo “scompaginamento” del personale politico che si era potuto coagulare intorno al progetto demitiano, di cui la sconfitta della sinistra interna è un effetto, dall’altro per le scadenze imposte anche dal quadro reale di accelerazione delle contraddizioni. Da qui la necessità di ricorrere in questa fase a vecchi metodi di contenimento delle contraddizioni, riaggiornati con tutto il loro portato destabilizzante, gestiti da personale politico riciclato da fasi precedenti e pertanto portatore di limiti sul terreno specifico delle problematiche relative al porre mano ai passaggi della “riforma dello Stato” e alla ricostruzione intorno a ciò delle necessarie alleanze e punti possibili di equilibrio.

Il processo contraddittorio apertosi in questa fase, che tende verso una Seconda Repubblica, per i passaggi effettuati, mostra l’accelerazione dei processi di accentramento dei poteri nell’Esecutivo, così come la necessità di operare “a suon di forzature” nei rapporti politici complessivi, là dove ieri si credeva di potervi far fronte con il processo di sviluppo della democrazia formale e attraverso la formazione di false alternanze di governo. In realtà l’unica alternanza che si è realizzata è stata quella all’interno della DC, tutta relativa alle contraddizioni che sono maturate in questo processo nel suo procedere e misurarsi con il terreno reale del contesto di classe e dell’intervento della nostra Organizzazione.

Per concludere: questa la natura e le basi da cui scaturiscono i caratteri degli odierni processi che investono la rifunzionalizzazione dello Stato dentro ai dati generali propri di questa fase dell’imperialismo, dall’intersecarsi del movimento delle crisi capitalistiche con l’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che si colloca concretamente e specificatamente dentro alle peculiarità strutturali, agli equilibri politici propri del contesto storico-politico italiano. Un processo che investe le forme e i meccanismi del potere che, se da un lato rende l’Italia ben inserita nel contesto generale dei paesi della catena imperialista, dall’altro trova i suoi punti di squilibrio nell’estrema complessità dei fattori che intervengono nello scontro, per la natura di classe dello stesso, e che, riversandosi negli equilibri politici, rendono questo quadro quanto mai instabile e problematico.

E questo perché sul piano del rapporto classe/Stato, l’attuale Esecutivo si misura con il livello maturato dal conflitto di classe entro un clima di aspro scontro politico e sociale che esprime la vasta resistenza proletaria ai costi della crisi e agli effetti della riforma dei poteri dello Stato. Un conflitto che pertanto si caratterizza per la connotazione politica che giocoforza assume nel misurarsi con l’intervento e le scelte dell’Esecutivo sulle principali questioni che riguardano il conflitto di classe: dalla contrattazione della forza-lavoro al rimodellamento di nuove “relazioni industriali”, alle misure antisciopero fino agli interventi manu militari nelle vertenze più calde.

Il dato di sostanza che esprime lo scontro di classe nel nostro paese è riferibile allo spessore politico raggiunto dal movimento di classe, uno spessore che è tale per il legame dialettico con l’attività rivoluzionaria diretta dalle BR, per la propositività che la proposta strategica della lotta armata alla classe ha determinato sul terreno rivoluzionario. In sintesi, è la dialettica attività della guerriglia/autonomia di classe che ha sedimentato una base di qualità che permane (e si riproduce) nel rapporto di scontro tra campo proletario e Stato.

Una base di qualità da cui sono sempre scaturiti, nei diversi momenti dello scontro, forze d’avanguardia e processi di aggregazione e organizzazione conseguenti. Questa maturazione politica dello scontro di classe, essendo un elemento che si riflette nella mediazione politica, è pertanto non eliminabile nella sua sostanza dalla stessa controrivoluzione (che può contribuire invece a ridimensionarne il peso relativamente ai rapporti di forza più generali).

Un contesto in cui l’approfondimento dello scontro non ha a che vedere con meccaniche interpretazioni che vedono tradursi l’aggravamento delle condizioni di vita proletarie con un aumento dell’antagonismo contro lo Stato, ha a che fare invece con l’aumentato peso della soggettività nello scontro generale. Un elemento questo che condiziona le dinamiche della guerra di classe, a partire dal rapporto che si instaura tra attività della guerriglia e relativo affinamento delle risposte controrivoluzionarie dello Stato, all’interno del più generale rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Le caratteristiche politiche dello scontro di classe in una certa misura si riflettono sulla stessa dinamica spontanea delle lotte dovendo esse fare i conti con il livello stabilitosi nelle relazioni tra le classi; in questo senso si comprende come l’avanzamento stesso del piano di scontro generale si misuri con questo dato condizionandone il terreno di risoluzione.

Per questa ragione l’affermazione degli interessi generali del proletariato è quanto mai legata all’attività rivoluzionaria della guerriglia, al terreno di sviluppo della guerra di classe, il solo in grado di incidere sui rapporti di forza e rompere i reticoli della mediazione politica, in modo da aprire la dialettica che consente il rafforzamento (relativo) del campo proletario, riportando cioè sul terreno del potere il contesto dello scontro proletariato/borghesia.

Per inciso va detto che lo spazio aperto dal terreno rivoluzionario diretto dalle BR si riflette anche su tutti i piani dello scontro, compreso quello capitale/lavoro.

 

I termini del programma politico delle BR per la costruzione del PCC

Il dato politico centrale che emerge per parte rivoluzionaria è la valenza dell’attacco al cuore dello Stato, la valenza e la centralità della questione dello Stato nella prassi rivoluzionaria delle BR. Non una contrapposizione generica al potere della borghesia ma la contrapposizione scientifica alla sede del suo potere politico.

In questo senso le BR fanno propria la concezione leninista dello Stato, quindi del rapporto che con esso devono avere al fine del suo abbattimento per conquistare il potere politico ed instaurare la dittatura del proletariato.

Questa concezione fondamentale per i comunisti è correttamente inserita dalle BR nella concreta situazione storica in modo da misurarsi adeguatamente con le diversità sopravvenute nelle forme di dominio della borghesia imperialista.

Il rapporto Guerriglia/Stato è quindi il corrispettivo storico del rapporto che i comunisti, nel dirigere il processo rivoluzionario, stabiliscono con esso. Ciò che è mutato è il modo con cui viene perseguito il suo abbattimento, poiché è inserito all’interno del processo di guerra di classe di lunga durata, in cui l’avanguardia combattente deve assolvere alla funzione di mettere in campo, nelle specifiche modalità dell’operare della Guerriglia, il combattimento contro lo Stato. Esso è praticato in prima persona dalla Guerriglia a livello dell’attività d’avanguardia che le compete, nei momenti di attacco e di organizzazione calibrati alla fase di scontro in atto.

Attraverso l’attacco, quello che è immediatamente il piano di relazione su cui agisce la Guerriglia è la natura di guerra dello scontro di classe, una natura dominata dall’aspetto politico, il quale riveste come un “involucro” le contraddizioni (e le relazioni) classe/Stato. L’attività di combattimento contro lo Stato esplicita al suo punto più alto questa natura, esaltando nel contempo l’aspetto politico dello scontro nel momento in cui la disarticolazione degli equilibri politici causa una ricaduta in termini di relativa crisi del quadro politico statale.

Quello che la ventennale prassi rivoluzionaria delle BR ha dimostrato è che l’attacco allo Stato nei nodi politici centrali che lo contrappongono alla classe, lo costringe ad un relativo ripiegamento nelle sue scelte, mettendo in essere la possibilità di trasformare lo sbandamento relativo dei progetti borghesi in forza politica da riversare nell’attività di costruzione per stringere le forze proletarie che politicamente e materialmente si dialettizzano con la linea politica delle BR, nella disposizione e organizzazione sulla lotta armata calibrata, nelle forme e nei modi, alla fase di scontro. La forza politica, che momentaneamente deriva dall’attacco operato, viene tradotta in organizzazione di classe sulla lotta armata, perché lo scontro rivoluzionario diretto dalla Guerriglia nelle metropoli imperialiste non può costruire “basi rosse”, non può avere retroterra logistici, perché lo scontro rivoluzionario nei centri imperialisti è una guerra senza fronti dove l’attività controrivoluzionaria dello Stato si dispiega contro l’intero campo proletario (Guerriglia, movimento rivoluzionario, classe), dove il processo rivoluzionario avanza in una condizione d’accerchiamento strategico almeno fino alla fase finale dello scontro rivoluzionario.

In poche parole, l’attività d’avanguardia delle BR nell’attacco allo Stato, rende concretamente praticabile l’inceppamento e l’arretramento non solo dei progetti borghesi in generale ma, quello che è più importante, l’inceppamento dei processi di rafforzamento dello Stato che rappresentano il processo stesso di rafforzamento della dittatura borghese.

Una prassi che, unitamente all’altro fondamentale termine di programma perseguito, l’antimperialismo nella pratica di Fronte, materializza la possibilità e necessità dell’avanzamento della guerra di classe di lunga durata, essendo questa l’espressione storicamente determinata del processo rivoluzionario in questa fase storica. Un processo che le BR, con la loro nascita, si sono assunte attraverso la proposta alla classe della strategia della lotta armata, da iniziare fin da subito, come il modo adeguato per incidere nello scontro sul terreno del potere. Un processo di guerra dunque, perché la Guerriglia deve unificare nella sua attività il politico e il militare; unità che è implicita a tutti gli aspetti che compongono il processo rivoluzionario, il quale avanza nella contemporanea espressione (assolvimento) dell’aspetto militare con l’aspetto politico, perché nello scontro rivoluzionario nei paesi imperialisti la natura di guerra, che pure esiste nella lotta di classe, è una questione che deve essere affrontata immediatamente, data l’impossibilità di separarla (rimandarla) nel tempo, nella sola offensiva insurrezionale che prelude la presa del potere.

