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Contro una trattativa infame. Documento dei militanti delle BR-PCC Alberta Biliato e Cesare Di Lenardo allegato agli atti del processo presso il tribunale di Venezia

Intendiamo qui denunciare pubblicamente ai compagni, ai comunisti, a tutti i rivoluzionari gli elementi di cui siamo a conoscenza riguardo un’infame trattativa in corso tra lo stato e un raggruppamento di detenuti politici. Rendiamo noto quanto a nostra conoscenza perché nella storia delle Brigate Rosse non ha mai trovato posto alcuna trattativa segreta con lo stato e ogni operazione e tutta l’attività politica e combattente è stata sempre gestita e rivendicata pubblicamente; e perché l’obiettivo specifico di questa trattativa è attaccare la guerriglia alle spalle, portare al suo scioglimento e al disarmo dei combattenti nel quadro della cosiddetta pacificazione nazionale. È perciò necessario, giusto e doveroso denunciarla pubblicamente.

Già avevamo condannato in termini politici («Sui prigionieri politici e la direzione della guerriglia» del 25 aprile ’87) l’operazione che prende il nome di soluzione politica e vede come protagonisti dal carcere il duo Curcio-Moretti e loro soci. Successivamente siamo entrati in possesso di informazioni certe e di alcuni dei termini della trattativa che rendiamo senz’altro noti qui di seguito.

Lo stato ha avviato da tempo contatti con il gruppo Curcio-Moretti attraverso vari emissari di diversi partiti politici di governo. Vi sono stati anche incontri con esponenti della cosiddetta opposizione. Siamo certi che vi sono stati contatti diretti con esponenti della DC, del PSI, del PCI; di questi soltanto una parte sono stati resi noti tramite stampa.

L’oggetto del contendere è la cosiddetta soluzione politica e la trattativa è in questi termini. Da una parte si richiedono i buoni uffici di Curcio-Moretti affinché premano in modo articolato anche attraverso altri prigionieri, considerati più vicini alla guerriglia in attività, per addivenire ad accordi di scioglimento e alla deposizione delle armi. Dall’altra si chiede la liberazione dei detenuti politici attraverso nuove leggi che oltrepassino la legislazione in vigore su pentiti e dissociati, in modo da comprendere anche loro.

In questo quadro la DC ha istituito negli ultimi mesi un gruppo di lavoro sui problemi della giustizia per definire un progetto tecnico di soluzione politica e di cosiddetta pacificazione generale.

Il tenore e molti dettagli delle dichiarazioni, lettere, interviste e precisazioni rilasciate in questi mesi sia dal gruppo Curcio-Moretti sia da uomini politici democristiani è stato calibrato attentamente di reciproca intesa, in considerazione dei rispettivi problemi di gestione della cosa che i due poli della trattativa avevano con i loro referenti e nel loro ambiente politico.

La DC, in incontri con Curcio e con Moretti in particolare, ha anche indicato l’esistenza di un paese straniero disposto in base ad accordi presi con il governo e i servizi ad accogliere militanti clandestini che fossero disposti a deporre le armi e che eviterebbero in questo modo l’arresto.

L’offerta della DC per la soluzione della questione dei detenuti politici prevede: per i reati di sola banda armata tre anni di carcere più tre di arresti domiciliari; per reati definiti come intermedi cinque anni di carcere più cinque di arresti domiciliari; per i reati per i quali attualmente sono previsti trent’anni, la pena diventerebbe di dieci anni di carcere più dieci di arresti domiciliari; per gli ergastoli è stato detto che si tratterebbe nominalmente di vent’anni di carcere salvo poi diventare dieci più dieci come per chi ha da scontare pene di trent’anni. I dettagli sono ancora in definizione.

Dell’andamento di questo progetto sono stati puntualmente informati gli interlocutori interni al carcere e questi dal canto loro hanno riferito dell’andamento del cosiddetto dibattito interno presso le aree di prigionieri da loro considerati più vicini ed influenti nei confronti della lotta armata.

Questi gli elementi dei quali siamo certi in buona sostanza poiché ne abbiamo verificata la consistenza e trovato puntuale riscontro.

Come militanti delle Brigate Rosse, come combattenti comunisti ed antimperialisti denunciamo questa sporca manovra, anche a dimostrare nei fatti per il massimo di chiarezza che nessuna connivenza ci relaziona, né noi né la nostra organizzazione, a questi loschi traffici.

L’accusa politica, già da noi con coscienza formulata nei confronti di questi personaggi, di essere dei nuovi servi politici dello stato imperialista si va riempiendo di sostanza che nessuna bella parola né le chiacchiere equilibristiche di scuola morotea potranno cancellare. Si tratta di trucchi della peggior specie: discutono con i peggiori nemici del proletariato italiano di sconti di galera, passaporti per transfughi, di come strangolare la guerriglia per portare a casa il proprio sedere.

Non vogliamo ridurre una questione che è anche politica unicamente ad un losco traffico, ma questo è un dato obiettivo, e ciò che lega l’abbandono della lotta rivoluzionaria allo slittamento progressivo nelle peggiori compromissioni è il fatto concreto che qui nel carcere imperialista, nei bracci speciali di massima sicurezza, qui non c’è uno spazio tra stato e rivoluzione: il confronto è diretto, duro, radicale, l’ordinato ripiegamento nel privato non ha luogo dove svolgersi. Fuori dalla disciplina collettiva della rivoluzione c’è la forza dello stato in uno dei luoghi della sua massima concentrazione: distrugge, divora, rimodella a sua immagine e somiglianza chi non comprende la dimensione politico-sociale della solidarietà rivoluzionaria. Produce ciò che ha prodotto con figure come Morucci, Franceschini, Curcio e chi altri prenderà la loro strada: pupazzi, uomini da spettacolo, da usare nella propaganda contro ogni lotta rivoluzionaria; argomenti che i poliziotti delle squadre politiche citeranno durante gli arresti, le perquisizioni, le minacce ai compagni come prova della potenza e della ragione dello stato. Poco o niente di più, e anche questi invecchieranno come gli altri in una breve stagione – perché la lotta continua.

Non intendiamo polemizzare con la gestione politico-ideologica che viene data di questo sporco affare; le tesi di questi individui non sono in alcun modo per noi elemento di dibattito, essendosi essi posti da tempo del tutto fuori della logica della lotta rivoluzionaria e comunista: il dibattito nel movimento rivoluzionario è un’altra cosa.

Se riterremo in futuro di intervenire più approfonditamente sugli aspetti politici di questa vicenda e sulle ragioni politiche per cui continuiamo a sostenere la strategia della lotta armata per il comunismo, sarà per fare maggiore chiarezza sulle nostre posizioni tra i compagni del movimento antagonista. Più chiara di noi sarà in ogni caso la prassi della guerriglia, della nostra organizzazione e ad essa facciamo riferimento.

Diffidiamo infine questi rinnegati dal dire una sola parola a nome dei rivoluzionari prigionieri, come hanno tentato di fare con vari equilibrismi linguistici in queste settimane. Chi nasconde se stesso dietro questi tortuosi e contorti accenni, chi vuole accodarsi a questa trattativa per esserne in qualche maniera interno, lo faccia scopertamente a suo nome assumendosi tutte le responsabilità di ciò che fa. Nel farlo si colloca distante mille chilometri dalle Brigate Rosse, dalla nostra storia, dal nostro progetto rivoluzionario, dall’organizzazione che lotta oggi in clandestinità per il comunismo.

Invitiamo tutti i compagni a prendere posizione con chiarezza su questa vicenda tracciando una linea di demarcazione nei confronti di chi manovra queste trattative; con il massimo di disponibilità e di apertura alla discussione sui problemi con tutti i compagni e con il massimo di chiusura e di isolamento verso chi tratta con lo stato, con la DC e il sistema dei partiti.

La nostra posizione in questo specifico processo deriva dalla posizione politica in cui ci riconosciamo: siamo militanti delle Brigate Rosse e rivendichiamo tutta l’attività politica e combattente della nostra organizzazione. Ai giudici, allo stato, all’imperialismo non abbiamo nulla da dire: siamo combattenti nemici. Appoggiamo la guerriglia e con essa ci identifichiamo.

Attaccare il cuore dello stato nelle sue politiche dominanti!

Rafforzare il campo proletario per attrezzarlo allo scontro con lo stato!

Guerra alla NATO! Guerra all’imperialismo!

Promuovere e consolidare il Fronte Combattente Antimperialista!

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo

Venezia, 1 giugno 1987

La riforma è sempre annientamento. Documento di un gruppo di comunisti prigionieri del processo alla Colonna Napoletana delle Brigate Rosse

Il 21 aprile nella sezione femminile del carcere di Bellizzi Irpino e il 23 nella sezione speciale di Poggioreale abbiamo ritardato di mezz’ora il rientro nelle celle.

Queste iniziative si legano alla mobilitazione che in quest’ultimo periodo hanno attuato i prigionieri e le prigioniere nelle carceri di Novara, Voghera e Ascoli Piceno contro l’art.1 «sorveglianza particolare» della Legge Gozzini. La lotta di ieri, che ha visto uniti tutti i prigionieri della sezione speciale di Poggioreale, segna una piccola ma importante tappa anche contro le condizioni di vita infami imposte in questo carcere a partire dall’opera di «normalizzazione» attivata con pestaggi e violenza sistematica a cavallo fra l’82 e l’83.

Lottare nelle nuove condizioni createsi ultimamente nel carcere significa, prima di tutto, non stare alle regole del gioco che la riforma carceraria cerca di imporre attraverso i mille strumenti di individualizzazione del trattamento. Significa anche riaffermare la pratica di lotta possibile e necessaria, contro l’intero complesso della strategia di differenziazione, senza lasciarsi annichilire da provvedimenti ministeriali che vogliono frantumare sempre più l’identità antagonista e rompere ogni vincolo collettivo.

Oggi è importante rafforzare il fronte di chi lotta in carcere contro il carcere, perché solo muovendosi, con determinazione e lucidità, su questo terreno è possibile opporsi ad una strategia carceraria che attacca direttamente l’identità di classe e i livelli di aggregazione proletaria e organizzazione rivoluzionaria.

La lotta è comunicazione antagonista e rivoluzionaria, perché svela il senso reale di una strategia antiproletaria quale la riforma di Amato, cogliendone il nesso che lega indissolubilmente l’ideologia premiale alla «sorveglianza particolare» ritagliata sul singolo prigioniero. In questa fase dello scontro non si può fare riferimento ad un movimento contro il carcere, è necessario quindi cominciare a praticare quelle rotture significative e quelle iniziative indispensabili per cominciare a costruire nel movimento di classe e rivoluzionario il terreno dell’unità della lotta contro il carcere, per incidere realmente sulle modificate condizioni dello scontro.

Questi passaggi oggi non sono già dati, ma vanno costruiti con intelligenza e determinazione ribadendo il significato di rottura della lotta in carcere e ricucendo il filo delle iniziative proletarie e rivoluzionarie che si vanno sviluppando nei vari poli metropolitani. Questa scadenza unitaria di lotta contro l’art.1 «sorveglianza particolare» è un primo passo che si inserisce dentro quella prospettiva, e la capacità di rilanciarlo ad un livello più adeguato dentro e fuori del carcere può costruire le condizioni necessarie per una mobilitazione più ampia e di largo respiro.

Il processo di trasformazione del sistema carcerario italiano da dispositivo di contenimento in strumento attivo ha reso il carcere assai più funzionale che in passato alle esigenze di rifondazione capitalistica. È un dato che attraversa tutte le strategie di controllo sociale per come in questi anni si stanno dispiegando, creando un complesso di dispositivi antiproletari e controrivoluzionari più adeguati ad incidere sulle contraddizioni attuali.

Il filo conduttore di questa strategia è il tentativo di trasformare le linee dello scontro vissuto in questi 15 anni, come le contraddizioni che emergono oggi nelle diverse realtà di classe, in terreni di dialettica compatibile con l’ordine della borghesia imperialista.

La gestione Amato del sistema carcerario in questi anni ha operato incessantemente in questa direzione coniugando «con lungimiranza» le esigenze di «risocializzazione e sicurezza». Il carattere principale di questo «nuovo corso» espresso formalmente con la Legge Gozzini dell’ottobre ’86 è quello di una razionalizzazione e istituzionalizzazione della strategia del trattamento differenziato e individualizzato e del «reinserimento sociale/risocializzazione» sperimentato negli ultimi anni.

Il principio di base è che l’unico garante ed interlocutore rispetto alle condizioni di vita e alle scelte di ogni soggetto imprigionato è lo stato, a cui ognuno deve rapportarsi individualmente. In questi termini le «aperture» e le varie soluzioni istituzionali, così come il meccanismo dei premi e delle punizioni, sono il terreno su cui marcia la «rieducazione» dei prigionieri e l’unico spazio di rapporto concesso con «la società».

Al contrario, qualsiasi forma di comportamento e organizzazione tendente a porsi al di fuori degli spazi istituzionali va incontro ad una gamma di trattamenti differenziati e di restrizioni.

Questo aspetto ripropone l’irrisolvibile contraddizione di ogni strategia controrivoluzionaria della borghesia.

Riforma è sempre annientamento dell’identità di classe perché per ricondurla dentro la compatibilità istituzionale deve distruggere il suo carattere antagonista.

Il perfezionamento delle politiche e delle tecniche di «risocializzazione e sicurezza», posto in essere dalla Legge Gozzini, rende evidenti le linee di attacco e di annientamento dell’identità antagonista del proletariato prigioniero e, in particolar modo, dei livelli di organizzazione collettiva all’interno del carcere. Lo stato ha creato le condizioni oggettive politiche per porsi come unico interlocutore credibile che offre – con garanzie di legge – la possibilità di modificare le condizioni individuali di detenzione fino a quelle di «liberarsi».

Questa «offerta», con la nuova legge, diviene una imposizione. La tendenza, infatti, che si vuole portare a maturazione è quella dell’inevitabilità per il prigioniero di fare una scelta – prima di tutto individuale – dove l’alternativa è tra l’escalation di premialità (dalle condizioni più «umane», ai permessi, licenze, semi-libertà…) e il suo esatto opposto. È anche in quest’ottica «punitiva» che l’elasticità e flessibilità dell’art.1 consente l’opportunità di graduare le restrizioni a vari livelli, fino all’isolamento periodico in «luoghi adatti» (braccetti). Di fatto oggi non esiste un «terreno neutro», una situazione che funzioni da semplice «contenitore»; il carcere è attivo ad ogni livello, per qualunque figura o soggetto prigioniero.

In pratica per i prigionieri la condizione per ottenere la libertà è quella della perdita della propria identità, il rendersi compatibili alle possibilità di recupero e quindi strumento più o meno diretto di collaborazione con l’istituzione, parte attiva della propria «rieducazione» e immediatamente – di fatto – elemento di rottura dei vincoli collettivi e di autorganizzazione proletaria. L’alternativa deterrente e ricattatoria è l’aumento di repressione attraverso lo strumento flessibile della «sorveglianza particolare».

Il carcere diviene strumento di sperimentazione attiva, al quale nessun soggetto può sottrarsi. Anche la semplice passività diviene di fatto disinnesco delle tensioni antagoniste e dell’identità collettiva. È proprio l’ambito collettivo il bersaglio privilegiato dell’iniziativa dello stato, che vuole distruggere le possibilità di aggregazione e quindi di lotta. Le carceri speciali, l’art.90, hanno avuto in questi anni la funzione di concretizzare la strategia della differenziazione «per aree», con lo scopo di frantumare gli aggregati di proletari antagonisti e di prigionieri della guerriglia.

Ma questa strategia, proprio per l’omogeneizzazione delle condizioni di detenzione per vaste aree di prigionieri che comportava, non eliminava la possibilità di organizzarsi e di lottare collettivamente, come si è verificato in questi anni in molti carceri speciali.

