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Le Brigate Rosse contro la soluzione politica. Carcere di Cuneo – Documento dei militanti delle BR-PCC Piero Bassi, Cesare Di Lenardo, Franco Sincich (Depositato agli atti – Tribunale Torino)

Come militanti prigionieri delle Brigate Rosse intendiamo prendere posizione in termini chiari ed espliciti di fronte al traffico di trattative e proposte di soluzioni e disarmi che avviene tra alcuni settori di detenuti politici. Prendere appunto posizione contro la soluzione politica, in ogni variante in cui si presenti, e a favore, in identità e sostegno alla guerriglia, all’organizzazione BR in cui militiamo.

Il progetto di soluzione politica offre uno spettro relativamente articolato di posizioni, su alcuni punti in contrasto tra loro, ma è il comune denominatore che lo qualifica: chi propone oggi riconciliazione, pacificazione, opzione politica legale, riconversione della guerriglia nel gioco democratico, può avere certo diverse gestioni ideologiche da vendere, ma si pone materialmente fuori dalla lotta rivoluzionaria e lavora contro chi continua oggi a lottare per il comunismo con le armi in pugno.

Perciò non riconosciamo agli argomenti dei detenuti che sostengono e propagandano proposte di soluzione politica, alcuna internità ai problemi del movimento rivoluzionario. Non le consideriamo tesi discutibili all’interno del movimento antagonista se non come spunti e termini di riferimento per evidenziarne la natura di imbellettamenti ideologici a scelte opportuniste e di liquidazione, le quali trovano la loro razionalità e logica non nella ricerca di nuove prospettive per la lotta rivoluzionaria, ma più miseramente nelle offerte di uscita di galera a buon mercato e di reinserimento qualificato degli ex-combattenti nell’attuale mercato politico.

È come sempre nelle condizioni materiali concrete dello scontro di classe, nelle difficoltà storiche della lotta rivoluzionaria nelle metropoli, che affondano le loro radici la disgregazione e l’abbandono della lotta di settori di militanti che erano stati a suo tempo protagonisti della lotta armata. L’evoluzione dello scontro di classe in questi anni ottanta, la dura offensiva controrivoluzionaria e antiproletaria della borghesia, le sconfitte della guerriglia negli anni trascorsi, l’estremo arretramento di posizioni dell’autonomia di classe e dell’insieme del proletariato a livello politico, economico e sociale, l’evolversi del conflitto imperialismo/antimperialismo e il nuovo ruolo del nostro paese nell’arena internazionale hanno prodotto nuove difficoltà e nuove condizioni della lotta rivoluzionaria dei comunisti. Che parte dei militanti formatisi in una diversa situazione politica decidano ora, di fronte alla grandezza dei nuovi compiti, di collocarsi in posizioni politicamente e materialmente più comode, dimostra quanto oggi sia ancora grande la forza di attrazione e la capacità di reintegrazione del sistema nelle metropoli.

E tuttavia, che altri compagni intendano continuare la lotta nelle nuove condizioni e darle nuovo impulso, che altri compagni oggi impugnino le armi per rafforzare e sviluppare la guerriglia, dimostra quanto questa lotta abbia la sua origine nelle profonde e inconciliabili contraddizioni di classe che caratterizzano questa società, dimostra come le conquiste politiche, teoriche e pratiche di questi anni di lotta si siano radicate nel proletariato rivoluzionario e la prospettiva comunista sia in grado di guardare in avanti; scrollandosi di dosso fasulle ed edulcorate mitologie sui favolosi anni che furono e costruendo invece concretamente lo sviluppo del processo rivoluzionario per gli anni che abbiamo davanti.

Dai sostenitori della soluzione politica viene espressa la tesi secondo cui la lotta armata sarebbe stata sconfitta come strategia politica e financo come pratica; che questa sconfitta avrebbe i suoi presupposti, ancor prima che nell’attacco militare portato dagli apparati repressivi dello Stato, nella sua impraticabilità politica in una società come quella italiana ormai «modernizzata». Sarebbe così alta la maturità acquisita dalla democrazia che si potrebbe parlare, e non solo parlare ma osare sperare, che la chiusura di un ciclo dello scontro sociale e l’«oltrepassamento» di radicalismi politici ormai «sclerotici» e «metafisici» inducano alla liberazione degli ostaggi del passato scontro sociale.

La riflessione ci pare caratterizzata da un soggettivismo smisurato e fuori luogo che, analizzando la realtà presente delle cose a partire dal proprio bisogno di libertà, opera una lettura stravolta e capovolta degli avvenimenti e dei fattori economici, politici, militari, interni ed internazionali per giungere alla conclusione che oramai la «modernizzazione» avrebbe risolto tutti i problemi di fondo dell’occidente. Non ci sarebbero più guerre, le industrie belliche sarebbero sull’orlo del fallimento, una volta risoltisi sul piano politico i problemi di convivenza tra i due blocchi; la disoccupazione e lo sfruttamento sarebbero vocaboli di un retaggio passato, oltrepassato; insomma il modello di sviluppo capitalistico avrebbe in questa congiuntura e per i prossimi anni eliminato le cause di tensione sociale e aperto un ciclo nuovo e fiorente. Per cui i prigionieri del conflitto politico e sociale di questi anni – e attorno a questo ruota ogni altro discorso -… «tutti a casa»!

  1. Che i cicli di lotta nascano, si sviluppino e alla fine muoiano – allo stesso modo in cui è nato, si è sviluppato e sta morendo il modo di produzione capitalistico – è una banalità talmente ovvia e scontata che non meriterebbe affatto parlarne se essa non servisse, alla pari di altre, a giustificare una conclusione di ben altro peso e di ben altro rilievo. Quella cioè che, essendo venute meno le condizioni politiche e sociali che avevano legittimato la lotta armata, quest’ultima si ridurrebbe oggi a pura… «sclerosi metafisica».
    Su questo punto occorre essere estremamente chiari, a rischio di un’argomentazione pedante e didascalica. Nella società capitalistica la dinamica della lotta di classe segue normalmente un andamento ciclico; un andamento, cioè, in cui le esplosioni sociali si alternano a più o meno lunghi periodi di ristagno e talvolta persino di riflusso. Il ciclo dell’economia capitalistica, infatti, comprende fasi di marasma, di animazione, di attività media, di aperta ripresa, di accelerazione, di prosperità, di boom, di crollo; e poi di nuovo di marasma, ecc., ecc., a ciascuna delle quali corrispondono, dal lato della lotta di classe, altrettante fasi di radicalizzazione e di ristagno del proletariato, dei movimenti di massa.
    D’altro canto, se la lotta di classe non seguisse, per sua propria natura, un andamento ciclico, fatto di improvvise avanzate e di prolungate ritirate, il ruolo dell’avanguardia, del partito, perderebbe completamente sia di senso che di importanza. È proprio il fatto che la lotta di classe non segue una parabola ininterrotta e ascendente – ma invece conosce crolli, pause e interruzioni – che rende necessaria una avanguardia organizzata, distinta e separata dalla classe, che porti la coscienza politica dall’esterno della lotta economica, della sfera dei rapporti tra operai e padroni.
    Ma non basta. L’intera storia del movimento comunista internazionale è costellata anche di sconfitte, quindi di periodi di stagnazione e di riflusso della lotta di classe. Sarebbe sufficiente pensare alla Russia degli anni successivi alla rivoluzione del 1905: i dirigenti bolscevichi arrestati o esiliati, uno sbandamento teorico ed una confusione politica indescrivibili, un’improvvisa rinascita della religione; insomma: una situazione di crisi talmente vasta e profonda da far apparire pressoché inesistente – o tutt’al più caricaturale – quella che si è prodotta nel nostro paese negli ultimi anni. Non per questo però i bolscevichi giunsero alla conclusione che un ciclo si era definitivamente chiuso e dunque andava posto all’ordine del giorno il problema del suo «oltrepassamento»! Non lo fece Lenin e, prima, i rivoluzionari del 1848 o i comunardi parigini del 1871; ma non lo fecero neppure nella Germania della repressione antispartachista la Luxemburg o, in Cina, il Mao di una rivoluzione che dopo le iniziali sconfitte delle Comuni di Canton e Nanchino, segue un percorso sinuoso, complesso ed incerto tra alti e bassi, avanzate e ritirate.
    Che dunque un ciclo si sia chiuso è ovvio, innegabile e non costituisce alcun problema sotto questo punto di vista: ma è quanto meno sospetto datarne la fine al…1987, vale a dire a circa sette anni dalla sua reale conclusione (che possiamo dire avvenuta, pur con tutta la cautela che è d’obbligo nella periodizzazione dei processi politico-sociali, con la sconfitta operaia della lotta alla Fiat nell’80). Non si legittima in tal modo il sospetto che si arrivi a confondere la fine della… propria militanza personale con la fine tout-court di un momento della lotta di classe? Come non ricordare qui il giudizio sprezzante di Marx sul piccolo-borghese che è rivoluzionario solo fino a quando esiste un movimento di massa a carattere rivoluzionario cui egli si possa appoggiare? In realtà costoro anziché porre a se stessi e al movimento rivoluzionario il problema di individuare e correggere gli errori politici commessi che possono aver contribuito a facilitare il ripiegamento di un movimento di massa (sconfitto peraltro, innanzitutto, dall’esistenza di un nuovo rapporto di forza generale sfavorevole, prima ancora che dai suoi limiti naturali) si assolvono da ogni responsabilità, dalle responsabilità che competono alle avanguardie rivoluzionarie e muovono implicitamente alla classe il rimprovero di… non aver tenuto fede alle loro personali aspettative.
    Una variante della tesi dell’esaurimento del ciclo di lotte è quest’altra, alla precedente strettamente collegata: insieme al ciclo di lotte, sarebbero venute meno le condizioni sociali che legittimerebbero l’esistenza della guerriglia nelle metropoli imperialiste.
    Questa tesi cela un’insidia e scaturisce da un errore. Dell’insidia, è presto detto: se un progetto rivoluzionario è legato all’esistenza di determinate contingenti condizioni storiche, allora diventa sufficiente dimostrare che tali contingenti condizioni non si danno più, sono mutate, per arrivare a concludere che non si dà più, che ha perso di validità, di legittimità il progetto che esse hanno a suo tempo espresso. Quanto all’errore, esso consiste nel confondere le condizioni sociali specifiche entro cui la lotta armata ha fatto la sua comparsa in Italia con le condizioni storiche generali che ne hanno legittimato la nascita e che seguitano tuttora a legittimarne l’attività.
    Le BR fanno la loro comparsa in Italia storicamente sull’onda dei movimenti operai e studenteschi che erano sorti anche in Europa alla fine degli anni sessanta, in seguito all’eroica lotta del popolo vietnamita e ai processi di ristrutturazione che allora erano stati avviati nella scuola e nell’industria soprattutto all’interno dell’area capitalistica metropolitana. Le BR si preoccupano di definire il soggetto sociale a cui riferire la propria iniziativa e tale soggetto viene individuato nell’autonomia proletaria. «Noi vediamo nell’autonomia proletaria il contenuto unificante delle lotte degli studenti, degli operai e dei tecnici che hanno permesso il salto qualitativo 1968-69» (da «Lotta sociale e organizzazione nella metropoli», gennaio 1970). Il riconoscimento e la ricerca di un referente sociale esprimono un’esigenza di legittimazione immediata, specifica; l’individuazione di un soggetto rivoluzionario di classe con cui specificatamente aprire una diretta dialettica politica. L’esigenza di relazione politica con un soggetto di classe è cosa ben diversa dall’esigenza di dare legittimità teorica e storica alla lotta armata e alla sua nascita: mentre il primo problema è di carattere più immediato, il secondo investe e riguarda il piano della strategia, chiama cioè in causa le ragioni che giustificano storicamente la pretesa della guerriglia di rappresentare «la forma dominante, egemone della lotta di classe nel mondo» (editoriale di Sinistra Proletaria, 1970).
    Se la lotta armata avesse affidato esclusivamente o principalmente all’esistenza di uno specifico movimento autonomo di classe con carattere antagonista la dimostrazione della propria legittimità storica, essa si sarebbe rivelata non come una strategia, bensì semplicemente come una forma di lotta, come la forma di lotta più appropriata per esprimere la potenzialità e la radicalità di quel movimento.
    Al contrario la lotta armata è una strategia innanzitutto in quanto e nella misura in cui non è una scelta tattica, la scelta, cioè, di far ricorso alla violenza organizzata, compiuta dall’avanguardia rivoluzionaria in una specifica e limitata fase della lotta di classe o in un particolare momento dello scontro sociale.
    In definitiva ciò che legittima agli inizi degli anni settanta storicamente la lotta armata sono due ordini sostanziali di motivi, alcuni dei quali ricavati dall’analisi della controrivoluzione, delle caratteristiche che essa aveva assunto negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale; altri invece dal bilancio storico delle esperienze rivoluzionarie nei paesi imperialisti del centro. La riflessione verteva fin da allora sul problema ancora irrisolto della rivoluzione in Occidente. Ciò non per motivi nazionalistici o eurocentrici, ma perché, per il grado materiale di sviluppo qui raggiunto dalle forze produttive, un successo rivoluzionario nel centro diventa un obiettivo di importanza decisiva per gli interessi generali del proletariato internazionale, per le possibilità che apre di sbloccare la situazione anche rispetto allo sviluppo ulteriore delle lotte rivoluzionarie alla periferia del sistema e nell’insieme del mondo capitalistico.
    Il primo passo nella direzione dell’assolvimento di questo compito storico viene compiuto dalle BR prendendo atto del fallimento delle strategie a cui il proletariato metropolitano aveva fatto ricorso in passato e che erano ispirate al «mito della presa del potere per via insurrezionale» (Sinistra Proletaria), all’«ipotesi classica dell’insurrezione centrata prevalentemente sulle masse urbane, per lunghissimi anni preparata da un infaticabile lavoro di propaganda e agitazione e poi rapidamente decisa da un punto di vista militare» (Nuova Resistenza, aprile 1971). La guerriglia si propone come unica corretta via rivoluzionaria nell’epoca storica dell’agonia del modo di produzione capitalistico.
    Per poter parlare di «perdita di legittimità della guerriglia» o di «esaurimento del ciclo e delle condizioni storiche» che ne hanno motivato e giustificato la nascita, occorrerebbe quantomeno dimostrare che: 1) il modo di produzione capitalistico è entrato anziché in una fase storica di declino mortale, in una fase di ringiovanimento, di rigenerazione (e per farlo si dovrebbe comunque evitare di confondere ciclo economico congiunturale con ciclo storico: nella sua età senile, il capitale può, anzi deve, superare in parte la propria crisi ciclica; ma un miglioramento del genere è del tutto effimero e temporaneo, e determina dialetticamente il carattere ancora più irrimediabilmente catastrofico delle crisi successive); 2) il problema della rivoluzione nelle metropoli imperialiste non è più un problema urgente storicamente, nel quadro degli interessi del proletariato internazionale, e all’ordine del giorno; 3) le sconfitte della guerriglia erano del tutto inevitabili, sono definitive e appaiono senza rimedio.
    Diversamente, le tesi dei sostenitori della soluzione politica si rivelano per quello che sono in realtà: una litania di insulsaggini, di sublimi banalità e di meschini pretesti per giustificare il proprio personale disimpegno dalla militanza rivoluzionaria e per dissimulare le sconfitte della propria impazienza e della propria presunzione.
  1. Un’altra posizione fa discendere il proprio disimpegno dalla lotta rivoluzionaria sulla base di una presunta soluzione della crisi capitalistica e dell’aprirsi di una fase di rosee prospettive per l’imperialismo. Il processo di crisi-ristrutturazione che ha investito l’intero occidente capitalistico tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta a partire dai paesi più forti per arrivare anche al nostro, ha provocato radicali modificazioni sul piano della composizione tecnica del capitale a livello generale, producendo inevitabilmente conseguenze importanti sui rapporti tra le classi all’interno di ogni singolo paese del sistema, sui rapporti tra i diversi paesi dello stesso sistema e su quelli tra Nord e Sud e tra sistema imperialista occidentale e blocco dell’Est.
    Sicuramente, tuttavia, il processo di crisi sopraggiunto dopo il ciclo di espansione post-bellico non è certamente arrivato a conclusione in modo pacifico, grazie ad un salto di composizione organica in grado di riportare l’estrazione di plusvalore a livelli compatibili con una ripresa del ciclo capitalistico e ad un conseguente rilancio del dominio del paese guida (gli USA) tale da ridefinire senza colpo ferire un nuovo ordine economico mondiale in grado di assecondare e sfruttare questa presunta espansione.
    Considerazioni del genere non hanno molto a che fare con il marxismo, ma nell’onda lunga dell’ottimismo craxiano può capitare di sentirle, anche se poi è la realtà stessa a smentirle tranquillamente.
    L’utilizzo di informatica, biotecnologie, nucleare, ecc…, si è riversato, per tutto l’occidente imperialista, a partire dagli USA, sulla produzione di armamenti, con diverse conseguenze positive e negative nell’immediato, ma tutte destinate ad acuire le contraddizioni interne all’imperialismo e il suo stato di crisi.
    La politica di riarmo USA, oltre a dare fiato ai più grossi complessi industriali e finanziari americani, e a creare quindi l’illusione di una ripresa, serve indubbiamente a rendere il proprio apparato militare adeguato ad un confronto con l’Est e al ruolo di gendarme mondiale; ruolo obbligato per poter riaffermare il dominio imperialista su un sistema di paesi dominati che dal dopoguerra alla prima metà degli anni settanta è stato percorso da processi rivoluzionari, di diversa natura e radicalità, ma sempre incompatibili con le esigenze imperialiste. D’altra parte l’utilizzo massiccio di nuove tecnologie e l’enorme impegno finanziario nella ricerca rilancia il dominio USA anche sui propri alleati occidentali europei e giapponesi. Soprattutto l’Europa rischia in questa fase di non tenere dietro alla corsa tecnologica imposta dall’imperialismo più forte. Basta tenere conto della massa di capitali che i paesi europei dovrebbero investire nella ricerca a medio e lungo termine e al fatto che l’Europa è composta da diversi paesi non aggregabili in un’unità economico-finanziaria. Questo spiega il fallimento sostanziale dei tentativi che ogni tanto emergono, da parte europea, di competere con le scelte imposte dall’imperialismo dominante (vedi Eureka), ma soprattutto il proliferare di accordi tra imprese americane ed europee che ci sembra superfluo definire per lo meno «sbilanciati» a favore dei colossi USA e che le multinazionali europee accettano e ricercano per partecipare anche in posizione subalterna alle innovazioni tecnologiche.
    In realtà questa «ripresa» americana, basata sull’elefantiasi del settore degli armamenti, crea un enorme deficit interno, sempre meno controllabile, ed un taglio netto alla politica del welfare state, creando pesanti contraddizioni sociali nel cuore stesso dell’imperialismo. A livello internazionale approfondisce la divaricazione tra Nord e Sud del mondo in quanto sempre più si allontana dalla portata dei paesi dipendenti il miraggio di uno sviluppo capitalistico che li metta in grado di rideterminare al meglio la loro collocazione nella divisione internazionale del lavoro. Rende poi disponibili masse sempre minori di capitali per prestiti e finanziamenti, e a condizioni sempre più onerose, non solo sul piano economico e sociale, ma anche su quello politico. Questa maggiore divaricazione non fa che restringere l’area di mercato possibile per i prodotti «sofisticati» delle industrie del centro, creando quindi un’accelerazione della tendenza alla guerra intesa come scontro Est-Ovest.
    È infatti solo l’area dei paesi dell’Est a poter assorbire prodotti ad alta tecnologia, mentre il Sud, nella migliore delle ipotesi può solo produrre parti di essi, senza avere peraltro la possibilità né di produrli per intero né tantomeno di acquistarli.
    Qualsiasi tentativo di allargare l’area di mercato con mezzi pacifici, attraverso iniziative politiche ed economiche è inevitabilmente destinato al fallimento, perché in contrasto con l’essenza stessa, assolutamente anarchica, del capitalismo. Qualsiasi tentativo di concentrazione sovranazionale che leda gli interessi dei singoli soggetti imperialisti viene così a cadere. Il famoso piano Marshall, il cui nome oggi rispunta spesso nelle buone intenzioni dei circoli capitalistici che contano, fu reso possibile unicamente dalla conclusione vittoriosa di una guerra mondiale, e ci vuole ben altro che qualche «chip» per farlo resuscitare.
    Tantomeno possono contare i buoni propositi dei circoli imperialisti di tendenza socialdemocratica che già, negli anni settanta, attraverso il celebre Rapporto Brandt sollevarono il problema dell’allargamento pacifico del mercato mondiale attraverso il sostegno dei paesi più forti a quelli che con molta buona volontà e poco senso della realtà venivano definiti paesi in via di sviluppo.
    È evidente quindi che sul piano internazionale le modificazioni intervenute a seguito del processo di crisi-ristrutturazione in corso a livello mondiale non inducono affatto a immaginare un futuro scenario di pace con qualche piccola stortura facilmente raddrizzabile, ma anzi si delinea un quadro ben più critico nelle relazioni tra Est e Ovest e tra l’occidente imperialista e tutti quei paesi che difendono una propria autonomia fuori dal dominio imperialista. Le prove del resto non mancano: basta guardare le scelte militari della politica USA da Grenada in poi, passando per il Libano, la Libia, il Golfo Persico…
    Non basta che le scelte politiche dell’URSS (motivate evidentemente da specifiche ragioni economiche e sociali proprie della particolare formazione economico-sociale di questo paese) vadano verso la «distensione» perché questa trionfi. Essa non può trionfare perché mancano le condizioni oggettive perché questo avvenga.
    Per quanto riguarda l’Italia, gli ultimi dieci anni hanno visto una notevole trasformazione nel tessuto produttivo, esaltando la produzione di beni di esportazione rispetto a quelli destinati al consumo interno, creando così le premesse per un maggiore impegno imperialista dell’Italia soprattutto verso l’Africa, il Medio Oriente e l’America Latina. Questo ruolo imperialista è naturalmente più articolato (e quindi si accompagna a scelte politiche e militari) per quanto riguarda l’area più vicina geograficamente, e cioè il Mediterraneo; ed è un ruolo che porterà inevitabilmente l’Italia ad assumere oneri sempre più pesanti a fianco dell’imperialismo USA contro i processi rivoluzionari e i paesi che conducono una politica antimperialista nell’area. Questo accresciuto ruolo imperialista dell’Italia rende ancora più urgente la costruzione del Fronte combattente antimperialista nell’area europeo-occidentale e mediorientale, ma sarebbe sbagliato vedere in questo dato attuale la ragione storica dell’antimperialismo intesa come pratica politica di destabilizzazione del sistema imperialista nel suo complesso e di quest’area in particolare. La nostra collocazione antimperialista non è mai stata una scelta congiunturale: in realtà, per lo meno dalla conclusione della seconda guerra mondiale, quelli che erano i diversi paesi imperialisti in continua lotta tra loro per l’accaparramento dei mercati, delle materie prime, del mercato del lavoro internazionale, si sono integrati in un sistema articolato intorno agli USA, regolato al suo interno da un complesso rapporto di interdipendenza ma anche di dipendenza nei confronti del paese più forte. Questo non annulla le contraddizioni interimperialistiche ma le confina su un piano esclusivamente economico, rendendo storicamente impossibile una guerra all’interno dell’occidente imperialista.
    Da questo quadro trae legittimità storica la guerriglia come unica strategia rivoluzionaria possibile e viene anche a modificarsi l’obiettivo possibile di ogni percorso rivoluzionario: non si tratta più di staccare l’anello debole della catena operando sulle contraddizioni interimperialiste, ma diventa prioritaria la destabilizzazione del sistema imperialista, per quanto ci riguarda principalmente nell’area europeo-occidentale e mediorientale, per rendere possibile la riuscita del processo rivoluzionario in uno o più punti di esso, puntando sull’alleanza tra le forze rivoluzionarie che perseguono questo medesimo obiettivo. In questo senso la nostra organizzazione ha lanciato la parola d’ordine della costruzione del Fronte combattente antimperialista; una proposta concreta ed irrinunciabile che trova un terreno immediato di praticabilità nell’iniziativa combattente portata avanti dalle diverse organizzazioni combattenti comuniste europee. L’obiettivo di queste iniziative è stato ed è la NATO in quanto vertice e sintesi più alta dell’attività politico-militare della controrivoluzione. L’iniziativa politico-militare della guerriglia, in quanto strategia, non può che rivolgersi contro il livello più alto, quello strategicamente determinante, dell’iniziativa controrivoluzionaria dell’imperialismo, e la NATO, in quanto centro di concertazione e pratica dell’attività controrivoluzionaria dei paesi imperialisti occidentali sotto la guida degli USA, rappresenta proprio il punto nodale della dialettica rivoluzione/controrivoluzione.
    D’altra parte riteniamo l’area in cui siamo collocati (un’area geopolitica che comprende l’Europa occidentale, il Mediterraneo e il Medio Oriente) di fondamentale importanza per l’evolversi delle contraddizioni oggi operanti a livello mondiale e per l’esprimersi della tendenza alla guerra. L’Europa è al tempo stesso un centro imperialista in cui si concentrano le contraddizioni interne proprie del modo di produzione capitalistico aggravate da una posizione di relativa subordinazione rispetto all’imperialismo dominante; ed anche una zona di contatto tra Nord e Sud del mondo, in un’area di fondamentale importanza strategica per gli interessi generali dell’imperialismo. Entrambi questi gruppi di contraddizioni si riallineano all’interno della contraddizione su cui oggi si fonda la tendenza alla guerra, quella contraddizione Est/Ovest che in Europa raggiunge il suo punto critico lungo la linea di demarcazione tra i due blocchi sancita dalla conclusione della seconda guerra mondiale.
    Ciò rende evidente l’importanza di una rottura rivoluzionaria in questa area, nel centro imperialista, nel cuore stesso di un sistema che nel sostenere la tendenza alla guerra rende ancora più pesante e insopportabile il dominio sul proletariato della metropoli e sui paesi dipendenti e minaccia la sopravvivenza delle esperienze rivoluzionarie già avvenute.
    Questa stessa posizione fiduciosa nelle fiorenti prospettive di ripresa del ciclo capitalistico ritiene inevitabilmente conclusa la strategia della lotta armata per il comunismo in Italia con il tramonto della figura dell’operaio-massa, a seguito delle trasformazioni del processo produttivo.
    Già abbiamo detto di come le BR non si siano mai considerate, né siano mai state un prolungamento armato di una particolare figura di classe, nemmeno dunque, negli anni settanta, dell’operaio-massa, che pure è stato senz’altro la figura centrale delle lotte del proletariato metropolitano legate alla specifica composizione di classe e al preciso e determinato processo produttivo concreto che ne era la base. Vi è stato uno stretto rapporto, nella formazione e nello sviluppo delle BR, tra queste e le lotte dell’operaio-massa, e con le sue avanguardie; proprio perché allora come oggi le BR, a partire dalla propria identità, dal proprio programma, dal proprio progetto strategico, sempre si sono dialettizzate, nel modo dettato di volta in volta dallo svolgersi del processo storico, con le espressioni dell’autonomia di classe. L’autonomia di classe si manifesta sempre in termini concreti e dunque obbligatoriamente derivati dalla fase economica e dalla struttura del processo produttivo. Non vi sono figure proletarie sante ed eterne da glorificare come portatrici biologiche di radicalismo o addirittura di comunismo, salvo poi, una volta che il processo produttivo molto materialisticamente le trasforma, scoprirsi orfani, deludersi e dichiarare il nuovo assetto delle cose eterno e immutabile. Mai per le BR il rapporto dialettico col proletariato è stato un problema di monumenti da innalzare a figure salvatrici; al contrario è sempre stato un problema di relazione e direzione politica con un’autonomia operaia e proletaria la quale, non provenendo dal mondo delle idee ma dai materiali rapporti sociali, con questi si è trasformata ed evoluta continuamente in tutto l’ultimo ventennio.
    Se da un lato nelle BR non si è mai partiti per la tangente ad assegnare palme di nuovo soggetto rivoluzionario alle diverse figure proletarie marginali che momentaneamente occupavano più o meno rumorosamente la piazza, dall’altro il nostro ostinato, cocciuto, intransigente «attaccamento» alla centralità operaia non è una questione di nostalgia sentimentale, ma è sempre, ieri e oggi, partito dall’analisi marxista del concreto trasformarsi dei processi lavorativi nel cuore della produzione.
    È chiaro che la nuova organizzazione del lavoro, sviluppatasi con l’introduzione di informatica e microelettronica, radicalmente innovativa rispetto all’organizzazione del lavoro tayloristica classica, modifica con il lavoro anche il lavoratore, la composizione tecnica e politica della classe operaia e il tipo di lotte che esprime.
    Nient’affatto in contrasto con ciò la nostra organizzazione continua a considerare teoricamente e politicamente discriminante la questione della centralità operaia. «Solo gli interessi della classe operaia possono rappresentare gli interessi di tutto il proletariato metropolitano. Il termine proletariato metropolitano indica tutte le figure sociali sfruttate ed emarginate dal capitale, ma tra tutti questi gruppi sociali, la classe operaia in quanto l’unica a produrre plusvalore è la sola indispensabile per la sopravvivenza e la riproduzione del modo di produzione capitalistico. Anche rispetto alle modificazioni operate dallo sviluppo capitalistico si può affermare la “centralità del proletariato metropolitano a dominanza operaia”. Dove la centralità operaia si deve intendere “dentro e contro i rapporti di produzione, fuori e contro lo Stato”». Non si tratta unicamente di un discorso sull’ineliminabilità della contraddizione Capitale/Lavoro, ma della valutazione politica che vi sono tutte le condizioni materiali e politiche per l’evoluzione di questa contraddizione come contraddizione Classe/Stato. La guerriglia appunto anticipa e costruisce questo conflitto aprendogli prospettiva strategica. Il nuovo assetto del processo produttivo, con le trasformazioni che ha indotto nei rapporti sociali, non è piovuto dal cielo, ma è maturato e si è prodotto storicamente in questi anni di crisi e ristrutturazione dentro una lotta politica radicale che ha informato i tempi e modi attraverso i quali si è determinata la nuova organizzazione del lavoro: vi è un intreccio stretto di relazione e influenza reciproca tra la sconfitta politica della classe e la ristrutturazione tecnologica della produzione. Le lotte operaie nella crisi e nel processo di ristrutturazione, anche le più recenti, non sono soltanto forme di rigidità inevitabilmente destinate a scomparire, ma hanno in sé il vecchio e il nuovo, la tradizione e residui di forme di lotta legate all’assetto produttivo trasformato e contemporaneamente il modo storico concreto con cui la scienza operaia e proletaria della lotta anticapitalistica si travasa da una figura in via di estinzione a una figura in via di formazione.
    I due aspetti segnano la direzione di sviluppo del processo, che si svolge in un lungo arco di tempo nel quale la composizione reale della classe operaia non è, nell’analisi concreta, appiattibile né completamente alla vecchia né completamente alla nuova condizione.
    Dentro questa realtà dinamica e contraddittoria vive oggi l’autonomia di classe, tutt’altro che superata o annientata né dalla dura sconfitta politica di questi anni né dalla nuova organizzazione del lavoro, nella quale invece vive e si riproduce.
    La relazione dialettica, il rapporto politico – qui non si tratta di una questione di organizzazione o direzione diretta, ma appunto di un riferimento politico-strategico – che le BR anche in questi duri e difficili anni hanno tenacemente mantenuto con le istanze più mature dell’autonomia di classe derivano dalla valutazione della necessità e possibilità nel nostro paese non solo della tenuta e resistenza dell’attività della guerriglia, ma della possibilità di sviluppo, nel quadro di una destabilizzazione antimperialista della nostra regione geopolitica, del processo rivoluzionario per il potere.
    Questa è la prospettiva per i rivoluzionari, una prospettiva che ha basi ben solide sulle quali fondarsi.
    Chi parla oggi, a partire da un’analisi distorta, ipersoggettivista e di comodo, dell’odierna realtà operaia e proletaria, di pacificazione avvenuta, finge di ignorare che il grado di normalizzazione realizzato nel nostro paese ha i blindati dei carabinieri agli angoli delle strade. Rilanciare dal carcere come ex-rivoluzionari quest’idea di pacificazione significa lasciarsi strumentalizzare e mettersi contro la guerriglia e anche contro ogni situazione proletaria che cerchi di lottare e organizzarsi per rompere la normalizzazione e superare lo stato presente delle cose.
  1. Un’altra tendenza sostiene, con argomentazioni parzialmente contrastanti, la fine della strategia della guerriglia: sulla base dell’esaurimento non di un particolare strato di classe, bensì del ciclo di lotte operaie conclusosi nell’80 con quella che definiscono «svolta reazionaria». Ciò richiederebbe una revisione strategica che porti alla «riconversione della guerriglia» in un’attività esclusivamente politica, ossia disarmata, che vada incontro alle esigenze immediate delle masse per come si danno oggi e che contribuisca alla «rifondazione della sinistra». Fin dagli inizi abbiamo definito la lotta armata una strategia, contrapponendoci così con chi la concepiva esclusivamente come forma di lotta, vale a dire come uno strumento utilizzabile solo in certi momenti (ad esempio in una fase pre-insurrezionale) o in situazioni particolari (ad esempio come strumento di autodifesa o nel caso di un golpe fascista). Nasceva così una strategia rivoluzionaria basata sulla ricomposizione tra politico e militare e che rappresentava una rottura netta con i limiti storici che aveva espresso la strategia terzinternazionalista della rivoluzione nel centro imperialista.
    Fare proprio l’impianto guerrigliero non poteva però voler dire accettare un rapporto tra strategia e tattica in cui quest’ultima fosse l’articolazione diffusa della prima, mediata via via con il modificarsi progressivo dei rapporti di potere. In altre parole non poteva prevedere «basi rosse», «programmi immediati», ecc. In questo senso si può dire che la tattica della guerriglia nella metropoli si ha nei termini di articolazione dell’attività guerrigliera in dialettica con le iniziative della controrivoluzione. Questo perché la guerriglia risolve il problema del potere e oltretutto non di una forma qualsiasi di esso, bensì del potere politico – vale a dire lo Stato – affrontandolo in quanto tale, cioè laddove esso si esprime realmente e non nelle sue diverse articolazioni periferiche.
    Ben altra cosa, quindi, dall’essere portavoce armato dei diversi movimenti di massa, qualunque sia l’obiettivo economico o anche politico che essi si pongono. E si sa che in tempi di arretramento politico come quello iniziato nell’ottanta con la sconfitta alla Fiat i contenuti espressi dalla classe non possono che essere arretrati, di difesa di almeno una parte delle conquiste del ciclo di lotte precedente.
    La guerriglia, dunque, affronta il problema del rapporto con il proletariato a partire dalla strategia, in termini di adesione del proletariato all’obiettivo, al programma strategico; vale a dire che essa individua come referente il «proletariato rivoluzionario». Un problema che si è sempre riproposto consiste proprio nell’individuazione dei fattori e delle circostanze che rendono possibile la trasformazione in senso rivoluzionario del proletariato. Come ha scritto Marx «il proletariato o è rivoluzionario o non è». A partire dalla sua materiale collocazione nei rapporti di produzione, il soggetto rivoluzionario si determina innanzitutto in base all’atteggiamento nei confronti della rivoluzione.
    Questa concezione non rappresenta una scoperta di oggi; al contrario essa era ben presente nelle BR fin dalla loro origine e costituisce l’esito necessario a cui conduce la comprensione che un’organizzazione combattente comunista non può – né peraltro deve – avere una linea di massa, nel senso che a caratterizzare il suo programma è l’attacco al cuore dello Stato inteso come il progetto dominante che nella congiuntura oppone la borghesia al proletariato.