Nella realtà storica attuale vi è l’impossibilità di praticare un’attività rivoluzionaria di classe solamente politica; essa è impossibile da conseguire e consolidare: non può essere conseguita perché, sottraendosi al livello storico raggiunto dallo scontro, non vi incide; non può essere consolidata dati i mezzi esistenti per vanificarla e disperderla, per l’affinamento delle forze di dominio della borghesia imperialista. Queste hanno la possibilità di assorbire l’urto delle istanze prodotte dalla lotta di classe, dentro a selettivi processi che consentono di diluire e neutralizzare tali istanze nelle maglie degli strumenti della mediazione politica e nel contempo di procedere alla repressione/criminalizzazione delle sue espressioni antagoniste, in grado quindi di “normalizzare” qualunque attività che non fa i conti con il problema di rompere un tale reticolo o che si esprimesse nelle vecchie forme.

La Guerriglia nelle metropoli imperialiste non è semplicemente un surrogato della guerra, una tecnica militare, ma l’organizzazione adeguata a misurarsi contro lo Stato, a rompere il reticolo della mediazione politica che caratterizza il rapporto politico tra le classi, è l’unità del politico e del militare, è rompere con il monopolio della violenza della classe dominante per praticare gli interessi generali del proletariato e collocarli nella loro giusta dimensione: scontro per il potere con il fine del superamento della società divisa in classi.

L’attacco al cuore dello Stato si è definito come una parola d’ordine prioritaria (elemento di programma), una direttrice di combattimento fondamentale, nella coscienza che è a partire dal rapporto classe/Stato che si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata.

Non si tratta, come nel passato, di disarticolare – mettendoli sullo stesso piano – tutti i centri della macchina statale (periferici e centrali) anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello Stato visto in una separatezza dei suoi apparati (politici, burocratici e militari) a sua volta derivata da una visione semplificata e un po’ manualistica delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe, ricondotta a due sole fasi principali: quella dell’accumulo di capitale rivoluzionario e il suo dispiegamento nella guerra civile.

L’esperienza acquisita dalle BR ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nell’andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello Stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni l’attacco allo Stato, al suo cuore congiunturale, va inteso nel giusto criterio, affermatosi nella pratica, come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento dell’attacco.

Centralità: si può affermare che date le condizioni politiche di scontro, il suo approfondimento, la capacità di disarticolare (intesa in termini relativi e non assoluti) risiede in primo luogo nella capacità tutta politica d’individuare, all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi, il progetto politico centrale della borghesia imperialista.

Selezione: sta nella capacità d’individuare il personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio delle forze che tale progetto sostengono.

Calibramento: sta nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado di approfondimento dello scontro (ad esempio, anche in caso di arretramento, il livello d’intervento non può prescindere dal punto di scontro più alto assestato), allo stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie, allo stato dei rapporti di forza generali sia interni al paese che negli equilibri internazionali tra imperialismo e antimperialismo.

Questi i criteri che guidano l’attacco e la scelta dell’obiettivo e che permettono alla Guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo del vantaggio politico e materiale.

In ultima analisi possiamo affermare che questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro, poiché solo la fase della guerra civile dispiegata consente di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.

La continuità nella prassi e dentro i salti di qualità operati dal complesso del processo rivoluzionario al cui interno sono situati i momenti qualificanti dell’attacco al cuore dello Stato, hanno contrassegnato i passaggi salienti del processo di guerra di classe, in stretta relazione con i nodi sostanziali dello scontro di classe generale, un’interrelazione che ha evidenziato come l’attività rivoluzionaria delle BR abbia influito nella configurazione dei caratteri dello scontro e specificatamente nello sviluppo dei caratteri dell’autonomia di classe.

Quello che il complesso processo di riadeguamento delle BR nel contesto della Ritirata Strategica ha definito, è la maturazione di una conoscenza complessiva dell’andamento dello scontro rivoluzionario, avendone saputo sintetizzare gli elementi di continuità/rottura dentro alla prassi sviluppata nel processo di riadeguamento stesso.

Ciò permette alle BR di usufruire di un patrimonio di esperienze che danno all’agire rivoluzionario una maggiore padronanza nel definire la conoscenza della conduzione della guerra di classe di lunga durata entro la direttrice della strategia della lotta armata che è disposizione generale delle forze e piano sistematico d’azione fino al raggiungimento dell’obiettivo di tappa, strategia che si basa sul fatto che fin da subito l’avanguardia armata si pone come direzione e organizza i settori di classe e i rivoluzionari che si dialettizzano e si dispongono sulla lotta armata. Questo perché tutto il complesso dell’esperienza rivoluzionaria fin qui prodotta contiene degli insegnamenti che vanno oltre la loro valenza politica immediata nel momento in cui viene praticata, poiché essi indicano principi e leggi di movimento che hanno un loro valore generale derivando dal procedere dell’unità del politico e del militare. In sintesi ciò permette alle BR di precisare il profilo specifico del corso del processo rivoluzionario nel nostro paese: vale a dire non una semplice sommatoria delle diverse fasi rivoluzionarie fin qui succedutesi, ma l’individuazione più netta della stessa strategia della lotta armata, arricchita dalle peculiarità politiche del terreno di scontro che si sviluppa negli Stati a capitalismo maturo. Un terreno che mette le forze rivoluzionarie nella necessità di misurarsi con le modifiche apportate nello scontro dal rapporto rivoluzione/controrivoluzione e che ha posto alla nostra Organizzazione la necessità di attuare le “tattiche” (che traggono la loro natura dalle leggi generali della guerra rivoluzionaria) adeguate a sostenere i livelli raggiunti dallo scontro a partire dal fatto che si concretizzano in condizioni di volta in volta mutate proprio a causa dell’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

In questo senso si comprende perché nella fase rivoluzionaria di “Ricostruzione”, che si sviluppa all’interno della Ritirata Strategica, l’attività rivoluzionaria è obbligata ad un movimento continuo d’avanzate e ritirate, dato il livello di affinamento della risposta controrivoluzionaria e, su un altro piano, per le condizioni politico-generali in cui si sviluppa lo scontro rivoluzionario.

Per ben comprendere questo dato di fondo è necessario fare alcune considerazioni sulla dinamica generale rivoluzione/controrivoluzione che si è espressa nel nostro paese, precisando alcuni elementi di sostanza per parte rivoluzionaria.

Sono le BR che aprono soggettivamente il processo rivoluzionario nella piena coscienza della loro funzione e che si attrezzano per condurre la guerra di classe di lunga durata assumendosi il ruolo di “reparto d’avanguardia dell’esercito di classe in formazione”. In questa concezione offensiva pongono le solide basi del processo rivoluzionario in Italia e trovano sostanzialmente impreparati lo Stato e la borghesia che, unitamente alle contraddizioni politico-sociali, vengono scossi dall’agire rivoluzionario delle BR a partire dalla stretta dialettica che queste instaurano con le istanze politiche dell’autonomia di classe (è anche per questo livello un po’ “incerto” del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che gli errori iniziali trovano un rapido recupero dentro al metodo prassi-teoria-prassi).

Ma tanto è incisiva l’azione rivoluzionaria delle BR, altrettanto consistente e mirata va a configurarsi la risposta controrivoluzionaria: dall’uso di infiltrati e spie dei servizi segreti degli anni iniziali, al varo dei reparti speciali di Dalla Chiesa, sono queste le risposte che vanno a caratterizzare le prime fasi della politica antiguerriglia. Questa andrà a configurarsi sempre più chiaramente come la punta avanzata del conformarsi e dell’approfondirsi del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, il quale è espressione del procedere complessivo dello scontro rivoluzionario nella dialettica generale con il movimento dell’autonomia di classe in rapporto alle controrisposte dello Stato.

Per questa ragione la dinamica generale del rapporto rivoluzione/controrivoluzione prende forma da come si è sviluppata nel movimento di classe e nel movimento rivoluzionario l’indicazione di organizzarsi sulla lotta armata, una caratterizzazione che ha costituito una ricchissima base di esperienza sulle modalità e sulla praticabilità del terreno della guerra di classe (indipendentemente dagli errori di indirizzo e di finalità derivati dall’imprecisa definizione delle fasi rivoluzionarie). In questo senso ha avuto un peso importante nella formazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione come componente massificata dello scontro rivoluzionario, un peso che è tale per essere il prodotto della dialettica realizzata dalle BR con il campo proletario.

È da questo contesto che prenderanno forma e si matureranno le risposte controrivoluzionarie dello Stato e che sfoceranno nella controffensiva degli anni ’80. Una controffensiva che, per l’ampiezza della sua portata e per le modalità con cui ha operato, ha strappato letteralmente i margini dei rapporti di forza per incidere nella mediazione politica. Su questa controrivoluzione gravano gli specifici interventi di controguerriglia sulla nostra Organizzazione, avendo essi rappresentato aperte risposte di guerra che cozzano e rompono gli involucri formali della “democrazia“ borghese, esplicitando al massimo l’intima natura dello scontro e nello stesso tempo lo Stato, rafforzando l’attività controrivoluzionaria, manifesta la sua illegittimità storica e politica rispetto agli interessi generali del proletariato.

A questo punto vanno considerate le ragioni per cui questo focale passaggio del processo rivoluzionario si è evoluto nel suo approfondimento invece che nel suo esaurimento (così come auspicato dalla borghesia e dallo Stato), tenendo conto del fattore generale relativo al fatto che il processo rivoluzionario diretto dalle BR ha suscitato man mano una controrivoluzione che ha maturato il suo portato proprio in concomitanza del ricentramento politico-organizzativo operato dalle BR per superare gli errori di giovinezza politica (economicismo, soggettivismo). A questo approfondimento vi influiscono ragioni di carattere generale e ragioni strettamente inerenti a come le BR hanno affrontato soggettivamente questo passaggio.