L’individualizzazione del trattamento – cioè il porre formalmente identiche condizioni per tutti ma differenziate in base all’identità e all’atteggiamento individuale – è il tentativo di risolvere questa contraddizione stabilendo un regime differenziato non legato ad una qualche emergenza, ma ad un vero e proprio status di «sorvegliati particolari» destinato a prolungarsi indefinitamente nel tempo. Il «provvedimento a termine rinnovabile», infatti, rappresenta il massimo del potere discrezionale dello stato ed è un mezzo per attivare una differenziazione a tempo indeterminato!

Con l’applicazione sempre più articolata della riforma, è un’unica e complessa strategia che determina ogni livello di condizione e trattamento individuale. E la lotta contro la propria particolare condizione diventa sempre più difficile per il principio stesso della divisione-disgregazione che sta alla base dell’individualizzazione e che rende più precari e discontinui i vincoli di aggregazione collettiva. Dal gennaio all’aprile ’87 il provvedimento di «sorveglianza particolare» è stato applicato gradualmente ad un gruppo ristretto di prigionieri e via via intensificato. Dai prigionieri dei braccetti ad alcuni prigionieri antagonisti o in posizione di rottura con lo stato, dai prigionieri della guerriglia italiana, ai combattenti arabi e palestinesi.

Già in questa prima fase la politica ministeriale ha cominciato ad investire sia il circuito speciale sia i giudiziari sottoponendo singolarmente a questo provvedimento prigionieri che si trovano in condizioni assai diverse (da Novara a Voghera, da Rebibbia a Poggioreale, da Cuneo a Spoleto…). Ciò rivela la complessità della nuova strategia di differenziazione, la sua funzione nel più ampio quadro di ridisciplinamento del proletariato prigioniero e di rifondazione del sistema carcerario.

Comunque il senso concreto di questo aspetto della riforma comincia a manifestarsi in modo sempre più chiaro in alcune situazioni. Una prima direttrice è l’attacco all’identità dei prigionieri della guerriglia italiana. Esso tende a risolvere una contraddizione critica per lo stato, l’esistenza in Italia di una opzione rivoluzionaria guerrigliera e quindi l’area dei comunisti prigionieri che continuano ad essere interni ai processi di organizzazione e costruzione guerrigliera deve essere scremata e ridotta all’osso per poterla ridimensionare come entità politica.

Una seconda direttrice si concretizza nel trattamento speciale e particolarmente duro riservato, nei braccetti e in altri luoghi, ai combattenti arabi e palestinesi prigionieri la cui presenza é sempre più rilevante nelle carceri italiane. Questo é anche il segno tangibile del ruolo dell’Italia nello scontro tra imperialismo e lotte rivoluzionarie in Europa e nel Mediterraneo.

Una terza direttrice è l’attacco a quei gruppi di prigionieri che rifiutano di «farsi rieducare», che si organizzano e lottano per difendere la loro identità antagonista. In questa prospettiva l’art.1 é destinato ad avere un ruolo di punta in ogni ambito carcerario. È una vera e propria spada di Damocle che può colpire chiunque non sta alle regole della gestione del ministero. Questi sono i punti dove il sistema carcerario «riformato» – il tanto sbandierato carcere aperto – mostra con più evidenza la sua reale natura di dispositivo di annientamento dell’antagonismo proletario. È da qui dunque che bisogna partire per contribuire a ricostruire le condizioni di lotta e mobilitazione contro il carcere.

In questi anni nel contesto generale di arretramento dell’iniziativa di classe e di debolezza del movimento rivoluzionario, si è determinata anche la mancanza di un punto di vista rivoluzionario sul carcere. Anzi, si può dire che con l’avanzare del progetto di dissociazione-resa il carcere è diventato un importante veicolo di compatibilizzazione e «recupero sociale». E questa funzione svolgono anche le recenti iniziative di ex-rivoluzionari che affermano «l’oltrepassamento» definitivo della lotta armata, perché il riflesso carcerario di questa nuova svendita è il sostegno evidente della riforma e dei suoi contenuti di «risocializzazione e sicurezza».

Al punto di vista di classe si sostituisce quello dell’individualizzazione di Amato!

Come comunisti prigionieri non possiamo che affermare la critica rivoluzionaria al carcere e far vivere la consapevolezza della necessità della lotta come unica possibilità realmente «pagante» in termini di aggregazione delle varie figure antagoniste e della propria identità di classe e rivoluzionaria su questo terreno.

In questa congiuntura il terreno dello scontro in carcere è diventato sempre più politico, perché ha assunto un livello di complessità mai raggiunto in passato e, contemporaneamente, si è ridefinita la qualità complessiva dello scontro di classe in questo paese.

Non è possibile per dei comunisti prigionieri concepire la propria internità al processo rivoluzionario astraendolo dalle condizioni concrete in cui si colloca la propria vita e militanza, magari in attesa di «tempi migliori» per riprendere l’iniziativa. È invece estremamente importante dare il proprio contributo alla costruzione di un punto di vista rivoluzionario e di una pratica contro il carcere all’interno del movimento rivoluzionario e di classe.

Innanzitutto perché non si può rinunciare a costruire coscienza rivoluzionaria in una situazione in cui i proletari vivono oggettivamente uno scontro diretto con il potere borghese. In secondo luogo perché il sistema di segregazione carcerario ha sempre avuto ed ha un ruolo di grande importanza nella lotta di classe, proprio perché si pone materialmente contro i processi di organizzazione proletaria e rivoluzionaria.

Con questa consapevolezza si può cominciare a ricostruire nella lotta e nella comunicazione antagonista e rivoluzionaria quel tessuto di rapporti e relazioni collettive che possono spezzare la strategia di isolamento che vuol fare «terra bruciata» nel carcere e attorno al carcere.

Noi possiamo esprimere una pratica rivoluzionaria in primo luogo a partire dalle nostre condizioni di segregazione, di prigionia, per negarle, per liberarci e per impedirgli di funzionare contro di noi, continuamente nel possibile. La capacità di inserire questa pratica nel complesso di tensioni e lotte che caratterizzano il movimento proletario è il primo vettore di internità e contributo attivo al movimento rivoluzionario.

A partire da questa chiarezza, si può sviluppare un processo comunicativo ampio con realtà proletarie, con collettivi e situazioni di compagni con cui costruire momenti di lotta comune contro il carcere e il complesso delle sue strategie antiproletarie. Momenti significativi e di rottura che vadano al di là del terreno della solidarietà, e che riescano a cogliere il nesso profondo che lega il carcere e la società metropolitana. Certamente non si tratta di promuovere una qualche centralità del carcere o di assolutizzare questo terreno specifico di lotta, ma di farlo vivere dentro lo sviluppo dello scontro di classe nella metropoli imperialista.

Con queste iniziative intendiamo affrontare da subito la strategia di rifondazione del carcere metropolitano per rilanciare con forza e determinazione un punto di vista di classe e rivoluzionario su questo terreno.

Per noi lottare significa comunicare con tutti coloro che hanno scelto di criticare lo stato di cose presenti…

Un gruppo di comunisti prigionieri del processo alla Colonna Napoletana della Brigate Rosse

Napoli, 24 aprile 1987

Processo per “Insurrezione” – Secondo troncone. Documento dei militanti delle Br-Pcc Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo, Antonino Fosso, Flavio Lori allegato agli atti

Come militanti delle Brigate Rosse riaffermiamo con forza la centralità che assume l’attacco alle politiche di coesione dell’imperialismo nell’area europeo-occidentale e quindi il nostro sostegno all’attacco portato dalla Rote Armee Fraktion al presidente della Deutsche Bank: Alfred Herrhausen.

Questo “signore del denaro”, dall’85 ai vertici di uno dei maggiori gruppi finanziari tedeschi, era un artefice e tra i più lucidi dirigenti di quel processo di concentrazione e centralizzazione del grande capitale finanziario e industriale europeo-occidentale che dentro la dialettica concorrenza-concentrazione costituisce il punto più avanzato dell’integrazione economica della borghesia imperialista, e quindi la spina dorsale della coesione politica e militare dell’imperialismo nell’Europa occidentale.

Sono esemplari le operazioni che la sua dirigenza mette a segno, pur dentro la feroce concorrenza tra i grandi gruppi monopolistici, e che prefigurano l’assetto integrato di una costellazione multinazionale e multiproduttiva che si configura come il soggetto forte dei nuovi equilibri di concentrazione imperialisti, con un piano di attività che spazia dalla finanza ai grandi gruppi chimici tedeschi, ai trasporti, alla difesa, all’industria aereonautica ed elettronica – cioè quella più tecnologicamente avanzata – con la partecipazione nei colossi Daimler-Benz, Wolkswagen, AEG, Matra nonché FIAT (una partecipazione ottenuta con l’operazione di sostituzione dello “scomodo” partner libico); ancora, in Italia, è la sua presidenza a rilevare le filiali del Bank of America concludendo quello che è definito il più importante investimento di una banca estera nel nostro paese; sino all’operazione da poco conclusa di acquisizione della Morgan-Grengell inglese. Un’attività coerentemente perseguita che ne avrebbe senz’altro fatto il primo banchiere dell’ovest europeo, attento al quadro dell’integrazione europea tanto da essere uno dei più pronti e convinti assertori dell’integrazione monetaria europea, tanto interno alla definizione del piano politico di coesione ed integrazione europeo-occidentale da essere “consulente” di Kohl, o meglio, tra quel pugno di grandi monopolisti che ispirano alle proprie esigenze le scelte politico-economiche generali all’interno degli Stati europei e che mirano al rafforzamento politico-economico complessivo per concorrere all’interno del sistema imperialista.

Dentro le attuali dinamiche, per la supremazia economica e per ragioni storico-politiche, è proprio la Germania occidentale che si va definendo come polo di attrazione forte del processo di integrazione economico-politica e militare dell’Europa occidentale, un’integrazione preliminare alla “lunga marcia verso l’Oriente”.

È dentro queste dinamiche generali dell’imperialismo che secondo noi si inserisce l’attacco dei compagni della RAF, poiché l’antimperialismo è un dovere prioritario di ogni forza rivoluzionaria conseguente, a maggior ragione per le guerriglie dell’Europa occidentale, poiché operano all’interno del cuore dell’imperialismo, sapendone collocare il piano e la portata rispetto all’antimperialismo praticato dalle forze rivoluzionarie nella periferia. Per la guerriglia del centro imperialista si tratta di attualizzare l’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni dello scontro nella metropoli imperialista. Deve essere chiaro che ciò non può e non deve significare la semplificazione del quadro di scontro nel solo piano internazionale, sottomettendo il piano classe/Stato al piano imperialismo/antimperialismo. In altri termini l’internazionalizzazione nella formazione monopolistica, lo sviluppo integrato tra gli Stati e l’interdipendenza economica che ne deriva muovono verso un processo tendenziale di formazione omogenea sia dei caratteri della frazione dominante di borghesia imperialista che del proletariato metropolitano; un processo appunto tendenziale che non dissolve la funzione degli Stati, anzi li esalta all’interno degli organismi sovranazionali, né fa dell’Europa occidentale un territorio politicamente omogeneo. Perché lo specifico percorso rivoluzionario si sviluppa necessariamente all’interno dei singoli Stati ed è caratterizzato dalle peculiarità storiche e politiche del contesto nazionale della lotta di classe.

L’antimperialismo per le Brigate Rosse vive in unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato, costituendo entrambi i perni su cui si ricostruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata. Per le Brigate Rosse l’antimperialismo si materializza nel contributo alla costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo.

Si è reso cioè evidente che, stante l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico-militare, è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo in quest’area geopolitica per realizzare i processi rivoluzionari, sia che si tratti di rivoluzione proletaria che di liberazione nazionale.

In questo senso il consolidamento della politica di Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria.

Per le Brigate Rosse la tematica dell’antimperialismo deve imperniarsi intorno allo sviluppo di politiche di alleanza con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo specificatamente nella nostra area geopolitica – Europa occidentale, Mediterraneo, Medio Oriente – al fine di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo.

Si tratta di lavorare a concretizzare, in successivi momenti di unità, l’attacco all’imperialismo all’interno del criterio politico che l’attività del Fronte non deve essere impedita dalle peculiarità d’analisi e di concezione politica delle diverse forze rivoluzionarie che vi lavorano, né tantomeno si deve discriminare l’attività del Fronte come unica attività rivoluzionaria, ma essa deve stringere l’unità realizzabile nell’attacco pratico.

Per questo affermiamo, insieme alla RAF, che non si tratta di fondere ciascuna organizzazione in un’unica organizzazione, ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo.

Il contributo della RAF e delle Brigate Rosse al Fronte Combattente Antimperialista dimostra come le diversità storiche e di percorso non possono e non devono costituire un ostacolo al praticare un’effettiva politica di alleanza, un contributo questo che costituisce al tempo stesso un salto in avanti nella costruzione del Fronte, perché si inserisce nella necessità di superare il primo periodo sostanzialmente di propaganda della necessità del Fronte stesso, misurandosi invece con la definizione più precisa della sua proposta politica, uscendo dalle secche del genericismo.

L’approdo al testo comune RAF-Brigate Rosse e soprattutto l’attività che lo sostanzia sancisce questo salto di qualità e determina il primo passaggio dell’offensiva comune contro le politiche di coesione dell’Europa occidentale all’interno dell’interesse generale della catena imperialista.

La chiarezza degli obiettivi, il realismo politico nell’impostazione della politica di Fronte ne determinano la valenza che va oltre l’unità immediata raggiunta, perché apre la prospettiva politica dello sviluppo del Fronte sull’attacco all’imperialismo, non solo tra le forze rivoluzionarie europeo-occidentali, ma con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area, avviando concretamente l’unità che già esiste oggettivamente tra le lotte nel centro imperialista e i movimenti di liberazione nella periferia.

L’attacco unificato alle linee strategiche della formazione dell’Europa occidentale scuote il potere imperialista.

Organizzare la lotta armata in Europa occidentale.

Costruire l’unità delle forze rivoluzionarie combattenti nell’attacco: organizzare il Fronte.

Lottare insieme.