È concentrando la propria attività politico-militare sulle contraddizioni principali, infatti, che la guerriglia fa uscire, per così dire, allo scoperto il proprio referente «naturale»; dà forza a quanti si trovano in accordo politico con la guerriglia sulla necessità di considerare principali e fondamentali le contraddizioni che essa mette all’ordine del giorno sul piano internazionale e nazionale (oggi la tendenza alla guerra, l’attacco al cuore dello Stato, la costruzione del Fronte combattente antimperialista).

Nei confronti delle lotte economiche e delle rivendicazioni delle masse, l’atteggiamento della guerriglia non può essere quello di ricercare per esso le soluzioni particolari possibili (questo la classe già lo fa di per sé, mediante forme ed organizzazioni proprie), bensì quello di propagandare la necessità di combattere per la soluzione generale, per l’abbattimento dello Stato borghese e del dominio capitalista. In questo le BR agiscono da Partito, aprono il confronto con altri rivoluzionari combattenti per la costruzione del Partito comunista combattente.

Tutte le mediazioni che si esprimono invece all’interno della contrattazione del valore della forza-lavoro non usciranno mai dal riformismo finché non sarà affrontato e risolto il problema della rottura violenta della macchina burocratico-repressiva dello Stato borghese. Le BR muovendosi sul piano strategico della lotta armata lottano realmente anche per i bisogni contingenti delle masse nel momento e nella misura in cui lottano per rimuovere alla radice le condizioni di oppressione e sfruttamento. Altri terreni sono di competenza dei riformisti o di chi si illude di poter ridurre la complessità della rivoluzione nella metropoli ad una logica evoluzionista di lotte settoriali («pace e disarmo», «nucleare» e… «degrado ambientale»).

All’«andata alle masse» corrisponde il «ritorno nella sinistra» che costoro dovrebbero ora contribuire a rifondare in modo da fronteggiare uniti, in un unico «blocco storico», la cosiddetta svolta reazionaria.

Anche in questo caso si confonde la normale dinamica ciclica del capitale e quella parallela del movimento di classe con un qualcosa capace di determinare stravolgimenti radicali nella strategia dei rivoluzionari. Oppure, ma la sostanza non cambia, si ritiene che compito dell’avanguardia rivoluzionaria non sia quello di rappresentare e portare avanti, in qualsiasi situazione, gli interessi strategici del proletariato, ma quello di spostare progressivamente i rapporti di forza tra le classi attraverso il gioco politico sul terreno imposto dalla borghesia.

Già la penosa esperienza dei «gruppi» e partitini emmelle della sinistra extraparlamentare negli anni settanta, dopo quella del PCI, ci pareva avesse abbondantemente dimostrato l’incompatibilità di una simile strada con gli interessi della rivoluzione. Alcuni di questi gruppuscoli sono riusciti a sopravvivere fino ad oggi dopo aver trascorso nell’indifferenza generale e nel nullismo politico i diciassette anni che ci separano dalla nascita della guerriglia. Oggi con questi gruppi si propone la rifondazione della sinistra illudendosi di utilizzare e svendere l’esperienza rivoluzionaria fin qui accumulata dalle BR e da altre organizzazioni comuniste combattenti, riportandola all’interno di quella pseudo-sinistra dalla quale ci siamo staccati all’inizio degli anni settanta. Trascurano evidentemente, o forse non hanno mai capito, la natura della rottura storica che portò alla nascita di una strategia rivoluzionaria destinata a rappresentare un punto di non ritorno per chi voglia portare avanti concretamente gli interessi della rivoluzione nel mondo.

Ciò che il processo storico della lotta armata in Italia ha dimostrato concretamente tracciando nella lotta una netta linea di demarcazione tra rivoluzione e nemico, tra rivoluzionari e opportunisti, è la subordinazione della cosiddetta sinistra allo Stato imperialista.

Nei paesi del centro imperialista – compreso sicuramente il nostro – una posizione rivoluzionaria deve essere necessariamente internazionalista, antimperialista, schierata risolutamente con gli interessi del proletariato internazionale e dei popoli oppressi e sfruttati dal modo di produzione capitalistico alla periferia del sistema; solo a partire da questa condizione i comunisti possono costruire un rapporto dialettico col proletariato rivoluzionario del centro – un processo rivoluzionario.

 

Il compito dei comunisti, della guerriglia, di costruire a partire dal proprio programma questo collegamento strategico tra proletariato internazionale, popoli del Terzo Mondo e proletariato metropolitano è insostituibile, ineludibile, vitale.

Proprio su questo si rivela pienamente la natura reale della cosiddetta sinistra europea – che si polarizza intorno all’Internazionale socialista cui è ormai da tempo pienamente approdato il PCI -, sinistra che è materialmente interessata alla compartecipazione agli utili, alla spartizione dei profitti derivanti dallo sfruttamento imperialista sul proletariato internazionale, sui popoli della periferia. In quanto integrata nel sistema imperialista è interessata direttamente alla distruzione del proletariato come soggetto rivoluzionario e alla sua riduzione a «merce organizzata» di cui si propone come partito; e ancor più è evidentemente interessata alla distruzione delle lotte rivoluzionarie antimperialiste dei popoli della periferia.

Un discorso che non parta da questa chiarezza porterebbe fuori dalla prospettiva rivoluzionaria e finirebbe per rimanere a questa «sinistra» politicamente subordinato.

Per le BR il problema è sempre stato e rimane oggi la costruzione dell’alternativa strategica alla sinistra imperialista: la lotta armata per il comunismo, lo sviluppo della guerra di classe – unico ambito nel quale può realizzarsi l’indipendenza politica del proletariato metropolitano e il programma comunista.

Le BR non si nascondono le difficoltà nel portare avanti questa lotta nelle nuove condizioni. Consideriamo di grande importanza per lo scontro di classe la capacità di resistenza, di riproduzione, di radicamento dimostrata in questi anni di arretramento complessivo delle posizioni politiche del proletariato. L’aver tenuto aperto il combattimento sulle questioni centrali dello scontro di classe, l’aver ricostruito e radicato la struttura politica e organizzativa della guerriglia, è ciò che rivendichiamo come un successo politico decisivo.

La guerriglia è infatti elemento necessario, indispensabile, senza il quale perde di prospettiva antistatuale e rivoluzionaria ogni lotta radicale che si sviluppi nelle contraddizioni della materia sociale. In questo senso essa è vitale per l’insieme del movimento antagonista, per ogni espressione di autonomia proletaria che le contraddizioni del modo di produzione capitalista vanno producendo. Ciò anche indipendentemente dal grado di relazione che si vada determinando, nelle diverse congiunture storico-politiche, tra guerriglia e specifiche situazioni di lotta, e dal grado di comprensione che di questa funzione si possa dare in un determinato momento nella classe.

Diciassette anni di prassi rivoluzionaria in dialettica con le istanze più mature dell’autonomia di classe segnano una traccia profonda nella nostra società e costituiscono oggi una forza materiale del proletariato nella lotta per il potere. Si è formata in questi anni un’organizzazione che concentra un’esperienza di lotta politica clandestina e di combattimento ricchissima e preziosa.

L’azione di autofinanziamento realizzata a Roma in febbraio si inquadra proprio nella prospettiva di ripresa dell’offensiva guerrigliera e di rilancio del suo progetto politico.

Oggi, in collegamento con la lotta antimperialista del proletariato internazionale, sull’asse strategico dell’attacco al cuore dello Stato la nostra organizzazione lavora e combatte per la ripresa dell’offensiva rivoluzionaria contro lo Stato e la guerra imperialista mirando a rompere, nell’attacco alle politiche dominanti che nella congiuntura oppongono borghesia e proletariato, gli equilibri politici della borghesia imperialista e a renderne ingovernabili le contraddizioni; per la modificazione dei rapporti di forza, per assestarli in favore del campo proletario, affinché possano pesare nello scontro con lo Stato e dare propulsione alla guerra di classe di lunga durata per il potere.

In ciò la soggettività rivoluzionaria, l’intransigenza sugli obiettivi politici della lotta, la chiarezza sul ruolo della guerriglia nel centro imperialista sono un fattore che si dimostrerà decisivo.

Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente ci assumiamo la responsabilità storica e politica di tutta l’attività dell’organizzazione.

Rivendichiamo il suo programma, il suo progetto strategico, la sua linea politica e la prassi combattente. In essa ci riconosciamo.