Partendo da quest’ultimo dato, che è anche il principale, è certamente la capacità dimostrata dalle BR di misurarsi con le nuove condizioni dello scontro che ha consentito di mantenere una capacità di resistenza e tenuta nell’impatto con la controffensiva, poiché tale capacità è stata l’espressione, sul piano dell’attività pratica, dell’iniziale processo di ricentramento (operato con Dozier sul terreno dell’antimperialismo e con Taliercio sul piano classe/Stato); in questo senso queste iniziative combattenti hanno in parte controbilanciato gli effetti negativi della controrivoluzione, mantenendo il terreno della propositività rivoluzionaria. E’ questa capacità di correggere gli errori dentro ad un piano che non è empirismo, ma la giusta risoluzione delle contraddizioni col metodo prassi-teoria-prassi, che consentirà alle BR di assumere la scelta più appropriata: la Ritirata Strategica.

Sono queste iniziative combattenti e queste decisioni politiche maturate dalle BR, unitamente alle consolidate basi di rappresentanza rivoluzionaria nel tessuto proletario, che imprimeranno al rapporto rivoluzione/controrivoluzione un movimento verso l’approfondimento dello scontro rivoluzionario e non verso il suo esaurimento. (Approfondimento che si evidenzierà in tutta la sua portata a seguito del processo di riadeguamento complessivo delle BR).

Questo aspetto prettamente soggettivo va poi relazionato al fattore politico a carattere generale, ovvero l’impossibilità per la borghesia e per lo Stato di risolvere militarmente il problema del processo rivoluzionario, il problema rappresentato dalla proposta della strategia della lotta armata come alternativa effettiva per la classe al potere della borghesia imperialista, dato il tipo di scontro di classe storicamente prodottosi nel paese. In sintesi, il dato generale che si è maturato nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione evidenzia il legame tra politiche antiguerriglia verso le BR e loro riversamento nel contesto dello scontro di classe; più precisamente, del loro ribaltamento verso gli ambiti politici delle avanguardie di classe, una relazione che, dopo l’80, sarà caratterizzante nell’azione dello Stato, tendente a smorzare l’espressione dell’antagonismo di classe che si dialettizza con l’attività rivoluzionaria delle BR.

Si evidenzia altresì come alle mutate condizioni prodotte dall’evolvere del rapporto rivoluzione/controrivoluzione le BR hanno saputo adeguare, pur dentro un processo non lineare, la prassi complessiva messa in campo, riqualificando l’impianto politico-organizzativo. Insegnamenti che, essendosi forgiati nel vivo dello scontro e nelle condizioni durissime di questi anni, hanno sancito dentro un salto di qualità un punto di non ritorno nel processo rivoluzionario determinandone il suo avanzamento.

Questa fase della guerra di classe è segnata, dal lato dell’attività controrivoluzionaria dello Stato, da una riformulazione complessiva di tutti i termini della mediazione politica tra le classi e, da parte rivoluzionaria, è inserita nella fase generale definita dalle BR di Ritirata Strategica, cioè un periodo politico non quantificabile in anni, nel quale l’attività rivoluzionaria è prevalentemente tesa ad un ripiegamento delle forze, in modo da mantenere e rilanciare la capacità offensiva espressa dalla Guerriglia. All’interno dell’unità del politico e del militare, la Ritirata Strategica non è risolvibile semplicemente nella ricollocazione di un corpo di tesi, essa ha investito ed investe non solo l’adeguamento dell’impianto politico e organizzativo, ma soprattutto il modo in cui si costruiscono i termini politico-militari dell’andamento della guerra di classe.

Per i caratteri di questa fase, diventano di fondamentale importanza i criteri con i quali si sviluppa l’attacco, si definiscono gli assi programmatici e la disposizione-strutturazione delle forze in campo.

Se la Ritirata Strategica è una fase a carattere generale, al suo interno si è definita la fase di ricostruzione delle forze proletarie e rivoluzionarie e degli strumenti politico-militari per attrezzare il campo proletario nello scontro prolungato contro lo Stato. Ovvero la fase di Ricostruzione, che già vive nell’attività rivoluzionaria, muove per creare le condizioni politiche e materiali atte a modificare e spostare in avanti il piano rivoluzionario e, di conseguenza, le posizioni del campo proletario. Stante la fase di scontro tra le classi, misurarsi con le condizioni politiche del rapporto classe/Stato mette in luce la necessaria dialettica Guerriglia/autonomia di classe a partire dalla direttrice dell’attacco allo Stato. Una dialettica che, a livello dell’organizzazione di classe sulla lotta armata, tenendo conto della concretezza dello scontro, deve agire sul binario costruzione-formazione: ovvero ricostruzione nell’ambito operaio e proletario delle condizioni politiche e materiali relative all’affermazione del terreno della lotta armata; formazione delle forze che si dispongono, in modo da renderle adeguate al livello di scontro contro lo Stato.

Un termine di lavoro in cui le BR fanno vivere, nella formazione delle forze che si dispongono, il patrimonio di vent’anni di attività rivoluzionaria rilanciata alla maturità e progettualità attuali.

Riassumendo, la fase di Ricostruzione è un passaggio delicato e complesso ed investe il tipo di riadeguamento stesso intrapreso dalle BR, cioè riferito alla capacità non solo di riqualificare l’impianto e il tipo di caratterizzazione del quadro militante, ma questo in relazione alla necessità di determinare una direzione e organizzazione delle forze in grado di muovere nel duplice binario ricostruzione-formazione; un passaggio non lineare perché è un percorso materiale collocato per intero all’interno delle contraddizioni generate dal confronto rivoluzione/controrivoluzione.

L’adeguamento nella capacità di esprimere la direzione idonea alle mutate condizioni dello scontro comporta un salto di qualità nella centralizzazione delle forze in campo intorno all’attività generale delle BR, cioè emerge la necessità politica che l’attività delle BR si muova in termini di forte centralizzazione politica che nell’accezione leninista significa: centralizzazione delle direttive politiche sull’intero movimento delle forze, decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse sedi e istanze organizzate. Più precisamente la centralizzazione deve rispondere alla capacità di responsabilizzare le forze in un piano di lavoro le cui caratteristiche politiche siano patrimonio di tutti, ma non interpretabili spontaneamente dai diversi livelli organizzati. La centralizzazione nell’attività del movimento delle forze è condizione che richiede il massimo dell’utilizzo politico delle medesime, all’interno di una disposizione volta a farle muovere come un corpo solo intorno alle iniziative dell’Organizzazione. Ciò avviene solo dentro ad un piano di lavoro definito, all’interno del quale tutte le forze concorrono non per spontaneo apporto, ma disposte ed organizzate in modo da contribuire confacentemente. Una dinamica politica e organizzativa che può avvenire appunto nel duplice movimento: centralizzazione politica-decentralizzazione delle responsabilità. Si tratta in sintesi di formare le forze all’interno di una disposizione che permette di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro richiede per rispondere alle necessità che derivano da questo livello di sviluppo della guerra di classe.

Questo adeguamento allo scontro implica la capacità di esprimere un livello di direzione politico-organizzativa adeguato alla centralizzazione nella disposizione delle forze sull’attività delle BR, livello di direzione che nel suo complesso muove verso un avanzamento del processo di costruzione del Partito Comunista Combattente.

Questo perché i caratteri del processo rivoluzionario, negli Stati a capitalismo maturo, comportano il fatto che l’avanguardia armata del proletariato si configuri come una forza rivoluzionaria che assume i principi di funzionamento di un esercito rivoluzionario; in altre parole le BR sono una forza rivoluzionaria che pur essendo il nucleo fondante il partito, non sono il Partito Comunista Combattente. Questo perché il nodo della direzione rivoluzionaria, determinata dal partito nella guerra di classe, non si scioglie con un atto di fondazione, ma esso è un vero e proprio processo di fabbricazione-costruzione del partito, che si configura come tale all’interno del percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe. In sintesi, la direzione rivoluzionaria dello scontro di classe si realizza agendo da partito per costruire il partito.

 

Il programma politico praticato dalla nostra Organizzazione si sviluppa su questi termini:
– Il principale termine programmatico su cui si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata è l’attacco al cuore dello Stato fino al suo abbattimento, inteso nelle sue politiche dominanti che di volta in volta lo oppongono alla classe; attualmente esse sono identificabili nei progetti di “riforma” dello Stato, i quali, modificando profondamente gli assetti istituzionali, hanno maturato concretamente la svolta verso una “Seconda Repubblica”.

– Sul piano dell’antimperialismo le BR lavorano ad una politica di alleanze contro il nemico comune, con tutte le forze rivoluzionarie che operano nell’area; ciò al fine di indebolire e ridimensionare l’imperialismo, costruendo offensive comuni contro le sue politiche centrali.
Perciò le BR lavorano alla costruzione-rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista. Nel quadro di queste attività e dentro gli accordi politici raggiunti con la RAF, rivendichiamo l’iniziativa politico-militare fatta dalla RAF contro Alfred Herrhausen e ne evidenziamo la sua centralità in rapporto alle politiche di coesione in Europa occidentale che sono tutte interne al rafforzamento della catena imperialista.

– Al livello dell’organizzazione di classe sulla lotta armata, ribadiamo i termini che scaturiscono dalla fase di “Ricostruzione”. Essi si esplicano sul duplice piano di lavoro costruzione-formazione e sono tesi a ricostruire nel tessuto di classe i livelli di riorganizzazione delle forze proletarie e rivoluzionarie in modo da disporle adeguatamente sul terreno della lotta armata nello scontro contro lo Stato. La fase di ricostruzione è termine prioritario nel mutamento dei rapporti di forza tra campo proletario e Stato e si pone come un tassello fondamentale per la ricostruzione dei livelli politico-militari che costituiscono i termini di avanzamento della guerra di classe di lunga durata.
Questi termini programmatici sono il terreno pratico su cui le BR sviluppano e verificano la loro capacità di attacco e assolvono alla funzione di direzione politica dello scontro all’interno della proposta strategica della lotta armata alla classe. Su questi termini di programma le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente lavorano e danno sostanza alla parola d’ordine dell’unità dei comunisti.

– Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di “riforma” dello Stato.

– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

– Attaccare le linee centrali della coesione dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.

– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica.

– Onore al militante dei GRAPO José Manuel Sevillano Martin ucciso in questi giorni in carcere dallo Stato imperialista spagnolo.

– Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti!