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo, Antonino Fosso, Flavio Lori

Roma, 4 dicembre 1989

Il nostro sostegno militante alle compagne e ai compagni della RAF. Documento di Giuliano De Roma, Ario Pizzarelli, Patrizia Sotgiu messo agli atti del processo per “Insurrezione”

Gli apologeti della borghesia, nel loro delirio onnipotente, sono arrivati a sancire la fine della storia, azzerata dalla vittoria su scala planetaria della economia di mercato e della democrazia occidentale. Le stesse contraddizioni aperte dal “superamento di Yalta”, dalla “bancarotta del socialismo reale”, dai “nuovi assetti geopolitici centroeuropei”, vengono liquidate come gli ultimi sussulti di una prospettiva storica in cui la linea di orizzonte del Nord del mondo è ormai destinata a coincidere con il punto di vista della pacificazione imperialista. Ma la storia è ancora e sempre tutta da combattere, anche nel cuore dell’Europa imperiale. Lo hanno esemplarmente dimostrato i militanti della RAF, attaccando il centro di quella enorme ragnatela di interessi e di potere intessuta dalla Deutsche Bank da Francoforte a Tokio, da Londra a New York. Colpendo Alfred Herrhausen la guerriglia non solo ha eliminato il vertice di una delle maggiori concentrazioni finanziarie multinazionali (e la “personificazione dello stesso capitalismo tedesco”, secondo De Benedetti) ma ha portato l’attacco ad un esponente di primo piano di quel personale politico impegnato ad elaborare, pianificare e gestire le direttrici strategiche che governano lo sviluppo dei vari livelli di integrazione del blocco europeo occidentale. «Er War ein guter Kamarad, ein Freund und ein deutscher Patriot». Per Kohl il presidente della Deutsche Bank era senza dubbio “un buon camerata”. Herrhausen, oltre ad ispirare le più significative mosse politico-diplomatiche della RFT volte ad accelerare il processo di unificazione CEE attorno all’asse privilegiato Bonn/Parigi, aveva sempre appoggiato la CDU da vero “amico” e, come un autentico “patriota tedesco”, aveva garantito la trasformazione della Ostpolitik da elemento qualificante del programma socialdemocratico a fattore di rilancio, con i 10 punti di Kohl, della vecchia formula di Adenauer sulla «Germania unita in una Europa unita». Oggi infatti il patriottismo tedesco dei grandi complessi bancari/industriali non contraddice ma esalta l’urgenza di bruciare le tappe intermedie delle politiche di coesione in ambito CEE per giungere ad una effettiva centralizzazione decisionale, preliminare alla massiccia penetrazione nelle aree di mercato apertesi all’Est. In questo senso va vista anche la ridefinizione politica del ruolo e delle prerogative della NATO e, più in generale, dello stesso rapporto fra Europa ed USA. Una concertazione indispensabile, sia per coordinare modi e tempi di intervento delle multinazionali e contenere gli effetti di una corsa concorrenziale agli investimenti e alla concessione di crediti che si ripercuota sugli equilibri monetari alla vigilia della virtuale unificazione monetaria europea occidentale, sia – e soprattutto – per il condizionamento politico delle dinamiche, dagli esiti ancora imprevedibili, scaturite dalla crisi dei paesi del patto di Varsavia. La parola d’ordine è stabilità. Il potenziale dirompente di una situazione economica e sociale in rapidissimo movimento è ben noto alla borghesia imperialista. Ragioni storiche e politiche antiche e recenti stanno facendo convergere sull’Europa centrale una serie di contraddizioni di vastissima portata. In particolare la RFT si va definendo non solo come fattore trainante del processo di integrazione europea, ma come la base di partenza per quella marcia all’Est che impone retrovie politico-sociali assolutamente pacificate. Per questo l’azione della RAF, grazie all’obiettivo e al momento in cui è stata vittoriosamente condotta, ripropone al punto più alto dello scontro l’iniziativa rivoluzionaria e internazionalista della guerriglia in Europa. Per questo l’attacco di Francoforte conferisce alla costruzione del Fronte antimperialista combattente una prospettiva di sviluppo che, disarticolando le politiche di coesione del nemico, rende possibile l’apertura di nuovi spazi al dispiegarsi della lotta di classe nella metropoli, premessa indispensabile alla rottura dell’accerchiamento cui sono sottoposte le lotte di liberazione e i processi rivoluzionari nella periferia.

Tutto il nostro sostegno militante alle compagne e ai compagni della Rote Armee Fraktion!

Tutto il nostro sostegno all’attacco della guerriglia contro Herrhausen!

Lottare insieme!

Giuliano De Roma, Ario Pizzarelli, Patrizia Sotgiu

Roma, 13 dicembre 1989

Lo Stato e il monopolio della violenza. Processo “BR Insurrezione” 2° troncone – Dichiarazione di Renato Bandoli allegata agli atti

È noto, per essere stato oggetto di ampie discussioni e polemiche riportate dagli organi di stampa ai tempi della celebrazione del cosiddetto “1° troncone” di questo processo, che ciò di cui qui si discute non è la configurazione giuridica e penale di un “reato” politico che va sotto il nome di “insurrezione armata“ e “guerra civile”, bensì la questione dell’intera vicenda storico-politica della lotta armata promossa, organizzata e sviluppata dalle Brigate Rosse in questo paese.

Non è questa esperienza storica a dover dimostrare davanti ad un tribunale la propria legittimità. Al contrario, siete voi togati sacerdoti del culto borghese dell’“ordine costituzionale” a dover mostrare che la democrazia reale e il capitalismo reale non sono violenza estrema alla vita e ai destini di milioni di esseri umani.

Non solo le leggi della “giustizia” dell’ordinamento democratico non sono legittimate da niente altro che dalla supremazia della loro forza nella pretesa di processare la lotta armata, ma guardando le cose dappresso, secondo la logica stessa che guida quelle leggi, l’unico “delitto”, l’unico “errore” di cui ci si può accusare è tale da dover essere, contemporaneamente, l’implicita confessione, da parte di quella “giustizia”, di essere sempre aperta al rischio del proprio non riconoscimento e alla irruzione di forze “sovversive” contrapposte alla democrazia.

L’unico “reato”, che giudici e tribunali nemmeno sospettano, del quale perciò non può esservi traccia in codici e sentenze, è quello per cui questa esperienza non è ancora riuscita ad esercitare una violenza ed un potere più efficaci della violenza e del dominio in cui consiste l’operare della democrazia. Questo discorso giunge cioè ad affermare che la legge ha la medesima essenza del “delitto” che essa pretende di proibire e che solo di fronte alla supremazia della potenza della “legge” il “delitto” è “delitto”, ossia una forza più debole.

Non si deve forse ammettere che mentre si pretende di “giudicare” chi ha osato sfidare l’immensa violenza che è questo sistema politico-sociale capitalistico, insieme si confessa anche che non è solo inevitabile che la democrazia venga contrastata, ma che le forze rivoluzionarie che la contrastano col dichiarato fine del comunismo hanno la medesima legittimità e perciò lo stesso diritto di mettere in opera progetti di sovversione sociale?

La legittimità della democrazia reale, inscindibilmente legata ai contenuti costitutivi del capitalismo reale, in quanto impresa istituzionale di carattere politico, cioè in quanto Stato, può fondarsi solo in virtù di ciò che M. Weber definisce come “monopolio legittimo della violenza”. Se tuttavia si cercasse una base positiva, razionale e incontrovertibile di tale legittimità si scoprirebbe che essa può consistere solo nella fede posseduta dai dominati che tale organizzazione statale abbia un carattere di legittimità. Il monopolio della violenza è tale anche in quanto esso si regge su quella fede, quella convinzione che esso sia legittimo. Luigi Einaudi, che certo nutriva una solida fede nelle democrazia, era ben consapevole che essa «…. è un mito, il quale non ha in sé alcuna virtù maggiore di quelli che in passato furono suoi concorrenti».

Ma, ci si dovrà pur chiedere, qual è la verità di questa fede? Non ci si può liberare tanto frettolosamente dalle questioni sollevate da un simile problema.

La “verità” e la “ragione”, invocate dalla cultura liberal-democratica a sostegno della condanna della violenza rivoluzionaria, si costituiscono storicamente e socialmente solo in virtù della forza che hanno di far tacere ogni voce contrastante.

Lo Stato, elevandosi ad unico depositario “legittimato” all’uso della violenza, cerca di esercitare un’ulteriore dichiarata funzione di potere, la quale non muove solo nel senso della repressione di ogni forza sociale che si disponga all’esercizio della violenza rivoluzionaria, ma si innerva lungo i processi integrativi del dominio tentando di ridefinire i criteri stessi in base ai quali ogni manifestazione di antagonismo di classe viene considerata un “atto violento”, cercando così di imporre come unica strada percorribile quella della non violenza, dell’agire politico come “arte della mediazione”, del compromesso e, in sostanza, dell’assoggettamento.

Solo in tempi di idiozia teorica e di filisteismo politico come quelli attuali si può dissertare sulla “fine del comunismo”, sul “valore universale della democrazia” e altre amenità del genere, mentre un pugno di monopoli economici e di potentati politici mondiali estendono ormai all’intero pianeta il loro dominio fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sull’impoverimento di interi popoli, sull’alienazione dell’uomo da sé e dalla natura, sulla distruzione di intere regioni del pianeta. Fin tanto che l’unico possibile significato dell’emancipazione umana e delle classi dominate consisterà nella necessità di contrapporsi risolutamente e – come ebbe a dire lo scrittore Karl Kraus – “disperatamente” – all’esistenza di una classe politica e di un ordinamento economico-sociale come quelli che dominano il mondo, nessuno può illudersi che ogni pur minima trasformazione radicale della struttura di questo sistema possa evitare di essere un rivolgimento violento.

Renato Bandoli

Roma, 12 dicembre 1989

La centralità della guerriglia nel processo rivoluzionario. Quarta Corte d’Assise d’Appello di Roma – Dichiarazione del militante rivoluzionario Carlo Garavaglia allegata agli atti del processo M.C.R. (Movimento Comunista Rivoluzionario)

Come militante rivoluzionario e prigioniero della Guerriglia (GU), la mia presenza in quest’aula è solo tesa a ribadire la centralità della GU e in particolar modo a fare riferimento all’attività delle BR-PCC nel procedere dello scontro rivoluzionario, una centralità che rende velleitario il tentativo svolto anche in questa sede di ridurre il processo rivoluzionario ad una sommatoria di atti giuridici.

Questo processo, pur con la sua specificità, s’inquadra più in generale in un contesto che vede il caratterizzarsi di una “nuova stagione processuale” contro le BR in particolare e contro tutte le avanguardie rivoluzionarie che a vario livello si sono espresse sul terreno della Lotta Armata, con la velleità di stabilire sul piano giuridico-formale una “chiusura dei conti” e l’indebolimento della stessa prospettiva rivoluzionaria. Quanto questa sia una velleità sono i fatti a dimostrarlo!

È indicativo come l’attività della GU, delle BR, abbia segnato in questi anni un approfondimento-avanzamento del processo rivoluzionario, e questo non come dato astratto (basato sulle chiacchiere…!), ma ben leggibile nei reali passaggi effettuati dall’intervento rivoluzionario nel vivo dello scontro. Un’attività che in più di vent’anni ha scandito la capacità di una forza rivoluzionaria quale le BR di essere da un lato parte costituente e direzione dello scontro influenzando i caratteri e le dinamiche dello stesso rapporto tra le classi, e dall’altro dando gambe e prospettiva all’obiettivo della conquista del potere per parte rivoluzionaria sulla base della strategia della L.A. Una strategia questa che, pur nei difficili anni ’80, ha saputo idoneamente sviluppare, al livello di scontro raggiunto, un processo di riadeguamento a partire dalla scelta della Ritirata Strategica necessaria per ripiegare da posizioni insostenibili e non avanzate e così ricostruire i termini più idonei per nuove offensive. Da qui si è delineata la capacità tutta politica di riaffermare sia la praticabilità della strategia della L.A. come proposta a tutta la classe e su questa base costruire il terreno politico pratico della risoluzione della questione del potere, sia la capacità di mantenere aperta l’opzione rivoluzionaria e quindi la stessa prospettiva del processo rivoluzionario, mediante un’attività via via più matura che, pur in presenza di una possente controffensiva della Borghesia Imperialista (B.I.), ha saputo attestare livelli di intervento e costruzione dei termini della guerra di classe confacenti alle necessità del mutato quadro di scontro: ciò attraverso la rimessa al centro dell’attacco al cuore dello Stato nelle sue politiche dominanti riferite all’asse centrale classe-Stato, e la costruzione della politica di alleanze antimperialiste sostanziatasi nella costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista (FCA) con l’obiettivo, imprescindibile per l’avanzamento di ogni processo rivoluzionario, di indebolire e ridimensionare l’imperialismo attaccandone le sue politiche centrali. Così come, sul piano dell’organizzazione di classe, la capacità di disporre su termini adeguati il processo di costruzione-avanzamento-organizzazione delle forze rivoluzionarie attorno alla strategia della L.A., e a partire da questo riqualificare lo stesso ruolo della GU, delle BR, nello scontro di direzione rivoluzionaria agente da Partito.

Dati politici questi qui sommariamente descritti, ben leggibili nello scontro, che unitamente all’assestamento del dato controrivoluzionario per parte dello Stato grazie al clima determinatosi con la sua controffensiva, hanno segnato un approfondimento del rapporto tra rivoluzione e controrivoluzione. Tutto questo ha fortemente condizionato il procedere dello scontro tra classi.

Un procedere niente affatto lineare in quanto su di esso hanno pesato sia gli strappi operati dalla B.I. sui rapporti di forza con tutto il loro portato restauratore sia, dall’altra parte, la presenza della GU, di una soggettività rivoluzionaria che, pur dentro le rinnovate manovre dello Stato tendenti a ridimensionarne il peso fino al suo esaurimento, ha invece compiuto significativi passaggi nel riadeguamento politico-organizzativo in stretta dialettica con l’autonomia di classe, intervenendo così sugli aspetti centrali e le scadenze che congiunturalmente maturavano nello scontro: Hunt e Conti per un verso, contro le politiche di crescente impegno e riarmo nell’Alleanza imperialista, sviluppando così la stessa attività antimperialista; Giugni e Tarantelli contro le politiche di attacco alle conquiste strappate dalla classe negli anni precedenti, e in particolare contro il “patto sociale neocorporativo” nell’ambito delle relazioni industriali, vero e proprio sanzionamento ed approfondimento dei rapporti di forza a favore della B.I.; fino ad arrivare all’attacco contro il progetto demitiano di rifunzionalizzazione degli istituti e dei poteri dello Stato quale avanzamento delle forme di dominio della B.I., portato avanti con l’azione Ruffilli.

L’attività della GU si è quindi sviluppata e maturata pur all’interno di un contesto di rapporti di forza radicalmente mutato a seguito della possente controffensiva prodotta dalla B.I. in questo decennio. Una controffensiva che prese il via negli anni ’80 per dare risposte all’incalzare delle scadenze poste dal governo dell’economia e all’evoluzione-crisi dell’imperialismo, anche in riferimento specifico ai poderosi processi di ristrutturazione, recuperando i margini di produttività-competitività confacenti, che hanno toccato tutto il complesso industriale italiano nei primi anni ’80. Una controffensiva che per altro verso ha assunto veri e propri caratteri di controrivoluzione dovendo operare in un contesto di scontro segnato dalle peculiarità del nostro paese, cioè dalla presenza della GU e dalla stretta dialettica che questa ha stabilito con l’autonomia di classe condizionandone dinamiche e maturità. La borghesia è andata così operando una serie di forzature nei rapporti politici tra le classi e sulla base degli strappi prodotti ha via via modificato i caratteri stessi della mediazione politica (dai patti neocorporativi ai processi di esecutivizzazione che hanno segnato i primi passaggi alla più complessiva Riforma dello Stato), per così meglio governare, complessivamente, le contraddizioni generate dal conflitto di classe, cercando di ricondurle su un piano di compatibilità e soprattutto di impedirne lo sviluppo rivoluzionario.

Il divenire di questo processo nel suo approfondirsi, se da un lato ha prodotto un arretramento del campo proletario, del suo peso e delle sue conquiste, rendendo così possibile portare avanti il tentativo di allineamento agli altri paesi imperialisti, viste le peculiari deficienze strutturali presenti sui vari piani in questo paese, è anche vero che d’altra parte ha visto uno spostarsi in avanti delle principali contraddizioni e quindi delle esigenze atte a farvi fronte, questo sia sul piano economico (nel quadro di crisi generale capitalista) con l’ulteriore avanzamento dei processi di concentrazione-centralizzazione capitalista con i relativi e nuovi livelli di concorrenza intermonopolistica, sia su un altro piano, nel rispondere alle necessità poste dai mutamenti intervenuti lungo la contraddizione dominante Est-Ovest e dal maturare dei concreti passaggi della tendenza alla guerra imperialista. Così come, sul piano delle contraddizioni di classe, la capacità rivelata dal campo proletario di esprimersi su un vasto ed articolato terreno di resistenza con lotte tese a rompere le gabbie del neocorporativismo, e la presenza della GU che a partire dalla sua attività rivoluzionaria ha saputo riproporre le condizioni, i terreni d’intervento, per un effettivo ribaltamento dei rapporti di forza.