Vogliamo ricordare Giacomo Cattaneo «Lupo», nostro vecchio compagno, morto quest’anno agli arresti nell’ospedale di Pavia, e il compagno Antonio Gustini «Andrea», caduto nel dicembre ’84 a Roma in un’azione della nostra organizzazione.

Con loro rendiamo onore a tutti i compagni caduti combattendo per il comunismo.

Attaccare il cuore dello Stato nelle sue politiche dominanti!

Rafforzare il campo proletario per attrezzarlo allo scontro con lo Stato!

Guerra alla NATO! Guerra all’imperialismo!

Promuovere e consolidare il Fronte combattente antimperialista!

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente

Piero Bassi, Cesare Di Lenardo, Franco Sincich

 

Cuneo, settembre 1987

Riaffermare i principi comunisti e gli insegnamenti della lotta rivoluzionaria. Roma, processo “BR-Insurrezione”. Dichiarazione di Vittorio Antonini allegata agli atti

  1. Si avvia ormai a conclusione il dibattimento di questo processo. Anch’esso, come del resto tutti i processi politici, è un piccolo capitolo della lotta tra le classi e come tale si inscrive nella dinamica politica generale che caratterizza oggi il nostro paese. La stessa natura antagonista della relazione esistente tra le due principali forze qui rappresentate (i comunisti combattenti da una parte, e lo Stato nel suo complesso dall’altra) non annulla certo la possibilità che ogni forza istituzionale interessata possa cercare di “giocarlo” in più direzioni per i propri fini politici contingenti, confidando ovviamente sulle innegabili e profonde divisioni esistenti tra gli “imputati” e, ancor più, sulla difficile situazione che oggi vive l’avanguardia combattente italiana.
    Ciò è quanto è avvenuto, ad esempio, nel periodo che va dal gennaio ’89 sino all’apertura del dibattimento. Un periodo nel quale alcune forze hanno tentato di sfruttare l’“anomalia” di questo procedimento per rafforzare la propria posizione nella lotta “interborghese” che si svolge attorno alla rimodellazione delle funzioni e del peso specifico del parlamento, dell’esecutivo e della magistratura in tutte le sue componenti.
    È questa a mio avviso la principale ragione per cui si è prodotta in quei mesi una bagarre giornalistica nella quale politologi, giuristi, uomini di partito e grandi firme “da un soldo la riga” sembravano gareggiare tra loro per un ipotetico trofeo del provincialismo italiano, non riuscendo ad elevarsi dall’assurda altalena tra le posizioni che temevano il riconoscimento del carattere politico dell’attività delle BR e quelle che rilevavano la possibilità di un doppio giudizio e una doppia condanna per gli imputati.
    La banalità di simili posizioni, le quali solo momentaneamente sono costrette al silenzio, fa da cornice al loro contenuto anticomunista. La prima sembra non rendersi conto che la legittimità dell’attività teorica e politica dei comunisti deriva da un oggettivo processo di sviluppo economico e sociale entro il quale sono venuti maturando, assieme alle due classi fondamentali della società capitalistica, quei loro interessi universali e storici per affermare o difendere i quali sono portate inevitabilmente a combattersi con ogni mezzo a seconda delle fasi. Si vorrebbe così mistificare il fatto che il grado di consenso attivo e/o passivo che l’attività dei comunisti riscuote dalle masse è cosa certamente mutevole ma che non inficia assolutamente la necessità storica della loro consapevole presenza nella lotta politica tra le classi, neanche quando la trasposizione formale degli interessi storici del proletariato, il Partito, vive ancora allo stadio di progetto o di piccola organizzazione e non può obiettivamente essere riconosciuto dalle larghe masse come il loro più valido rappresentante e la loro guida migliore nella lotta contro lo Stato.
    Ancor più grossolana è invece la mistificazione di chi sostiene l’altra posizione. Costoro, i quali amano definirsi di sinistra, oltre ad ammettere implicitamente la legittimità della “prima condanna”, fingono di ignorare le vere finalità di quelle particolari caratteristiche procedurali e sostanziali assunte dal “diritto” in Italia nel corso della lotta di classe degli ultimi 20 anni, anche grazie al loro contributo di servi sciocchi. Una tale ipocrisia non è però in grado di cancellare l’evidenza del fatto che l’ibrido mix di “premialità e durezza” applicato in campo giuridico e penitenziario ha concorso e concorre, insieme ad altri strumenti e metodi squisitamente politici ed ideologici, al permanente tentativo di isolare e reprimere i comunisti combattenti, di contenere l’estensione del movimento rivoluzionario ed in particolare della sua parte che si attesta sul terreno della lotta armata, e di prevenire al contempo l’affermazione nelle lotte di massa delle proposte politiche contingenti dei comunisti combattenti.
    In contrasto con le due tesi reazionarie sopra esposte, abbiamo visto scendere in campo la Procura Generale con una altrettanto reazionaria difesa delle ragioni che presiedevano all’istruttoria e al rinvio a giudizio. Una difesa che, in verità, oltre a manifestare l’anticomunismo “strutturale” della Procura, è stata di basso profilo anche dal punto di vista borghese, al punto che non è riuscita neanche a focalizzare le reali motivazioni del conflitto istituzionale apertosi in questi ultimi anni tra l’esecutivo e la magistratura nel suo complesso, riducendosi in tal modo alla difesa di interessi prettamente corporativi di una sua parte.
    Dal canto suo la Corte si è fatta sostanzialmente “conciliatrice” tra queste opposte tendenze in almeno due occasioni.
    La prima quando ha rinunciato (per lo meno finora) all’uso strumentale di ingenue richieste di annullamento o di convocazione di “illustri” testimoni; richieste che, se accolte, avrebbero forse danneggiato i titolari dell’istruttoria, ma nello stesso tempo avrebbero permesso al “Potere Giudiziario” nel suo complesso di richiamare il ceto politico alla assunzione pubblica delle proprie responsabilità sul modo in cui è stata condotta negli ultimi anni la cosiddetta “lotta al terrorismo”, vale a dire l’attività controrivoluzionaria degli organi repressivi dello Stato. Esso avrebbe potuto così inficiare la tenuta di quella cornice ideologica del “superamento dell’emergenza” dietro la quale procede, per opera delle più reazionarie forze parlamentari/governative, il costante logoramento di alcune delle (altrettanto reazionarie) prerogative costituzionali della magistratura. Tanto più queste ingenuità erano strumentalizzabili nell’immediato, se solo si considera la diatriba interborghese che proprio in questi ultimi mesi vede le più importanti componenti della magistratura opporsi alla traduzione pratica di alcuni aspetti della legge di riforma della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Una disputa nella quale si è ormai arrivati a sancire formalmente, per la prima volta in 40 anni, un vero e proprio “conflitto di competenze” tra il Parlamento e l’esecutivo uniti da una parte, e la Corte dei Conti e quella Costituzionale dall’altra.
    Certamente è vero che per un marxista le motivazioni di base delle varie richieste erano alquanto risibili, visto che in esse vi era una manifesta incomprensione del significato storico e politico obiettivamente assunto dalla lotta armata delle BR nei suoi primi 10 anni di vita, e, inoltre, vi si rappresentavano alcune sfere delle relazioni conflittuali tra gli uomini come un prodotto delle loro stesse leggi e dei loro codici. Ma è però anche vero che una Corte di Assise di uno Stato borghese non è strutturalmente idonea per valutare le istanze sotto questo profilo, limitandosi invece ad apprezzarne o meno l’utilità pratica che possono avere in quel momento se giocate come “strumento di pressione”, piccolo “ricatto”, “moneta di scambio” e così via.
    Ed è questo in fondo il ragionamento che, sull’altro versante, ha guidato la Corte anche nella seconda occasione in cui si è fatta mediatrice fra opposte tendenze, ossia quando ha sfacciatamente ignorato persino quella sponda istituzionale offertale (con l’obiettivo di fare annullare o sospendere il processo) dalla falsa ingenuità con la quale Imposimato ha “svelato” pubblicamente alcune delle vere ragioni che presiedevano all’istruttoria.
    Ma, ovviamente, anche la libertà di parola e di manovra delle varie posizioni borghesi ha un limite politico, ed esso ancora una volta è costituito dal pericolo che il loro frenetico sovrapporsi faciliti in definitiva sul piano “propagandistico” i comunisti combattenti, visto che a tutt’oggi sono ancora pochi e labili gli elementi sui quali poggia la speranza della borghesia che essi non sappiano ricercare e trovare la strada giusta per occupare di nuovo con intelligenza il centro dell’arena politica nazionale.
    È questo in verità uno dei principali “timori” che oggi accomuna le forze istituzionali, tutte ormai abbastanza consapevoli delle ragioni che stanno alla base del ciclico riemergere di ampi movimenti di classe in opposizione ad alcuni elementi programmatici, di ordine interno o internazionale, di fondamentale importanza per i governi in carica e per la “tenuta generale” dell’imperialismo italiano nello scenario mondiale. Questo timore è quindi a tutti gli effetti il dato politico principale che ha posto un limite alla polemica pubblica interborghese sul processo “BR-insurrezione”.
    Mi sembra perciò giusto riassumere queste osservazioni rilevando che il punto di equilibrio, finora stabilito tra le forze borghesi interessate al processo, consiste nel classico velo pietoso con il quale è stato pressoché coperta sul piano pubblico, e in una gestione particolarmente addomesticata dei vari traditori e dissociati, una gestione che lascia trasparire la volontà di una generale assoluzione. È il rispetto verso questo equilibrio che, almeno per il momento, “obbliga” i rappresentanti delle tendenze sopra esposte a non azzardarsi a menzionare il processo neanche in quelle occasioni in cui tutti assieme si ritrovano a discutere pubblicamente, davanti a milioni di persone e con insolita franchezza, sul modo migliore di usare in funzione “preventiva”, ovvero anticomunista, l’opportunismo di alcuni prigionieri politici.
    Ma se è giusto ed utile analizzare le posizioni, le contraddizioni e le manovre delle varie forze in campo anche in queste piccole battaglie che sono i processi, ponendosi così in condizione di valutare o addirittura “anticipare praticamente” le possibili mosse future dell’avversario di classe e dei suoi coscienti o incoscienti alleati, ciò che più conta è però ribadire per l’ennesima volta quel rifiuto della qualifica di “imputati” che per noi si esprime in termini molto semplici: la lotta di classe non si processa! Vale a dire che non si è mai data nella storia la possibilità di regolamentare gli obiettivi, gli strumenti e i metodi della lotta tra le classi e tra gli Stati su di un terreno prettamente giuridico.
    Dacché si formarono le società classiste, sempre e dovunque le norme di ordine giuridico son dovute prima o poi “saltare” dinanzi al fatto che i modi in cui gli uomini producono e riproducono quotidianamente le condizioni della loro esistenza fisica e spirituale hanno creato la necessità, per le classi dominate, di ricercare e trovare nella stessa realtà sociale complessiva tutti gli elementi, pratici e teorici, sviluppando i quali si rende possibile la consapevole organizzazione e dislocazione delle forze nella lotta che ha per oggetto la conquista di una parte o di tutto il potere politico. Sono sempre stati gli esiti di queste lotte di classe a determinare il carattere del “diritto” da tutelare e mai è accaduto o potrà avvenire il contrario.
    Nello stesso tempo questa semplice verità, oggi rilevabile ad occhio nudo da ogni persona di buon senso che abbia un minimo di conoscenza della storia, permette inoltre di capire come le stesse modifiche parziali, che periodicamente investono la procedura giuridica e/o la relazione tra reati e pena – “piegandole” in un senso o nell’altro ma senza per questo modificarne il carattere di fondo – siano anch’esse dovunque e sempre un riflesso attivo dello sviluppo economico e sociale e della lotta tra le classi e tra frazioni di classe che in esso si svolge.
    Quest’ultima è la ragione per cui ogni forza politica non può considerarsi neutrale o indifferente davanti a queste pur limitate trasformazioni, ed è perciò oltremodo indispensabile che i comunisti si adoperino per comprenderle e per chiarire alle masse le loro reali cause congiunturali. Tanto più ciò è necessario quando esse risiedono in primo luogo non già nella mobilitazione popolare, bensì nel temporaneo acuirsi delle contraddizioni esistenti fra le tre componenti principali dell’organizzazione statale complessiva; componenti le quali – come dovrebbe esser noto a chi si professa rivoluzionario – nei paesi imperialisti hanno ormai tutte una natura antiproletaria e una funzione reazionaria.
    Di conseguenza, soltanto criticando l’illusione di un’impossibile “neutralità” e condannando risolutamente la pratica dilettantesca dell’empirismo gruppettaro si può evitare, nelle piccole come nelle grandi battaglie, di farsi “portatori di acqua” al mulino di questa o quella componente reazionaria dell’apparato statale.
    Ciò è quanto, ad esempio, è oggi necessario fare anche nel nostro paese, là dove già esistono a mio avviso le condizioni affinché sia possibile ai comunisti combattenti di:
    – lottare contro il graduale ma costante processo di riforma istituzionale, ed in particolare contro i suoi aspetti più marcatamente antiproletari;
    – contribuire all’elevazione della coscienza politica della classe anche attraverso la costante opera di demistificazione del “feticcio” della legge;
    – educare le avanguardie rivoluzionarie e le masse lavoratrici nell’utilizzo consapevole di tutti i momentanei conflitti di ordine istituzionale che emergono nel campo nemico per avvantaggiare la propria lotta anticapitalistica, tanto nelle fasi di ascesa, quanto e soprattutto in quelle, inevitabili, di ripiegamento generale del movimento di classe e di riorganizzazione delle fila rivoluzionarie.
    In questo lavoro di “educazione” è ovviamente necessario non farsi e non ingenerare illusioni di sorta, poiché è stato più volte dimostrato che le “aperture” derivanti da una lotta prevalentemente interborghese hanno sempre una impostazione “a doppio taglio” ed un carattere estremamente effimero. Non per caso, ad esempio, esse oggi acquistano obiettivamente anche la particolare funzione di “coprire” ideologicamente, sul piano propagandistico, le continue piccole ondate repressive contro alcune istanze del movimento rivoluzionario legale e la progressiva limitazione dei più importanti strumenti e metodi di lotta e di organizzazione legali delle masse, ovvero esse coprono due aspetti molto “concreti” dell’attività antiproletaria e controrivoluzionaria dello Stato.
    In altre parole si può dire che la capacità dei comunisti di giocare a tutto campo anche sulle spinose questioni del “diritto” (con tutte le sue implicazioni) è l’esatta negazione di quella politica del minimo sforzo che è tipica sia dell’empirismo del PCI e di D.P., sia di quello “estremista” dei vari gruppi di prigionieri che hanno affidato alla “cessazione della lotta armata” il loro pur comprensibile desiderio di uscire dalla galera. Non per caso sia gli uni che gli altri vengono regolarmente usati (in misura e con forme non raffrontabili poiché diverso è il loro peso politico generale) da questa o quella forza dirigente dell’apparato statale, e in cambio ne ricevono a loro volta più o meno l’identico sostegno che una corda fornisce a un impiccato, con tanti saluti alla “buona fede” di singoli soggetti.
    Riassumendo si può affermare che il dato obiettivo da cui possono muovere i marxisti, anche in questa materia, consiste allora nel fatto che la situazione economica generale, e le lotte di classe che su di essa si sviluppano, fanno sì che tutte le espressioni istituzionali delle varie frazioni borghesi non possano assolutamente sottrarsi al coacervo di contraddizioni entro il quale devono oggi operare. Esse ad ogni passo finiscono così per facilitare, malgrado la loro intelligenza e “furbizia”, le possibilità affinché i comunisti combattenti approfittino della situazione per stabilire una linea di condotta adeguata ad indebolire l’egemonia politica e ideologica della borghesia sulle masse, accrescendo invece la propria influenza e la propria autorevolezza rivoluzionaria nella società.
    Una “piccola tattica” specifica di ordine politico/militare, insomma, che sappia far valere con intelligenza gli interessi generali contingenti del proletariato anche su queste particolari questioni che possiedono un indubbio valore generale, rafforzando in tal modo quel filo ideale e politico/programmatico che unisce obiettivamente la giusta operazione compiuta dalle BR contro il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura (pochi giorni dopo l’approvazione definitiva della “Legge Cossiga”) a quelle compiute contro Gino Giugni e Roberto Ruffilli.
    O non è forse vero, egregi rappresentanti di tutte le frazioni borghesi, che quelle operazioni possono a ragione definirsi come una delle manifestazioni più importanti della lotta condotta dai comunisti, nelle varie congiunture politiche, contro gli aspetti più marcatamente antiproletari e controrivoluzionari di quelle quattro materie che il vostro feticismo rappresenta come “fonti del diritto”?
  1. L’altra importante questione da rilevare in questa sede riguarda i reati contestati. È infatti noto che l’affannosa ricerca di un movente giuridicamente valido per tenere in galera i militanti comunisti ha spinto la Procura, con l’avallo di tutte le principali forze parlamentari, ad istruire un procedimento nel quale per la prima volta non ci vengono contestati gli aspetti specifici dell’attività organizzativa e combattente svolta come militanti delle BR.
    Ciò per cui dovremmo sentirci “imputati” in questa occasione non sono perciò alcuni degli elementi attraverso i quali la strategia e le tattiche delle BR acquistavano una loro particolare fisionomia e un loro peso specifico, bensì è addirittura la nostra assunzione di alcuni principi fondamentali del marxismo. Vale a dire di quegli strumenti di guida, certo di per sé non sufficienti per svolgere una funzione di avanguardia, ma negando o svilendo i quali un’organizzazione comunista termina di essere tale e può tutt’al più operare come un’informe associazione di onesti rivoluzionari assolutamente inadeguata per dirigere il processo rivoluzionario nei paesi imperialisti.
    Si è avuta insomma la presunzione di giudicare in un’aula di tribunale il fatto che il migliore frutto del proletariato italiano, la più importante esperienza comunista sorta nel nostro paese in quest’ultimo dopoguerra, abbia lavorato e continui a lavorare per organizzare, dislocare e dirigere le avanguardie rivoluzionarie e le masse lavoratrici verso la conquista del potere politico, la demolizione dell’organizzazione statale borghese e l’instaurazione della dittatura del proletariato, e cioè della forma più alta ed estesa che può assumere obiettivamente la democrazia in una società divisa in classi, l’unica nella quale la ricomposizione del potere legislativo ed esecutivo diverrà una caratteristica dell’“autogoverno dei produttori”.
    L’accusa di insurrezione e guerra civile non sono forse riferite ai “passaggi” che la storia ha reso necessari per cogliere questi obiettivi, peraltro transitori rispetto ai fini dei comunisti?
    Ebbene, con la stessa consapevolezza con la quale si riconosce l’impossibilità di regolamentare in una dimensione prettamente giuridica la lotta politica tra le classi, e lasciando quindi alla Corte il piacere di dondolarsi nella contraddizione tra lo spirito e la lettera dei codici, i comunisti devono oggi riconfermare dinanzi al proletariato di aver lavorato e di continuare a lavorare in quella direzione.
    Forti dell’esperienza fino ad oggi compiuta dal movimento operaio internazionale va sostenuto, senza alcuna esitazione, che lo sciopero politico di massa, la guerra di guerriglia, l’insurrezione generale armata e la guerra civile dispiegata costituiscono altrettanti aspetti di quell’azione di massa che è stata e rimane su scala mondiale il più importante metodo di lotta del proletariato contro l’organizzazione statale borghese.
    Rigettando tutte le visioni apologetiche dello sviluppo capitalistico, che sono uno dei presupposti ideologici delle forze revisioniste occidentali, va inoltre ribadito che ancora oggi gli aspetti suddetti sono nello stesso tempo fasi distinte del «sistema completo di azioni che si sviluppano e si inaspriscono» che dal 1871 caratterizza il processo storico unitario della rivoluzione proletaria e di quella anticolonialista e antimperialista. Un processo guidato da leggi generali di valore universale le quali trovano, necessariamente, delle modalità di affermazione peculiari a seconda delle condizioni economico/sociali e statuali che sono proprie di ogni area e di ogni paese.
    Sono tali peculiarità, infine, a concorrere in misura decisiva (ancor più dell’attività dei comunisti e dei rivoluzionari, la cui importanza è comunque fuori discussione) ad imprimere un oggettivo ordine temporale a questi metodi di lotta delle masse e a determinare le forme delle loro necessarie combinazioni. Perù, Salvador, Filippine e Cile; Brasile, Messico, Corea del Sud, Venezuela e Tunisia; Sud Africa, Paesi Baschi, Irlanda, Palestina e Libano; Grecia, Turchia, Italia, Spagna, Francia, Germania Occidentale e Belgio: sono questi soltanto alcuni degli esempi concreti e contemporanei, di natura e con caratteristiche e forme di “combinazione” senz’altro diverse, che rendono ridicola tanto la loro rappresentazione come “effetti del malgoverno”, quanto lo svilimento opportunista di tali presunti “vecchi” concetti della scienza marxista.
    Merito indiscusso della lotta armata condotta dalle BR nei primi anni di vita è stato appunto quello di intrecciarsi, di “fondersi fino a un certo punto” con l’azione di massa delle più importanti realtà operaie del Nord del paese.
    Così operando esse dimostrarono, in una certa misura, che la possibilità di una “nuova” configurazione dell’attività comunista non era invenzione di qualche sistematico da tavolino ma risultava invece come “necessaria” e ormai inderogabile per chiunque non volesse “cancellare” alcuni elementi fondamentali del programma comunista (i principi). Ciò ha permesso alle migliori avanguardie rivoluzionarie di iniziare a guardare con fiducia oltre il muro del riformismo parlamentare e dell’insufficiente e avventurista opposizione dei gruppi extraparlamentari legali.
    Si estese quindi in tal modo la coscienza della necessità di attrezzarsi adeguatamente per affrontare con successo il problema fondamentale di ogni processo rivoluzionario – la questione del potere politico – lavorando da subito alla costituzione del “partito armato del proletariato”, ovvero del solo organo che nei paesi imperialisti può essere al tempo stesso espressione e garanzia reale della riconquistata indipendenza politica del proletariato.
    Questa iniziale opera di centralizzazione, unita alla maggior consapevolezza delle leggi oggettive che governano la lotta tra le classi in un paese imperialista investito dalla crisi economica e politico/militare di ordine internazionale, ha in seguito permesso alle BR di “occupare” progressivamente il centro dell’arena politica nazionale intervenendo sui più importanti terreni di lotta che vedevano contrapposti il proletariato e le frazioni dirigenti della borghesia.
    Di conseguenza, divenendo una componente attiva del continuo mutamento dei rapporti di forza politici, l’attività politico/militare dei comunisti ha costituito e costituisce un’indispensabile forza propulsiva per quei movimenti di massa che ciclicamente, per lo meno dal 1967/68 – nel mentre riconfermano nei fatti che il centro di gravità della lotta proletaria è e non può che essere extraparlamentare – rimettono con ciò stesso in discussione alcuni tratti fondamentali dell’ordinamento politico del paese, evidenziandone la sostanziale inadeguatezza di fronte alle più importanti istanze generali di cui sono portatori.
    Un’oggettiva funzione di “forza propulsiva” che sarebbe il caso di non sottovalutare mai, magari per amore di un malinteso senso della pur necessaria critica politica, visto che il combattimento su alcune importanti questioni generali ha avuto e ancora possiede un enorme valore politico pratico anche nei periodi più o meno lunghi di ripiegamento dei movimenti di massa generali e di riorganizzazione delle fila comuniste. Esso infatti contribuisce per lo meno a rallentare (se non proprio a fermare o addirittura invertire) quella disgregazione della avanguardie di lotta e delle istanze rivoluzionarie che si determina inevitabilmente in questi intervalli di tempo. Vale a dire quando non esistono, e non si possono inventare, le condizioni oggettive e/o soggettive che facilitano la generalizzazione delle parole d’ordine più “risolute” e delle forme di lotta e d’organizzazione proletarie più idonee al perseguimento degli obiettivi politici contingenti, da un lato, e il “rinfoltimento” e la stabilizzazione del variegato tessuto delle avanguardie di lotta e di quelle rivoluzionarie, dall’altro.
    In definitiva credo si può serenamente affermare che, dall’iniziale stadio in cui essa operava oggettivamente come uno degli elementi interni e d’avanguardia del “sistema completo di azioni” che sempre caratterizza la lotta di massa, l’attività delle BR si è via via trasformata qualitativamente ed ha svolto, nei fatti, un ruolo di direzione politica su migliaia di avanguardie. Nello stesso tempo essa ha avuto, indirettamente, anche una funzione di orientamento generale, di “sostegno dall’alto” delle più importanti lotte proletarie, arrivando persino a sfidare con ottimi risultati l’egemonia del più forte partito revisionista dell’occidente.
    Questa attività soggettiva si è posta quindi “storicamente all’avanguardia” nella costituzione del Partito, contribuendo anch’essa in una certa misura a riaprire e mantenere aperte – pur in assenza di condizioni generali rivoluzionarie – la via della partecipazione diretta delle masse lavoratrici alla lotta per il potere. Quella stessa strada che era stata chiusa vittoriosamente dalla borghesia dopo la fase oggettivamente rivoluzionaria che il nostro paese ha vissuto per almeno due anni a partire dal luglio del 1943.
    Qualunque seria valutazione dell’esperienza fin qui accumulata (anche negli ultimi sette anni) nel costante tentativo di essere teoricamente, politicamente e militarmente all’altezza di questa funzione d’avanguardia, permette a mio avviso di qualificarla come un contributo insostituibile, in Italia e in alcuni paesi europei, per arrivare alla rigorosa definizione di una seria strategia sulla cui base unire i comunisti combattenti.
  1. Credo sia inoltre giusto rilevare come, in modo “trasversale”, si vorrebbero qui giudicare e ammonire anche i “propositi rivoluzionari” dei più seri gruppi e collettivi che possiedono una chiara natura proletaria e una netta collocazione “extraparlamentare”. Mi riferisco in particolare a quelli che, sebbene persistano nel grave errore di non saper riconoscere e apprezzare le caratteristiche del corso storico concreto della lotta di classe che hanno reso necessaria e possibile già oggi la lotta armata nei paesi imperialisti europei, dimostrano però in vario modo di non fare spallucce dinanzi alla necessità di impadronirsi della scienza marxista e lavorano quotidianamente in alcune realtà di classe del paese.
    Anche queste avanguardie di lotta sono perciò idealmente e “strategicamente” chiamate in causa dalle “imputazioni” di questo processo. E per quanto grande sia la distanza tra loro e i comunisti combattenti su tutte le più importanti questioni teoriche e politico-pratiche, esse hanno oggi l’occasione per dimostrare la loro coerenza con quella posizione di principio che giustamente afferma: la lotta di classe non si processa!
    Nelle particolari circostanze del nostro paese, dove processati per “insurrezione e guerra civile” sono e non per caso i comunisti combattenti, mi sembra lecito ritenere che la coerenza anzitutto consista nel riconoscere responsabilmente che l’attività ancora oggi svolta dalle BR e dai comunisti combattenti è, per lo meno, un tentativo “storicamente legittimo” di applicazione dei principi marxisti all’impianto teorico/strategico e alla pratica politica dei comunisti contemporanei.
    Soltanto operando sulla via di questo pur timido riconoscimento esse potranno a mio avviso:
    – rifiutare qualsivoglia banalizzazione della storia che è implicita nell’ovvia constatazione che “in Italia non vi è stata l’insurrezione e la guerra civile”, poiché non è questa la ragione politica per cui è stato istruito il processo e, soprattutto, non è con simili banalità che si può contribuire ad un serio bilancio di questi 19 anni di lotta armata che ci permetta di far tesoro dei suoi insegnamenti fondamentali;
    – rifiutare l’errata posizione del “tanto peggio tanto meglio” sui problemi inerenti agli aspetti giuridico/repressivi della controrivoluzione, evitando al contempo di abbandonarsi a quelle sterili lamentele sulla “criminalizzazione preventiva di future insorgenze sociali”, che se possono forse tornare utili per denunciare pubblicamente alcune proposte di legge sulla tossicodipendenza, non si addicono però in questa circostanza a dei militanti che dovrebbero essere consapevoli della natura e delle caratteristiche di quello Stato che si propongono di “spezzare”.
    E infine, potranno così tentare di riaffermare con intelligenza il diritto/dovere, “la legittimità storico/politica” dei comunisti di elaborare e perseguire strategie e tattiche finalizzate non già all’acefala difesa dell’ordinamento repubblicano di un paese imperialista, ma alla conquista del potere e all’instaurazione della dittatura del proletariato: vale a dire i “presupposti” senza i quali parlare di Socialismo è soltanto un inganno verso i lavoratori.
    Le forme più idonee per affermare almeno la loro “progressiva coerenza” con un così importante contenuto sono un problema la cui soluzione spetta ovviamente a queste avanguardie di lotta, ed è fuor di dubbio che una tale “ricerca” richiede un tempo di maturazione che va ben oltre la durata di questo processo. Ciò non è di per sé un fatto negativo poiché è noto che la faciloneria dell’apriorismo e/o la praticoneria spicciola non sono ostacoli rimuovibili dall’oggi al domani.
    Ancor più difficile apparirà questo lavoro di “rimozione” se consideriamo che tali gruppi e collettivi, nella maggioranza dei casi, non sono affatto “arbitrari”. Le principali (ma non uniche) ragioni della loro riproduzione, più o meno estesa, risiedono, infatti, da un lato, nella particolare composizione e “mobilità” di ieri e di oggi del proletariato e della piccola borghesia urbana e rurale di questo paese, e, dall’altro, nelle specifiche modalità con le quali si è svolta in Italia la lotta teorica e politica interna al movimento comunista internazionale in tutto il secondo dopoguerra. Queste ragioni si “intrecciano” ovviamente anche con la lotta di classe di questi ultimi 20 anni; e se è vero che non devono essere assolutizzate, è però altrettanto vero che non si possono “ignorare” con mal celata sufficienza.
    Quel che può invece essere utile ricordare per i militanti di questi gruppi e collettivi è che questa “piccola” faccenda del diritto/dovere, la quale viene in genere classificata dall’opportunismo di destra e di sinistra come prettamente “ideologistica” e ininfluente sul piano politico-pratico, ha rappresentato nella storia uno dei problemi più importanti nelle vicende del movimento operaio di tutti i paesi. Un vero e proprio “scoglio” sul quale, tanto per fare esempi a noi vicinissimi, si infransero dapprima il PCI e in seguito la maggioranza dei gruppi extraparlamentari legali, compresi quelli che avevano migliaia di militanti, decine di migliaia di simpatizzanti, i propri quotidiani, le riviste e persino l’entrismo organizzato nei giornali e partiti borghesi, nella magistratura, negli ambienti dell’arte, della cultura, ecc. ecc.
    Del resto credo sia ormai pacifico per tutti i rivoluzionari maggiorenni che fu anche da questa incapacità di doppiare positivamente lo “scoglio”, o meglio di tirare tutte le dovute conseguenze da questo passaggio difficile ma necessario, che derivò in larga misura quella progressiva involuzione programmatica, teorico/strategica e politico/pratica che è ampiamente documentabile sotto ogni profilo. Una costante “svolta reazionaria” che portò le forze suddette, in tempi e con pesi e conseguenze senz’altro diversi, nelle fila “di sinistra” della borghesia, stabilendo in tal modo anch’esse una continuità con il trasformismo “di gruppo” e “molecolare” che sono aspetti fra i più squallidi della storia politica italiana da oltre un secolo.
    Il “passaggio” di cui si parla è quindi inerente all’impianto generale adeguato a perseguire nei paesi imperialisti il programma comunista. Esso ha perciò ben poco a che vedere con l’espressione “radicale” del “desiderio soggettivo di rivolta”, ed ogni sua approfondita valutazione sotto il profilo logico e storico obbliga a mio avviso i comunisti ad assumere già da oggi la lotta armata come “necessaria”, e quindi ineludibile, per assolvere alla loro funzione di direzione in tutte le fasi del processo di organizzazione e dislocazione delle avanguardie rivoluzionarie e delle masse lavoratrici verso la conquista del potere.
    Ma naturalmente per nessuno è lecito farsi illusioni.
    L’ascesa di questi gruppi e collettivi verso un’adeguata concezione della strategia e della tattica in un paese imperialista non dipende certo soltanto dalla loro “buona volontà”, ed è quindi necessario che i comunisti combattenti proseguano nella argomentata polemica teorica e politica contro di essi: vale a dire contro il prevalere nelle loro istanze dirigenti di quell’eclettismo che sempre scaturisce dalla cattiva assimilazione e applicazione dei principi marxisti, e che in molte, troppe occasioni ha una ricaduta politico-pratica che li colloca obiettivamente come piccole sponde di sinistra delle due forze revisioniste parlamentari, con evidente discapito per quell’autonomia di classe a cui pure formalmente si richiamano.
    Oggi come ieri sarà il rigore di questa lunga e inevitabile battaglia che faciliterà, ad esempio, la messa al bando di quella tesi opportunista di stampo metafisico che vorrebbe far apparire come antagoniste le funzioni che svolge nel processo rivoluzionario l’azione di massa e quelle di direzione programmatica, strategica e tattica che l’attività dei comunisti combattenti può, deve e vuole esercitare sulle avanguardie rivoluzionarie e su quel “sistema completo di azioni” che è prodotto dalla lotta di massa ed è, ovviamente, una delle sedi “naturali” di lavoro quotidiano dei comunisti e dei rivoluzionari. Una tesi che è una vergognosa falsificazione di cui va lasciato l’onere ai più incapaci tra i dirigenti gruppettari di ieri e di oggi.
    Sarà infine anche grazie a questa battaglia, la quale oggi come ieri nei suoi aspetti politici e programmatici è sostanzialmente una battaglia contro l’avventurismo, che si potrà rompere quello spirito da “cristiani per il socialismo” che predomina in questi gruppi e collettivi sulla “questione dei prigionieri politici”, e dietro il quale convivono tranquillamente tanto l’ingenuità e la buona fede quanto l’opportunismo individuale.
    Si potrà così agevolare la formazione di nuovi militanti rivoluzionari, che siano in grado tra l’altro di affrontare il problema della “libertà per i comunisti” con le modalità e i tempi necessari, senza prestarsi al gioco di chi avanza la scellerata proposta di un compromesso che in questa fase storica nei paesi imperialisti è assolutamente inaccettabile, sia per le forze comuniste combattenti che per quei rivoluzionari realmente consapevoli della natura reazionaria dei processi in atto nel mondo capitalistico.
    Deve essere quindi chiaro per tutti il fatto che, in questa fase storica, nei paesi imperialisti, rinunciare alla lotta armata condotta dai comunisti anche in condizioni generali che non sono quelle di “guerra tra le classi”, vuol dire né più né meno che abbandonare una delle più importanti e fondamentali conquiste ottenute negli ultimi 26 anni dal lavoro di riadeguamento generale della politica rivoluzionaria svolto dai comunisti di tutto il mondo.
    Una rinuncia che è quindi inaccettabile poiché conduce ad una sicura, obbligata regressione di ordine teorico e programmatico che cancellerebbe via via anche solo il ricordo di quegli interessi universali e storici del proletariato. Ciò di cui abbiamo appunto tanti, troppi esempi anche nella storia italiana di questo secolo e che non può essere assolutamente attribuito all’“infedeltà” o alla “furbizia doppiogiochista” dei vari gruppi dirigenti del movimento operaio.
    Ritengo sia infine doveroso classificare come un mix di ridicolo e di volgarità gruppettara le posizioni di quanti, in vario modo, si richiamano alla “ritirata strategica” per incorniciare le loro prosaiche scelte di “desistenza”.
    Il dibattito e l’attività combattente di questi 7 anni attestano la falsità di costoro e dimostrano invece che la ritirata strategica fu la più responsabile tra le scelte all’epoca possibili: l’inizio di una lunga e complicata manovra di ripiegamento che permettesse ai comunisti combattenti di affrontare progressivamente tutti quei necessari passaggi di rettifica inerenti all’impianto generale che soli potevano permettere di difendere, consolidare e, in prospettiva, estendere la loro influenza nella classe e nell’intera società.
    A mio avviso persistono tuttora le principali caratteristiche della situazione generale che la rese necessaria, soprattutto per quel che attiene allo stato dell’avanguardia comunista e del movimento rivoluzionario. L’indispensabile lavoro “preliminare” della ricostituzione delle fila dei comunisti combattenti, un lavoro per forza di cose “controcorrente”, rimarrà quindi a mio avviso ancora per anni il compito principale da assolvere. L’espressione teorica e politico/militare dei passi in avanti che i comunisti riusciranno a compiere nel corso di questo lavoro sarà ancora una volta la migliore risposta ai sogni di vittoria dello Stato.