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cappello Maria, Cherubini Tiziana, De Luca Antonio, Galloni Franco, Grilli Franco, Lupo Rossella, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio. I militanti rivoluzionari: Bencini Daniele, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco

Forlì, 22 maggio 1990

Unità dei prigionieri politici europei nella lotta contro il blocco imperialista. Alcuni compagni del carcere di Trani

La lotta dei prigionieri politici del PCE(r) e dei GRAPO è un esempio per tutti i prigionieri comunisti e rivoluzionari nelle carceri dell’Europa Occidentale.

  1. Il 25 maggio scorso a Madrid è morto il compagno José Manuel Martin, militante prigioniero dei GRAPO. È caduto al 6° mese di sciopero della fame per ottenere il raggruppamento. È morto ucciso dall’alimentazione forzata con cui lo Stato spagnolo vuole stroncare la resistenza collettiva dei prigionieri. Le compagne e i compagni che con lui hanno iniziato questa lotta durissima stanno andando avanti. Sono 58 i prigionieri dei GRAPO, del PCE(r) e libertari che dal novembre ’89 lottano contro la politica della “dispersione” adottata dallo Stato per attaccarli. Dividendoli in 56 carceri sparse in tutto il territorio nazionale e coloniale, il governo Gonzales e i carcerieri della Istitución Penitenciaria erano sicuri di aver creato le condizioni per ottenere un arretramento della militanza, della forza e della coscienza politica dei compagni.
    Davanti alla compattezza della loro lotta e alla mobilitazione che essa ha suscitato nel movimento di classe in Spagna e in tutta Europa, a febbraio Gonzales in prima persona ha risolto la contraddizione creata dalla Magistratura di Sorveglianza sul passaggio all’alimentazione forzata. L’esecutivo spagnolo ha imposto la “soluzione coma”, cioè l’alimentazione forzata usata in modo da indurre nei prigionieri uno stato comatoso che li elimini lentamente. Con la “dispersione”, il diktat che si voleva imporre ai prigionieri era: «o carcerazione normalizzata o isolamento»; adesso invece il diktat è «o arresi o morti»!
  1. La lotta dei compagni spagnoli è politicamente centrale per la situazione dei prigionieri rivoluzionari in tutta Europa. La loro è, sostanzialmente, la nostra lotta, al di là delle specifiche differenze di condizioni, valutazioni o indirizzo politico. La politica infame che li vuole “morti o arresi” è direttamente influenzata da una concertazione e decisione tra gli Stati europei con cui tutti facciamo i conti. Le motivazioni che guidano l’iniziativa contro i compagni spagnoli non sono dissimili da quelle che spingono i governi in Francia e RFT. E sono le stesse che hanno portato all’attacco delle guardie contro i compagni del Blocco B di Novara.
    I governi europei oppongono rigidamente la ragione terroristica della “sicurezza di Stato” a qualsiasi attività ed espansione politica dei prigionieri della guerriglia che non possa essere gestita sul terreno della “riconciliazione con lo Stato”. Condizioni di vita, di socialità e di comunicazione che sono minima cosa rispetto agli spazi di libertà concessi a piene mani a tutti i prigionieri che attaccano la lotta armata, suscitano invece uno scontro violentissimo se riguardano compagni che mantengono la loro identità rivoluzionaria. La parola d’ordine imperialista è: «Abolire i prigionieri rivoluzionari come fattore politico». Solamente doverne giustificare l’esistenza come soggetti attivi dopo anni e anni di isolamento, di uccisioni e pestaggi, di soluzioni politiche, è già ammettere una contraddizione irrisolta per i governi. Ancor più inaccettabile è la lotta collettiva perché rilanciando le ragioni generali della lotta per il comunismo nelle metropoli, amplifica un dato che nessuna propaganda borghese riesce a far sparire completamente: le società europee non sono pacificate, ma la crisi che le attraversa è ancora profonda, la rivoluzione proletaria è sempre il nemico politico principale.
    Lo scontro nelle carceri è tutto politico e ha come oggetto l’identità collettiva e comunista dei prigionieri!
  1. Gli Stati europei si avvalgono di politiche e strumenti comunemente elaborati per ottenere con ogni mezzo la frantumazione dei collettivi dei prigionieri rivoluzionari. È un obiettivo che rientra nella necessità di controllo delle specifiche situazioni nazionali e che ha, allo stesso tempo, un peso non marginale in vista del salto all’integrazione politica ed economica verso cui preme la grande borghesia industriale e finanziaria europea. La linea principale di intervento contro i prigionieri elaborata negli organismi di coordinamento continentale della counterinsurgency è quella del condizionamento progressivo. Del logoramento attraverso una pressione continua esercitata con l’uso flessibile dell’isolamento, così da impedire qualsiasi pratica politica e piegare l’identità comunista. È questa linea che informa in specifiche modalità il trattamento dei prigionieri rivoluzionari in Francia, in RFT, in Spagna, in Belgio… Ed è sempre essa che regola in ogni loro variegata sfumatura qui in Italia le sezioni speciali per piccoli gruppi di Novara, di Cuneo, di Trani, di Ascoli, nonché quella di Latina per le compagne; ed anche la prigionia dei combattenti arabi e palestinesi. In sua funzione il blitz di Novara, o le minacce e provocazioni contro singoli compagni, o il controllo diretto esercitato dai servizi di sicurezza (attraverso l’ufficio V del Ministero di Grazia e Giustizia) sulla corrispondenza e sui colloqui. Una linea generale che si traduce in un obiettivo più immediato: i prigionieri non devono svolgere alcun ruolo attivo nello scontro rivoluzionario in Europa. I vari “specialisti della sicurezza” hanno da tempo raggiunto la convinzione che “staccare la spina” ai prigionieri sia molto utile per contrastare il rafforzamento e l’evoluzione unitaria delle lotte rivoluzionarie in Europa. Ai primi di dicembre ’89 in RFT, alla riunione dell’“Immenauschuss” (Commissione Interni, comitato cui partecipano i ministri di Interno e giustizia, funzionari ed esperti di sicurezza dei diversi partiti), subito dopo l’azione della RAF contro Herrhausen il ministro degli interni rimarcò l’influenza sicuramente avuta dai prigionieri e quindi la necessità di ulteriori misure per limitarne l’attività politica, non mancando di inquadrare nel suo mirino quei prigionieri che dall’Italia discutono coi prigionieri tedeschi. Del resto, già nell’85/86 la Procura Federale aveva incriminato per “Associazione Terroristica Internazionale” i prigionieri spagnoli che avevano solidarizzato con lo sciopero della fame dei prigionieri RAF e Resistenza. Nei mesi scorsi a più riprese le compagne e i compagni prigionieri della RAF sono stati ulteriormente isolati per non “essersi dissociati dall’azione contro Herrhausen”; la loro comunicazione con l’esterno bloccata per aver lottato a fianco dei prigionieri spagnoli. Lo Stato tedesco con il suo consolidato apparato controrivoluzionario si pone sempre alla guida nell’iniziativa contro i prigionieri nei paesi europei; come tutti sanno è sua la matrice della “soluzione coma” contro i prigionieri che lottano con lo sciopero della fame.
    Lottare uniti per obiettivi di fondo comuni è un passo che è davanti a tutti i prigionieri che in Europa non vogliono far passare la loro identità nel tritacarne del “reinserimento nella società borghese”.
    L’azzeramento della attività ed identità politica dei prigionieri è un obiettivo importante per i governi europei e non si può pensare di contrastarlo su un terreno di iniziativa parziale. Meno che mai ci si può illudere di aggirarlo non sviluppando iniziative.
    Bisogna invece riflettere seriamente sui significati che sta acquistando oggi, in questa fase storica, la questione dei prigionieri della guerriglia.
    L’interesse che spinge l’azione degli apparati controrivoluzionari ha travalicato i dispositivi antiguerriglia di attacco immediato a specifiche organizzazioni con l’uso dei prigionieri come ostaggi, nel senso che non c’è più solo questo. L’attacco alla soggettività politica dei prigionieri assume una valenza più ampia se inquadrato dentro l’opera di lobotomia della prospettiva comunista e antimperialista che la borghesia multinazionale sta perseguendo come elemento essenziale di governo della crisi del suo sistema politico e economico.
    Nelle carceri dei paesi del “Blocco Europeo” ci sono centinaia di militanti che “coprono” tutto l’arco delle esperienze rivoluzionarie ed antimperialiste di questi venti anni. Della guerriglia per il comunismo e dei movimenti di liberazione di tutta l’area europea e mediterranea.
    È la prospettiva che essi, nel loro insieme hanno aperto, la nostra posta in gioco.
    La sua continuità è il cuore dello scontro.
    Le campagne di guerra psicologica in cui l’anticomunismo storico si integra volutamente col modello “lotta al terrorismo internazionale” hanno un carattere preventivo. Perché esse puntano ad impedire che la continuità della lotta rivoluzionaria si saldi ai conflitti che le necessità di ridispiegamento imperialista fanno nascere in tutta Europa come nel tricontinente del Sud. In questo c’è la ragione e la condizione dell’accentuato accanimento e della scientificità con cui i vari apparati si stanno dedicando al logoramento dei prigionieri militanti.
    Il blocco europeo in formazione stringe i tempi su tutti i piani e si sente già così forte da tirare fuori la sua faccia totalitaria antiproletaria e razzista, e da proiettarla a livello planetario.