In questo contesto si è andato così a determinare un approfondimento del quadro di necessità e contraddizioni borghesi, e di conseguenza uno spostarsi in avanti del loro punto di sutura, imponendo un nuovo livello della qualità della risposta da mettere in atto, e determinando allo stesso tempo un quadro politico precario e l’impellente necessità di ricercare nuovi equilibri politici tra le classi. È anche rispetto a questa condizione di fondo che gli stessi passaggi di “Riforma dello Stato” hanno assunto un andamento fortemente contraddittorio, dovendosi giocoforza misurare con il contesto delle contraddizioni e dei reali rapporti di forza da un lato, e dall’altro con la molteplicità dei piani su cui la borghesia deve necessariamente dar risposta, tutto ciò nel quadro di un restringimento dei margini della “mediazione possibile” rispetto agli interessi generali della B.I. In altri termini, è in questo complesso quadro di fattori che vanno a caratterizzarsi una serie di atti politici da parte della B.I., che debbono fare i conti con un contesto di classe tutt’altro che pacificato, ed una instabilità politica a cui ha significativamente contribuito la stessa iniziativa delle BR con l’azione Ruffilli.

I caratteri degli interventi della B.I. emergono chiari nei fatti con tutto il loro portato controrivoluzionario e restauratore teso a creare, con forzature su forzature nel quadro istituzionale e sui rapporti politici tra classi, condizioni e clima politico favorevoli al fine di rispondere alle necessità e contraddizioni economiche, politiche e sociali presenti, così come a far fronte ai sempre più marcati scenari di guerra che si agitano nell’area mediterraneo-mediorientale e ai nuovi livelli di integrazione-compattamento-attivismo imperialista che questi richiedono. Un piano, quest’ultimo, che anch’esso si riflette sui processi di Riforma dello Stato in generale, e di esecutivizzazione in particolare (dalla riforma della Farnesina in funzione di supervisione e condizionamento di tutta la politica estera italiana, fino al conferimento diretto alla Presidenza del Consiglio di nuovi ed accresciuti poteri in materia di intervento militare).

In questo contesto di necessità e forzature borghesi, si può anche inquadrare, sul piano particolare capitale-lavoro, sia l’intervento dell’esecutivo volto a regolamentare il diritto di sciopero, che le ulteriori forzature nell’ambito delle relazioni industriali, che oltre ad intaccare ulteriormente le condizioni normative e salariali della classe operaia, tendono sempre più a segnare i limiti della conflittualità operaia e dei suoi livelli di organizzazione, in un ulteriore approfondimento del modello neocorporativo, quale risvolto dialettico ai processi in atto di Riforma dello Stato.

È nel segno controrivoluzionario e restauratore che caratterizza le odierne politiche della borghesia, in riferimento alle contraddizioni che genera lo scontro di classe, che trovano anche collocazione quell’escalation di campagne politiche (non ultima quella sulla “Resistenza”) che strumentalmente investono il patrimonio di lotta proletaria e rivoluzionaria che, in più di 40 anni nelle diverse fasi di scontro, si è sedimentato all’interno del proletariato italiano e delle sue avanguardie rivoluzionarie. Campagne che rappresentano un dato sintomatico di un processo più generale teso ad intaccare-ridefinire gli assetti dei rapporti politici e di forza tra le classi scaturiti dal secondo dopoguerra, e di conseguenza a preparare la strada a nuovi assetti ed equilibri politico-istituzionali confacenti a questa fase dell’imperialismo e al governo stabile delle sue contraddizioni, procedendo così concretamente verso la Seconda Repubblica.

Ma questo è un processo tutt’altro che lineare e scontato. L’odierna iniziativa della B.I., delle sue politiche controrivoluzionarie e restauratrici con la velleità di normalizzare e pacificare il conflitto di classe, deve infatti fare i conti oltre che con un proletariato tutt’altro che “sterilizzato”, anche e soprattutto con un contesto di scontro in cui non solo non vengono meno le ragioni di fondo della strategia della L.A., ma anzi le stesse vengono esaltate in relazione ai fattori di ordine politico (quale il livello di attività praticata) che le BR hanno saputo sedimentare in questi anni di Ritirata Strategica, stagliando ancor meglio peso, ruolo e funzione di una forza rivoluzionaria guerrigliera nello scontro. Dire questo significa, soprattutto, prendere a riferimento la direttrice d’intervento dell’“attacco al cuore dello Stato” sulla contraddizione politica dominante che oppone le classi nelle diverse congiunture, un dato che costituisce il solo riferimento politico adeguato ad incidere sulle stesse dinamiche di scontro. La pratica delle BR attorno a quest’asse programmatico ha dimostrato come, nell’unità del politico e del militare, l’agire dell’avanguardia rivoluzionaria, a questo livello, può concretamente intervenire nei rapporti di forza tra le classi e costituire la base sui cui lavorare per ribaltarli a favore del campo proletario e rivoluzionario.

Questo perché l’iniziativa rivoluzionaria attaccando lo Stato nel suo “cuore congiunturale” non permette solo la relativa disarticolazione dei progetti borghesi ma anche l’apertura di spazi politici a favore del proletariato, riversandosi direttamente sulle dinamiche di sviluppo dell’autonomia di classe nei diversi piani dello scontro: da quello politico-generale a quello capitale-lavoro.

Se quindi la capacità delle BR è stata quella di far vivere la strategia rivoluzionaria attorno ad assi programmatici ben definiti, è all’interno di questa dimensione e del livello di approfondimento dello scontro che esse hanno anche meglio definito i termini di costruzione-organizzazione delle forze rivoluzionarie e proletarie, e più complessivamente i termini di conduzione e avanzamento della guerra di classe di lunga durata nella nostra realtà. Ciò ha significato superare le secche di una generica riproposizione della “necessità della L.A.”, ponendo invece le direttrici di un percorso cosciente organizzato e centralizzato che, in riferimento agli assi programmatici fondamentali, dia la giusta dimensione alle problematiche poste dal conflitto di classe, e a partire da queste basi attrezzi il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato, sia per sostenerlo al livello adeguato di organizzazione, che al fine di riprodurre gli stessi termini della politica rivoluzionaria.

L’attività rivoluzionaria della GU, quindi, ha sedimentato una base di qualità che permane e si riproduce nello scontro tra campo proletario e borghesia, e su cui vanno oggettivamente e soggettivamente a misurarsi tutte le avanguardie rivoluzionarie. È in questo contesto, nella consapevolezza politica delle necessità dello scontro e del livello e qualità di attività e direzione che tali necessità impongono, che le BR hanno anche riqualificato l’indicazione politica dell’“Unità dei comunisti”. Una unità non certo formale, ma di sostanza sul terreno della L.A. per il comunismo, centrata attorno al patrimonio teorico, politico e programmatico delle BR ed ai suoi terreni di intervento e pratica combattente, e che, rispetto ai compiti da assolvere in questa fase, ha giocoforza stabilito una nuova e più matura qualità di lavoro, organizzazione e confronto tra comunisti, andando a costituire il riferimento obbligato per chiunque si ponga sul terreno della politica rivoluzionaria, e allo stesso tempo la base di qualità su cui marcia il processo di costruzione del Partito Comunista Combattente.

Così come, su un altro piano, l’avanzamento del processo rivoluzionario, il riferimento politico alla GU, non può prescindere dal terreno di iniziativa antimperialista e dai criteri politici che lo guidano per come si è maturato nel vivo dello scontro imperialismo/antimperialismo portato avanti dalle organizzazioni guerrigliere in Europa Occidentale e concretizzatosi nella proposta del Fronte Combattente Antimperialista. In altri termini l’esperienza della GU, su questo terreno, nella sua attività pratica, ha saputo portare a sintesi intorno alla proposta del Fronte il solo ed adeguato livello di organizzazione e attacco delle forze rivoluzionarie per contrastare e ridimensionare l’imperialismo.

Cioè si è trattato di attualizzare il concetto marxista-leninista di internazionalismo proletario, fuori da una logica meramente solidaristica, ma che piuttosto facesse i conti con la nuova realtà che l’imperialismo ha determinato, i nuovi livelli di integrazione economica, politica e militare, e quindi col riflesso e l’influenza che questo ha sullo sviluppo del processo rivoluzionario in ogni singolo paese. Ovvero ci si è resi conto che “fare la rivoluzione nel proprio paese” doveva avere come condizione imprescindibile l’indebolimento dell’imperialismo, realizzabile solo attraverso il concorso-contributo di tutte quelle forze rivoluzionarie e progressiste che vanno a disporsi sul terreno della lotta antimperialista. In questo senso l’esperienza di Fronte AD-RAF prima, e BR-RAF poi, nel suo maturarsi, ha saputo gettare le basi per costruire i termini politici di unità soggettiva delle diverse forze presenti nell’area, dando “carne e sangue” a quella condizione di unità oggettivamente presente nella realtà, determinata dallo stesso sviluppo dell’imperialismo e, per altro verso, dalle sue politiche concrete che hanno costretto tutte le forze rivoluzionarie conseguenti a doversi misurare con questo dato di fatto. La pratica combattente del Fronte, nei suoi diversi passaggi e gradi di maturazione, è riuscita a definire sempre più compiutamente tanto i criteri di iniziativa e le direttrici di attacco, che i criteri di relazione tra le diverse forze rivoluzionarie presenti nel Fronte. I criteri di iniziativa e di attacco contro gli assi centrali delle politiche imperialiste sul piano economico, politico e militare, nonché su quello controrivoluzionario, e in particolar modo contro i processi di integrazione-coesione del blocco imperialista, al cui interno trovano sviluppo queste stesse politiche. Ed è attorno ai nodi dell’attività pratica del Fronte che si è andato quindi a realizzare il piano delle relazioni tra le diverse forze rivoluzionarie. Ovvero si è dimostrato che è possibile concretizzare i primi livelli di unità funzionali all’organizzazione dell’attacco al nemico comune ed al consolidamento-sviluppo del Fronte, senza che le diversità di impostazione politica o di finalità strategiche ne siano da freno. Questo ha significato, proprio in relazione alla necessità di costruire i termini di un’iniziativa comune contro le politiche imperialiste, l’esigenza di attuare una politica di alleanze con le diverse forze rivoluzionarie che su questo terreno di scontro vanno a collocarsi. Con questa consapevolezza si tratta quindi di sapersi rapportare alle altre forze rivoluzionarie sul terreno dell’attacco pratico, e costruire così i livelli di unità possibile senza che questo voglia dire per una forza comunista “mercificare” gli elementi di fondo che guidano la sua politica, ma al contrario saper sviluppare proprio a partire dalla sua specificità e attività combattente un’iniziativa che risulti essere di contributo e consolidamento al Fronte stesso.

La stessa iniziativa dei compagni della RAF contro il boia Neusel ha riproposto il nodo dell’attività di Fronte lungo una delle direttrici fondamentali dell’attacco alla linea di coesione dell’Europa Occidentale, nello specifico il piano delle politiche controrivoluzionarie. Neusel infatti rappresenta l’elemento di spicco e propulsore di quelle politiche controrivoluzionarie tese all’omogeneizzazione in Europa Occidentale delle iniziative contro la GU e il movimento rivoluzionario, al cui interno si collocano anche le manovre contro i prigionieri della GU.

Le politiche controrivoluzionarie rappresentano un punto qualificante dell’iniziativa della B.I., in quanto ne caratterizzano l’esperienza acquisita, soprattutto in relazione all’importanza politico-strategica assunta dalla GU, tanto nel centro imperialista, che nello specifico dell’area mediterraneo-mediorientale. Allo stesso tempo il piano della controrivoluzione è tutto interno ai processi di coesione politica della catena imperialista, che rispetto alle iniziative di controguerriglia ha visto nello specifico europeo una progressiva centralizzazione-coordinamento degli strumenti operativi e legislativi in funzione controrivoluzionaria, anche perché da parte dei diversi Stati su questo terreno si esprime al meglio la difesa degli interessi generali della catena imperialista. Inoltre, l’iniziativa controrivoluzionaria si avvale anche di interventi selettivi e articolati sugli stessi prigionieri della GU, cercando di utilizzare la loro condizione di ostaggi per ottenere dei risultati da poter ribaltare sulla GU in attività e sullo stesso processo rivoluzionario.

Quello che va colto, nel complesso del quadro di iniziative controrivoluzionarie, è il dato di come questa dinamica sia tutta interna a quella più generale dell’imperialismo, tendente ad una gestione offensiva delle contraddizioni politiche e sociali che si producono nei diversi paesi tanto del centro imperialista che in riferimento alle lotte di liberazione e autodeterminazione dei popoli della periferia. Una gestione offensiva quella imperialista, che sia quando si muove sul piano militare che quando si mantiene sul piano politico (aspetti tra loro interagenti) influenza in ultima istanza la connotazione del rapporto più generale tra rivoluzione e controrivoluzione, imperialismo e antimperialismo, disegnando l’ambito di fondo entro cui va a muoversi lo stesso processo rivoluzionario e in esso i termini di attività della GU.

Ma è rispetto al quadro di fondo dell’approfondirsi della crisi economica, e nel contesto più generale di sviluppo dei passaggi nella tendenza alla guerra, che vanno lette e trovano riferimento quel complesso di scelte politiche imperialiste attuate sui vari piani, economico, politico e militare e su cui si vanno a rideterminare quei fattori di integrazione-coesione e responsabilizzazione dei diversi paesi della catena imperialista, in particolare quelli europei. Una dinamica questa che, rispetto all’obiettivo più complessivo di rafforzamento della catena in riferimento alle modifiche intervenute lungo la contraddizione Est-Ovest, tende a muoversi per una ridefinizione degli equilibri post-bellici, funzionali ad acquisire nuove posizioni di forza verso i paesi dell’Est, URSS in particolare, per creare in ultima istanza le migliori condizioni atte a stabilire una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati confacente a questo stadio di sviluppo dell’imperialismo, un dato che comunque può trovare piena risoluzione solo all’interno di un conflitto bellico. Il processo in atto di ridefinizione delle zone d’influenza, che si dà a partire dal cuore dell’Europa e su cui vanno a modellarsi i nuovi assetti dei rapporti di forza e i nuovi termini di relazione tra imperialismo e URSS in particolare, investe anche le aree regionali periferiche, specialmente quella mediterraneo-mediorientale. Un’area questa che, per i molteplici fattori di contraddizione presenti, si caratterizza come area di massima crisi: sia perché zona strategica dai confini non definiti con gli accordi di Yalta, sia per il suo portato vitale rispetto alla presenza di materie prime fondamentali e luogo di transito delle principali rotte commerciali e sia, infine, per l’instabilità politica e le forti tensioni che l’attraversano, tensioni alimentate dalle lotte rivoluzionarie di liberazione e autodeterminazione tese a contrastare l’imperialismo e a liberarsi dal suo dominio. Un’area quindi che si presenta come possibile detonatore di un conflitto bellico in quanto luogo dove, oltre ad esprimersi il piano dello scontro e dei mutamenti lungo la contraddizione “Est-Ovest”, si accentrano anche le contraddizioni tra “sviluppo e sottosviluppo”, con tutta la loro connotazione rivoluzionaria e antimperialista.

Quanto quest’area sia al centro dell’iniziativa imperialista risulta particolarmente chiaro dal complesso di manovre che hanno accompagnato questi ultimi dieci anni: dagli interventi militari contro i paesi progressisti ed i popoli in lotta per la loro autodeterminazione, ai conseguenti e funzionali progetti di pacificazione-normalizzazione, fino ad arrivare all’attuale quadro rappresentato dall’intervento imperialista nel Golfo. Tutti interventi che vanno ben al di là dello specifico fattore di crisi, ma piuttosto investono tutto l’arco dei rapporti di forza e degli assetti nella regione, con i suoi riflessi lungo il piano degli equilibri “Est-Ovest” che per parte imperialista significa acquisire posizioni di forza più favorevoli.