Vittorio Antonini

Roma, 18 maggio 1989

Costruire i termini attuali della guerra di classe. Roma, Aula bunker Rebibbia – Processo insurrezione – Documento dei militanti delle BR-PCC Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo, Antonino Fosso, Flavio Lori allegato al processo

Come militanti delle Brigate Rosse abbiamo revocato i difensori non solo perché rifiutiamo il ruolo di imputati e non riconosciamo a questo tribunale, a questa “giustizia” che è espressione e garante del potere borghese alcuna legittimità, ma più specificamente non intendiamo essere partecipi dell’apoteosi della farsa che in specie questo processo celebra, perché è una “farsa” che è in realtà un vero e proprio atto politico di attacco alla nostra organizzazione, alle Brigate Rosse, a vent’anni di prassi combattente per il comunismo che rivendichiamo per intero nella sua attualità, e perciò ancora una volta affermiamo che solo l’organizzazione ha la legittimità storica e politica per prendere la parola sul carattere odierno dello scontro di classe sia politico che rivoluzionario, in quanto le Brigate Rosse di questo scontro sono parte attiva e direzione rivoluzionaria. Lasciamo alla “critica impietosa della storia” la collaborazione che ex militanti rivoluzionari offrono a questo attacco con il triste spettacolo di pornografia politica di chi mendica allo Stato, come squallidi mercanti intenti a litigarsi la improbabile “pelle dell’orso”; sono la prassi e la realtà concreta a stabilire il giusto primato, perciò chiariamo anche che le Brigate Rosse non hanno mai richiesto alcun “riconoscimento politico” allo Stato: – “una banda di comuni criminali” – è in questa definizione data dal pubblico ministero di questo processo, improntata alla migliore tradizione dell’“achtung banditen”, l’unico riconoscimento politico possibile dello Stato al suo mortale nemico, ci preoccuperemmo solo se non fosse così. La nostra organizzazione si è conquistata con la propria prassi politico-militare dentro lo scontro politico e rivoluzionario nel nostro paese, il ruolo di direzione e di organizzazione delle avanguardie rivoluzionarie della classe sul terreno strategico della conquista del potere politico; ed è questo riconoscimento, pur dentro le durissime condizioni determinate dalla controrivoluzione di questi anni, e nonostante gli attacchi concentrici tendenti all’annientamento, che ha impedito che si spezzasse quel filo organico che lega le Brigate Rosse alle componenti proletarie e rivoluzionarie vive nel paese, a quel tessuto di classe nel quale si sono originate e si riproducono costituendone l’avanguardia armata.

Non occorre quindi smascherare la funzione palese che storicamente è demandata al potere giudiziario, tanto aperta è la connivenza con il sistema dello sfruttamento e con lo Stato delle stragi antiproletarie. La borghesia imperialista, per la quale vitale è il monopolio della violenza, si assegna da sempre, assieme a sbirri e secondini, il ruolo di repressione nei confronti della classe e delle sue avanguardie, poiché, al di là delle mistificazioni, il rapporto che la borghesia instaura con le avanguardie rivoluzionarie è quello della guerra. Conseguentemente a ciò, e in quanto comunisti, abbiamo assunto apertamente questo rapporto, e in questo essenzialmente le Brigate Rosse si adeguano ai mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo uscito dal secondo conflitto mondiale ha posto in essere sia sul piano economico-sociale che storico-politico, rompendo anche con l’involuzione socialdemocratica dei partiti comunisti incapaci di far fronte ai livelli di scontro che la borghesia progressivamente impone al movimento di classe.

Le Brigate Rosse fin dall’inizio si sono costituite per far fronte globalmente al piano di scontro determinato dall’obiettivo rivoluzionario: l’abbattimento dello Stato borghese per la conquista del potere politico; la stretta unità del politico e del militare, pilastro inalienabile della guerriglia, unitamente ai criteri strategici di clandestinità e compartimentazione, pongono la classe operaia e il proletariato nella indispensabile condizione offensiva informando dall’inizio alla fine l’attività rivoluzionaria all’interno del complesso andamento del processo rivoluzionario.

La guerra di classe, che assume il carattere di processo di lunga durata e da questa concezione deve essere guidata, rappresenta il superamento pratico e teorico della strategia terzo-internazionalista e di quella anarco-sindacalista che la prassi ha mostrato essere inadeguata; la lotta armata per il comunismo si è venuta storicamente affermando come la strategia rivoluzionaria nell’attuale fase dell’imperialismo, non solo perché l’unica risposta possibile per parte proletaria alla crisi dell’imperialismo e allo sfruttamento, ma anche punto di unificazione più alto e necessario dell’autonomia di classe, ovvero la sua opzione di potere.

I mutamenti e gli assetti che lo sviluppo dell’imperialismo ha determinato a partire dalla struttura economica su quella sociale e politica degli Stati nel dopoguerra dentro il quadro più generale del bipolarismo sono: estensione mondiale del modo di produzione capitalistico; concentrazione e centralizzazione del capitale su base internazionale; internazionalizzazione della produzione e interdipendenza economica; polarizzazione estrema tra ricchezza e povertà con la concentrazione della prima, e quindi del potere, in un pugno di paesi del centro imperialista; polarizzazione tra le classi con il formarsi di una frazione dominante di borghesia imperialista integrata al capitale finanziario a dominanza USA e del proletariato metropolitano, da cui la diversa caratterizzazione delle forme di dominio e quindi del rapporto classe/Stato con l’affermarsi della controrivoluzione preventiva a fronte dei processi rivoluzionari e delle prime rotture operate. Sono questi i dati che hanno costituito il terreno oggettivo su cui si è misurata la soggettività rivoluzionaria e che hanno determinato la lotta armata come il modo di operare dell’avanguardia rivoluzionaria in queste condizioni e specificamente per il centro imperialista; il contesto dello scontro di classe in cui si è inserita, diverso da paese a paese, ne ha determinato invece le caratteristiche politiche e le particolarità di sviluppo. Per questo affermiamo che le ragioni della lotta armata in Italia non risiedono nel ciclo di lotte sviluppato dall’autonomia di classe a cavallo degli anni settanta, da qualità maturate dalle avanguardie operaie di quel periodo che ponevano all’ordine del giorno la questione del potere, un contesto questo che costituirà invece il terreno della specificità di sviluppo del processo rivoluzionario in Italia, caratterizzando la proposta strategica della lotta armata da parte dell’avanguardia rivoluzionaria alla classe. Operare un tale riduzionismo, oltre a declassare la funzione dell’avanguardia rivoluzionaria (della guerriglia) a mero prolungamento, a braccio armato, delle lotte di massa e la natura stessa dello scontro rivoluzionario ad un succedersi lineare di flussi e riflussi, si è poi rivelato il terreno di gestione degli esperti dell’antiguerriglia coadiuvati dagli ex militanti elevati al rango di collaborazionisti: questo stravolgimento politico della genesi e dell’esperienza delle Brigate Rosse che si tenta di operare, anche attraverso le varie forme di defezione dei prigionieri e degli ex militanti, ha fatto da battistrada e supporto politico alle operazioni dei servizi in questi due anni contro la nostra organizzazione, le avanguardie e i militanti rivoluzionari e, oltre che legittimare isolamenti e carcerazioni differenziate che durano da oltre un anno per gli arrestati, ha affiancato le provocazioni, la diffamazione e le false notizie diffuse ad arte dai servizi stessi, tese a screditare e spoliticizzare l’attività rivoluzionaria. Diciamo questo non certo per vittimismo, ma perché a ciascuno vadano i propri “meriti” e soprattutto per rendere chiaro che tutta questa attività è finalizzata a presentare la lotta armata come una questione di reduci e a rilanciare l’osceno copione della “soluzione politica” e dell’ “amnistia”, un piano che è tutto interno alla controrivoluzione degli anni ottanta, poiché l’annientamento della guerriglia e delle forze rivoluzionarie diviene preliminare e ineludibile al dispiegarsi della controrivoluzione su tutta la classe e quindi al consolidamento dei rapporti di forza in favore della borghesia.