    La percezione di questa qualità di scontro a livello europeo, nel movimento si é manifestata nella continuità con cui la solidarietà coi prigionieri si é tradotta in iniziative politicamente centrate di contenuto antimperialista e internazionalista.
    A fianco dei compagni della RAF e Resistenza, dei compagni di AD, oggi dei compagni spagnoli, in Danimarca, Spagna, Olanda, RFT, Belgio e Svizzera, Grecia e in parte anche in Italia, azioni offensive e mobilitazioni di massa hanno espresso la consapevolezza che sconfiggere le politiche di isolamento non si determina come “difesa” da episodi di repressione, ma interamente dentro (come parte importante) l’avanzamento come prospettiva strategica di lotta del proletariato internazionale contro il capitalismo e il suo sviluppo distruttivo.
    Un movimento e una coscienza che vanno rafforzati.
    Per questo nella nostra solidarietà ai compagni dei GRAPO, e ieri ai compagni di AD e RAF, c’è anche questa determinazione politica: che l’unità tra i prigionieri sia un contributo affinché aumentino i momenti e i terreni di unità tra i rivoluzionari in Europa.
  1. La necessità di guardare al processo rivoluzionario con un’ottica sempre più continentale e mediterranea, come parte di uno scontro mondiale, non nasce oggi e non nasce certo attorno alla lotta dei prigionieri.
    In questo decennio le organizzazioni che hanno contribuito alla proposta del Fronte hanno concretamente già posto le basi affinché questo importante sviluppo si traduca in coscienza e prassi rivoluzionaria stabile.
    È attorno a queste basi che si sono moltiplicate le esperienze perché è maturata la valutazione che i principali problemi di prospettiva rivoluzionaria, sono comuni a tutti. Non solo, ma che la loro qualità richiede che essi siano affrontati insieme!
    La lotta rivoluzionaria per il comunismo a tutti i livelli in cui si esprime deve puntare ad un concentramento di prospettiva comune.
    Oggi poi, gli sviluppi susseguitisi in campo rivoluzionario si trovano a misurarsi con gli innumerevoli cambiamenti economici e politici, venuti a compimento nel sistema capitalistico, nella sua configurazione ormai pienamente mondiale; perché essi premono sui rapporti di potere nelle singole nazioni e nello scontro mondiale.
    Una situazione complessa all’interno della quale l’avanzamento della prospettiva comunista ed antimperialista deve alimentarsi di un confronto ad ampio raggio che non esclude nessuna soggettività rivoluzionaria esistente, compresi i collettivi dei prigionieri militanti.
    Il capitalismo USA-EUR-GIAP pretende di celebrare chissà quali trionfi planetari, mentre mai come ora è indebolito da fenomeni disgregativi. Quelli che spaccia per successi sono il prodotto spesso inevitabile di una lunga e insuperata crisi globale del sistema che ha il suo vorticoso “buco nero” negli USA che vedono incrinata la loro centralità sul piano economico e politico.
    Se è già dalla fine dell’800 che si può parlare di mercato mondiale capitalistico oggi ciò ha un significato pieno. Un significato che riflette l’accelerazione nei processi di integrazione geografica (regionale e mondiale), produttiva, finanziaria e politica, nell’economia capitalistica avutasi in questi venti anni!
    Processi che si portano dentro evidenti trasformazioni qualitative su tutti i piani della formazione sociale, ma che non hanno risolto le principali contraddizioni della crisi apertasi nei primi anni ’70.
    Al contrario, l’insieme delle risposte imperialiste alla crisi comincia a generarne di nuove riversandosi sui rapporti sociali, sullo spazio territoriale che di questo è prodotto e luogo, in modo ancor più distruttivo.
    A livello planetario come nel singolo territorio per le classi dominanti è sempre più difficile governare le contraddizioni economiche, politiche, sociali che i loro stessi interessi contribuiscono ad esasperare. La realtà della interdipendenza nel mercato mondiale (il fatto che nessuna economia possa starne fuori, qualsiasi sia il suo grado di sviluppo) su cui la borghesia imperialista ha fondato il potere di non far precipitare la crisi, riversandone i costi maggiori verso i continenti del sud e recentemente verso l’est, oltre che sul proletariato dei paesi del centro, comincia ad agire come centro moltiplicatore delle contraddizioni.
    La qualità politica attraverso cui l’imperialismo dei paesi forti impone al proletariato i suoi interessi a livello globale e di singolo territorio è la stessa. Questo è un elemento determinante che permette ai rivoluzionari di lottare oggi con una visione unitaria dello scontro. Di affermare una strategia complessiva e non parziale attorno a cui ricomporre le diverse spinte rivoluzionarie in una fase di così veloci cambiamenti.
    Lo scontro rivoluzione/imperialismo, da tempo non può più seguire i confini Est/Ovest e traccia invece nuove discriminanti e nuove unità a livello mondiale. Oggi le necessità di stretta integrazione, divenute dominanti in molti paesi che sono stati “socialisti” o di “democrazia popolare”, agiscono in senso controrivoluzionario. Le linee di costruzione della soggettività proletaria e comunista in questa dimensione storica, hanno, nell’affermazione del terreno di connessione strategica tra lotta anticapitalista e lotta antimperialista nelle metropoli europee e in quelle del Tricontinente, uno dei tracciati centrali.
    Qui in Europa abbiamo davanti a noi il processo di strutturazione del Mercato Unico e dell’unità politica tra gli Stati. Il cosiddetto “Blocco Europeo”. Un processo che, visto nell’ampiezza delle sue determinazioni politiche e per i riflessi che ha per il proletariato in Europa, nel Mediterraneo e nel Sud del mondo, sintetizza l’insieme delle risposte imperialiste alla crisi e ne costituisce uno dei punti di svolta. Un processo che condizionerà sempre di più la lotta di classe in ogni paese e su cui si misureranno le possibilità di sviluppo rivoluzionario.
  1. In tutte le sezioni speciali in cui sono tenuti in isolamento per piccoli gruppi i prigionieri comunisti in Italia, c’è stata in febbraio un’iniziativa collettiva di lotta, attuata dalla maggioranza di essi contro l’attacco delle guardie ai compagni del Blocco B di Novara di fine gennaio.
    Più recentemente in molti ci siamo attivati a fianco della lotta dei prigionieri spagnoli.
    L’attacco ai compagni di Novara ha chiarito una volta di più che la politica dello Stato contro i prigionieri non è un “residuo emergenziale”. Essa persegue sempre i suoi obiettivi distruttivi. Lo staff di esperti e di carabinieri installati al Ministero di Giustizia, che sovrintendono concretamente al trattamento dei prigionieri, utilizza tutti i dispositivi e tutti i metodi più o meno scientifici sperimentati in questi anni, in funzione della situazione politica di oggi. Bisogna valutare le forme attuali di applicazione dell’isolamento rispetto ai suoi obiettivi. Cioè azzerare progressivamente i livelli di vita e organizzazione collettiva mantenuti dai prigionieri in anni di lotta, per impedire che essi siano parte attiva del movimento: individualizzare e spoliticizzare. Più in generale, differenziare e tenere sotto pressione tutti quei prigionieri, comunisti e no, che non rientrano nei meccanismi della cosiddetta “risocializzazione”. Questo è un dato inconfutabile che pone una volta di più la necessità politica di collocare stabilmente la resistenza dei prigionieri nella lotta rivoluzionaria di questo paese.
    La mobilitazione che c’è stata in vari poli metropolitani di gruppi di compagni e situazioni di lotta a fianco dei prigionieri di Novara e oggi in sostegno dei compagni spagnoli, segna un passaggio importante.
    Nella maggior parte di questi momenti di mobilitazione è emersa la consapevolezza che la situazione e la lotta dei prigionieri in Europa va affrontata nel suo insieme. Separare le diverse situazioni significherebbe ridurle ad una parzialità senza sbocco. Solo nel quadro generale di avanzamento della prospettiva rivoluzionaria in Europa e nel Mediterraneo si sblocca realmente la politica di annientamento contro i prigionieri.
    Qui in Italia, il movimento rivoluzionario si scontra con la volontà dello Stato di stabilire un rapporto di forze schiacciante contro ogni lotta proletaria accerchiandola, depotenziandola, tagliando le gambe a qualsiasi sviluppo. Le campagne d’ordine di Gava, Andreotti e Craxi proteggono i margini di profitto e la rifondazione istituzionale indispensabile alla grande borghesia italiana per competere nella unificazione europea. Segnando comunque una forte involuzione della realtà italiana comune a quella di tutte le società metropolitane.
    Nessuna semplificazione è possibile.
    I compagni prigionieri e i collettivi rivoluzionari che hanno la consapevolezza che la situazione attuale nelle carceri non è di “equilibrio”, ma di iniziativa dello Stato per ottenere un arretramento della soggettività dei prigionieri, devono individuare insieme i passaggi per ottenere un mutamento.
    Prima di ciò bisogna stabilire con chiarezza il terreno politico su cui è possibile realisticamente contrastare la politica statale e ricomporre la necessaria dialettica tra i prigionieri rivoluzionari e le molteplici soggettività dell’autonomia di classe.
    È l’esperienza concreta che evidenzia quale è questo terreno: affrontare le diverse situazioni di isolamento imposte dagli Stati europei nel loro insieme e nel significato che assumono dentro la formazione del blocco imperialista europeo, come lotta unitaria dei prigionieri e del movimento rivoluzionario in Europa.
    In questa dimensione e qualità può vivere tutto lo spessore della lotta per il comunismo nella metropoli: l’unità internazionalista per una prospettiva rivoluzionaria comune.