Ciò è tanto più vero nell’attuale intervento imperialista, intervento che assume un carattere tutt’altro che circoscritto alla “crisi kuwaitiana”, ma piuttosto, sfruttando anche la debolezza politica dell’URSS, investe tutto l’ambito degli assetti dell’area, nel tentativo di ridisegnare gli equilibri strategici e politico-militari funzionali a quella stabilizzazione imperialista via via perseguita in quest’ultimo decennio, e all’interno di quest’ambito risolvere specifici fattori di crisi regionali (questione palestino-libanese, fattore islamico, paesi progressisti) che, per parte imperialista, a tutt’oggi possono trovare soluzione solo nel quadro più generale di riassetto dell’area. Tutto questo si evidenzia sia nei caratteri che nella dimensione assunta dall’intervento imperialista. Un intervento da vera e propria forza di occupazione della terra araba, che come conseguenza è andato ad accelerare tutti i fattori di crisi della regione, andando a forzare sugli equilibri preesistenti e polarizzando quindi gli schieramenti in campo, sia spingendo su un piano di maggiore attivismo politico-militare quei paesi “arabi moderati” già precedentemente schierati in senso filo-occidentale (prefigurando per altro la possibilità di una “struttura di sicurezza regionale” sostanzialmente integrata alla NATO), sia operando continue minacce e pressioni politiche ed economiche nei confronti di quei paesi restii a conformarsi alla logica imperialista, rendendo infine sempre più contraddittoria ed instabile la stessa politica di “unità araba” perseguita a vario livello dai paesi della regione.

Sulle concrete iniziative e forzature operate dall’imperialismo, si sono andate altresì a misurare ruolo, funzioni e responsabilità dei paesi della catena imperialista, ciò si è verificato sia nei termini di un attivismo direttamente militare, che nell’internità alle decisioni degli organismi sovranazionali lungo le linee guida dettate dall’imperialismo, USA in testa. In particolar modo la qualità dell’unità dei paesi imperialisti espressa attorno alle direttive fondamentali dell’intervento imperialista, ha evidenziato come si siano ulteriormente rinsaldati quei processi di coesione politica e militare che rispondono direttamente agli interessi generali della catena imperialista e attorno a cui ruotano gli interessi ed i ruoli dei singoli paesi.

Una qualità questa su cui da un lato si è riflesso il quadro di approfondimento delle contraddizioni apertesi con la “crisi del Golfo”, e dall’altro ha visto un ulteriore ricolmamento e maturazione dell’attivismo dei diversi paesi imperialisti, soprattutto europei, grazie anche alle esperienze d’intervento svolte, nell’ambito NATO, sui maggiori fattori di crisi: libanese prima e nel Golfo dopo, durante la guerra Iran-Iraq. In questo senso è soprattutto l’ambito NATO che ha costituito il punto di riferimento e coagulo delle decisioni politiche e operative dei paesi della catena, andando ad accelerare, soprattutto nell’attuale quadro di intervento, una serie di tendenze già in atto relative sia ad una ridefinizione della NATO adeguata a questa fase del rapporto Est-Ovest, sia rispetto al riadeguamento delle sue sfere d’influenza e d’intervento (“a tutto campo”) accrescendo in particolare il peso del “fianco Sud”, che infine come fattore propulsivo nell’allineamento-adeguamento dei diversi paesi imperialisti ai compiti che questa fase impone. L’attivizzazione di Germania e Giappone sul terreno dell’intervento imperialista, pur nei limiti delle loro specificità, risulta essere un esempio significativo della qualità delle tendenze in corso.

Infine, per quanto riguarda i paesi europei, le stesse decisioni prese in sede UEO sono pienamente integrate alle direttrici della politica imperialista, e sfruttando la specifica posizione e collocazione politica di questi paesi nell’area mediterraneo-mediorientale, conferiscono un carattere altamente dinamico ed articolato all’intervento europeo sui principali fattori di crisi nella regione.

L’aggressione imperialista nell’area mediorientale cagiona una escalation di azioni di guerra e di terrorismo imperialista, che è insieme il portato oggettivo della grande crisi che ha scosso il modo di produzione capitalista ed il concretizzarsi di una politica militarista e guerrafondaia pianificata con forte impegno soggettivo dagli USA e alla quale ha saputo presto allinearsi alacremente tutto l’insieme del blocco occidentale. Questo contesto approfondisce l’affermarsi già da tempo di un processo qualitativamente nuovo e non più reversibile, ponendo nuove condizioni al rapporto di scontro tra imperialismo e antimperialismo, in particolare nell’area mediterraneo-mediorientale (in questo senso, e soprattutto dopo l’attuale intervento imperialista, “nulla sarà più come prima”).

La crisi dell’imperialismo e la tendenza verso la guerra favoriscono come mai, tanto più nello specifico di quest’area così gravida di contraddizioni, la convergenza d’interessi e l’alleanza del proletariato internazionale con i popoli e le forze rivoluzionarie e progressiste che sempre più sono portate a lottare e combattere contro il nemico principale rappresentato dal blocco imperialista. Una convergenza che si muove oggettivamente ancor prima che soggettivamente sulla linea, rafforzata dall’attuale quadro di aggressione imperialista, di attaccare e contrastare l’imperialismo, e su questa base andare quindi a collocare gli stessi termini di sviluppo dei processi rivoluzionari, tanto del centro imperialista che della periferia.

È all’interno di questo quadro che va anche a collocarsi il nostro processo rivoluzionario che, pur nella sua specificità e a partire da questa, può dare sulle basi dell’internazionalismo proletario un contributo significativo nell’attaccare l’imperialismo, nella prospettiva di renderne ingovernabili le contraddizioni e favorire così l’avanzamento dei processi rivoluzionari nell’area.

Il militante rivoluzionario, Carlo Garavaglia

Roma, 5 novembre 1990

Disarticolare il progetto di rifunzionalizzazione dello Stato. Quinta Corte d’Assise di Roma, processo per “banda armata” – Dichiarazione letta in aula e allegata agli atti dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini.

Il processo che qui viene celebrato risponde alle più elementari leggi della guerra, cioè: raggiunto un risultato militare (la cattura di alcuni militanti) lo Stato lo utilizza in tutti i suoi risvolti, facendolo pesare nello scontro. Il dato generale che informa l’agire dello Stato è quello di giocare i prigionieri della Guerriglia contro la Guerriglia, o comunque di mostrarli come trofei di caccia quale simulacro di deterrenza. Naturalmente l’esperienza maturata dallo Stato in questi anni di controrivoluzione gli permette di calibrare al tipo di scontro classe/Stato e al particolare tipo di guerra che gli è imposto nel piano rivoluzionario dalla Guerriglia (Guerra di Classe di Lunga Durata) i singoli interventi (tra i quali anche i processi). Quindi questo processo è calato nella particolare congiuntura politica che risente fortemente degli effetti politici derivati anche dall’iniziativa delle BR per la costruzione del PCC con l’azione Ruffilli. L’attacco delle BR, teso a disarticolare il progetto di rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato, ha ridimensionato le velleità borghesi di compatibilizzare ed irreggimentare le contraddizioni di classe (per dare risposte alle esigenze della crisi) nella maniera più indolore e gestibile possibile. Da ciò la risultanza oggettiva che si è delineata è stato da un lato il venir meno delle condizioni di equilibrio-concorso delle varie forze politiche borghesi intorno a questo progetto, per come delineato inizialmente, e d’altro lato il rimanere di fondo tutte le necessità stringenti del governo delle medesime contraddizioni politiche ed economiche. In questa congiuntura, quindi, la Borghesia Imperialista è costretta a governare le sue contraddizioni con una nuova edizione dell’armamentario usato in questi casi (decreti a raffica, forzature varie) ovvero il “Golpismo Istituzionale”. I golpisti istituzionali che in questa congiuntura gestiscono le politiche dell’Esecutivo non trovano altro modo di risolvere i problemi postigli dalla crisi e dallo sviluppo di questa fase dell’imperialismo se non attraverso concrete intimidazioni, all’interno di un attacco ampio ed articolato che si avvale di metodi di controguerriglia contro aspetti qualificanti dello scontro, come “tattica” preventiva per smorzare il montare delle istanze di lotta. La difficile gestione di tali posizioni viene mistificata con il varo delle varie emergenze contro la criminalità, allo scopo di assestare il piano controrivoluzionario. Sì, esiste una campagna di criminalità, ma è quella che sta attuando l’Esecutivo contro l’ambito di classe! Raid militari nei conflitti di lavoro, contro le espressioni del Movimento Rivoluzionario, interventi d’autorità contro il diritto di sciopero, esecuzioni legalizzate e minacce di estendere i metodi antiguerriglia sul movimento di classe, per rideterminare in ultima analisi il peso politico della classe e gestire la non certo indolore transizione nel processo di modifica delle istituzioni dello Stato. Questa travagliata fase di scontro fa temere allo Stato la sola cosa che più di ogni altra può mettere in discussione il suo potere: ovvero l’attività rivoluzionaria delle BR per la costruzione del PCC, perché capace di legarsi dialetticamente alle istanze di lotta più mature, dirigerle ed organizzarle sul terreno dello scontro rivoluzionario. Questo spettro – la Guerriglia – non fa dormire sonni tranquilli alla Borghesia Imperialista e al suo Stato perché rappresenta l’alternativa strategica, concreta e praticabile alla crisi della Borghesia Imperialista. Ed ecco agitare questo spettro in termini preventivi, nel chiaro intento di strumentalizzare la Guerriglia per ritorcerla, da un lato contro il movimento di classe, dall’altro contro le stesse BR! Una pratica terroristica questa dagli evidenti limiti e che dimostra le insormontabili difficoltà della Borghesia Imperialista, mentre per lo scontro rivoluzionario le prospettive non possono venir meno, al di là di inevitabili battute d’arresto, dato lo spessore politico che in questo ventennio si è sedimentato nel tessuto di classe e nelle sue avanguardie a partire dal ruolo che le BR hanno saputo svolgere nel dirigere questo complesso processo rivoluzionario. In questo senso la nostra presenza qui è tesa ad esprimere l’attualità e la validità della linea politica e della proposta strategica della nostra Organizzazione, pertanto il nostro atteggiamento in quest’aula non può che riflettere il rapporto esistente tra la Guerriglia e lo Stato, e in conseguenza di ciò ribadiamo l’inconciliabilità delle nostre posizioni nei confronti dello Stato. Nessuna mistificazione processuale può nascondere il fatto che qui noi rappresentiamo la contraddizione che lo Stato cerca di negare, cioè il terreno rivoluzionario, diretto e organizzato dalle Br per la costruzione del PCC, quindi la nostra presenza in quest’aula non può che esprimersi nella rivendicazione del programma politico praticato dalla nostra Organizzazione; programma che vive all’interno della proposta strategica della Lotta Armata (LA) alla classe. Per le BR il principale termine programmatico, fino al suo abbattimento, è l’attacco al cuore dello Stato, inteso nelle sue politiche dominanti che di volta in volta lo oppongono alla classe; attualmente esse sono identificabili nei processi di riforma dello Stato, i quali modificando profondamente gli assetti istituzionali hanno maturato concretamente la svolta verso una “Seconda Repubblica”. Sul piano dell’antimperialismo le BR lavorano ad una politica di alleanze contro il nemico comune con tutte le Forze Rivoluzionarie (FR) che operano nell’area; ciò al fine di indebolire e ridimensionare l’imperialismo, costruendo offensive comuni contro le sue politiche centrali. Perciò le BR lavorano alla costruzione/rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista (FCA). Nel quadro di questa attività e dentro gli accordi politici raggiunti con la RAF, rivendichiamo l’iniziativa politico-militare fatta dalla RAF contro Alfred Herrhausen e ne evidenziamo la sua centralità in rapporto alle politiche di coesione in Europa Occidentale che sono tutte interne al rafforzamento della catena imperialista.

Al livello dell’organizzazione di classe sulla LA, ribadiamo i termini che scaturiscono dalla fase di Ricostruzione. Essi si esplicano sul duplice piano di lavoro, Costruzione/Formazione e sono tesi a ricostruire nel tessuto di classe i livelli di riorganizzazione delle forze proletarie e rivoluzionarie, in modo da disporle adeguatamente dentro lo scontro contro lo Stato. La fase di Ricostruzione è termine prioritario nel mutamento dei rapporti di forza tra Campo Proletario e Stato e si pone come un tassello fondamentale per la ricostruzione dei livelli politico-militari che costruiscono i termini di avanzamento della Guerra di Classe di Lunga Durata.

– Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di rifunzionalizzazione dello Stato

– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe

– Attaccare le linee centrali della coesione dell’Europa Occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese

– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del fronte combattente antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geo-politica

– Onore ai rivoluzionari antimperialisti caduti

 

I militanti delle BR-PCC: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini.

 

Roma, 22 febbraio 1990

Costruire e organizzare i termini attuali della lotta di classe. Corte di Assise di Appello di Genova, processo di appello per associazione sovversiva – Documento agli Atti di Simonetta Giorgieri militante delle BR-Pcc

Nell’84 emergevano, sul piano del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, due dinamiche contrapposte e che si influenzavano reciprocamente. Da una parte le BR per il PCC, aperta la fase della Ritirata Strategica, stavano procedendo, pur tra contraddizioni che erano il portato dell’impatto con la controrivoluzione, nella ridefinizione di alcuni termini dell’impianto politico in particolare, e dimostravano nella prassi rivoluzionaria, e nello specifico con le iniziative combattenti contro Gino Giugni e Leamon Hunt, di essere l’unica forza rivoluzionaria in Italia in grado di ricostruire quanto la controrivoluzione aveva spezzato e disperso, riproponendosi come referente rivoluzionario autorevole per coagulare e ricomporre quelle componenti rivoluzionarie e proletarie non disposte a rinnegare quanto era stato sedimentato in 14 anni di scontro rivoluzionario, né ad arrendersi. D’altra parte lo Stato, dopo la fase più alta di dispiegamento dell’offensiva, stava operando su tutti i piani per assestare i rapporti di forza determinati dalla dinamica controrivoluzionaria. All’interno del dato generale della modificazione del carattere della mediazione politica tra le classi di cui si stavano assestando alcuni passaggi (nello specifico il “patto sociale neocorporativo”), si precisava ed affinava un’attività controguerrigliera tesa essenzialmente a prevenire il ricompattamento delle forze e la loro riorganizzazione attorno alla proposta politica e strategica delle BR, con interventi mirati e selettivi, atti di deterrenza, “ammonimenti” e pressioni di ogni tipo. Due dinamiche parallele, dal momento che il processo di ricompattamento era in corso e dava i suoi frutti, come le iniziative combattenti stanno a testimoniare e, d’altra parte, lo Stato ne era ben consapevole nel tentativo di arginarlo e contrastarlo. L’“inchiesta” su cui si basa questo processo è stata “partorita” in questo contesto, in cui si colloca per quello che è: atto politico a carattere e con finalità controrivoluzionarie. Il salto di qualità maturato successivamente dalle BR con il superamento dell’ottica difensivistica, ha dimostrato nei fatti quanto il tentativo dello Stato fosse velleitario; in particolare il rilancio dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria ha consentito alle BR di “gravare” sullo scontro di classe, determinando un maggiore approfondimento dello scontro rivoluzionario e fornendo la misura della vitalità della proposta politica e strategica delle BR e della loro capacità di ricostruzione e di riproduzione anche nelle condizioni più dure dello scontro. L’attività rivoluzionaria dispiegata dalle BR negli ultimi anni, la quale sostanzia il processo di riadeguamento complessivo fin qui operato e apre prospettive politiche concrete sia sul terreno classe/Stato che sul terreno dell’antimperialismo; la capacità dimostrata di dialettizzarsi (a partire dall’attacco) in termini di costruzione/organizzazione/direzione con le istanze più mature dell’autonomia di classe, e nel contempo di praticare (a partire dall’attività concreta svolta sul terreno dell’antimperialismo) una politica di alleanza con le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo nell’area geopolitica (Europa Occidentale, Mediterraneo, Medioriente), dando un apporto fattivo alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista: questi sono i termini attuali attorno ai quali si definisce oggi il rapporto rivoluzione/controrivoluzione, e si determina lo spostamento in avanti del piano di scontro rivoluzionario.