Pacificare con l’annientamento e annientare attraverso la pacificazione: se da un lato è questo aspetto della controrivoluzione un classico delle leggi della guerra di classe – evidente nella sua applicazione tanto nei confronti della gloriosa lotta del popolo palestinese, quanto in Sudafrica, in Spagna, in Francia, in Salvador, come nei confronti della RAF in Germania – dall’altro assume caratteristiche proprie, forme e portata diversi in relazione a questa particolare fase storica.

La controrivoluzione preventiva è elemento intrinseco agli strumenti ed organismi della “democrazia rappresentativa” e risponde all’esigenza fondamentale di istituzionalizzare il conflitto di classe mantenendolo entro gli “steccati” della compatibilità borghese per non farlo collimare con il piano rivoluzionario. L’iniziativa rivoluzionaria, rompendo gli argini istituzionali, costringe la borghesia ad ampliare il piano della controrivoluzione, e questa dialettica rivoluzione/controrivoluzione informa tutto il processo rivoluzionario quale elemento che concorre a determinarne l’alternità dell’andamento oltre a misurarne l’approfondimento.

Controrivoluzione preventiva e controrivoluzione dello Stato si pongono su due piani distinti ma i rapporti di forza determinati dalla dinamica controrivoluzionaria, riversandosi sui rapporti politici generali tra le classi, rideterminano il carattere stesso della controrivoluzione preventiva poiché questa ne incorpora il dato di assestamento.

La borghesia imperialista adegua quindi il governo del conflitto di classe, la mediazione politica esistente tra le classi, ai caratteri che assume lo scontro (oltre che alle necessità del movimento dell’economia); nello specifico del nostro paese lo Stato si è confrontato in modo selettivo con il portato politico e strategico dello scontro rivoluzionario (che si è affermato in Italia) calibrando il proprio intervento sulla guerriglia, sul movimento rivoluzionario, sull’intera classe; su questo ha basato i termini della controrivoluzione degli anni ottanta, i cui effetti dispiegati sull’intero campo proletario generano il clima ed il terreno favorevole alle forzature ulteriori nei rapporti politici tra le classi.

Le esecuzioni sommarie (via Fracchia, ecc.) e le torture, la vicenda dei 61 e lo scontro alla Fiat, le stragi di Stato degli anni ottanta e lo smantellamento della scala mobile sono solo alcune delle tappe della controrivoluzione di questo decennio che hanno reso possibile, in questa fase, un ulteriore approfondimento delle forme di dominio della borghesia imperialista che si esprime nel progetto di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, un progetto che se da un lato risponde alle esigenze dettate dall’evoluzione-crisi dell’imperialismo, di riassetto della sovrastruttura istituzionale, calibrato anche al ruolo e alla funzione che l’Italia riveste all’interno della catena e nei processi di coesione ed integrazione economica, politica e militare dell’Europa occidentale e dell’imperialismo, è dall’altro altrettanto improntato all’“anomalia italiana”, alla realtà dello scontro di classe che si è andato determinando nel paese ed alla sua qualità definita in primo luogo dall’esistenza e dall’iniziativa della guerriglia. La borghesia imperialista deve quindi, a partire da questo dato, colmare lo scarto rispetto ai modelli più avanzati delle “democrazie mature”, ma non solo, ciò che è eufemisticamente definito “democrazia governante” tende a modificare i termini della mediazione politica, l’uso e gli strumenti stessi della democrazia rappresentativa, al fine di consolidare il regime instauratosi e di creare le condizioni politiche ed istituzionali per costruire equilibri politici in grado di esprimere “esecutivi forti e stabili”, in grado di rispondere in “tempo reale” alle esigenze della borghesia imperialista, svincolandoli dalle spinte antagoniste prodotte dallo scontro di classe, il quale va spoliticizzato e marginalizzato attraverso meccanismi di mediazione politica idonei al suo convogliamento negli strumenti della “democrazia rappresentativa”.

Sono chiarificanti, in questo senso, tanto la proposta di modificare l’istituto referendario da rendere consultivo, quanto le campagne di volta in volta orchestrate (aborto, droga, ecc.) tese a legittimare l’operato dell’esecutivo attraverso la mobilitazione demagogica e reazionaria delle “masse”. Sono evidenti i passaggi già effettuati sia sul piano istituzionale (con la riforma della Presidenza del Consiglio, l’istituzione del Consiglio di Gabinetto, le modifiche al diritto di sciopero ed alle rappresentanze sindacali, l’istituzione del voto segreto, ecc.) che su quello della contrattazione (accordi-pilota, vertenze “calde”, uso della precettazione, “normalizzazione” dei luoghi di lavoro con l’ausilio diretto dei carabinieri nonché l’uso dei referendum per sostanziare il neo-corporativismo e trasformare le spinte di classe in momenti di legittimazione e stabilizzazione).

I passaggi ulteriori contemplano un diverso assetto delle funzioni delle due Camere, l’iter parlamentare delle leggi (voto segreto, corsie preferenziali) sino alla modifica dei regolamenti elettorali che costituiscono lo snodo fondamentale, modifica per la quale si prefigura la sperimentazione all’interno della riforma degli enti locali, i quali, a loro volta, vanno funzionalizzati, sia in termini di spesa che di gestione, all’esecutivo. Intorno ai tratti essenziali di questo progetto si riformulano anche il ruolo della magistratura che deve funzionalizzarsi all’esecutivo, che quello della Corte Costituzionale, garante della “costituzionalità” della riforma, che quello della Corte dei Conti, cui compete la legge sulla spesa in riferimento ad un diverso equilibrio dei bilanci statali, sino al diverso rapporto tra Ministero degli Esteri e Ministero della Difesa, compreso nella riforma della Farnesina.

Ma al di là degli aspetti specifici che si tenta di fare apparire come asettici e privi di riferimento con le condizioni politiche e materiali vissute nello scontro di classe, come cose che riguardano solo il modo di sedersi a Montecitorio, è chiaro che lo Stato non è al di sopra delle parti ma è organo della dittatura borghese di cui cura gli interessi generali, anche come mediatore del conflitto di classe; queste due funzioni nello sviluppo storico dell’imperialismo esaltano il complessificarsi del suo ruolo, da ciò discende l’attualità per i comunisti della centralità dell’attacco allo Stato, al suo cuore inteso come il progetto politico dominante della borghesia nella congiuntura. Vi è un filo continuo che lega la Costituente del ’48, espressione dei rapporti di forza usciti dalla resistenza al nazi-fascismo, a questa fase, allo stesso modo definita “costituente”, poiché si prefigura come fondazione di una “seconda repubblica”, un filo nero che passa dalla restaurazione degli anni cinquanta per contrastare il movimento insurrezionale ereditato dalla resistenza, al centro-sinistra degli anni sessanta, al tentativo neo-gollista di stampo fanfaniano dei primi anni settanta teso a contrastare in termini anti-rivoluzionari le forti spinte dell’autonomia di classe e l’esordio della guerriglia, all’unità nazionale morotea in un clima di forte scontro politico per il potere diretto e organizzato dalla strategia della lotta armata, fino alla controrivoluzione degli anni ottanta, base e punto di forza di questo progetto politico.

Intorno a questo progetto si è imposto il riadeguamento del ruolo dei partiti e delle forze istituzionali, non escluse le opposizioni – PCI in testa – le quali devono conformarsi in una dialettica puramente formale e che si esprime nei “grandi accordi” sulle varie “costituenti” ruotanti intorno alle ipotesi di “alternanza” di là da venire, cioè, inseguendo l’improbabile carota che gli si fa penzolare davanti, tirano in realtà la volata al carro della borghesia, assolvendo così ad una funzione che è tutta interna agli strumenti della controrivoluzione preventiva, poiché proprio con questo ruolo che risponde all’esigenza di convogliare le spinte di classe all’interno delle compatibilità borghesi, ricevono la legittimazione che la borghesia dà all’esistenza stessa della “sinistra” istituzionale, compresa quella neo-riformista o pseudo-rivoluzionaria. Non di “tradimento dei capi” si è mai trattato, ma della loro impossibilità di sostenere un piano di scontro che è la borghesia a definire di volta in volta e sul quale sono costretti ad un continuo “adeguamento”, con un approccio che è gioco forza garante del rinnovamento delle istituzioni borghesi e che agevola la possibilità per l’esecutivo di svincolarsi dalle spinte antagoniste che si producono nel paese, nel massimo della democrazia formale, cioè al di fuori e contro l’interesse di classe.

È ancora la DC la forza politica maggiormente impegnata a garantire la stabilità politica poiché essa costituisce il serbatoio storico della classe dirigente della borghesia nel nostro paese, confermando il suo ruolo di asse principale delle svolte politiche nel paese, nonché il suo essere il reale gestore del potere politico sostanziale. Per la centralità di questo progetto e la sua profondità di intervento, in quanto assume caratteristiche di “rifondazione dello Stato” ai nuovi termini di sviluppo/crisi dell’imperialismo, è un progetto che, avvalendosi degli attuali rapporti di forza a favore della borghesia, tende alla loro ratifica-assestamento in campo istituzionale e ad un ulteriore rafforzamento dello Stato nei confronti del campo proletario, perciò investe direttamente gli interessi politici e materiali della classe. Per questo è un progetto antiproletario e controrivoluzionario e pure nei mutati rapporti di forza incontra la resistenza e l’opposizione della classe e delle sue avanguardie che dimostrano la propria indisponibilità a subire passivamente i costi della crisi della borghesia imperialista, e, come con Sossi e con Moro, in quanto progetto politico dominante borghese in questa congiuntura, è stato individuato ed attaccato dalla nostra organizzazione nella figura del suo maggiore teorico ed esecutore: il senatore democristiano Roberto Ruffilli; un attacco che ancora una volta ha dimostrato contemporaneamente la necessità e la possibilità di impattare e di inceppare la tendenza antiproletaria e controrivoluzionaria intrinseca al progetto stesso. Questo proprio perché la guerriglia nelle metropoli non è sola e semplice guerra surrogata, essa agisce, può e deve sviluppare la sua efficacia muovendosi ben dentro ai nodi centrali dello scontro politico tra le classi; l’attacco al nemico perciò, per essere disarticolante, per incidere ed aprire spazi politici, deve riferirsi strettamente al piano politico generale.

La rimessa al centro, nell’attività dell’organizzazione, dell’attacco al cuore dello Stato rappresenta un dato di assestamento dell’impianto politico delle Brigate Rosse che liquida le posizioni anti-marxiste sul terreno dell’analisi dello Stato nelle “democrazie mature” e sui compiti dell’avanguardia rivoluzionaria, e costituisce l’asse strategico intorno al quale si dispongono le forze proletarie sul terreno della lotta armata.

Al tempo stesso le modificazioni indotte nelle funzioni e nel ruolo degli Stati a “capitalismo maturo” dai processi monopolistici transnazionali che approfondiscono la dialettica contraddittoria tra integrazione e concorrenza all’interno del contesto generale di sviluppo/crisi dell’imperialismo, impongono la ricollocazione dell’attività antimperialista, una necessità che si rende evidente di fronte alla generalità del contesto controrivoluzionario che in questo decennio ha di fatto impedito ogni ulteriore rottura rivoluzionaria, minacciando la tenuta stessa e l’avanzamento di quelle già operate. Occorre tener presente, d’altro canto, che ai caratteri strutturali della crisi non possono dare soluzione, ma ulteriore approfondimento, l’inasprimento dei livelli già di supersfruttamento nei confronti dei paesi della periferia, le ristrutturazioni operate ed i massicci investimenti nelle “nuove tecnologie” e nel riarmo “convenzionale” , le “privatizzazioni” ed i tagli sociali, l’attuazione più spregiudicata delle cosiddette politiche economiche neoliberiste, cioè l’elevamento dello sfruttamento ed il dirottamento massiccio di risorse a favore dei processi di valorizzazione e di sostegno alla ulteriore concentrazione del grande capitale monopolistico-finanziario, la riduzione della capacità produttiva e la cosiddetta “de-industrializzazione” per i settori considerati maturi. Né soluzione può essere data dalla parziale apertura degli ambiti mercati dell’Est, Cina compresa, con tutta la contraddittorietà con cui si configura e l’instabilità di cui sono portatrici le dinamiche in atto all’interno del più generale confronto Est/Ovest; è evidente infatti come queste dinamiche impattino con i processi di coesione-concorrenza e quanto possano influenzarne il dialettico andamento.

Tutti fattori quindi, che al di là delle apparenze congiunturali e di facciata, del breve “ossigeno” che possono dare rispetto alla prevalenza del fattore di crisi, concorrono essi stessi ad approfondire la tendenza alla guerra intrinseca alla dinamica imperialista.

L’internazionalismo proletario in questa particolare fase assume dunque una ben precisa valenza che sostanzia la dialettica tra il compito primario di lavorare per la rivoluzione nel proprio paese e collocare il partito quale “reparto dell’esercito mondiale del proletariato“, la nostra organizzazione ha assunto da tempo l’antimperialismo quale elemento programmatico, come hanno dimostrato le azioni Dozier e Hunt. Attacco al cuore dello Stato e antimperialismo vivono quindi in stretta unità programmatica, un’unità dialettica nel senso che l’interrelazione reciproca è profonda, ma senza per questo confondersi o equivocarsi; essi costituiscono i binari di cui l’asse principale resta l’attacco allo Stato poiché, all’interno dei processi in atto, ruolo e funzioni degli Stati si esaltano non annullandosi in alcuna forma di supergoverno kautskiano; restano inoltre le peculiarità ed i tempi dei percorsi specifici, nazionali, delle rivoluzioni; al tempo stesso l’attività antimperialista non può essere concepita come “altra cosa”, poiché solo l’indebolimento dell’imperialismo nel suo complesso e più specificatamente nell’area, può rendere possibili processi rivoluzionari nazionali; ciò permette di comprendere come l’attività antimperialista vada a collocarsi in dialettica all’attacco allo Stato, a sua volta è proprio l’avanzamento del processo rivoluzionario in un paese che sostanzia l’internazionalismo proletario riducendo la forza dell’imperialismo.

Attaccare l’imperialismo per una forza rivoluzionaria che opera nel centro imperialista significa innanzitutto attaccare le politiche dominanti dell’imperialismo nella congiuntura.

Una simile ricollocazione dell’attività antimperialista dell’organizzazione sarebbe stata priva di prospettive e di contributi al di fuori della pratica del Fronte, intesa come unità nell’attacco soggettivamente perseguita – a prescindere dalle differenze politiche che caratterizzano le varie forze rivoluzionarie che vi concorrono – con tutte le forze rivoluzionarie antimperialiste disponibili ed in particolare operanti nell’area europea-mediterranea-mediorientale, che, oltre a rappresentare l’area geopolitica “naturale” in cui si colloca e si esplicita l’attività imperialista e di supporto all’interesse generale dell’imperialismo del nostro paese, rappresenta al contempo l’area di massima crisi e di intervento dell’imperialismo oggi, il quale, attraverso i processi di coesione e di integrazione economica, politica e militare e calibrando l’intervento militare e politico-diplomatico di “pacificazione e normalizzazione”, si compatibilizza alle esigenze poste dalla propria crisi e tende ad assestare a proprio favore gli equilibri e i rapporti di forza nell’area.

L’unità nell’attacco congiunto alle politiche dominanti dell’imperialismo nell’area, non significa fondere ciascuna organizzazione in un’unica organizzazione, ma costruzione della forza politica e materiale per attaccare l’imperialismo. È un’unità che non solo aumenta l’efficacia dell’attacco e la conseguente capacità di disarticolazione, ma colloca l’iniziativa dei comunisti, imponendo un salto politico qualitativo necessario alla politica rivoluzionaria, anche sul piano internazionale, poiché occorre riconoscere e perseguire soggettivamente la stretta unità dialettica da far vivere nell’attacco, e che già è data oggettivamente, tra forze e percorsi rivoluzionari tanto del centro che della cosiddetta periferia.

In questo senso una forza rivoluzionaria del centro imperialista che agisce ed opera all’interno del cuore del sistema di sfruttamento dell’imperialismo, deve avere ed assumere la piena coscienza del fatto che, pur agendo con forze ristrette ed in condizioni di accerchiamento, essa rappresenta la forza e gli interessi politici generali e strategici non solo del proletariato e della classe sfruttata del proprio paese, ma anche quelli della stragrande maggioranza dell’umanità, oggi condannata a morte e alla distruzione dall’assetto imperialista mondiale.

Per questo il testo comune RAF-Brigate Rosse di costituzione del Fronte Combattente Antimperialista, con l’attività di combattimento che lo ha sostanziato (l’attacco al sottosegretario alle Finanze della Repubblica Federale Tedesca, Tietmayer), costituisce il punto di approdo al quale l’organizzazione ha dato il suo contributo; per il realismo politico che lo guida, per la concezione aperta che lo caratterizza, rappresenta contemporaneamente l’imprescindibile punto di partenza per il suo necessario e possibile sviluppo.

Per queste ragioni ribadiamo il nostro appoggio all’attacco che la RAF ha portato alle politiche di coesione-integrazione dell’Europa occidentale, colpendo il presidente della Deutsche Bank, Herrhausen.

L’attacco al cuore dello Stato calibrato al rapporto classe/Stato, e l’antimperialismo praticato all’interno di una politica di alleanze e di rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista, calibrato al rapporto imperialismo/antimperialismo, costituiscono gli assi cartesiani di riferimento lungo i quali si esplica l’attività combattente e si costruiscono i termini attuali della guerra di classe di lunga durata; per questo l’attacco portato al progetto di rifunzionalizzazione dello Stato ed il contributo al rafforzamento-consolidamento della politica del Fronte, sono gli elementi che inequivocabilmente chiariscono la sostanza del rilancio dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria operato dalle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente in questi anni di ritirata strategica e le prospettive che esso ha aperto hanno determinato uno spostamento in avanti del piano di scontro rivoluzionario.

Questo il dato politico centrale nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione che ha posto lo Stato a ridefinire contromisure atte a contrastare il portato politico e strategico della proposta rivoluzionaria sul campo proletario, concretizzatosi in un piano di deterrenza teso ad operare sul duplice livello: la guerriglia e il suo referente di classe, ovvero un piano teso a far pesare la cattura di rivoluzionari sull’intero proletariato, sulle condizioni politiche generali dello scontro, spacciandola per l’esaurimento delle condizioni stesse del processo rivoluzionario.

Ma la realtà è ben diversa e ben ne è conscia la borghesia e i suoi tirapiedi dell’antiguerriglia. Quasi venti anni di prassi combattente delle Brigate Rosse costituiscono un dato politico che si è sviluppato e si è sedimentato storicamente nel tessuto proletario e nel rapporto tra le classi, sintetizzando lo sviluppo e le tappe del processo rivoluzionario nel nostro paese, l’approfondirsi dello scontro tra le classi e la concretezza dell’istanza di potere per parte proletaria.

Elementi politici che costituiscono un punto di non ritorno e insieme l’inalienabile e imprescindibile retroterra per lo sviluppo del processo rivoluzionario.

Non saranno le campagne di arresti di militanti, i grossolani tentativi di denigrazione, né tanto meno le sbandierate defezioni e i tradimenti degli ex militanti, i quali, a fronte delle difficoltà oggettive, pratiche e teoriche, che la guerriglia ha affrontato e deve affrontare, pretendono di sottrarsi al livello raggiunto dallo scontro. Tutto ciò non inficia né invalida la sostanza ed il portato politico della lotta armata e del progetto di riadeguamento che la nostra organizzazione ha posto in essere a partire dalla sconfitta tattica dell’82, in questi anni di ritirata strategica e all’interno delle durissime condizioni determinate dal dispiegarsi della controrivoluzione, continuando quindi non soltanto il combattimento al livello adeguato al piano di scontro tra classe e Stato, tra imperialismo e antimperialismo – come le azioni Giugni, Tarantelli, Ruffilli, Hunt, Conti e l’esproprio hanno dimostrato – un percorso di riadeguamento che, come hanno dimostrato i fatti, non è ancora concluso. Ma è proprio misurandosi con queste condizioni ineludibili che la guerriglia si è posta nella giusta direzione atta a superare i limiti soggettivi e ad acquisire la capacità di sostenere, con la necessaria maturità, la complessità dello sviluppo non lineare del processo rivoluzionario, una complessità che solo la verifica pratica può mettere in luce non solo per gli aspetti generali, ma anche per quanto riguarda l’originalità necessariamente assunta dallo specifico percorso nel nostro paese, fermo restando che un tale processo è oggettivamente prolungato nel tempo per la sua collocazione nel cuore stesso della catena imperialista.

All’interno della fase della ritirata strategica si sono individuati i suoi termini più precisi e poste le basi del suo superamento, che comporta la ricostruzione delle condizioni politiche e materiali della guerra di classe, cioè la capacità di determinare una condizione che non può essere limitata alla sola chiarezza teorica e politica dell’impianto, visto che il riadeguamento della guerriglia ai nuovi termini dello scontro rivoluzionario comporta articolare il processo politico e militare di attivizzazione delle forze proletarie sulla lotta armata, sul terreno rivoluzionario.

Una condizione che va costruita dentro una conduzione della guerra che deve essere (e d’altra parte non può essere altrimenti) interna al mandato della ritirata strategica sino al completamento di alcune condizioni politiche e militari al di fuori delle quali è impossibile parlare di uscita dalla ritirata strategica.