Abbracciamo i compagni prigionieri in Spagna, in Francia, in RFT e sosterremo la loro lotta per il raggruppamento.

José Manuel Sevillano Martin è nel nostro cuore e nella nostra rabbia.

Lottare insieme

Alcuni compagni del carcere di Trani

Giugno 1990

Lottare uniti contro l’imperialismo in Europa e nel Tricontinente del Sud. Seconda Corte di Assise di Roma – Documento di alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta, Luciano Farina, Giovanni Senzani, allegato agli atti del processo BR-Romiti.

«La decisione di lottare contro il sistema imperialista e per un mondo in cui gli uomini possano condurre una vita libera e autodeterminata, non può essere subordinata al fatto che in una determinata fase sia più forte la propria parte o il nemico, e dunque se la vittoria sia a portata di mano o se debba essere combattuta fino alla fine in una lunga lotta. La decisione per la lotta rivoluzionaria può venire solo dalla propria esperienza nel sistema e dalla sua brutalità e distruttività e dai propri obiettivi ed idee – appunto come si vuole vivere» (Rote Armee Fraktion, 27.7.1990).

Lo scenario degli anni ’90 si è aperto con alcuni fatti destinati ad influenzare in modo determinante lo sviluppo presente e futuro del mondo.

Il primo è rappresentato dal costituirsi della “Grande Germania”, dopo il crollo del sistema economico-politico-militare dei paesi del Patto di Varsavia e dal suo emergere come punto di forza e di predominio all’interno dell’Europa, e ciò fa assurgere l’intero blocco europeo-occidentale al ruolo di potenza mondiale. L’incorporazione della Germania Orientale che si celebra in questi giorni svela a tutti non solo l’evidente realtà di un “Quarto Reich” che sta decollando, ma quella di una borghesia europea decisa a perseguire i suoi interessi sulla pelle dei proletari dell’est, dell’ovest e del sud. Come dicono i compagni della RAF, comincia una nuova «aggressione contro i popoli dell’Europa condotta con i mezzi dell’economia e della politica» e, contemporaneamente, il capitalismo tedesco-europeo vuole lanciarsi «in un nuovo giro di vite nella sottomissione e nel saccheggio dei popoli del Tricontinente». Per questo si apre per i proletari ed i rivoluzionari «una lunga fase di lotta contro l’appena formato potere mondiale grande-germanico/europeo-occidentale».

Il secondo fatto è ancora più scatenante: l’invasione e l’occupazione della regione del Golfo da parte degli USA e dei loro alleati europei occidentali. Con questo atto “oggettivo” di guerra – una vera e propria aggressione – inizia un’epoca nuova in cui il quadro della crisi globale dell’imperialismo tende a tradursi in quello della guerra globale.

Il periodo successivo al ridefinirsi del rigido bipolarismo est/ovest – il cosiddetto post-guerra fredda – comincia in modo traumatico e si manifesta come un periodo di forte instabilità in cui l’interdipendenza del mercato mondiale moltiplica le contraddizioni ed i conflitti assumono una nuova globalità. La ricerca di un nuovo ordine mondiale capitalista diventa sempre più urgente e difficile.

Il terzo fatto è costituito dal ruolo dell’Italia in questa fase di passaggio del dispiegamento imperialista europeo. Lo Stato italiano sta assumendo le maggiori responsabilità nel Fronte Sud della NATO e nel processo di unificazione politica europea attraverso il suo personale inserito al vertice delle strutture comunitarie europee. Ciò si sta traducendo in una rifunzionalizzazione e centralizzazione delle strutture dello Stato che aggrediscono tutte le contraddizioni sociali e in un attacco diretto alle condizioni materiali di vita dell’intero proletariato. L’esempio più chiaro è la nuova manovra finanziaria di questo periodo, vero e proprio insieme di provvedimenti da economia di guerra che pesano soprattutto sui proletari.

Per mesi la propaganda borghese ha teso ad inculcare in tutti l’idea di una ininterrotta era di pace sotto la guida del capitalismo, ormai padrone del mondo dopo il “crollo del comunismo” ovunque. La realtà si incarica invece di riportare in primo piano la materialità delle contraddizioni che attraversano il mondo con un nuovo scenario di guerra.

Assistiamo ormai al concretizzarsi sempre più sconvolgente dello scontro, della guerra del nord contro il sud del mondo; una continua accumulazione di ricchezza e di miseria come poli di una contraddizione che il capitalismo non fa che accentuare in ogni angolo del pianeta, dalle metropoli dell’occidente sviluppato alle periferie del Tricontinente. La contraddizione tra proletariato e borghesia afferma la sua centralità ed assume un carattere scatenante in tutte le aree.

Quello che è cambiato, e che non fa che moltiplicare gli effetti dello scontro tra proletariato e borghesia, è il prevalere, rispetto al consueto quadro della contraddizione est/ovest, che per anni ha fornito una chiave di lettura del mondo in base ad un sistema bipolare ed ha segnato i confini anche dello scontro tra rivoluzione e imperialismo, di quello della contraddizione nord/sud, dentro cui la lotta dei popoli contro la borghesia acquista oggi nuova profondità e radicalità.

La lotta anticapitalista e antimperialista nelle metropoli europee e nel Tricontinente trova un terreno comune di unità nell’iniziativa contro il nuovo dispiegamento imperialista nel mondo intero, quindi contro il sistema economico-politico-militare che ruota attorno agli USA.

In questo senso l’invasione occidentale della regione del Golfo non è altro che il coagularsi delle linee di sviluppo delle lotte del prossimo futuro; i proletari ed i popoli del mondo intero contro l’imperialismo come sistema unitario, contro un sistema di potere e di sfruttamento che è solo distruttività della vita umana qui nel centro e là nella periferia.

Gli USA oggi cercano di uscire con nuova determinazione dalla crisi di egemonia che li attanaglia ormai da anni e che ha segnato tutta la storia dell’Occidente dopo la sconfitta del Vietnam. Dopo la prova generale in Centro America con l’indisturbato assalto a Panama, gli USA passano ad un attacco di ben altre proporzioni, perché vorrebbe essere risolutivo per la definizione del nuovo ordine mondiale e come tale viene rivestito del carattere di una vera e propria moderna crociata, contro l’Iraq e l’intero popolo arabo, che “mettono in pericolo” il benessere e la pace armata dell’Occidente.

In realtà la regione del Golfo è una zona vitale per gli interessi del mondo capitalistico che sul piano energetico dipende in modo rilevante dal petrolio dell’area; quindi il suo controllo è necessario per garantire lo stesso processo produttivo dei paesi occidentali. D’altra parte, fin dal 1980 l’Heritage Foundation, nel suo documento strategico “Mandato per la supremazia”, elaborato per i programmi a lungo periodo dell’Amministrazione Reagan, affermava a chiare lettere che dovevano essere «intraprese efficaci azioni per ristabilire una presenza militare americana credibile in quest’area». Oggi questo si è realizzato concretamente e secondo gli strateghi USA dovrebbe svilupparsi ulteriormente in una “NATO araba”.

Dalla strategia della guerra a bassa intensità sviluppata dall’Amministrazione Reagan, gli USA stanno muovendosi verso la strategia dell’aggressione ad alta intensità dell’Amministrazione Bush, a cui partecipano direttamente – economicamente, politicamente e militarmente – Europa e Giappone, con al seguito gli Stati arabi reazionari, loro nuovi alleati, e uno Stato d’Israele ancora più armato, bellicista e razzista.

Questa è la nuova realtà che i mass-media ci rovesciano addosso ogni giorno con una tempesta di bollettini di guerra e che le masse arabe palestinesi stanno affrontando nella loro terra. La nuova crociata – il più ampio concentramento di potenza militare dalla fine della seconda guerra mondiale – viene vista per quello che è dai suoi destinatari: un attacco occidentale, bianco e razzista contro la vita presente e futura delle masse arabe e palestinesi che va respinto, un attacco ben simboleggiato dalla bandiera con il teschio delle forze d’occupazione USA.

Le masse arabe palestinesi si sono mobilitate subito contro l’invasione del Golfo denunciando il ruolo delle “monarchie feudali arabe” che l’avevano sollecitata per sopravvivere. Dalla Giordania, all’Iran, all’Algeria, ai territori occupati della Palestina, dove l’Intifadah palestinese ha abbinato, nella sua lotta quotidiana, l’invasione USA del Golfo all’occupazione sionista della Palestina, facendo appello ai popoli arabi e ai movimenti dell’area «affinché si uniscano in un unico fronte, forte e saldamente unito, per affrontare la prevista aggressione americana e costringerla ad andarsene, spazzandola via dalla pura terra della missione islamica per proteggere la dignità araba» (Comando Nazionale Unificato dell’Intifadah n. 61, 31 agosto 1990).

Ci sono tutte le premesse perché l’aggressione americana ed europea si trasformi in un nuovo Vietnam, destinato a durare a lungo nel tempo e ad avere una globalità tutta nuova, specifica a questo periodo storico.

Questo scontro coinvolge già tutti i proletari e i popoli del mondo, che sono i primi a pagarne i costi, a cominciare dalle centinaia di migliaia di proletari in fuga dalla zona del Golfo, trasformati da forza-lavoro sottopagata in profughi abbandonati a se stessi, ed è parte dello scontro generale tra rivoluzione ed imperialismo. Esso può diventare un terreno di costruzione e sviluppo della soggettività rivoluzionaria attraverso l’affermazione della connessione strategica tra la lotta anticapitalista ed antimperialista in Europa e nel Tricontinente (Asia, Africa e America Latina). Un aspetto di quel nuovo internazionalismo proletario che si sviluppa nelle condizioni oggettive – storiche – dello scontro di questa epoca che fa sì che gli interessi dei proletari e dei popoli dell’Europa e del Tricontinente diventino “gli interessi comuni” nella lotta unitaria contro l’imperialismo.

In Europa siamo di fronte ad un profondo e sempre più accelerato processo di ristrutturazione in vista dell’istituzione del Mercato Unico e del costruirsi dell’unità politica degli Stati Europei. Questo processo è una risposta imperialista alla crisi e comporta enormi riflessi sul proletariato in Europa, nel Mediterraneo e nel sud del mondo. E un primo esempio indicativo sono le decisioni economiche, politiche e militari omogenee rapidamente concertate dagli Stati del blocco europeo sulla questione del Golfo, in collegamento con gli USA.

Questo processo avrà riflessi sulla lotta di classe in ogni paese europeo e su di esso si misureranno sempre più le possibilità di sviluppo rivoluzionario, perché sempre più i proletari di ogni territorio avranno di fronte le nuove concentrazioni capitalistiche sorte su base continentale e le corrispondenti istituzioni politiche che coordinano ed omogeneizzano le loro iniziative.