Come militante delle BR per la costruzione del PCC intendo innanzitutto riaffermare il valore politico e il carattere propulsivo del rilancio dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria operato dalle BR all’interno della fase della Ritirata Strategica che, stante le prospettive politiche che ha aperto sia sul terreno del rapporto classe/Stato sia sul terreno dell’antimperialismo, si è tradotto nell’approfondimento del piano di scontro rivoluzionario. Una dinamica consapevolmente prodotta e calibrata rispetto ai rapporti di forza generali tra le classi e al rapporto imperialismo/antimperialismo, il cui peso politico e incisività concreta si evidenziano nel dispiegamento dell’attività rivoluzionaria, sia per la capacità di attivare, a partire dall’attacco al punto più alto dello scontro di classe, la dialettica con le istanze più mature del proletariato, operando per catalizzare attorno alla strategia, linea politica e programma delle BR, le componenti rivoluzionarie e proletarie vive del paese, organizzandole e dirigendole nello scontro prolungato contro lo Stato, sia sul terreno dell’antimperialismo con il contributo alla costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, vero e proprio salto di qualità nella lotta proletaria e rivoluzionaria, che, nel praticare una politica di alleanza con le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo nell’area geopolitica Europa Occidentale/Mediterraneo/Medioriente, pone ad un livello più adeguato e maturo la necessità e la praticabilità dell’attacco all’imperialismo, per indebolirlo e ridimensionarlo nell’area. A questo proposito, in quanto militante delle BR per il PCC, forza rivoluzionaria attivamente operante nel quadro della politica di alleanza del Fronte Combattente Antimperialista, rivendico la recente iniziativa combattente della RAF contro Alfred Herrhausen. L’attacco al “padrone/capo” della Deutsche Bank mira a disarticolare uno dei nodi principali del potere economico e politico assunto dalla banca tedesca, mettendo in evidenza il ruolo che essa ha ricoperto nella gestione/indirizzo dei processi di concentrazione economica e finanziaria in Europa Occidentale; una posizione di potere che è attualmente trampolino di lancio per la penetrazione economica e politica nei paesi dell’Est europeo e nei paesi in via di sviluppo, costretti a sottostare al dettato e alla logica dello sfruttamento capitalistico.

La qualità del processo di riadeguamento complessivo intrapreso dalle BR è frutto sostanzialmente dell’incontro di due fattori (fermo restando il patrimonio di esperienze radicato nel tessuto proletario che caratterizza l’ambito di riferimento e riproduzione della guerriglia in Italia): da una parte l’aver saputo mantenere con fermezza, senza concessioni al revisionismo, le discriminanti di fondo, l’unità del politico e del militare come principio strategico caratterizzante la guerriglia, riaffermando la necessità e la praticabilità del terreno della guerra e l’attualità della questione del potere; dall’altra l’aver tratto, nell’impatto con la controrivoluzione degli anni ’80 e nella pratica dei primi anni di Ritirata Strategica, quegli insegnamenti relativi al carattere dello scontro rivoluzionario e alla natura delle sue contraddizioni che hanno permesso alle BR di approfondire alcuni termini della guerra di classe di lunga durata, riponendo al centro il suo carattere non lineare, e in seguito chiarificando contenuti, dinamiche e obiettivi della fase rivoluzionaria aperta (precisando, tra l’altro, l’impostazione tattica in termini di disposizione delle forze), e gli obiettivi programmatici nell’attuale fase politica interna e internazionale. La rinnovata capacità di misurarsi con il carattere ed il livello dello scontro rivoluzionario, che la qualità del riadeguamento esprime, si è tradotta nel rilancio dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria. La continuità e la coerenza dimostrate dalle BR nel perseguire le direttrici strategiche non ha niente a che vedere con il meccanico e “irriducibile” continuismo ideologico o dogmatico, ma trae le sue radici essenzialmente dalle ragioni di fondo che presiedono e definiscono la lotta armata come avanzamento e adeguamento della politica rivoluzionaria alle forme di dominio della borghesia imperialista. L’affermarsi della lotta armata come strategia per tutto il proletariato, piano sistematico di azione e di disposizione delle forze che informa e caratterizza dall’inizio alla fine il processo rivoluzionario, è dato dalle condizioni storiche e politiche, economiche e sociali determinatesi con la seconda guerra mondiale. Il livello di maturazione raggiunto dall’imperialismo in quella fase poneva come dominanti nel quadro economico del blocco occidentale, processi di internazionalizzazione e interdipendenza delle economie; un dato che, da una parte, si rifletteva sullo sviluppo di livelli sempre più elevati di integrazione politica e militare tra i paesi della catena imperialista (che al momento si traducevano, tra l’altro, nel dispiegamento della “controrivoluzione imperialista“, atta a “normalizzare” i paesi del blocco occidentale così da renderli idonei a ricoprire il proprio ruolo nella divisione internazionale del lavoro e dei mercati che si andava delineando e a farsi carico degli interessi complessivi della catena); dall’altra vedeva affermarsi una frazione dominante di borghesia imperialista, aggregata al capitale finanziario USA, come punta più avanzata e trainante dei movimenti economici del mondo occidentale e, allo stesso tempo, il proletariato metropolitano, espressione del processo di polarizzazione tra le classi e conseguente proletarizzazione di vasti strati della società. Come riflesso sovrastrutturale al formarsi di frazioni di borghesia imperialista e del proletariato metropolitano (e quindi, in generale, al livello di sviluppo raggiunto dal capitalismo) la democrazia parlamentare moderna assume il ruolo di rappresentare e portare avanti gli interessi e le necessità della borghesia imperialista e della sua frazione dominante in particolare. Dal punto di vista economico si affina (data la conoscenza acquisita) la capacità di gestione e governo dell’economia attraverso politiche economiche di supporto che nella fase della crisi generale (di valorizzazione) assumono carattere controtendenziale, intervenendo per attutire gli effetti negativi della crisi dal momento che non possono agire sulle sue cause (che sono strutturali). Dal punto di vista politico ancora di più si esalta il ruolo che lo Stato assume in riferimento all’antagonismo inconciliabile tra le classi. A partire dai rapporti di forza generali tra le classi che caratterizzavano il quadro di scontro nel dopoguerra (dopo le rotture operate dalla controrivoluzione imperialista), la “democrazia rappresentativa” si organizza in modo tale da farsi carico del controllo e del governo del conflitto di classe, superando il carattere essenzialmente repressivo che aveva informato, ad esempio, lo Stato fascista anteguerra, per servirsi delle istituzioni democratiche come ambito politico in cui convogliare e compatibilizzare le spinte e le tensioni antagoniste che si producono nel paese, le quali, incanalate dentro le “gabbie istituzionali” vengono svuotate di ogni contenuto destabilizzante. Partiti, sindacati, organismi politici vengono delegati a “rappresentare” la classe e diventano l’unica “controparte” legittima in quanto strutturale e lealista alle istituzioni democratiche e quindi sensibile e rispettosa degli interessi della borghesia imperialista. Il controllo e il governo del conflitto di classe passa quindi per la sua “istituzionalizzazione” al fine di prevenire l’incontro tra l’antagonismo proletario e la progettualità rivoluzionaria. Risulta allora evidente il senso concreto della controrivoluzione preventiva, anima della democrazia rappresentativa e ad essa strutturalmente connessa; politica continua e costante propria degli Stati a capitalismo maturo, insita negli strumenti e negli organismi “democratici”, indipendentemente dalla presenza o meno di un processo rivoluzionario. Il carattere della mediazione politica che si afferma incorpora i termini di controrivoluzione preventiva maturati e assestati nel rapporto di scontro tra le classi. Non si tratta di un dato statico ma dinamico che si ridetermina in relazione (oltre che al dato strutturale e cioè ai livelli di sviluppo dell’imperialismo e alle necessità che da essi conseguono) alle modificazioni dei termini dello scontro ed in particolare del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. Questo salto di qualità chiarisce la natura politica dello scontro di classe nei paesi a capitalismo maturo e il suo grado di approfondimento e pone il fattore dell’aumentato peso della soggettività come una questione da cui non si può prescindere se si vuole intervenire nelle dinamiche dello scontro. Per parte proletaria e rivoluzionaria, incidere sul quadro di scontro generale affermatosi nel dopoguerra comporta necessariamente un riadeguamento sostanziale della strategia per la presa del potere. Il dato della controrivoluzione preventiva, infatti, rende superata, impraticabile, inefficace, la “politica dei due tempi” che ha portato al potere il proletariato sovietico nell’ottobre del 1917 e che la Terza Internazionale aveva posto alla base della strategia rivoluzionaria. Non è più dato, cioè, un processo di accumulo di forze sul terreno politico da impiegare in termini militari contro lo Stato quando saranno mature tutte le condizioni, oggettive e soggettive, per l’insurrezione. Il processo rivoluzionario riprende concretezza e ridiventa praticabile, invece, nella misura in cui la conduzione dello scontro avviene globalmente, che significa intervenire da subito (anche in una situazione non rivoluzionaria) su tutti i termini dello scontro operando su entrambi i piani, politico e militare, contemporaneamente. La strategia della lotta armata rende dunque esplicito il rapporto di guerra che vige nello scontro di classe. Una guerra che manifesta caratteristiche particolari e le cui leggi generali fanno riferimento al suo carattere di classe che coinvolge le due classi antagoniste: la borghesia vi interviene per mantenere il potere ma non può distruggere il proletariato, chiave di volta del modo di produzione capitalistico in quanto fattore unico di creazione di plusvalore; il proletariato rivoluzionario, al contrario, vi interviene per prendere il potere e questo processo vive e si sviluppa nell’obiettivo di annientare la borghesia in quanto classe. In questo contesto le dinamiche del rapporto di guerra non possono prescindere dalle peculiarità politiche della guerra stessa, cioè dal livello definito della mediazione politica classe/Stato. Posto in questo quadro, seppure come aspetto “eccezionale” (nel senso che non è la regola) e limitato nel tempo, l’intervento controrivoluzionario dello Stato, come abbiamo potuto constatare nella prima metà degli anni ’80, risulta essere mirato e selettivo, non viene massificato né prolungato oltre una certa soglia. L’indirizzo che persegue è colpire a livello d’avanguardia per poi ribaltare e dispiegare gli effetti politici su tutta la classe, rompere la dinamica di crescita e radicamento messa in moto dalla guerriglia e isolarla dal suo terreno di riproduzione, allontanare la classe dal punto di riferimento politico-militare di direzione dello scontro rivoluzionario. Imporre in definitiva un clima politico in termini di rapporti di forza che consenta allo Stato di assestare in suo favore un differente quadro del rapporto classe/Stato, modificando il carattere stesso della mediazione politica tra le classi, così da ripristinare il controllo delle dinamiche antagoniste e conformare il governo del conflitto ai nuovi termini posti dal livello di sviluppo e approfondimento della crisi del modo di produzione capitalistico (governo dell’economia).

All’interno del rapporto esistente tra processo rivoluzionario diretto dalla guerriglia e controrivoluzione dello Stato, la controrivoluzione degli anni ’80 va letta come portato e approfondimento del processo rivoluzionario, nonché delle condizioni generali dei rapporti politici tra le classi. Per i tempi e le modalità con cui si è dispiegata, per le proporzioni raggiunte ed i termini impiegati, è stata la manifestazione della consapevolezza raggiunta dallo Stato del valore strategico e del peso politico della lotta armata, risposta conseguente all’avanzamento del piano di scontro rivoluzionario e, al tempo stesso, causa del suo ulteriore approfondimento. D’altra parte il quadro dei rapporti politici tra le classi viene rideterminato e il carattere della controrivoluzione preventiva che si afferma incorpora e cristallizza la sostanza della controrivoluzione dispiegata in quegli anni, attraverso passaggi successivi ognuno dei quali è ad un tempo tappa di assestamento “istituzionale” (in termini quindi costanti e integrati al modo di governare il conflitto di classe) dei rapporti di forza generali raggiunti e punto di partenza per successive forzature nei rapporti politici tra le classi. Il “patto sociale neocorporativo”, le modifiche istituzionali fin qui operate, tendenti ad un maggiore accentramento dei poteri nell’esecutivo e il più generale progetto di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato in cui si inseriscono, sono altrettanti momenti di questo processo, altrettante ratifiche dei rapporti di forza generali prodotti dalla controrivoluzione. Non si tratta, dunque, di un’involuzione del sistema democratico, di un indietreggiamento verso la restaurazione dello “Stato autoritario”, ma al contrario di passaggi verso un sensibile approfondimento della democrazia rappresentativa, della sua capacità di governo del conflitto di classe e gestione dell’economia. Una dinamica che muove verso il massimo della democrazia formale, fuori e contro il contesto di classe del paese, dove le scelte dell’esecutivo, nel rispondere alle esigenze della frazione dominante di borghesia imperialista (detentrice del potere reale, sostanziale), devono affermarsi in tempi reali, svincolate al massimo grado dalle spinte antagoniste che si producono nel tessuto proletario. Questo processo, tendente ad allineare la democrazia italiana alle più mature democrazie europee, ha però chiaramente un andamento discontinuo, dovendo sempre fare i conti con le resistenze espresse dalla classe e con la capacità della guerriglia di farsi carico del livello raggiunto dallo scontro (oltre che con l’incalzare delle scadenze poste dall’evoluzione/crisi dell’imperialismo, ragione strutturale del riassetto degli Stati). Per parte della guerriglia, la controrivoluzione degli anni ’80 ha rappresentato la verifica materiale del carattere non lineare della guerra di classe, soggetta per la sua stessa natura ad avanzate e ritirate, spezzando bruscamente le ali ad ogni concezione meccanicista e semplicistica del processo rivoluzionario, segnando la fine di tutte quelle forze e organizzazioni combattenti che non hanno saputo leggere il carattere e il senso concreto delle dinamiche in corso e le cui risposte quindi sono risultate inadeguate (quando non si è trattato di una vera e propria resa incondizionata). Sole le BR per il PCC sono state in grado di misurarsi con le leggi dello scontro controrivoluzionario e, aprendo la fase della Ritirata Strategica, di dare l’unica risposta possibile e positiva alla situazione che si stava determinando. L’impatto con la controrivoluzione ha aperto la strada (e fornito alcuni termini) alla comprensione del carattere dello scontro rivoluzionario, facendo giustizia dello schematismo con cui nella fase precedente veniva condotto lo scontro e definite le fasi rivoluzionarie. Si trattava di un’impostazione, portato della giovinezza ed esperienza guerrigliera, che riduceva il processo rivoluzionario ad una fase di accumulo lineare di capitale rivoluzionario, di forze genericamente disponibili alla lotta armata, che nella fase successiva sarebbero state dispiegate nella guerra civile. Da una parte veniva meno, di fatto, il carattere di lunga durata della guerra di classe, con tutto quello che comporta in termini di assestamento delle forze per il loro rilancio; dall’altra parte ne deriva una visione schematica dello Stato come una sommatoria di apparati separati tra loro e messi sullo stesso piano.