Su questo processo che, a partire dall’attacco, è di formazione delle forze che si dispongono sulla lotta armata in modo da renderle adeguatamente organizzate a sostenere il livello di scontro con lo Stato, e conseguentemente di ricostruzione dell’ambito operaio e proletario delle condizioni politiche e materiali danneggiate e disperse dalla controrivoluzione, influisce l’andamento stesso dello scontro, che è fortemente discontinuo, fatto di attacchi e ritirate e quindi la condotta tattica dello scontro è sottoposta a questo movimento che non può essere lineare. Diviene chiaro quindi come il termine di ricostruzione delle forze e delle condizioni politiche e materiali del campo proletario non è semplice momento congiunturale, ma una fase rivoluzionaria che è però strettamente condizionata dalla funzione della ritirata strategica alla quale è tutta interna, pur disponendosi e ponendo le basi materiali e complessive per l’uscita da essa.

All’interno di questa particolare fase dello scontro rivoluzionario, assume un’importanza evidente la parola d’ordine dell’unità dei comunisti intorno alla proposta strategica della lotta armata per il comunismo, un’unità che non è formale, ma che, a partire dall’assunzione del piano di scontro e degli assi di riferimento strategico maturati dall’esperienza di combattimento delle Brigate Rosse, obbedisce all’esigenza di attrezzare il campo proletario e formare le avanguardie rivoluzionarie alle necessità del livello raggiunto dallo scontro; ad di fuori di ciò si dà solo il dissanguamento e la dispersione delle stesse o la loro sopravvivenza, nell’impossibilità di incidere nello scontro, con la conseguente compatibilizzazione e riassorbimento al piano borghese.

Un’unità quindi da costruire nella prassi del combattimento, disponendosi intorno al programma e alla direzione dell’organizzazione. Un processo dialetticamente legato alla crescita stessa della forza, sia politica che materiale, che è quello su cui i comunisti devono misurarsi dentro il percorso rivoluzionario: quello della costruzione del Partito Comunista Combattente. Questo perché i caratteri del processo rivoluzionario comportano che l’avanguardia armata del proletariato si configuri come una forza rivoluzionaria, e le Brigate Rosse sono una forza rivoluzionaria che, pur ponendosi sin dal proprio sorgere come nucleo fondante il partito, non sono il partito, e questo perché il nodo della direzione rivoluzionaria della guerra di classe di lunga durata non si scioglie con un atto di fondazione, ma è un processo vero e proprio di fabbricazione-costruzione del partito che si configura come tale all’interno del percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe. Nella loro precisa definizione e progettualità le Brigate Rosse si costruiscono come Partito Comunista Combattente unificando intorno al programma rivoluzionario i comunisti e organizzando allo scontro le avanguardie proletarie rivoluzionarie; in sintesi, la direzione rivoluzionaria dello scontro si realizza agendo da partito per costruire il partito.

Questa concezione fondamentale, unitamente al modulo politico-organizzativo secondo cui si sono strutturate le Brigate Rosse, i criteri di clandestinità e compartimentazione, costituiscono gli elementi strategici validi affinché la guerriglia possa agire con il suo portato rivoluzionario in queste condizioni storiche dello scontro.

 

Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di rifunzionalizzazione dello Stato.

Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.

Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli libanese e palestinese.

Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area.

Onore ai compagni caduti nella lotta di classe antimperialista.

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo, Antonino Fosso, Flavio Lori

Rebibbia, 6 dicembre 1989

La controrivoluzione degli anni ’80 e i compiti delle forze rivoluzionarie. Roma, Aula Bunker Rebibbia, Processo per insurrezione – Documento di Marcello Ghiringhelli allegato agli atti

La celebrazione di questo processo, voluto e diretto come atto politico dallo Stato a regime democristiano – coadiuvato e sostenuto attivamente dalla “sinistra” revisionista istituzionale – tende sostanzialmente a sancire che: la strategia della lotta armata, in una guerra di lunga durata, per la conquista del potere e l’instaurazione della dittatura proletaria – in un paese del centro imperialista – è impossibile. Così come l’esito assolutorio, deciso in precedenza in sede politica, ha il compito di cristallizzare nell’atto del formalismo giuridico un preciso rapporto di forza generale tra borghesia imperialista e proletariato.

La stessa gestione dell’inchiesta prima e della seguente divisione in due atti processuali, mette in luce un preciso progetto di carattere politico mirante a rendere spoglia e imbelle la storia e la progettualità politica delle Brigate Rosse in questi vent’anni. E questo, attraverso la manipolazione degli ex militanti, passati a vario titolo nel campo avverso. Quindi, commercializzando ad arte questi figuri sui mass-media, viene irradiata un’immagine politica delle Brigate Rosse completamente capovolta nella sua essenza politica e dirittura morale.

Il motivo, dal punto di vista della borghesia imperialista, è semplice e lineare: si tenta, demonizzando l’immagine politica complessiva delle Brigate Rosse, di dichiararne la morte politica e con esse quella delle prospettive della classe che le ha generate e le genera, il proletariato!

Questa morte è una necessità politica vitale per la borghesia imperialista, in quanto la morte delle Brigate Rosse le permette di azzerare circa mezzo secolo di conquiste di classe e di aprire un’era di restaurazione di vallettiana memoria.

Questo, in quanto presupposto indispensabile al varo di una vasta gamma di iniziative di carattere economico, finanziario, sociale, militare e politico, come controtendenza alla dinamica sviluppo-crisi dell’imperialismo e dell’intero sistema ai vari livelli, che si evidenzia negli USA in maniera più marcata.

In questa condizione, ogni Stato del centro imperiale si deve attivizzare per contenere e rimandare lo sviluppo oggettivo della crisi, che sempre più tende a configurarsi come crisi politica del sistema (il cui sbocco non può essere che la guerra), con vari livelli di profondità per ogni singolo paese dell’area occidentale.

Il nostro paese, nella realtà, è un paese assolutamente non pacificato, dove la resistenza operaia e proletaria dimostra che non è disposta a subire i costi della crisi. In sostanza, esiste un continuo scontro politico e sociale, da cui la rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato, un progetto che serve per costruire un’ulteriore serie di gabbie e filtri per contenere l’autonomia di classe all’interno della compatibilità delle necessità della borghesia imperialista.

È in questo contesto che si inserisce, impattando i progetti della borghesia imperialista, l’attacco al senatore DC Ruffilli, sviluppato dalle Brigate Rosse. Un attacco incentrato e calibrato a colpire al cuore lo Stato nel suo massimo progetto: la rifunzionalizzazione, appunto! E ciò annientando nella sostanza le gambe su cui camminava il progetto di governo, disarticolandone così il centro-motore e quindi mettendo in piena luce le reali intenzioni della borghesia imperialista in questa fase nel paese.

L’esito politico ottenuto dalle Brigate Rosse è stato di disarticolare e di rallentare lo sviluppo della rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato e nel contempo ha favorito la defenestrazione del governo De Mita e del suo staff.

È sui fatti concreti che si deve misurare la vitalità o la morte delle Brigate Rosse e cioè sul terreno concreto della guerra di classe!

In questi venti anni, le Brigate Rosse hanno dimostrato, attraverso una corretta analisi marxista-leninista della realtà concreta, che sono in grado, tramite la prassi-teoria-prassi, di sviluppare una corretta linea politica e di sapere incidere concretamente sugli assetti ed i progetti politici della borghesia imperialista a livello nazionale e internazionale.

Sul piano internazionale le Brigate Rosse da sempre sono state caratterizzate dall’antimperialismo, che non è in contraddizione con l’attacco al cuore dello Stato ma vive in rapporto dialettico con esso, sono cioè due facce della stessa medaglia, in quanto sia l’antimperialismo che l’attacco al cuore dello Stato vivono in unità programmatica per fare la rivoluzione nel proprio paese, contribuendo nel contempo a destabilizzare l’imperialismo dell’area geopolitica, attaccandolo nei suoi progetti integrativi, dando un contributo cosciente e concreto ai vari processi in corso nell’area geopolitica – siano essi tesi alla rivoluzione socialista, siano essi tesi alla liberazione nazionale – senza interferire sulla specificità politica di ogni singolo processo nazionale.

Con questa caratteristica, l’antimperialismo militante delle Brigate Rosse si è materializzato fin dal 1984 con l’attacco contro Roy Leammon Hunt qui a Roma. Mentre nel 1988 le Brigate Rosse hanno promosso una progettualità politica tesa a costruire nella prassi l’unità con le altre forze rivoluzionarie nell’attacco all’imperialismo e a ridimensionarlo sull’intera area geopolitica dell’Europa occidentale e dello scacchiere del Mediterraneo dando, nel concreto, il proprio contributo politico per la costituzione del Fronte Combattente Antimperialista, in una alleanza dialettica con la Rote Armee Fraktion (RAF). Alleanza sancita dall’operazione politica congiunta RAF-Brigate Rosse contro H. Tietmayer, sottosegretario alle Finanze a Berlino, nella Repubblica Federale Tedesca.

Compiutamente interno e propulsivo alla progettualità del Fronte Combattente Antimperialista è l’attacco sviluppato dalla RAF contro il presidente della Deutsche Bank, Alfred Herrhausen, il 30 novembre 1989 a Bad Homburg, Francoforte, nella Germania Federale. Attacco che gode di un incondizionato appoggio politico da parte nostra in quanto, in questa fase politica, l’Europa occidentale tende a rinforzarsi in termini politico-economico-finanziari complessivi, per concorrere all’interno dello schieramento imperialista al processo di coesione politico-militare promosso dalla RFT e dalla Francia e in cui il mondo finanziario, rappresentato da Herrhausen, svolgeva e svolge un ruolo non solo finanziario ma politico di primo piano, contribuendo nell’insieme a ridefinire le linee di tendenza delle politiche imperialiste dei prossimi anni.

Per l’ennesima volta, la realtà concreta si incarica di dimostrare la validità politica della scelta da parte delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente di attuare la ritirata strategica, che gli ha consentito di approfondire i termini dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata. Quindi, all’interno di questa concezione politica, di operare un riadeguamento dell’impianto politico idoneo alle necessità imposte dallo scontro. Riadeguamento complessivo che permette alle Brigate Rosse di affrontare la fase di ricostruzione per creare le condizioni politiche e pratiche capaci di spostare in avanti i termini dello scontro e nel contempo di formare, nelle nuove condizioni politico-militari, i quadri militanti delle Brigate Rosse.

Sicuramente oggi è una fase delicata e complessa, ma le Brigate Rosse non sono mai state trionfaliste, ma molto attente a leggere la storia in termini materialistici e dialettici e ad operare di conseguenza, consapevoli che i problemi da affrontare e risolvere sono enormi, ma che esse li affronteranno con il dovuto rigore rivoluzionario che le ha sempre caratterizzate, con la forza della loro internità alla classe proletaria.

Per concludere, sono gli atti politico-militari che si incaricheranno di sancire la vita o la morte delle Brigate Rosse, e non certamente le pie illusioni della borghesia imperialista, dello Stato e dei suoi vari estimatori prezzolati.

Onore a tutti i compagni e ai rivoluzionari antimperialisti caduti.

 

Il militante comunista Marcello Ghiringhelli

 

Roma, 4 dicembre 1989

Ricostruzione del movimento rivoluzionario o soluzione-dissoluzione politica. Note intorno al dibattito sulla liberazione. Carceri di Cuneo e Rebibbia – Documento di Paolo Cassetta, Prospero Gallinari, Francesco Lo Bianco, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti

Gli interventi sulla questione della liberazione dei prigionieri comunisti hanno finora evidenziato una certa varietà di posizioni in cui dobbiamo dire non si riesce a discernere il confine che separa il problema più concreto dalle questioni di principio che contraddistinguono i comunisti. Questa confusione, tanto per cambiare, sembra accomunare tanto la «destra» che la «estrema sinistra», con la differenza, non secondaria, che mentre a destra la confusione è intenzionale, strumentale e orientata, a sinistra appare frutto di irrisolti problemi teorici e ideologici.

Crediamo pertanto utile distinguere un po’ tra i vari problemi che la vicenda iniziata con le «lettere» di Curcio e Moretti ha sollevato, anche alla luce dei diversi eventi verificatisi quest’anno. In primo luogo è incontestabile che le «lettere» hanno offerto alle forze politiche borghesi un’occasione di delegittimazione delle OCC rivolta immediatamente anche contro di noi quindi. Tanto che le tesi di fondo che sorreggono l’argomentare dei «quattro» riconoscono esplicitamente allo stato la capacità di rappresentare gli interessi generali della società nel suo complesso e quindi anche quelli delle diverse forze sociali, proletariato compreso evidentemente. La lontananza di questi presupposti dal punto di vista comunista è talmente evidente ed è stata quasi da tutti riconosciuta come tale, che non crediamo particolarmente necessario soffermarcisi ancora, dato il tipo di lettori cui stiamo parlando. Del resto la battaglia ideologica contro questo ed altri presupposti è stata da noi iniziata e condotta a partire dal libro «Politica e rivoluzione».

L’altra tesi fondamentale, che ci sembra assai meno compresa, è quella che fa della storia delle BR (cioè della lotta armata in Italia) un episodio irripetibilmente «datato», privo perciò di evoluzione storica e completamente separato dal complesso della lotta di classe in questo paese. Non quindi patrimonio di esperienze e momento di avanzamento del processo rivoluzionario (tanto nella prassi che nella teoria)! Come invece necessariamente deve essere considerato da una riflessione materialistica, sia per la sua difesa/valorizzazione che per farla vivere nella coscienza, nella memoria, nella prospettiva strategica del proletariato. Poiché nelle «lettere» c’è anche l’esplicita intenzione di ergersi a «difesa» della storia delle BR, bisogna per forza di cose far notare come una simile «difesa», frutto di una concezione antimarxista e idealista della storia, non può che snaturare e far disperdere i contenuti politici fondamentali dell’esperienza delle BR in quanto parte integrante della classe e renderla così «manipolabile» ad uso e consumo della borghesia.

Su questa «lettura» della storia (che fa ovviamente da sfondo «culturale» a scelte più prettamente pratiche) si è verificata la convergenza, opportunisticamente glissata negli interventi di «estrema sinistra», della quasi totalità dei dirigenti prigionieri delle BR-PCC, cosa che ha indubbiamente rafforzato l’operazione di delegittimazione politica. Convergenza che chiarisce più di cento discorsi come la battaglia politica nel movimento contro gli antimarxisti si giochi proprio sulla storia delle BR!

Le forze politiche borghesi, DC soprattutto, hanno recepito rapidamente questa opportunità dando il via alla grancassa della «premiazione», del rinnegamento del marxismo,ecc. Fatto sta che la questione della liberazione dei prigionieri è diventata un tema neppure tanto secondario dello scontro politico tra le classi e all’interno dei vari partiti della classe dominante. È un nodo politico al punto che su di essa nessuna forza politica, da qualsiasi parte sia schierata, ha potuto fare a meno di esprimere una posizione. Ciò avviene perché, come ogni problema politico, tocca interessi diversi e contraddittori, che cercano di affermarsi mediante schieramenti.

Quali sono questi schieramenti e interessi oggettivi?

Dato il tipo di discussione che si è aperta, cominciamo dagli interessi della classe dominante, nelle sue forze politiche principali, DC e pentapartito. Nella nostra presa di posizione rivolta al movimento di massa, pubblicata sul manifesto del 31.5, abbiamo per l’appunto indicato: 1) piegare le BR alla «pacificazione», ossia all’accettazione dei valori e del sistema politico-sociale dominante; 2) delegittimare le forze comuniste combattenti e «ammonire» l’opposizione sociale e rivoluzionaria; 3) usare questa storia, patrimonio della classe ed il suo «recupero lealistico», come parte della più complessa operazione democristiana di recupero della centralità, in vista di una fase «costituente» in cui andare a ridefinire le regole del gioco politico; 4) liberarsi del peso che rappresentano comunque, per uno stato a democrazia parlamentare, i prigionieri politici. Sul terzo soltanto di questi interessi esiste però una contraddizione fra la DC e le altre forze politiche parlamentari, particolarmente con l’opposizione di sinistra, per ovvie considerazioni legate alla nostra identità di comunisti e rivoluzionari, al posto che occupiamo nella coscienza della classe reale (se non altro come «speranze non realizzate»).

In una fase di sostanziale «stagnazione» dello scontro politico-militare come quella attuale, caratterizzata da un rapporto di forza assai favorevole per la borghesia, affrontare il nodo dei prigionieri ha voluto dire cominciare a prendere in considerazione l’opportunità di un’amnistia. Di fronte alle voci di corridoio, che intorno a queste ipotesi hanno preso a circolare, i prigionieri diciamo così «opportunisti di destra» si sono affannati a prendere posizioni pubbliche in cui, nell’ansia di dichiarare la propria presa di distanze dalle organizzazioni attive, buttano gioiosamente a mare ogni residuo scampolo di dignità e ideologia rivoluzionaria. Alcuni prigionieri di «ultra-sinistra», accecati dal rivestimento ideologico mass-mediato della vicenda, per cui la liberazione è il contraltare della «pacificazione», per distinguersi dai «letteristi» attaccano, invece che le loro tesi, l’ipotesi dell’amnistia in quanto tale. In ciò, secondo noi, sia gli uni che gli altri, dimostrano una patente incapacità di distinguere tra questioni di principio (difesa della nostra storia, dei principi comunisti, dell’appartenenza di classe, ecc.) e problema politico concreto (amnistia da un lato e le posizioni resaiole dall’altro).

La situazione si è ulteriormente complicata (ma forse è stata resa soltanto più chiara) con l’entusiastico appoggio offerto a Curcio dai «più bei nomi» dell’estremismo soggettivista degli ultimi tre anni, cioè i dirigenti delle BR-PCC prigionieri. Clamoroso, certo, ma ci duole dirlo per noi niente affatto sorprendente.

La nostra posizione è conseguente ad un’analisi concreta della situazione concreta e mira a definire risposte sul «che fare?» per portare avanti, anche in queste condizioni mai verificatesi negli ultimi quarant’ anni, il processo rivoluzionario.

La prima domanda che i comunisti e il movimento rivoluzionario debbono affrontare è secondo noi questa: quale rapporto esiste tra la lotta per il socialismo e chi in questa lotta viene fatto prigioniero? La risposta da sempre e in tutto il mondo è semplice: i prigionieri vanno liberati . Ogni volta che se ne presenta l’occasione, con ogni mezzo, legale e illegale, politico e militare. Non solo e non tanto per motivi «umanitari», quanto perché nessuna parte in conflitto può permettersi di lasciare all’infinito dei combattenti nelle mani del nemico senza risentirne gli effetti politici, psicologici, militari. Se è vero infatti che i prigionieri rappresentano la prova vivente della radicalità del conflitto, in determinate condizioni (di fatto, quando i rapporti di forza sono sfavorevoli e la borghesia appare «trionfante»), gli stessi prigionieri diventano un ricatto vivente, un ammonimento oggettivo e quotidiano a non ribellarsi, un deterrente involontario sottoposto a pressione costante. Per questo i rivoluzionari di tutto il mondo si pongono il problema concretamente, in termini politici, organizzativi e militari, giammai in termini esortativo-volontaristici.

I comunisti, come chiunque combatte per una causa rivoluzionaria, hanno non soltanto degli interessi ma anche dei principi. Intorno al problema dei prigionieri se ne individuano sostanzialmente due: 1) è inammissibile scambiare il programma di trasformazione, le idee, l’identità con la libertà personale; ossia non si dà libertà contro collaborazione, libertà contro legittimazione del dominio; 2) è inammissibile accettare di avere dei combattenti prigionieri e non dotarsi di una strategia, una tattica di iniziative atte a recuperarli concretamente.

Come si intuisce, entrambi i principi valgono per i movimenti rivoluzionari nel loro complesso, come corpo organico (partito, esercito, movimento di massa, prigionieri, ecc.), anche se il primo è pane quotidiano soprattutto per i prigionieri ed il secondo per le forze operanti. Il primo principio consente di discernere in ogni condizione i prigionieri rivoluzionari da quelli che cessano di esserlo. Il secondo consente di cogliere la differenza fra le forze che lottano, misurandola dai risultati pratici, da quelle che fanno combattere soprattutto le parole fra loro.

I principi sarebbero lettera morta, puro catechismo, se non informassero i criteri direttivi del calcolo politico, la tattica, ossia la capacità essenzialmente pratica di comprendere le caratteristiche principali del campo di battaglia concreto e selezionare le mosse in base a interessi, vantaggi, economia delle forze e obiettivi. Principi e calcolo politico hanno generato una prassi comunista e rivoluzionaria internazionale più che secolare, per cui il problema della liberazione dei prigionieri viene affrontato nella forma di assalto alle prigioni – evasioni oppure nella forma dell’amnistia totale (richiesta dalla guerriglia stessa oppure dai movimenti di massa, dal «braccio legale», dalle forze democratiche). Con motivazioni di principio vengono escluse invece le richieste di grazia in quanto impliciti riconoscimenti della legittimità del dominatore. È d’altro canto assodato per tutti e dovunque che le amnistie vengono promulgate da uno stato, un parlamento o un dittatore che a sua volta fa un calcolo politico utilitaristico della convenienza o meno di un gesto del genere, tanto che amnistie sono state concesse sia da governi sull’orlo del baratro, come estremo tentativo di «pacificare gli animi», che da governi usciti da una vittoria, per celebrare il proprio «trionfo». In ciascun caso i comunisti, ma in generale qualsiasi rivoluzionario che si ponga davvero il problema di arrivare a vincere, hanno lavorato per recuperare i propri quadri, secondo principi e calcolo politico. Noi per recuperare il nostro posto di lotta nello scontro di classe, in tutti questi anni ci siamo mossi esclusivamente sul piano dell’evasione contando sulle nostre sole forze, consapevoli dell’inesistenza delle condizioni favorevoli tanto all’assalto delle prigioni quanto dell’amnistia. Oggi ci troviamo a dover esaminare anche l’eventualità dell’amnistia perché oggi questo è un problema politico sul tappeto ed intendiamo farlo da comunisti secondo principi e calcolo politico.