Per l’Europa, e in generale per gli altri paesi del centro (USA e Giappone), è vitale avere un retroterra pacificato in cui poter portare a termine i processi di ristrutturazione capitalistica sotto la spinta dei grandi oligopoli finanziari multinazionali e da cui lanciare l’aggressione al resto del mondo. In questa prospettiva di sfruttamento e miseria per le masse proletarie in cui la distruttività del sistema imperialista raggiunge livelli mai visti, non c’è spazio per le lotte proletarie che devono essere svuotate di ogni potenzialità antagonista, non c’è spazio per l’opposizione politica rivoluzionaria, che deve essere delegittimata e distrutta… Gli anni ’90, se non possono perpetuare la stagione d’oro del capitalismo del decennio precedente, come amano ricordare in Italia Agnelli e il suo compare Romiti, devono per lo meno consentire lo “sviluppo” dei capitali più forti ed attrezzati nonostante l’approfondirsi della crisi economica nelle aree del centro.

La FIAT, ad esempio, non ha alcun problema ad osannare da una parte i suoi profitti e, dall’altra, ad attrezzarsi per affrontare la nuova situazione che si sta determinando, inventando la mistica della “qualità totale“ rinnovando la concretezza della cassa integrazione e, contemporaneamente, preparandosi ad espandere il suo settore di produzioni di guerra.

In questo quadro, mentre ritornano in primo piano le ragioni della guerra imperialista e si afferma il carattere reazionario della società borghese, si mantiene il dato strutturale della controrivoluzione preventiva che si è stabilizzato nell’attacco al progetto delle organizzazioni della lotta armata negli anni ’70 e ’80.

La “guerra al terrorismo” è un obiettivo irrinunciabile dell’imperialismo nel cercare di garantirsi il livello di pace sociale necessario per portare avanti i suoi processi di ristrutturazione e “sviluppo”. Ciò si traduce nella politica integrata degli Stati europei contro il movimento rivoluzionario e le forze combattenti, in particolare contro la politica di fronte che si va costruendo a livello continentale.

Anche l’attacco ai prigionieri rivoluzionari europei è parte di questa politica imperialista in quanto essi sono un’espressione della continuità della lotta al capitalismo e all’imperialismo all’interno delle metropoli europee. Un attacco questo che serve a delegittimare e spoliticizzare l’intera esperienza rivoluzionaria europea degli ultimi vent’anni.

Per questo di fronte alla lotta dei prigionieri dei GRAPO e del PCE(r) in Spagna contro l’isolamento e per ottenere il raggruppamento – lotta che dura ormai da dieci mesi e che ha già visto la morte del compagno Josè Sevillano Martin – gli Stati europei e gli organismi sovranazionali della repressione sono più che mai uniti e a fianco dello Stato spagnolo e del suo governo “socialista” nella strategia di annientamento dei compagni. Il vero contenuto di queste politiche è sempre la distruzione del soggetto rivoluzionario e ciò stabilisce anche i fondamenti per un terreno di lotta comune per tutti i prigionieri, come parte della lotta tra rivoluzione e imperialismo in Europa. Respingere l’attacco ai collettivi di prigionieri in Spagna e in tutte le carceri imperialiste dell’Europa significa anche respingere e scuotere il potere che sfrutta e opprime milioni di uomini e donne qui nel centro e nel Tricontinente del sud.

Lottiamo insieme e vinceremo insieme.

Onore al compagno Josè Sevillano Martin e a tutti i compagni prigionieri caduti nella lotta contro il carcere imperialista.

Alcuni compagni del Collettivo Comunisti Prigionieri Wotta Sitta: Luciano Farina, Giovanni Senzani

Roma, 3 ottobre 1990

 

Sulle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario. Corte d’Appello di Parigi, prima Chambre d’accusation. Documento dei militanti delle BR per la costruzione del PCC Giorgieri Simonetta, Vendetti Carla e dei militanti rivoluzionari Bortone Nicola e Gino Giunti letto all’appello all’ordinanza di prolungamento della carcerazione preventiva.

Se si considera questa istruttoria nei suoi termini particolari, slegata dal contesto generale in cui è inserita, quello che risalta maggiormente è il fatto, apparentemente anormale, per cui lo Stato francese si pone il problema (e si assume l’onere) di giudicare l’attività rivoluzionaria delle BR per la costruzione del PCC, organizzazione comunista combattente italiana. Ma questa istruttoria (e tutto ciò che l’ha preceduta in termini di cooperazione tra gli apparati antiguerriglia italiano e francese) assume tutta un’altra dimensione e mostra la sua coerenza e funzionalità se la si legge per quello che è: conseguenza e manifestazione concreta del processo in atto, in Europa occidentale in particolare, di coesione e collaborazione sul piano controrivoluzionario; in quanto tale esprime l’attuale connotazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, imperialismo/antimperialismo. Questo processo di coesione, a sua volta, traduce in termini concreti l’assunzione, da un punto di vista sovranazionale e da parte delle istanze politiche, del “problema guerriglia” come problema comune che investe con la stessa intensità tutti i paesi imperialisti dell’Europa occidentale. Il proseguimento, cioè, di linee generali operative comuni e coordinate nelle sedi politiche, si impone come riflesso sul piano politico-militare dell’affermarsi di un interesse generale comune su questo terreno. La stretta collaborazione dei corpi antiguerriglia e dei Servizi Segreti dei diversi paesi non è che un aspetto; l’altro aspetto è la tendenza alla creazione di uno spazio giuridico europeo che, ad esempio, sposta su un altro piano la questione delle estradizioni risolvendola ad un livello più alto ed unitario in cui ogni paese si fa carico di amministrare la giustizia anche per conto degli altri (e questo presuppone un’unanimità di vedute, di metri di misura, di impostazione giuridica con cui riferirsi all’attività rivoluzionaria e darvi risposte politico-militari, informate nella sostanza dai comuni interessi e obiettivi); l’altro aspetto ancora, di più lungo respiro ed a carattere prettamente politico, sono i progetti di “soluzione politica” per la guerriglia che, se pure con diverse forme e seguendo itinerari differenti, marciano in Italia come in Germania, Spagna ecc… Già da questi piani emerge con chiarezza che l’obiettivo di contrastare la guerriglia viene assunto da tutti i paesi imperialisti europei negli stessi termini di fondo, ad un livello tendenzialmente uguale di partecipazione, responsabilità e coinvolgimento (di mezzi, strutture e, soprattutto, volontà politica centralizzata).

Ma anche questo dato va collocato dentro un contesto più complessivo in cui le misure controrivoluzionarie concordate non rappresentano che una delle direttrici su cui si misurano e procedono le politiche di coesione tese a compattare i paesi dell’Europa dell’ovest all’interno degli interessi del blocco occidentale. È a partire dall’acutizzarsi della crisi economica e nel quadro generale della tendenza alla guerra che le scelte e le politiche della catena imperialista prendono forma e si caratterizzano come portato e approfondimento del processo di armonizzazione e responsabilizzazione dei paesi che la compongono (pur nella diversità di ruolo e di diversi gradi in cui si manifesta la crisi), all’interno delle finalità generali di rafforzamento della catena stessa e modifica degli equilibri dell’assetto post-bellico. In questo contesto l’Europa occidentale manifesta il suo ruolo centrale e il carattere altamente dinamico dei suoi processi di coesione politica, economica e militare, anche se si tiene conto delle spinte contraddittorie che discendono dalla dialettica concorrenza/integrazione. La discontinuità che ne risulta non impedisce infatti che si succedano atti concreti di cooperazione e coordinamento, fattivi e durevoli, e che si sanciscano via via intese (sul piano politico, economico e militare) come risultante del collimare dei reciproci interessi con l’interesse generale del blocco imperialista. La collaborazione e gli accordi che fanno avanzare questo processo sul piano controrivoluzionario sono forse il dato più lineare, meno contraddittorio, rispetto a ciò che si produce sugli altri piani della coesione europea, più soggetti a contrastanti interessi nell’ambito interborghese, proprio perché più netta è l’individuazione dell’interesse comune che, su questo piano, coinvolge tutti i paesi del blocco occidentale.

Al tempo stesso, l’esperienza che la borghesia imperialista ha acquisito in relazione all’importanza politica e strategica della guerriglia, sia nel centro che nell’area mediterranea-mediorientale, ne costituisce il filo conduttore e qualificante che dà concretezza non solo alle finalità ma anche ai mezzi per perseguirla. Ne deriva, in termini generali, che gli scambi, i contatti, gli atti politici concreti, integrano e spostano ad un livello più alto l’attività antiguerrigliera dei diversi stati europei occidentali, generalizzando l’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che la guerriglia stessa ha contribuito a determinare; parallelamente modificano l’approccio di ognuno di questi paesi con l’attività antimperialista delle Forze Rivoluzionarie (sia del centro che della periferia) influendo sulla connotazione del rapporto imperialismo/antimperialismo. Infatti è evidente che il rafforzamento e la stabilità politica di ogni paese della catena è importante e condiziona le tappe del procedere della strategia imperialista, e quindi combattere e ridurre ogni espressione dell’attività guerrigliera, sia essa “classista” o “nazionalista” diventa interesse generale del blocco occidentale. D’altra parte quest’ultimo ha piena coscienza del fatto che tra le varie forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo emerge sempre più evidente l’esistenza di un interesse comune, che disegna nettamente i confini di un fronte oggettivo. Di più, e in particolare, il salto di qualità insito nella costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, finalizzato a stringere nell’attacco pratico l’unità realizzabile tra le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo nell’area geopolitica (Europa occidentale, Mediterraneo, Medioriente), amplifica la minaccia concreta che la guerriglia rappresenta per l’imperialismo nella misura in cui non solo aumenta l’efficacia dell’attacco ma soprattutto pone i termini per perseguire soggettivamente l’unità che, sul terreno dell’antimperialismo, già esiste oggettivamente tra Forze Rivoluzionarie, in particolare nell’area di massima crisi. Di conseguenza ancor più si stringono i vincoli politici, si accelerano i processi in atto, si intensificano gli scambi e la cooperazione a livello innanzitutto politico (che orienta poi l’attività della controguerriglia). Molto sinteticamente questi sono i termini che segnano attualmente l’approfondimento delle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario. Tornando a questa istruttoria, è quindi evidente che essa sia tutta interna al piano della guerra rivoluzionaria, di cui rappresenta un momento (anche poco significativo), un piano che ne evidenzia la natura di classe e controrivoluzionaria e, d’altra parte, che qualifica la nostra attuale condizione di prigionieri politici.