La Ritirata Strategica, atto dovuto e necessario, ha portato con sè un primo piano di riconoscimento di errori e contraddizioni, recuperando tra l’altro la centralità programmatica dell’attacco al cuore dello Stato, centralità che discende dal fatto che il piano classe/Stato è asse principale su cui si costruiscono i termini della guerra di classe (essendo lo Stato la sede politica dei rapporti tra borghesia e proletariato) e, d’altra parte, che lo Stato centralizza sul piano politico la funzionalità dei suoi apparati. Ma la valenza politica determinante della Ritirata Strategica risiede nel suo senso concreto di legge fondamentale della guerra rivoluzionaria, espressione del carattere non lineare della guerra stessa, e cioè di ripiegamento da posizioni che di fatto si dimostrano inadeguate e non realmente avanzate, come risposta necessaria a fronte dell’impossibilità di misurarsi “alla pari” con il nemico di classe. Legge dinamica, dunque, che apre una fase generale non risolvibile unicamente nella ricollocazione di un corpo di tesi, ma che investe, oltre all’adeguamento dell’impianto organizzativo, soprattutto il modo in cui si costruiscono i termini politico-militari della guerra stessa. La Ritirata Strategica, portato del carattere e del livello dello scontro rivoluzionario, ne determina nel contempo l’approfondimento, nella misura in cui colloca correttamente il rovescio subito in termini di sconfitta tattica ed apre una fase rivoluzionaria incentrata, nelle sue finalità e nella disposizione tattica delle forze conseguente, attorno al problema di costruire le condizioni politico-militari necessarie per invertire lo stato attuale dei rapporti di forza.

Un processo dinamico ad andamento discontinuo e contraddittorio, che nella fase iniziale ha potuto fare i conti con i segni lasciati dall’offensiva dello Stato: l’incomprensione del reale livello di scontro prodottosi, alimentava un piano di contraddizione che riduceva di fatto la Ritirata Strategica ad atto difensivo e portava di conseguenza a subire l’iniziativa dello Stato e al logoramento delle forze, la cui disposizione non adeguata ne limitava la funzionalità rispetto alle necessità dettate dalla fase rivoluzionaria stessa. La logica difensivistica, cioè, si dimostrava incapace, di fronte alle necessità poste dal livello di scontro, impantanandosi nel possibile, inteso limitatamente alle condizioni materiali del momento. In questa dinamica hanno trovato spazio posizioni che, quando si sono chiaramente delineate nel dibattito interno, sono state espulse dall’Organizzazione per quelle che erano: posizioni liquidazioniste che, “interiorizzando” la sconfitta e portando all’estremo la logica difensivistica, “buttavano il bambino con l’acqua sporca”, revisionavano cioè la lotta armata fino a ridurla a strumento di lotta, sottraendosi perciò al livello dello scontro. Il superamento dell’ottica difensivistica, maturato dalle BR nella prassi rivoluzionaria, ha segnato una tappa importante per lo sviluppo della fase di Ritirata Strategica, poiché ha significato cogliere e superare una contraddizione che portava ad eludere alcune leggi della guerra rivoluzionaria e a non disporsi nello scontro adeguatamente al suo livello. Questo passaggio si è tradotto in un salto in avanti nella misura in cui si è riflesso in una prassi rivoluzionaria che dava risposta alle aspettative poste dall’attuale rapporto politico tra le classi, sia sul piano classe/Stato che sul terreno dell’antimperialismo, consentendo di fare così fronte alle scadenze politiche. Il recupero del senso politico profondo della Ritirata Strategica come legge dinamica della guerriglia e la misura acquisita delle necessità che si evidenziano al suo interno, ha permesso alle BR di mettere a fuoco i termini e gli obiettivi dell’attuale fase rivoluzionaria, individuata come «fase di ricostruzione delle forze proletarie e rivoluzionarie e di costruzione degli strumenti politici e organizzativi atti ad attrezzare il campo proletario nello scontro prolungato contro lo Stato». Obiettivi che vengono perseguiti in dialettica con (e a partire da) l’iniziativa combattente sugli altri punti di programma. Si tratta di una fase interna a quella più generale di Ritirata Strategica, dal cui carattere è condizionata, ma che per modi, sostanza e tempi politici, non può essere considerata come un momento congiunturale, ma come una vera e propria fase rivoluzionaria finalizzata a modificare e spostare in avanti il piano rivoluzionario e, di conseguenza, le posizioni di forza del campo proletario. Per un altro verso, con il riconoscimento della condizione generale in cui vive la guerriglia nei paesi a capitalismo maturo come condizione di accerchiamento strategico, in cui non possono esistere “zone liberate” dove ripiegare e da dove partire per lanciare le offensive, con la consapevolezza, ad un livello più maturo, del fatto che la guerriglia vive ed opera in territorio nemico, fianco a fianco col nemico di classe, e ferma restando la natura essenzialmente politica dello scontro di classe, si sono meglio precisate le implicazioni che sorgono dall’operare nell’unità del politico e del militare, in relazione a tutti i termini dello scontro di classe. Affermare che la conduzione dello scontro avviene globalmente e che l’unità dei due piani si riproduce in ogni aspetto dell’attività rivoluzionaria delle BR, significa concretamente che lo Stato viene colpito nei suoi aspetti politici centrali attraverso l’azione militare; il quadro di scontro che viene così aperto presenta un vantaggio momentaneo favorevole al campo proletario, vantaggio che per non essere riassorbito e disperso dalle misure che lo Stato mette in campo per recuperare il terreno perso, si deve tradurre in organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, calibrata nelle forme e nei modi alla fase rivoluzionaria e al livello dello scontro. Questo è il senso concreto di “lavoro di massa” all’interno della strategia della lotta armata come proposta politica per tutta la classe; in questo modo è possibile attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato. Ciò significa, ancora più concretamente, organizzare gli spezzoni più maturi dell’autonomia di classe, attivizzati dall’intervento rivoluzionario che incide sull’equilibrio tra le classi, in organismi armati e clandestini della classe. In queste strutture politico-militari i compagni rivoluzionari vengono organizzati secondo gli stessi criteri fondamentali e il metodo di lavoro che informano e regolano l’Organizzazione nel suo complesso, tenendo conto evidentemente delle diverse funzioni e ruoli che hanno nello scontro e del quadro di coscienza espresso. All’interno delle istanze rivoluzionarie e delle stesse reti proletarie si riproduce organizzazione e, a partire da questo elemento di fondo e nella pratica concreta del lavoro politico rivoluzionario necessario, le forze vengono formate ed attrezzate a sostenere lo scontro. Al tempo stesso queste strutture politico-militari così organizzate sono disposte e dirette dall’Organizzazione nello scontro in funzione dell’attività rivoluzionaria complessiva delle BR, che ad un tempo le attivizza indicando i confini ed i termini del loro lavoro politico rivoluzionario e ne centralizza ogni aspetto della loro attività. L’asse strategico cui aderiscono e di cui riproducono i termini è incompatibile con una concezione della formazione delle forze tipo “scuola quadri” o simili; non può che trattarsi invece di organismi politico-militari che si rendono da subito funzionali al piano di lavoro generale nella misura in cui la loro attività è da una parte centralizzata dall’Organizzazione, dall’altra informata all’attività complessiva dell’Organizzazione. In sintesi la formazione/organizzazione delle forze avviene all’interno e a partire da un ambito organizzato, clandestino e compartimentato, calibrato nelle forme che assume e nelle modalità in cui interagisce con lo scontro alla fase rivoluzionaria e ai rapporti di forza generali; avviene nel lavoro rivoluzionario concreto e calibrato al livello di coscienza espresso e al ruolo della struttura nell’insieme del piano generale di disposizione delle forze messe in campo dall’organizzazione; lavoro necessario e funzionale all’attività complessiva, centralizzato a partire dalle indicazioni e sotto la direzione dell’Organizzazione. Questa attività di formazione/organizzazione delle forze muove parallelamente al processo di ricostruzione, nell’ambito operaio e proletario, delle condizioni politiche e materiali danneggiate e disperse dalla controrivoluzione, per un equilibrio politico e di forze favorevole al campo proletario; un processo che matura in riferimento all’iniziativa della guerriglia tesa a rompere gli equilibri politici generali che si formano tra classe e Stato, al cui interno si evidenzia e si afferma la contraddizione dominante in antagonismo tra la classe e lo Stato. L’intervento su questo piano, con l’attacco al punto più alto dello scontro, pesa sugli equilibri dello scontro stesso e si ripercuote, di conseguenza, su tutto l’arco dei rapporti tra le classi, fino al piano capitale/lavoro, mettendo in moto dinamiche nel tessuto proletario e nelle componenti più mature dell’autonomia di classe in particolare, da cui è possibile “liberare” energia proletaria che deve essere adeguatamente formata, organizzata e disposta per essere in grado di sostenere il livello di scontro e rendersi funzionale all’approfondimento della guerra di classe. Ricostruzione e formazione/organizzazione è il binario su cui si concretizza la necessaria dialettica guerriglia/autonomia di classe. Perseguire questa dialettica comporta misurarsi con le condizioni politiche generali del rapporto classe/Stato, e cioè riferirsi nel definire l’attacco e tutta l’attività rivoluzionaria al carattere della mediazione politica che si afferma e che si assesta; al progetto politico che emerge come dominante in una data congiuntura interna (riferimento alle esigenze della borghesia imperialista nostrana) e internazionale (riferimento al ruolo dell’Italia nel contesto della catena imperialista e in particolare in Europa Occidentale); al livello di approfondimento del piano di scontro attestato a fronte delle dinamiche rivoluzione/controrivoluzione. Riguardo a quest’ultimo aspetto si evidenzia, in sintesi, l’intervento costante e complessivo di un apparato antiguerriglia le cui finalità, essenzialmente politiche, puntano a contrastare gli effetti e la valenza della proposta politica delle BR, tenendo sotto pressione e intervenendo in termini di deterrenza sulle componenti proletarie e rivoluzionarie che esprimono antagonismo contro lo Stato. Questo aspetto si compenetra con il carattere della mediazione politica tra le classi, dando vita ad un reticolo di atti politici e materiali che contrastano l’ambito stesso di formazione delle avanguardie nel tentativo di impedire all’autonomia di classe di esprimersi. La dialettica guerriglia/autonomia di classe che a partire da questo quadro di scontro è possibile e necessario sviluppare, presuppone la formazione e organizzazione delle forze militanti in un modulo politico organizzativo organico che sia non solo coerente con il principio dell’unità del politico e del militare, ma all’interno del quale i quadri militanti si formino e si dispongano tatticamente così da essere in grado di esprimere l’adeguata direzione e organizzazione delle forze, a partire dal duplice binario di ricostruzione/formazione, all’interno della progettualità attuale e in sintonia con gli obiettivi della fase rivoluzionaria.

Il modulo politico-organizzativo che storicamente si è dimostrato come il più adeguato, è quello a cui fa riferimento lo statuto delle BR (D.S. n° 2) e la sua mancanza non può che provocare un impoverimento e indebolimento del corpo militante, privato del mezzo e del modo per intervenire nello scontro all’altezza delle necessità. Riproporlo nei suoi principi generali ha costituito un punto di forza del processo di riadeguamento, ad un tempo momento di attestazione del processo in corso e strumento politico-militare per dargli nuovo slancio, perché consente di elevare le forze rivoluzionarie al livello politico necessario, facendo vivere e sfruttando al massimo la capacità dei singoli nel collettivo. Tale modulo ha, nei suoi criteri generali, carattere strategico e non muta col mutare delle fasi rivoluzionarie. Esso si basa sul criterio del centralismo democratico, per cui le forze vengono strutturate in istanze superiori e istanze inferiori; tutto il lavoro rivoluzionario viene centralizzato e si colloca dentro il piano di lavoro generale elaborato dall’istanza dirigente. Va da sé che esso opera dentro i principi strategici di clandestinità e compartimentazione, principi-base che rispecchiano l’unità del politico e del militare e informano ogni aspetto dell’attività rivoluzionaria; rispondono alle leggi della guerra rivoluzionaria, in quanto consentono di esplicare il carattere offensivo della guerriglia limitando al tempo stesso le perdite (comunque sempre alte nella guerriglia); principi che attraversano orizzontalmente e verticalmente tutta l’Organizzazione e le forze da essa organizzate e disposte. In particolare la clandestinità si manifesta come una scelta offensiva a carattere strategico che consente ai rivoluzionari di disporsi nello scontro nelle condizioni migliori (uniche adeguate) per portare l’attacco e approfondire la guerra di classe. La strutturazione per cellule, unità di base del modulo politico-organizzativo delle BR, consente in termini generali la riproduzione dell’organizzazione nella misura in cui al suo interno si riproducono sia i criteri generali del modulo che il patrimonio politico dell’Organizzazione. A partire dal piano di disposizione generale delle forze interne all’Organizzazione, si precisa tatticamente in funzione degli obiettivi della fase rivoluzionaria la disposizione delle strutture politico-militari stesse (delle cellule, quindi) che, in questa fase, deve essere funzionale alla costruzione/organizzazione/direzione delle forze, facendo vivere la dialettica guerriglia/autonomia di classe e centralizzate nella loro attività al perseguimento delle linee di attacco (obiettivi di programma). Ferma restando la matrice strategica, cioè, l’atteggiamento tattico muta a seconda delle fasi rivoluzionarie per rispondere alle sue finalità (della fase) e influisce sulla disposizione tattica delle forze in campo (che ha comunque sempre carattere dinamico in riferimento alle peculiarità politiche dello scontro). Tutte le forze così organizzate e dirette diventano funzionali all’attacco in modo da incidere al massimo grado e assestarsi adeguatamente nello scontro. In questo processo di costruzione/organizzazione/direzione le BR si costruiscono come partito precisando e praticando il ruolo di direzione dello scontro: le BR, forza rivoluzionaria che agisce come un “esercito rivoluzionario”, si pongono quindi nella prassi come nucleo fondante il partito, e a partire da questo fatto lavorano per concretizzare la parola d’ordine dell’unità dei comunisti. In conclusione le tappe del riadeguamento percorse fino ad oggi ed il rilancio ad esse connesso, costituiscono il dato politico centrale nell’attuale dialettica rivoluzione/controrivoluzione. Le misure che lo Stato ha ridefinito nel rapportarsi a questo dato e che informano l’attività della controguerriglia direttamente orientata dall’Esecutivo, puntano soprattutto a “raffreddare” le aspettative create dall’intervento rivoluzionario nel corpo di classe; ad esempio gli attacchi alla guerriglia (aspetto ovviamente intrinseco ad un contesto di guerra rivoluzionaria) vengono fatti pesare sul tessuto proletario dove sono spacciati per l’esaurimento delle condizioni del processo rivoluzionario. Ma se è ovvio che l’approfondimento delle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario influenza l’andamento dell’attuale fase di ricostruzione, ciò che influisce in maniera centrale sulle prospettive della fase rivoluzionaria è la sua collocazione in una fase politica generale gravida di contraddizioni e, al tempo stesso (ma non come conseguenza meccanica), di potenzialità favorevoli all’approfondimento della guerra di classe. Dal lato del campo proletario, infatti, non è data di fatto la “sterilizzazione” del tessuto di lotte operaio e proletario, l’annullamento delle dinamiche riproducenti autonomia di classe, ma al contrario si manifesta, come elemento costante, una vasta resistenza operaia e proletaria ai costi della crisi e agli effetti della riforma dei poteri dello Stato, da cui emergono in particolare lotte che tendono a rompere le gabbie e i filtri delle relazioni industriali, riflesso sul piano capitale/lavoro delle modificazioni degli equilibri politici generali, sancite a livello istituzionale nelle nuove “regole del gioco” della democrazia rappresentativa, per esprimere istanze di lotta autonome. In forme e modi che risentono del mutato quadro dei rapporti politici tra le classi, esse rappresentano tuttavia la continuità con la tradizione di autonomia di classe storicamente determinatasi in Italia. D’altra parte, e parallelamente, il piano di intervento complessivo nello scontro che la guerriglia ha maturato e le prospettive politiche aperte sul terreno classe/Stato e sul terreno dell’antimperialismo (e fermo restando il patrimonio che vent’anni di prassi rivoluzionaria hanno sedimentato nel tessuto proletario, e che sostanzia quel filo organico che tutt’oggi lega le BR a questo tessuto), consente alle BR di agire nello scontro in sintonia con le scadenze politiche dettate dalle condizioni politiche generali del rapporto classe/Stato. Nella misura in cui l’iniziativa guerrigliera incide sugli steccati e filtri della mediazione politica, emerge, a partire dai livelli di aggregazione operaia e proletaria suddetti, energia rivoluzionaria che può e deve essere organizzata, formata e diretta sul terreno della guerra rivoluzionaria per il suo avanzamento. Quindi, pur tenendo nel dovuto conto l’approfondimento del piano di scontro rivoluzionario attuale, è alle dinamiche che si sviluppano a partire dalla dialettica tra questi due fattori, guerriglia e autonomia di classe, che le BR fanno riferimento nel procedere alla ricostruzione delle forze/costruzione degli strumenti politici e organizzativi per attrezzare il campo proletario a sostenere lo scontro e nel perseguire le linee di attacco inerenti ai punti di programma.