Abbiamo indicato all’inizio quale sia l’interesse borghese nella vicenda, pertanto passeremo ad analizzare l’interesse del movimento. Pensiamo opportuno mostrare i limiti di una posizione presente nel dibattito e che, politicamente sostenuta da un numero ristretto di prigionieri, è fonte di confusione essenzialmente per un fatto: è praticamente insostenibile e stravolge sia i principi politici che la storia. Ci riferiamo alla posizione pubblicata nell’ultimo numero de Il Bollettino di due compagni che si firmano anche loro militanti delle BR-PCC. Non è l’unica posizione di tipo «estremista», ma possiede alcune caratteristiche che la rendono, diciamo così, «paradigmatica» di alcuni degli esiti del soggettivismo. In buona sostanza costoro si limitano a dire: «Curcio è un dissociato, ogni discorso sulla liberazione è sinonimo di dissociazione. Risponderà la guerriglia». In pratica ciò significa che confidano esclusivamente sul rilancio politico-organizzativo della propria organizzazione, cioè sulla parte delle BR-PCC, conosciuta come «prima posizione», che ha mantenuto questa sigla dopo la scissione dell’84. Nessuno ignora infatti che questi compagni sono così tristemente settari da non riconoscere altra lotta armata, altra posizione rivoluzionaria che non sia la propria. La nostra divergenza dalle posizioni di questa organizzazione non ci sembra ignota né poco argomentata visto che abbiamo apertamente condotto una critica pluriennale del soggettivismo idealista ed abbiamo riconosciuto nell’Unione dei Comunisti Combattenti la capacità di valorizzare e rinnovare creativamente, quindi nei fatti dare davvero continuità al patrimonio di esperienza delle BR. Quello che qui ci interessa contestare è l’atteggiamento concreto sulla questione specifica, anche perché nello sforzo di negare la realtà e le sue lezioni, questi compagni dissolvono anche le acquisizioni fondamentali e caratteristiche delle BR. Basti pensare a titolo d’esempio alla «nuovissima» teoria per cui le BR non avrebbero mai avuto una direzione a centralismo democratico, tipica di un partito comunista sia pure «in nuce», bensì rapporti interni tipici del «collettivo combattente» di anarchica memoria, come l’intercambiabilità e la non localizzazione fisica della funzione dirigente. E dire che il concetto di partito è stato sempre una questione di principio così fortemente sentita, da indurci ad inserirlo nel nome stesso dell’organizzazione (BR-PCC), proprio per distinguerci dalle «innovazioni» curciane dell’’81-’82. È chiaro che questa autentica mistificazione storica ha lo scopo assai modesto di «minimizzare» in un modo qualsiasi l’«emorragia» di questi dirigenti; ma è anche indicativo di dove stia conducendo il tentativo soggettivista di esorcizzare la crisi!

Ma al di là delle elucubrazioni irrazionalistiche sui principi e della deformazione strumentale della storia delle BR, quello che ci interessa per ora è indicare come la posizione «estremista» sulla questione dei prigionieri è politicamente, ossia nel concreto delle condizioni presenti, insostenibile. In primo luogo perché di fatto non contrasta, bensì facilita il discorso sulla «pacificazione», visto che non fornisce risposte praticabili al problema della liberazione né per i prigionieri né per il movimento di massa. Agevola quindi il compito dello stato, che può così scegliere la soluzione per sé politicamente meno costosa. Se il problema non fosse stato posto sul terreno politico (dalla borghesia concretamente), non ci sarebbe stato nessun bisogno di fornire risposte diverse dall’evasione; era questa la situazione degli anni tra il 1970 e il 1987. In secondo luogo perché proprio i principali dirigenti e promotori della svolta ultrasoggettivista del 1984 nelle BR-PCC (di cui la posizione in esame rappresenta la sopravvivenza verbale) si sono oggi incaricati di dimostrare nei fatti come l’estremismo non abbia sbocchi politici, debordando improvvisamente nel campo degli apologeti della borghesia e della sua invincibilità. Salto di destra neppure dovuto a gravi problemi di sconfitta militare malamente affrontati, ma semplicemente all’affacciarsi di una proposta politica da parte di esponenti governativi.

La crisi del soggettivismo idealista esplode di fronte ai problemi politici concreti, come incapacità di tradurre in mosse pratiche efficaci i propri schemi teorici, evidenziando una spirale sconfitta-radicalizzazione volontaristica-nuova sconfitta che alla fin fine produce dissoluzione politica-teorica-organizzativa. Il documentino con cui Balzerani, che dichiara di parlare a nome delle BR-PCC di oggi, si colloca, se possibile, ancora più a destra di quello di Curcio e dichiara fumosamente la fine non solo e non tanto della lotta armata ma anche di ogni processo di emancipazione (foss’anche pacifica!) delle classi sfruttate, delinea infatti una parodia di «analisi economica» dell’evoluzione presente e futura del capitalismo, secondo la quale, tanto che si vada verso la guerra oppure verso la distensione internazionale, il proletariato dei paesi occidentali non avrà comunque una qualsiasi possibilità di lotta per il potere o di trasformazione sociale. Si è venuto in pratica a determinare quanto avevamo previsto ed evidenziato nell’«autointervista» del febbraio 1987. Si sono finalmente riunite le due impostazioni antimarxiste e soggettiviste che rivendicano un diritto di rappresentanza/lettura della storia delle BR. Sul piano teorico, la prima di «destra», si è caratterizzata come «storicizzazione» che cerca di giustificare la nascita e lo sviluppo della lotta armata per meglio relativizzarla ad una determinata/irripetibile situazione storica del passato e riconoscere implicitamente o esplicitamente il sistema politico-sociale vigente; la seconda, di «estrema sinistra», caratteristica delle BR-PCC dall’84 in poi, relativizza l’influenza politico-sociale della lotta armata fino ad oggi esistita, «imbalsamandola» come progetto puramente ideale immodificabile, per assolutizzare una certa posizione al di là delle verifiche della prassi e delle concrete condizioni storiche. «Soluzione politica» e «dissoluzione della politica» si sono dunque incontrate sotto la comune bandiera della «pacificazione», perché entrambe rendono questa storia prigioniera del passato, senza «spinta propulsiva» nel presente, morta come tutte le cose che «non si possono trasformare».

I compagni che oggi assumono posizioni in nome della guerriglia delle BR-PCC sono comprensibilmente in grave difficoltà politica. Quello che gli riesce più difficile comprendere e tollerare è il persistente atteggiamento di ricerca del «nemico» all’interno dell’area comunista rivoluzionaria, contribuendo così quotidianamente all’imbarbarimento della dialettica tra i comunisti e alla disgregazione ulteriore del movimento rivoluzionario. A noi sembra opportuno che questi compagni, nei limiti che come gruppo di prigionieri hanno, diano conto a se stessi e al movimento delle motivazioni ideologico-teoriche che hanno spinto i loro dirigenti ieri a perseguire sistematicamente la scissione delle BR-PCC e oggi a stare al fianco di Curcio (la continuità ideologica fra posizioni ultramilitariste di ieri e quelle soluzioniste di oggi non è certo una nostra forzatura polemica, ma una balzeraniana rivendicazione di «linearità»!). In altri termini crediamo che la loro credibilità politica sia a questo punto tanto gravemente messa in discussione da poter essere ricostruita, come gruppo di militanti, solo a partire da una severa riflessione su tesi e scelte di questi ultimi tre anni. La digressione sulla posizione estremista è stata lunga, ma purtroppo inevitabile; non crediamo infatti giusto avallare con il nostro silenzio il «gioco al massacro» di un atteggiamento estremistico tutto verbale, giocato sul residuo «prestigio» conferito dalla prigionia politica e motivato unicamente dal non voler fare i conti con i risultati concreti del proprio teorizzare e dalla ricerca di un «avversario» cui addebitare i propri fallimenti.

Torniamo pertanto al problema politico particolare della possibilità di liberazione. Abbiamo visto i principi da mantenere fermi; adesso buttiamo uno sguardo sulla situazione concreta, dal punto di vista politico e da quello militare, e cerchiamo di fare un conseguente calcolo politico, da comunisti.

L’avanguardia politica e rivoluzionaria, identificatasi finora con la lotta armata delle BR (sorvoliamo ovviamente sulle vicissitudini post-1981 di questa sigla!), si trova a questo punto di fronte a scelte drastiche da compiere. Le difficoltà politiche ed organizzative gravissime che ha affrontato in questi ultimi anni si sono infatti ulteriormente aggravate. Al colpo puramente politico rappresentato dai dirigenti prigionieri delle BR-PCC che corrono a ripararsi «all’ombra di Curcio» va infatti aggiunto il colpo militare concretizzatosi nell’ondata di arresti che ha colpito un’area di militanti e/o supposti tali della UCC.

In una parola si stringe ancora di più l’accerchiamento politico-sociale-militare della rivoluzione nella forma della lotta armata.

La sinistra rivoluzionaria e la sinistra di classe, il «movimento» hanno subito anch’essi gli effetti della sconfitta di tutto il movimento di classe dopo il 1980 ed oggi sono più o meno un’area notevolmente frammentata, priva di influenza e peso politico, socialmente poco o niente radicata come alternativa puramente eventuale al riformismo, al revisionismo, alla borghesia. Per di più gli anni della riscossa controrivoluzionaria hanno consolidato un clima politico e meccanismi giuridico-istituzionali tali da disegnare spazi di agibilità politica per l’opposizione sociale rivoluzionaria dentro cui non ballerebbe un topo.

A livello di massa, il proletariato storicamente più combattivo d’Europa segna il passo.

Si notano però anche importanti segnali d’inversione di tendenza a livello dell’insoddisfazione e della mobilitazione di massa. Ed anche a livello della sinistra di classe forse si va superando il punto più basso della curva.

In questa situazione imporre un’amnistia sarebbe un’idea assurda. Le forze politiche della borghesia, nel prendere in esame la possibilità di una liberazione, hanno, come abbiamo visto, ben altre motivazioni che la «pressione» dei movimenti di massa o della guerriglia. Il problema, per noi, il movimento rivoluzionario, sinistra di classe, è di vedere se di fronte ad un’iniziativa dello stato che punta decisamente a massimizzare e consolidare i frutti politici della sconfitta della classe e della lotta armata, è possibile costruire una posizione di resistenza che consenta di limitare i danni e magari invertire un trend negativo durato troppo a lungo.

Esiste questa possibilità?

Per rispondere a questa domanda bisogna vedere quali interessi diversi da quelli della borghesia possono trarre vantaggio politico dal clima che un dibattito pubblico sull’opportunità di liberare i prigionieri comunisti per lotta armata può in parte creare. È chiaro infatti che le limitate forze del movimento, seriamente definibili come rivoluzionarie, richiedono obbligatoriamente un atteggiamento politico duttile ed articolato, che consenta di convogliare su questo obiettivo forze più vaste delle proprie.

Cominciamo perciò dalle forze rivoluzionarie. Secondo noi la liberazione dei prigionieri è un interesse concreto di tutti i rivoluzionari, se si riesce a dare un segno di classe, una gestione politica, che salvaguardi contenuti e valori proletari e comunisti, alla discussione e al succedersi delle iniziative future. Indipendentemente dalle linee politiche e dalle concezioni teoriche. Recuperare quadri, se non altro, è interesse anche dei soggettivisti più estremi, quando si facciano valutazioni politiche anche soltanto sobrie.

Ma è interesse vitale e prioritario del «movimento», di quel complesso di strutture, gruppi, comitati, collettivi, riviste, radio, soggetti isolati, ecc., che hanno bisogno di recuperare e allargare gli spazi di agibilità politica, di uscire dalla ghettizzazione, dalla criminalizzazione e dall’isolamento. Spazi che opportunamente sfruttati, dentro un clima politico da perseguire coscientemente come obiettivo di breve-medio periodo, possono consentire a sostanziose fasce di movimento e della sinistra di classe, di agire iniziative atte a ricostruire il radicamento sociale, a superare steccati che hanno certo giustificazione storico-ideologica, ma sono oggi un non senso politico-fattuale.

È interesse più generale di tutti quei movimenti di massa che si trovano ad entrare in contraddizione con le scelte e le politiche dei governi di «pentapartito», perché anche sul piano del conflitto sociale più semplice, pesa il consolidamento nella prassi quotidiana dell’offensiva conservatrice.

Oltre l’interesse diciamo così, immediato o tattico dei vari soggetti politici e sociali interni alla classe, esiste anche un interesse di tipo più generale, specificamente comunista: quello di far sì che il patrimonio d’esperienze maturato nella pratica rivoluzionaria delle BR non vada dissolto tra «memorialistica» interessata di ex combattenti «pacificati» e radicalizzazioni «teoriche» la cui violenza di linguaggio è direttamente proporzionale all’infiacchirsi della pratica sociale e della proposta politica.

Finora, rispetto alla questione della liberazione, ampi settori del movimento e della sinistra di classe sono apparsi disorientati. L’atteggiamento prevalente ci è sembrato fin dall’inizio connotato da una sacrosanta diffidenza per tutta la retorica della «pacificazione», per i contenuti in essa impliciti di smarrimento dell’identità e dell’appartenenza di classe, unita ad un concreto interesse per la possibilità di liberare i prigionieri comunisti. Fatto questo che non risponde ad ovvi criteri di solidarietà proletaria, ma investe il problema politico generale della repressione dell’antagonismo. L’inizio di un dibattito politico pubblico fa intuire la possibilità di utilizzare spazi che oggettivamente si aprono.

Secondo noi il tema della liberazione dei comunisti prigionieri per lotta armata può diventare un’occasione di mobilitazione, confronto politico, uscita dall’isolamento, recupero di spazi di agibilità. Per converso, proprio una mobilitazione ed un intervento consistente da parte del movimento della sinistra di classe può cambiare il segno di classe finora apposto dai partiti e dai «letteristi» sulla vicenda. I due aspetti sono interdipendenti. Se il movimento lascia l’iniziativa esclusivamente nelle mani della borghesia, il segno di classe dell’amnistia non potrà che essere negativo, e per il movimento sul piano degli spazi di agibilità e per i prigionieri su quello dell’ampiezza del provvedimento.

Con un’aggiunta. Noi pensiamo che, per come sono andate finora le cose, non sia affatto scontato che si arrivi ad un’amnistia: nel senso che l’evoluzione più negativa della vicenda, in assenza di contraddittorio sul terreno politico, può anche produrre una semplice elargizione «ad personam» di sconti di pena o «grazie». Né i prigionieri comunisti, né il movimento trarrebbero alcun beneficio politico da questa evoluzione. Perché è adesso che si è aperto uno spiraglio, sicuramente non grandissimo ma concreto, attraverso cui far passare la questione della liberazione dei prigionieri comunisti nella forma di amnistia uguale per tutti, senza contropartite né discriminazioni.

Diciamo «far passare» e non «imporre», consapevoli della debolezza politica e organizzativa in cui si trova la sinistra di classe. Constatiamo però che esistono interessi oggettivi non borghesi ed anche contraddizioni dentro le forze borghesi; contraddizioni sicuramente «non antagoniste», ma che esistono oggi e fin quando ci sarà dibattito pubblico sull’opportunità di una liberazione.

Quando questo periodo avrà fatto maturare una legge, i cui contenuti saranno decisi nei prossimi mesi, la questione sarà politicamente chiusa. Per questo è fondamentale, insostituibile la coscienza e la mobilitazione politicamente orientata, attenta ai tempi reali, del movimento della sinistra di classe. A partire chiaramente da quelle realtà di movimento che più di altre hanno fatto della lotta alla repressione/militarizzazione un aspetto importante della propria attività, fornendo ai prigionieri il sostegno e lo spazio della comunicazione. Altrimenti, per assenza di alternative, saranno gli «oscuri patteggiamenti», l’immagine ufficiale, il sigillo di classe, della discussione politica e della dinamica concreta della liberazione.

Come sempre, l’atteggiamento nei confronti di un problema specifico discende da valutazioni d’ordine più generale sulla fase che lo scontro di classe attraversa e sulle soluzioni di linea politica. Su questo nodo di problemi, come su altri, torneremo in un prossimo intervento. Schematizzando comunque la diversità di posizioni, escludendo per definizione quelle ormai fuori dal campo comunista, ci sembra di poter dire che alla gravità della situazione ci si dispone a rispondere sostanzialmente in due modi:

Il primo, pur con molte varianti e «distinguo», frutto di un atteggiamento politico attento in varie misure alle vicende concrete dello scontro di classe in questo paese, allo stato reale del movimento rivoluzionario e consapevole anche delle caratteristiche generali della congiuntura internazionale, parte dalla constatazione della necessità nuda e cruda di un periodo di ricostruzione del movimento, del suo reinserimento significativo nella classe e nelle sue lotte, di riflessione sull’esperienza e risistematizzazione, su questa base, della teoria più adeguata. Il secondo, astraendo completamente dai dati materiali politici e militari della situazione e unicamente motivato dalla necessità di ribadire una particolare e ultrasoggettivistica concezione della lotta armata a dispetto delle riprove negative fornite dalla prassi (oltre che non secondariamente dalla sorte politica di chi l’aveva partorita), spera rozzamente di poter perseguire nell’immediato il proprio individuale rilancio, indipendentemente da quale dialettica reale intercorre oggi tra iniziativa armata e lotta di classe.

Diciamo perciò che soltanto chi si colloca dentro questa particolare linea politica può pensare di potersi disinteressare o opporre ad una mobilitazione di movimento a favore della liberazione dei comunisti prigionieri, mantenendo in ciò un’apparente coerenza. Riteniamo infatti tale atteggiamento autolesionista sul piano politico, come su quello militare, perché va contro persino agli interessi particolari di gruppo o di organizzazione.

Altri compagni, infine, hanno più seriamente avanzato riserve sulla possibilità reale di perseguire l’obiettivo della liberazione senza confondersi con il polverone della «pacificazione». Il dubbio è serio e trova fondamento concreto proprio nella estrema debolezza delle posizioni comuniste rivoluzionarie. In tempi difficili come questi, i comunisti, in quanto avanguardie politiche generali, debbono certamente confermare e rinsaldare i propri principi, distinguersi anche organizzativamente dagli opportunisti, ma debbono anche, e tanto più quanto più sono deboli, prendere iniziative e perseguire obiettivi che impediscono l’isolamento e l’annientamento.

Abbiamo bisogno, come comunisti e come politici rivoluzionari di condizioni sociali e politiche per ricostruire. Dobbiamo quindi, e senza perdere un solo tratto della nostra identità politica, promuovere e partecipare a battaglie e lotte politiche che non potranno non sembrarci «arretrate», «democratiche». Ma i comunisti sanno, e quando non lo sanno debbono imparare a passare attraverso queste battaglie senza smarrirsi o sciogliersi, ma precisamente per rafforzarsi. Le condizioni concrete maturate nello scontro sono queste e ce le siamo in parte costruite anche con i nostri errori. Non si tratta di «farsele piacere», ma di agire per mutarle.

Il rischio di «confondersi», dunque, non si evita con una sorta di «sdegnoso arroccamento», che contribuirebbe di fatto in un subire passivamente le conseguenze politiche concrete cui porterà lo sviluppo della vicenda in esame sotto il segno della «pacificazione». Le garanzie contro questo rischio stanno tutte nelle posizioni politiche di classe che i prigionieri manterranno e soprattutto nella mobilitazione del movimento, una mobilitazione che per essere realmente attiva e incisiva, stante i rapporti di forza esistenti, deve necessariamente vedere unita intorno all’obiettivo specifico, tutta la sinistra di classe e rivoluzionaria, perché il problema non è davvero quello di imbastire una sorte di fronte unico, riscoprendo frettolosamente la politica delle alleanze, ma è comunque quello di avere sufficienti forze per raggiungere un obiettivo specifico e parziale, che non potrebbe essere raggiunto con le nostre sole forze attuali. Ogni settore, ogni organizzazione, si muoverà o si è già mossa su questo tema perseguendo, come è naturale, il proprio interesse politico. La domanda che deve muovere il movimento rivoluzionario è per l’appunto questa: qual è il nostro interesse politico nel problema specifico? Ci muoviamo attendendo la distruzione/dissoluzione di quanto ancora resta, dando così una mano decisiva al disegno della «pacificazione», oppure ci muoviamo per la ricostruzione teorico-politico-organizzativa del movimento rivoluzionario?

La mobilitazione su questi temi può diventare un’occasione concreta attraverso cui ristabilire il confronto tra tutte le forze di classe che si pongono sul terreno del superamento rivoluzionario del capitalismo, nella direzione della società socialista. Un’occasione per riallacciare le fila di un dibattito i cui termini generali e storici sono stati posti a tutti i comunisti dalla sconfitta della lotta armata a partire dall’inizio degli anni ottanta: ridefinire, alla luce della ventennale esperienza del movimento rivoluzionario italiano, legale e clandestino, armato, semiarmato o esclusivamente politico di massa e d’avanguardia, una teoria, una strategia e una tattica in grado di far tesoro tanto dei successi politici e teorici acquisiti, come degli errori inevitabili nella prima fase della ripresa del movimento comunista rivoluzionario nel nostro paese.

 

Paolo Cassetta, Prospero Gallinari, Francesco Lo Bianco, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti

Necessità della rottura rivoluzionaria. Carcere di Cuneo – Documento di Renato Bandoli

«Non si giunge mai tanto oltre come quando non si sa più dove si vada»
Goethe

È ormai noto il contenuto del dibattito, delle dichiarazioni e delle prese di posizione che da qualche mese a questa parte, successivamente cioè alla pubblicazione delle famose «lettere aperte» di Bertolazzi, Curcio, Iannelli e Moretti, hanno attirato l’attenzione del mondo politico e istituzionale, trovando ampia «audience» presso gli organi d’informazione, intorno alla proposta di una «soluzione politica» del problema costituito dall’esperienza della lotta armata in Italia e della grande stagione di lotte che ha caratterizzato gli ultimi decenni di vita politica e di scontro sociale del paese.

Alla critica di ciò che con diverse formule viene indicato come «battaglia di libertà», «sbocco sociale e politico» del ciclo di lotte degli anni ’70, sono dedicate le considerazioni che seguono. Tuttavia non solamente di una critica s’intende qui trattare, ma bensì di mettere anche in luce alcuni nodi, degli interrogativi, che a parere di chi scrive sembrano rivestire un qualche interesse…, non fosse altro che per mostrare le contraddittorie e inaccettabili conseguenze a cui necessariamente conducono le premesse dalle quali muove la proposta della cosiddetta «soluzione politica». Premesse che, come cercheremo di chiarire, sono gratuite tanto sul piano logico quanto su quello storico di una disincantata e non strumentale considerazione dell’esperienza di lotta degli anni passati.