I militanti delle BR per la costruzione del PCC: Giorgieri Simonetta, Vendetti Carla. Il militante rivoluzionario: Bortone Nicola. Si associa Gino Giunti militante rivoluzionario

Parigi, 20 settembre 1990

 

Roma: Dichiarazione dei militanti arabi Hamidan Karmawi e Hammami Ahmed allegata agli atti del processo per “banda armata”

Oggi in quest’aula, dopo 5 anni di prigionia nelle carceri speciali italiane, ci viene contestata l’appartenenza ad una “banda armata”. Con questo tentativo lo Stato italiano, in seguito a forti pressioni dei sionisti avvalorate anche dallo Stato francese, cerca di delegittimare l’organizzazione “15 maggio per la liberazione della Palestina”.

Si tenta di fare passare per terrorismo la lotta rivoluzionaria della nostra organizzazione. Organizzazione legittimata invece da tutto il popolo palestinese, per combattere l’imperialismo e l’entità sionista che lo rappresenta nel cuore dei territori arabi. Gli Stati imperialisti, e in questo caso la Francia e l’Italia, stanno svolgendo pienamente il loro ruolo concreto di attacco alle forze palestinesi che lottano per l’autodeterminazione e l’emancipazione del nostro popolo.

Questo ruolo viene svolto di fatto, poiché formalmente questi paesi cosiddetti “democratici” riconoscono la giustezza dell’autodeterminazione dei popoli. Evidentemente sostengono la giusta causa palestinese solo a parole e sostengono anche chi solo a parole vuole mutare la condizione palestinese, poiché la vera lotta rivoluzionaria contrasta con gli interessi dell’imperialismo nell’area.

L’imperialismo è il vero responsabile della diaspora del nostro popolo, con l’insediamento pilotato dei sionisti nel ’48 nella nostra patria. Quindi è chiaro che ogni soluzione appoggiata e ricercata dai paesi imperialisti non può che fare gli interessi degli Israeliani e sulla pelle del popolo palestinese, come dimostrano oltre quaranta anni di massacri.

1947/48 – i massacri dei villaggi di Deir Yassin, Qabia, Kafar Kassem.

1967 – Il massacro effettuato con la guerra dei sei giorni con il tentativo di stroncare la resistenza palestinese e araba.

1968 – La battaglia del KARAMAH dove il popolo palestinese ha affrontato eroicamente l’esercito sionista affiancato dai suoi alleati.

1972 – Il massacro di 25.000 Palestinesi in Giordania (Settembre Nero)

1976 – il massacro di TAL AL ZAATAR (con l’assedio durato 52 giorni prima del massacro di 3000 persone).

1982 – l’invasione del Libano con il costante obiettivo di stroncare la resistenza palestinese, invasione che ha provocato numerose vittime nei combattimenti che sono durati 80 giorni. Vanno ricordati gli infami massacri di Sabra e Shatila. Nello stesso anno venivano assassinati in Italia dal Mossad, (i servizi segreti israeliani – ndr), che agisce liberamente in tutto l’Occidente, due Palestinesi: uno era il vice presidente dell’OLP e l’altro un giornalista.

1987 – Inizio dell’intifadah popolare con oltre 1000 morti, 40.000 feriti e più di 70.000 palestinesi imprigionati fino ad oggi.

1990 – La strage di Rishion Sion con 15 Palestinesi assassinati dalla polizia israeliana.

 

Senza dimenticare i crimini commessi dall’usurpatore sionista contro tutto il mondo arabo oltre che contro tutti i Palestinesi. Dall’attacco all’Irak nell’81 all’attacco dell’imperialismo americano alla Libia nell’86, o ancora i numerosi attacchi terroristici come l’assassinio di Abu Jihad il 16/4/88 a Tunisi. Ma a fare da protagonista nell’attacco contro il movimento di liberazione nei paesi arabi in generale e contro il movimento di liberazione palestinese in particolare è il sistema imperialista USA in testa e la sua creatura sionista, ivi compresa l’Europa occidentale. Una riprova lampante di ciò è il coinvolgimento dello Stato italiano e degli Stati imperialisti europei nelle operazioni di guerra condotte dagli USA contro la Libia. Infatti, durante la crisi USA-Libia, i dodici Stati europei della CEE il 14 aprile dell’86 all’Aia raggiunsero una posizione comune nei confronti della Libia, che venne associata per la prima volta in un documento comunitario al terrorismo, in perfetta linea con gli USA e la NATO. La notte stessa che venne raggiunta questa coesione europea (tra il 10 e il 15 aprile dell’86) i bombardieri USA colpivano Tripoli e Bengasi. Il 19 aprile i dodici Stati europei ebbero il “coraggio” di affermare che per risolvere la crisi USA-Libia «… tutto deve essere fatto per evitare qualsiasi azione militare».

Il sostegno europeo si concretizza non solo attraverso accordi militari, ma anche e soprattutto attraverso precisi accordi politici ed economici, sottoscritti dai singoli Stati nazionali e dalla CEE, che vengono rilanciati anche di fronte ai massacri quotidiani di bambini, donne e vecchi palestinesi che lottano per la vita e per la libertà. Il vostro aiuto ad Israele è in realtà realisticamente interessato a garantire l’esistenza dell’entità sionista. Perché uguali sono gli interessi imperialistici, terroristici, razzisti…

In altre parole questo è il vostro prodotto storico.

A questo punto vorremmo essere noi a chiedervi: «chi commercia con Israele dotandolo di armi chimiche e di tecnologie per la repressione del nostro popolo?». Non c’è alcun dubbio che le risposte le troverete nei vostri accordi politici e nella esportazione delle vostre industrie di morte con quelle sioniste…

I massacri che abbiamo elencato prima sono purtroppo solo una parte dei crimini commessi dai sionisti sostenuti dall’Occidente imperialista e principalmente dagli americani. Giornalmente, infatti, sin dal suo insediamento in Palestina, l’entità sionista ha massacrato migliaia e migliaia di Palestinesi inermi, senza che ciò faccia più notizia sui mass-media, pronti invece ad indignarsi ad ogni minima reazione della resistenza palestinese, la quale con sempre maggiore coscienza si oppone all’arroganza politica sionista ed imperialista, contrastando i nefasti progetti che passano sulla pelle del nostro popolo, combattendo con tutti i mezzi a disposizione ed ovunque è possibile assestare duri colpi al nostro mortale nemico.

Da parte nostra, dei combattenti rivoluzionari arabo-palestinesi segregati nelle carceri imperialiste europee, e delle masse palestinesi che lottano nella Palestina occupata, sappiamo che l’attuale politica fascista-sionista a Gaza e in Cisgiordania e in tutta la terra palestinese è interamente rivolta a contenere e a reprimere lo sviluppo e l’accrescimento dell’intifadah. Ma noi siamo fermamente convinti che la repressione nella terra occupata non riuscirà a smantellare la struttura della società palestinese in cammino, perché questa società vive nel cuore, negli occhi e nella coscienza di tutto il nostro eroico popolo.

L’intifadah esplodendo tre anni fa come lotta popolare e come resistenza di massa, costruita giorno dopo giorno affinché si possa realizzare presto il nostro sogno di libertà, ha contribuito a smascherare la vera natura criminale del sionismo, pagando un altissimo prezzo in vite umane.

Quindi, come militanti dell’Organizzazione 15 maggio per la liberazione della Palestina rivendichiamo la giusta lotta contro il sionismo e l’imperialismo mondiale e così come siamo orgogliosi di essere parte integrante del movimento che lotta per la libertà della propria terra e per la libertà di tutti gli uomini, siamo altresì coscienti che la vostra accusa di “banda armata” rientra tra le velleità dei paesi imperialisti di condannare ed affossare la legittima lotta della nostra organizzazione, della resistenza palestinese e di tutto il movimento rivoluzionario arabo, che si scontra con gli interessi sionisti e di conseguenza con quelli dell’imperialismo. Che sono anche i vostri…

Lunga sarà ancora la lotta per l’autodeterminazione del nostro popolo ma non è certo la determinazione che ci manca, come abbiamo dimostrato da sempre e nonostante i continui massacri e l’entità del nemico.

La coscienza odierna espressa dai diversi movimenti, palestinesi e arabi, di ricercare una unità d’intenti contro il nemico comune ed in sostegno dell’intifadah sia dentro che fuori la Palestina occupata, apre nuove prospettive alla nostra lotta di liberazione.

Consumate dunque in quest’aula il vostro rituale e condannate attraverso noi i combattenti palestinesi e arabi ed anche il popolo tutto; svolgete il vostro ruolo a fianco dei macellai di Deir Yassin come sostanzialmente avete sempre fatto…

 

Solidarietà e sostegno all’intifadah.

Onore ai martiri palestinesi, onore a tutti i combattenti antimperialisti e antisionisti caduti.

Unità delle forze rivoluzionarie contro il nemico comune.

Palestina libera. Lotta fino alla vittoria

I militanti arabi: Hamidan Karmawi, Hammami Ahmed

Roma, 5 luglio 1990

 

Elenco delle azioni compiute negli ultimi anni a Roma dal terrorismo israeliano:

16 Ottobre 1972 – Wael Zwaiter viene ucciso nell’atrio dell’edificio in cui abitava a Roma.

9 Ottobre 1981 – Abu Sharar Majed, il responsabile del dipartimento informazioni dell’OLP, rimane ucciso nell’attentato dinamitardo all’Hotel Flora a Roma.

17 Giugno 1982 – Hussein Kamal, il vice capo della delegazione dell’OLP in Italia, e Matar Nazih, studente palestinese, vengono uccisi in un attentato a Roma.

15 Dicembre 1984 – Ismail Darwish, membro dell’Ufficio Politico dell’OLP, viene assassinato a colpi di pistola a Roma.