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di riforma dei poteri dello Stato.

– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

– Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa Occidentale nello specifico i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.

– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica (Europa Occidentale/Mediterraneo/Medio Oriente).

– Onore al compagno Umberto Catabiani “Andrea” ucciso nel maggio 1982; onore a tutti i compagni rivoluzionari antimperialisti caduti.

 

Simonetta Giorgieri militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente

 

Genova, 15 febbraio 1990

 

Contro il pestaggio dei prigionieri del blocco B di Novara. Alcune compagne del carcere speciale di Latina

Il 4-2-1990 abbiamo fatto un fermata all’aria di mezz’ora contro il pestaggio organizzato nei confronti dei compagni del blocco B di Novara.

Ciò che è successo il 30-1-1990 nel campo di Novara ci è estremamente chiaro nella sua sostanza. Davvero niente di casuale per nessuno che continuino o riprendano i pestaggi dei comunisti e dei proletari nelle carceri, che venga rinnovata una politica del genere in contemporanea alle dichiarazioni “senza timori” del Ministro di Giustizia in merito alla guerriglia in Italia, la cui morte e sepoltura ci viene svelata a ogni piè sospinto da media di ogni sorta.

E, forse, anche questi piatti ci vengono serviti per “riportarci alla realtà”.

Noi diciamo che per i proletari e i comunisti l’unica realtà che conta è quella dello scontro tra le classi. La stessa per cui ricorrentemente si odono gli strilli sgangherati di borghesi di ogni risma di fronte ad ogni nuova espressione dell’antagonismo!.. che tradiscono solo la loro consapevolezza di non aver normalizzato alcunché e che la loro chance è solo quella di colpire violentemente prima che si dia uno sviluppo. Ma la guerriglia metropolitana in Europa Occidentale, in 20 anni di teoria/prassi e di acquisizioni rivoluzionarie, è diventata una realtà imprescindibile dello scontro di classe, è il portato e lo sviluppo di questi 20 anni di esperienza rivoluzionaria.

È con questa consapevolezza che, oggi come sempre, ognuno si incaricherà di difendere i propri interessi di campo: i nostri e quelli proletari sono inconciliabili con i loro, che asserviscono tutto alla logica del profitto e dell’accumulazione, con la mercificazione di tutte le risorse umane e naturali, con l’assoggettamento di intere aree del mondo attraverso l’indebitamento, la colonizzazione economica e la realtà della guerra imperialista.

Ovunque alla realtà dell’imperialismo si contrappone un’altra realtà, quella della lotta di classe, quella della coscienza proletaria e rivoluzionaria che dentro di essa cresce e si rafforza nel percorso concreto per una prospettiva rivoluzionaria necessaria e possibile. Ed è contro questo sviluppo che la borghesia imperialista, mentre dichiara con enfasi e baldanza il fallimento del comunismo nella storia, rovescia la sua barbarie: quella dell’invasione di popoli interi, delle stragi dei palestinesi, dei Kurdi, dei popoli del Centro e Sud America che stanno lottando per la loro liberazione, quella delle torture “democratiche” occidentali, della pena di morte trasferita nelle strade, delle ossa fratturate, da Gaza… al carcere speciale di Novara.

Ribadiamo il sostegno alla guerriglia delle BR per la costruzione del PCC e al Fronte nell’unità di attacco BR/RAF.

Per il comunismo

Alcune compagne del carcere speciale di Latina

Febbraio 1990

Questa loquace area del silenzio. Cuneo, intervento di Giuliano De Roma

Cari compagni, vi mando il documento che ho fatto da mettere agli Atti del «processetto» tenutosi più volte (perché più volte rinviato) presso il Tribunale di Sorveglianza di Torino, al quale ho fatto ricorso contro il provvedimento di sorveglianza particolare (art. 14 bis) adottato dalla direzione generale degli Istituti di Prevenzione e Pena del ministero di Grazia e Giustizia (…).

Chiudo queste righe mandandovi un forte abbraccio comunista.

L’applicazione nei nostri confronti dell’art. 14 bis da parte del ministero di Grazia e Giustizia non va vista solamente come atto di ritorsione contro quei comunisti, quei rivoluzionari e quei proletari che non solo rivendicano pienamente la loro esperienza di lotta, ma continuano a contribuire – pur nella specificità della loro condizione attuale – allo sviluppo del movimento rivoluzionario nell’attuale scontro di classe. È certamente qualcosa di più di questo; è bene leggere sinteticamente lo scenario in cui questi provvedimenti vanno a collocarsi per cercare di comprenderne più a fondo la portata politica.

Non è necessario ripercorrere la storia di questi ultimi anni, degli eventi caratterizzanti vissuti dai rivoluzionari nel nostro paese e che hanno segnato le tappe della nostra esperienza politica. È piuttosto del presente e del futuro che bisogna parlare, dell’apertura di una fase che prefigura i nuovi elementi che definiranno le caratteristiche della prigionia politica.

La fuga nelle braccia del nemico di una grossa fetta di ex rivoluzionari, nei variegati modi del rinnegamento della propria storia, dall’infame tradimento alla dissociazione, è già stata codificata da una legge ormai prossima a scadere dopo essere stata offerta per mesi sul mercato della merce istituzionale. Ma la dissociazione non basta, come non basta mostrare di aver «pacificato» il carcere, oggi il tentativo dello stato imperialista si delinea come ancor più ambizioso.

Non si tratta più di regolamentare all’insegna della «riconciliazione» il salto del fosso da parte di squallidi individui totalmente screditati da anni di collaborazionismo con la borghesia. Ora si tenta la carta forse ritenuta più decisiva: pensare che sia possibile orientare i prigionieri politici – nel loro insieme! – contro la ripresa dell’iniziativa guerrigliera, far pesare l’interno contro l’esterno, il «passato» della lotta armata per il comunismo contro il suo futuro!

La lotta armata, data frettolosamente per morta e sepolta, continua a mostrare la sua vitalità strategica in un quadro generale di contraddizioni capaci di dare nuovo alimento al movimento rivoluzionario. Gli stessi eventi di questo inizio d’anno hanno eloquentemente smascherato le pie illusioni di chi riteneva il capitolo ormai chiuso: devono essere allora accelerate le mosse politico-giudiziarie tendenti a dipingere i «terroristi dell’ultima generazione» come fanatici disperati sradicati dalla loro stessa storia, la lotta armata di oggi e di domani come del tutto estranea a quella degli anni ’70, ridotta ormai a fenomeno digerito e storicizzato, imbalsamato grottescamente nelle rievocazioni di reduci disillusi dai capelli grigi, di studiosi di dietrologia, di apologeti delle modernizzazioni craxiane. La galera è oggi il luogo ideale per lo sviluppo di questa manovra. Solo dalla galera la divisione fra vecchi «terroristi buoni» e nuovi «terroristi cattivi» potrebbe essere fatta giocare non solo come dato meramente propagandistico, da controguerriglia psicologica, ma come arma politica rivolta attivamente a creare difficoltà nel movimento rivoluzionario e a seminare confusione e disgregazione. È un’altra pia illusione, ma c’è chi si presta oggettivamente ad alimentarla. Per questo è indispensabile tracciare, come comunisti prigionieri, una chiara linea di demarcazione che non lasci spazio ad attendismi ed ambiguità. E queste righe, con molta franchezza e fuori dai denti, vogliono contribuire a rafforzare tale linea di demarcazione, che divida nettamente rivoluzione e controrivoluzione e denunci come quest’ultima pretenda di inserirsi nel corpo dei prigionieri politici.

Da qualche tempo un gruppo di prigionieri tace con una loquacità inesauribile, dimostrando una ritrosia a scrivere e a rilasciare dichiarazioni che rasenta ormai… la grafomania. Un’area del silenzio particolarmente rumorosa di ex militanti, che in passato hanno ricoperto ruoli politici e responsabilità dirigenziali nel movimento rivoluzionario, si è finalmente associata al coro di chi vorrebbe sistematizzare una volta per tutte la storia della lotta armata in Italia, in modo da sancirne la particolarità (da anni ’70) e l’irripetibilità nel contesto attuale. Questa disponibilità a riciclarsi (da rivoluzionari a storici, da comunisti a memorialisti) è condizionata dal fatto di poterlo fare da… liberi. Particolare evidentemente non di secondaria importanza: come insegna Spadolini, se è proprio scritto che uno debba fare lo storico, è più comodo farlo seduto su una poltrona ministeriale che su uno sgabello da galera.

In una letterina d’intenti definiscono affetti da sclerosi metafisica quanti non condividono la loro conversione a studiosi, alludendo ai comunisti che continuano a lavorare per costruire l’iniziativa rivoluzionaria.

Ma con chi e in che modo ripercorrere la strada intrapresa dalla lotta armata per il comunismo nel nostro paese?

Dentro il movimento rivoluzionario non è mai mancato lo spazio per la critica e l’autocritica, il dibattito seguito alle sconfitte inflitte alla guerriglia all’inizio degli anni ’80 è stato profondo e condotto in termini tali da non poter essere liquidato come una prassi formale e non sostanziale nella ridefinizione di una strategia rivoluzionaria. Un confronto serrato, ma sempre interno al campo della rivoluzione. I nostri «storici», invece, pensano chiaramente ad altro referente, l’unico capace di valorizzare adeguatamente la loro smania di ricostruzione delle vicende della lotta armata. E non è certo voler forzare o stravolgere il loro pensiero affermare che questo referente è quella Commissione Parlamentare istituita per «studiare il terrorismo» insediata da poco e dal ruolo e dalla durata certo promettenti. In quanto «storici» i nostri non hanno fretta, i contratti di questo tipo (consulenza in cambio di libertà) richiedono un certo tempo per essere perfezionati davanti al notaio, specialmente quando nell’area del «silenzio» ci sono contraddizioni sul contraente capace di offrire le condizioni più vantaggiose e di essere solvibile quando si tratterà di riscuotere. Il PSI? Un variegato arco di forze erede del fronte della trattativa? Settori della DC e del PCI comunque interessati a porre un’opzione politica sul futuro dell’operazione «finalmente i capi storici prendono la parola contro i nuovi brigatisti»? Miserie.

Intanto l’area del «silenzio» vive con comprensibile preoccupazione la necessità di non essere confusa con quella dell’abiura e della dissociazione. È per evitare simili confusioni che a qualcuno di loro pare sia stato proposto il 14 bis (?!)… per una ulteriore legittimazione del loro parlare nel movimento rivoluzionario? Le loro preoccupazioni… vendere magliette a Montanelli è una cosa, vendere consulenza storica ad una Commissione Parlamentare è un’altra. Non solo: perché l’intera operazione risulti appetibile alla borghesia, è indispensabile non rinchiudersi in una cosca o in un piccolo circolo. Se la posta in gioco è tentare di far pesare la galera contro l’esterno, il passato contro il futuro della guerriglia, gli «storici» devono ostentare di parlare a nome di tutti i prigionieri politici non coinvolti nella dissociazione. Solo in questo modo possono dimostrare di continuare a mantenere quel ruolo che loro stessi hanno perso ponendosi al di fuori del dibattito fra rivoluzionari. La loro presunzione e la smania di protagonismo sono davvero cattive consigliere: costoro non rappresentano nessuno se non le loro ambizioni. La loro furbizia di politicanti potrà coinvolgere altri, non certo quei comunisti prigionieri che si riconoscono nella validità strategica della lotta armata per il comunismo, quei comunisti prigionieri che giorno dopo giorno assistono alla costruzione di un mosaico esaltato dalla borghesia come il massimo della democrazia e di cui l’applicazione dell’art.14 bis, ter, quater ecc. è solo un tassello. Basta osservare con un po’ più di attenzione la legge Gozzini non solo per comprendere il presente della situazione carceraria, ma per sapere quale futuro ci si prepara.

E questo, per davvero, non è che l’inizio! L’inizio di un trattamento sempre più differenziato in ogni aspetto della prigionia sino alla definizione della galera «più adatta» per ognuno. Ma non sarà per questo che i comunisti smetteranno di esserlo e di comportarsi come tali. Siamo ben contenti di deludere quei corvi che attendono impazienti la nostra fine politica e che per il momento si accontenterebbero anche di registrare il nostro silenzio: continueremo a contribuire a quel dibattito che rende vitale il movimento rivoluzionario e che oggi ci impone maggiori sforzi nell’ambito delle tematiche riproposte dall’iniziativa combattente, dall’agire guerrigliero. Maggiori sforzi, perché il riadeguamento teorico e sostanziale dei prigionieri politici alla nuova fase dello scontro deve fare i conti con lo strascico di impostazioni politiche scorrette e di anni di confusione e disgregazione. Maggiori sforzi, perché il movimento rivoluzionario è ormai nelle condizioni di affrontare e sciogliere quei nodi strategici della lotta all’imperialismo nella nostra area geopolitica che in passato non si erano ancora acquisiti in tutta la loro portata.

Oggi la costruzione del Fronte antimperialista combattente è una proposta credibile, concreta e strategicamente valida su cui tutti i rivoluzionari devono misurarsi in un rapporto di reale unità nell’attacco all’imperialismo. L’attacco al cuore dello stato (come storicamente l’abbiamo sempre inteso) non diviene che l’articolazione – necessaria e indispensabile – nel nostro paese dell’attacco agli interessi generali dell’imperialismo a dominanza USA in rapporto alle linee di sviluppo degli interessi della borghesia imperialista italiana.

Un altro aspetto che va emergendo all’interno dell’area europea e mediterranea è la ripresa delle istanze di liberazione e autodeterminazione dei popoli la cui identità è soffocata dall’ordine imperialista: dall’Irlanda ai Paesi Baschi, dalla Corsica alla Sardegna. Ed è da quest’ultima realtà che come comunista sono stato espresso… ed è in riferimento ad essa che soprattutto muovo il mio contributo dentro lo sviluppo del dibattito/confronto già in atto fra i militanti comunisti e i rivoluzionari sardi, per porre le basi di un processo di unità contro l’imperialismo che non vede misurarsi solo i comunisti, i marxisti-leninisti, ma tutti quei rivoluzionari sardi che impegnano le loro energie verso un percorso di autodeterminazione del popolo sardo. Questo nel concreto, in ultimo, significa lavorare dentro lo sviluppo, più vasto nelle componenti, dello stesso Fronte antimperialista combattente.

 

Rafforzare il Fronte antimperialista combattente!
Guerra alla guerra! Guerra alla Nato!
Onore ai combattenti comunisti caduti!
Onore ai combattenti caduti per la liberazione del proprio popolo dal giogo imperialista!

Giuliano Deroma

Cuneo, marzo 1987