Diciamo anche che non mette conto qui addentrarsi in quella che sarebbe una fin troppo facile polemica circa la genesi e il modo con cui quella proposta è maturata ed è stata avanzata. Né interessa sottoporla ad un esame di ordine ideologico o moralistico, che avrebbe come unico risultato quello di lasciare le cose come stanno, non facendo comprendere una briciola del senso e del significato autentici della «soluzione politica» in questione, così come di ogni «soluzione» di carattere istituzionale.

Fatti questi brevi accenni introduttivi si ritiene necessario anzitutto prendere in considerazione per così dire la «costruzione» del discorso avanzato dai promotori, per cercare di evidenziare il contenuto delle tesi a cui essi appendono, come ad un chiodo, quadro e cornice del loro progetto.

I presupposti da cui muovono sono concentrati in poche proposizioni. Tre sono le enunciazioni perentorie che dovrebbero sostanziare la «legittimità» della proposta, ma che tuttavia mostrano il loro vero significato non appena si scenda un tantino sotto la superficie ambigua che avvolge le parole.

Esaminiamone dunque la sequenza.

In primo luogo si sostiene che sarebbero…“di interesse generale ma in modo specifico della sinistra di classe, promuovere uno sbocco politico e sociale” del ciclo di lotte degli anni ’70.

In secondo luogo si afferma che quel ciclo…“ha ormai esaurito il suo corso ma che si potrà dire realmente concluso solo quando tutti i compagni che vi hanno dato impulso saranno usciti di prigione”.

In terzo luogo, infine, si istituisce la singolare equazione per cui «sbocco politico e sociale» significa «oltrepassamento» e per il cui tramite si deduce che ciò…“vuol dire prendere atto della irripetibilità dell’esperienza compiuta…” “vuol dire, insomma, riconoscere una discontinuità tra quell’esperienza e il nostro presente”, giungendo poi alla «fulminante» conclusione che…“Mentre dunque prendiamo atto della fine di un ciclo, dobbiamo nello stesso tempo affermare l’impossibilità del suo oltrepassamento senza la liberazione dei soggetti che ne sono stati protagonisti”.

Siamo in presenza qui di un ragionamento soltanto apparente, che dissimula le grossolane contraddizioni a cui va incontro dietro categorie quali l’«oltrepassamento» e dietro formulazioni quali l’«esaurirsi» ma non di «concludersi» di un ciclo di lotte. La contraddizione è «sottile» solo per chi fabbrica sofismi!

Vediamo ora di chiarire nelle grandi linee in che cosa consiste l’apparenza di tutto il ragionamento.

Prima di tutto è falso che esista attualmente nel paese uno «spazio culturale e politico», a cui gli autori si richiamano e a cui vorrebbero richiamare il «senso di responsabilità» di ognuno al suo «potenziamento», allo scopo di promuovere la cosiddetta «battaglia di libertà», che non sia lo «spazio» consentito e sovradeterminato dallo stato, «spazio» in tutto dipendente dagli interessi di mediazione politica, di rifondazione e di stabilizzazione degli apparati e delle strutture istituzionali del regime democratico.

Le espressioni di autonomia e di autodeterminazione della classe, là dove esistono e nelle forme in cui esistono, infatti attualmente non sono dotate di quella forza necessaria per «aprire» un effettivo spazio di potere nella prospettiva di condurre una battaglia che si faccia carico anche dei «destini» dei prigionieri, all’interno dei riferimenti ideali, dei valori, delle aspirazioni e del patrimonio della storia della lotta di classe proletaria.

È questa mancanza di forza collettiva e organizzata che consente allo stato di occupare, quando non di fabbricarli addirittura, gli «spazi» possibili e di farne luoghi propri di mediazione dei conflitti sociali.

Ma procediamo.

È falso poi che esista un «interesse generale» alla promozione di una «soluzione politica». E ancor più falso è che esista «in modo specifico» per la «sinistra di classe».

Quale sarebbe il soggetto di un tale «interesse»?

Di quale «sinistra di classe» si va cianciando? Di quella che, come il Partito Comunista Italiano, ha apertamente sostenuto lo stato all’epoca della scellerata «solidarietà nazionale» e che da sempre è compromessa con le «esigenze» della «ragione di stato» di delegittimare quei fenomeni di antagonismo che sfuggano al suo controllo? Oppure ci si riferisce a quell’area politica e di opinione, unita sotto il celebre slogan «né con lo stato né con le BR» che prima ha accettato imbelle le leggi speciali e la cultura dell’emergenza sostenendo che la lotta armata avrebbe… “messo in crisi il rapporto fra classe operaia e democrazia” e che successivamente, essendo innegabile che la «lotta al terrorismo» è il veicolo anche per la rottura della «rigidità operaia» e per la repressione dell’autonomia di classe, è tornata sui propri passi scandalizzandosi per gli effetti dell’emergenza, attraverso il sostegno incondizionato alla dissociazione?

O, ancora, il rinvio è alla «idea» di una «sinistra» che in quanto a forza di movimento, energie, identità, espressioni di antagonismo, ecc., è pressoché inesistente poiché confusa dall’avanzata della selvaggia ristrutturazione capitalistica, dei suoi valori sociali, della sua aggressiva ideologia?

Va da sé che comunque lo consideri, qui il riferimento alla «sinistra di classe» e ad un «interesse» generale o specifico che sia, verso la «soluzione politica» è soltanto una concione demagogica.

Nel migliore dei casi sostenere l’affermazione di quell’«interesse» significa identificarlo con se stessi e con i propri particolari interessi di «ceto politico» di conseguire la libertà, e la cessazione dell’azione repressiva dello stato. Nel peggiore dei casi, invece, esso si identifica con lo stato stesso, cioè con l’esigenza del regime democratico di ristabilire il proprio «diritto» monopolistico all’esercizio della violenza e di ripristinare una «cultura della convivenza» dopo gli anni della «cultura dell’antagonismo».

In un caso come nell’altro ciò che si mostra è l’abbandono di qualsiasi riferimento che valorizzi in una prospettiva futura il senso autentico delle esperienze di lotta di massa e di avanguardia, spontanee e organizzate, armate e non, che si sono fin qui espresse.

Dal punto di vista del potere ciò che è in gioco risulta piuttosto chiaro: conseguire la capacità di mostrare l’immagine di uno stato che non solo «tiene» di fronte a fenomeni di rivoluzione sociale, ma che dà prova di «civiltà» e di «sicurezza», di «fermezza» e «umanità» quanto più esso sia in grado di percorrere la strada del «recupero» della «reintegrazione sociale» di tutti quei soggetti politici che si sono ribellati anche con le armi. L’immagine cioè di uno stato che tenta di coniugare i principi del liberalismo paternalistico con le moderne concezioni che ispirano le strategie di dominazione nei paesi capitalisticamente più avanzati.

Qualunque «sbocco politico e sociale» che apra spazi alla pacificazione e alla mediazione con le istituzioni va combattuto.

I «destini», l’esistenza e la resistenza dei prigionieri, così come il nodo della loro liberazione, sono questioni che possono essere assunte solamente in un ampio schieramento sociale antagonista, che individui nella liberazione dal carcere una delle condizioni irrinunciabili per il superamento degli attuali rapporti sociali.

Qui non è questione del “…pericolo… che un’esperienza così ricca e polivalente come quella da tutti noi compiuta… finisca dispersa nel silenzio o perda ogni contatto con le sensibilità del presente…”, ma bensì di fissare delle linee di demarcazione entro (e non «oltre») le quali la liberazione dei prigionieri appartenga ai contenuti di classe espressi nell’esperienza fin qui maturata e all’interno delle quali lavorare all’individuazione di quei processi che siano in grado di rompere il «rumoroso silenzio» sotto cui la si vorrebbe seppellire.

Al di fuori di questo orizzonte la liberazione può costituire un «problema» solo nella misura in cui la «libertà» venga assolutizzata ed eretta a valore astratto, solo cioè se essa venga separata dal contesto storico sociale in cui la lotta tra le classi si svolge. Può essere un «problema» solo se si recidono i legami che uniscono i propri «destini» individuali al senso collettivo che da sempre fonda e raccoglie le speranze e le istanze di emancipazione degli oppressi.

Ma veniamo ora ad uno dei nodi cruciali di tutto il ragionamento avanzato nelle «lettere aperte». Nodo gordiano che, come appunto nella leggenda, viene tagliato anziché sciolto.

Secondo gli estensori sarebbe necessario “… prendere atto della irripetibilità dell’esperienza compiuta” e si dovrebbe “… riconoscere una discontinuità tra quell’esperienza e il nostro presente”. (Sia detto per inciso: paradossalmente a questo riguardo sembra pertinente l’opinione espressa da P.L. Onorato sulle pagine del «manifesto» del 26/27 aprile, proprio a commento di queste dichiarazioni. “Il dubbio che sorge – egli scrive – è che la discontinuità non sia nelle cose, ma nelle persone, e che abbia a che fare con una sopraggiunta consapevolezza dell’inadeguatezza degli strumenti politici e culturali messi in campo allora e con la percezione della complessità della formazione sociale italiana che è di oggi come di allora”. Provenendo da un esponente della Sinistra Indipendente queste parole non sono certo sospettabili di «irriducibilismo» e sono piuttosto quelle del mentore che «illumina» di «coscienza democratica» ciò che rimane implicito e non detto in quelle «lettere aperte»).

Tornando all’ipotesi della «discontinuità» occorre dire subito che qui si pretenderebbe di rendere equivalenti l’esistenza delle forme in cui si è espressa la stagione di lotte degli anni ’70 e l’essenza che scorre nel sottosuolo della struttura stessa della società e in ogni sua relazione, così come scorre in ogni forma di organizzazione sociale dell’Occidente e ormai di tutta la terra: ossia la «necessità» del rapporto di alienazione, di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di manipolazione e falsificazione della vita di milioni e milioni di essere umani.

È esattamente questa essenza, quest’anima sotterranea, a costituire la inevitabile, ma non eludibile continuità, il tratto unificante che lega passato e presente, e che impone con la forza della necessità di fare i conti con la violenza, con il suo esercizio da parte delle classi dominate.

Lo stato, il sistema dei partiti, gli apparati della cultura, ecc., in questi anni non hanno lesinato energie nel tentativo di ridefinire i criteri stessi in base ai quali ogni manifestazione di dissenso, di opposizione, di antagonismo, debba essere considerata quantomeno potenzialmente un atto di violenza, tentando di imporre, insieme, come unica strada percorribile quella della non-violenza, quella della cosiddetta «umanizzazione del conflitto sociale», e a tal fine non si sono risparmiate formule roboanti quali «secolarizzazione», «laicizzazione» «deassolutizzazione» delle identità e dell’impegno politici. (Qui mette conto rilevare appena di sfuggita come il «confronto» sugli anni ’70, da più parti auspicato, avvenga all’insegna dell’astrazione politica, della politica intesa come «arte del possibile» cioè del «mediabile»).

Ciò che è decisivo per il potere in quanto tale, cioè per ogni potere, è di possedere e mantenere il «monopolio della forza». Uno stato il cui «monopolio della forza» venga contrastato e messo in discussione da forze politiche e sociali ad esso antagoniste, cessa di essere propriamente un potere «legittimo» giacché la «legittimità» gli proviene solo e nient’altro che dalla forza e dal consenso che essa è in grado di riscuotere nella società. Ovviamente non s’intende qui la forza bruta, ma ad esempio quelle forme di potenza che il linguaggio della civiltà chiama «forza del progresso», «forza della libertà», «forza delle idee» …per giungere a quella forma più potente di forza che è oggi l’organizzazione della «razionalità scientifico-tecnologica» ormai presente nel «senso comune» e nella vita dei popoli e sulla cui operatività basano la loro azione gli stati e i grandi apparati amministrativi dell’esistenza umana sulla terra.

La «legittimità» del monopolio statale della violenza è la capacità della violenza di ottenere il consenso dei sudditi. All’interno di questa capacità si colloca l’esigenza delle istituzioni di ridurre all’uno, cioè all’unica «ragione» dell’organizzazione statale, la molteplicità di forme in cui si esprimono le spinte e le tendenze rivoluzionarie di trasformazione della società.

È precisamente questa «esigenza» a far sì che lo stato cerchi di recuperare, per così dire di «metabolizzare» organicamente tutto ciò che si è espresso nel corso di vent’anni di lotta di classe. In questa direzione il tramonto delle forme politiche rappresentative della lotta armata – che niente ha a che vedere con il permanere, ancor più radicale del suo senso rivoluzionario e di liberazione sociale – si cerca di identificarlo, in primo luogo, con l’esaurirsi delle ragioni e del diritto dei proletari all’esercizio collettivo e organizzato della violenza.

Non è certo con il ricorso ad espedienti linguistici che si traccia “… una demarcazione netta con qualsiasi forma di abiura e di rinnegamento”. Al contrario, è con l’essenza di cui si diceva precedentemente che si tratta di fare i conti, è di essa che si deve discutere. «Oltre» questo orizzonte i riferimenti alla «trasformazione sociale» e al «comunismo» sono farisaici. Così come ridurre il peso dei gravi problemi dell’oggi ad una questione riguardante il «patrimonio rivoluzionario» o l’invito ad un confronto «collettivo» per la «ricostruzione della memoria» degli anni ’70, insomma così come l’ordine di un discorso sul passato che non sia insieme lavoro, indicazione, apertura e impegno rivolti al futuro, è una «ripresa di parola» omologa alla «presa di distanza» dai propri percorsi di lotta.

Non è ulteriormente eludibile il compito in cui consiste l’impegno alla considerazione del senso della violenza all’interno dei processi di liberazione sociale. Un compito che, nella teoria come nella pratica, si colloca al di là dell’esplicitazione delle «ragioni» della violenza, giacché il suo esercizio non è senza verità alla condizione che, insieme, giunga ad esplicitarsi la consapevolezza del vero senso dell’alienazione in cui consistono le radici della violenza e in cui consiste questo sistema sociale.

Infine occorre rilevare che il «chiodo» a sostegno dell’ipotesi di una «discontinuità» tra passato e presente, è costituito dalla «evidenza» delle modificazioni intervenute nel corso degli ultimi anni nel paese e nel quadro internazionale.

Si vuole proprio indicarle richiamando la «complessità della formazione sociale italiana»? E sia. Ma in assenza di un qualsiasi tentativo, da parte dei sostenitori di questa ipotesi, di argomentazione al riguardo, non è facile liberarsi dal dubbio che qui si tratti semplicemente di un presupposto infondato ma eretto a criterio giustificativo al fine di abbellire la proposta della «soluzione politica», che verrebbe così ad assumere l’apparenza non di una resa allo stato ma alla «evidenza delle cose»!

Ma una tale decisiva questione da nessuno può essere liquidata frettolosamente.

Quali sono, infatti, i tratti che contraddistinguono i mutamenti avvenuti nella vita politica, economica, sociale e culturale del paese?

Quali le «differenze» tra ieri e oggi che consentirebbero di decretare la «chiusura» di un ciclo di lotta?

Quali i valori, i contenuti, il senso, i processi e le tendenze che questi mutamenti esprimono relativamente ai «destini» di milioni di uomini e donne?

Non è certo questa la sede per tentare di avanzare qualche indicazione al riguardo, s’intende solo da un lato sottolineare le incongruenze e la gratuità di certe formulazioni e dall’altro di richiamare l’attenzione di coloro che non abdicano né alla «critica delle armi», né alle «armi della critica» alla considerazione analitica di questi interrogativi.

Se è inevitabile che la rivoluzione più autentica e radicale non sia una semplice negazione dell’esistente ma, al contrario, ciò che conduca al tramonto l’orizzonte stesso al cui interno si costituiscono i grandi antagonismi del nostro tempo e al cui interno il lavoro umano, lo sfruttamento del lavoro ma anche la liberazione dallo sfruttamento, appartengono alle stesso senso di ciò che chiamiamo e che soprattutto viviamo come «costruzione» e «distruzione» di tutte le cose, allora non è solo questione della semplice «coscienza» del dominio e dell’alienazione prodotti dal capitalismo, ma è questione riguardante un’alternativa globale, un sapere e una critica cioè che siano in grado di mostrare in che consista il «nuovo ordine» capace di condurre al tramonto il pensiero, le opere, gli uomini e del dominio. In questa direzione allora è necessaria una ricerca e una riflessione collettiva intorno a ciò che conferisce senso e significato alle caratteristiche stesse del «cambiamento», della «trasformazione rivoluzionaria».

Al di là degli inevitabili rischi di equivoco a cui tutte le parole si prestano, si tratta di comprendere che soltanto c’è qualcosa di positivo nella prassi, nella nostra vita, allorché gli atti vengano pensati e vissuti come irrevocabilmente necessari.

Fin tanto che il solo significato possibile di ciò che viene indicato con l’espressione «prendere il destino nelle proprie mani» da parte delle classi dominate, consisterà nella necessità di contrapporsi energicamente all’esistenza di una classe politica e di un sistema sociale come quelli conosciuti nella storia di questo paese, nessuno si può illudere che ogni pur minima trasformazione sostanziale della struttura sociale possa evitare di essere un rivolgimento violento.

Renato Bandoli

Carcere di Cuneo, agosto 1987

Movimentisti incalliti e falsi ingenui. Documento di alcuni prigionieri BR di Rebibbia

«La situazione è cambiata», «un ciclo di lotte si è chiuso», «non siamo più negli anni settanta», «la situazione non è più come prima» e così via. È il motivo ricorrente con cui da tempo i liquidatori incominciano i loro monologhi.

Il motivo della loro introduzione spinge alcuni compagni a obiettare che «non è vero che la situazione è cambiata» o che «la divisione di classe e lo sfruttamento sono oggi quelli di ieri se non peggio». Quest’ultima affermazione è vera, ma non coglie il punto del problema. La prima è priva di significato, come lo è il motivo dei liquidatori di cui è la semplice negazione. Infatti si tratta di vedere in concreto cosa è cambiato, con quali effetti. Se non si ragiona sul concreto, le affermazioni restano frasi vuote. Ai liquidatori le frasi vuote fanno buon gioco, a noi no.

Certo, da anni è cessata la mobilitazione di massa che si esprimeva su mille temi e in mille forme, durata gran parte degli anni ’70. Non è questa constatazione che ci divide dai liquidatori. Ci dividono il bilancio che traiamo dalla mobilitazione di massa di quegli anni e dal ripiegamento di oggi e l’obiettivo che ci proponiamo.

Lasciamo qui da parte i favori, le delazioni e i tradimenti che i liquidatori, detenuti o latitanti, dovranno trattare con la classe dominante, i suoi esponenti politici e i suoi poliziotti, in cambio della scarcerazione o della rinuncia a perseguirli. Lasciamo stare questo contesto inevitabile di ricatti, pressioni, mercanteggiamenti, contorcimenti e predicazioni da zombie e da cortigiani e veniamo alla sostanza delle analisi e delle tesi con cui i liquidatori giustificano e propagandano la liquidazione.

«Si è esaurito un ciclo di lotte antagoniste al cui interno era stato possibile far vivere un progetto di potere. Non resta che concludere quanto è rimasto delle manifestazioni di quel fallito progetto di potere, creando gli strumenti culturali e politici per riaprire lo spazio per un confronto tra tutti i soggetti che si sono battuti e si battono per un cambiamento. Gli strumenti culturali e politici sono anzitutto la scarcerazione dei prigionieri politici che costituiscono un ostacolo per ogni dibattito e percorso che non rinunci (sic!) alla prospettiva di una trasformazione radicale della società e la cessazione della riproduzione di quegli stereotipi che alimentano nel movimento rivoluzionario illusioni di continuità».

Queste le tesi dei liquidatori, riassunte prendendo a prestito le frasi dalle loro «lettere aperte» e dai loro documenti di questi ultimi mesi. Quindi via i prigionieri politici la cui esistenza imbarazza e intralcia quanti vogliono tranquillamente riprendere a chiacchierare di un mondo migliore e via i militanti BR ancora attivi. I nuovi liquidatori assicurano che essi riusciranno dove «la sciagurata ricerca di dissociazioni varie, alla quale abbiamo fin qui assistito, ha dimostrato ormai tutta la sua impotenza», a liquidare cioè quanti ancora perseguono il «progetto di potere», i continuatori della lotta armata e dell’iniziativa delle BR.

I liquidatori sostengono che la lotta armata degli anni ’70, «il progetto di potere», sono stati principalmente l’espressione più radicale, più estrema di un ciclo di lotte, una specie di punto di arrivo di un processo nel quale si passava dalla protesta alla dimostrazione, allo sciopero, al picchetto, alla spazzolata, all’«esproprio proletario», all’illegalità diffusa, alla ronda, alla violenza organizzata, in un crescendo di determinazione e di forza. Quindi per essi la lotta armata delle BR è stata la forma di lotta più estrema di un movimento di massa. Ovvio quindi che anch’essa scompaia quando il movimento di massa ripiega e la mobilitazione diminuisce.

Ma furono davvero questo le BR o l’interpretazione degli attuali liquidatori è solo una riproposizione della concezione movimentista della nostra storia?

È un dato di fatto che alcuni compagni sono arrivati alla lotta armata sulla spinta della mobilitazione di massa. È innegabile che per alcuni la lotta armata è stata solo la forma di lotta più radicale alla quale sono arrivati «spontaneamente» in un crescendo di forme di lotta. Nel crescere del movimento, man mano che i suoi obiettivi si approfondivano e che nuove masse venivano coinvolte, le forme di lotta fin lì praticate non bastavano più e molti scorgevano la possibilità di forme di lotta più efficaci e di più sicuro effetto. I compagni più generosi ed audaci vi ricorrevano.

 

È vero che alcuni compagni hanno condotto per un lungo periodo la lotta armata senza mai andare, nella loro coscienza, nelle modalità pratiche di attuazione e nel complesso della loro attività politica, oltre il livello della lotta armata come forma di lotta di massa. Basta ricordare il variegato mondo di Prima Linea e di varie organizzazioni minori, le tesi sugli Organismi di Massa Rivoluzionari. Che si producessero di continuo fenomeni di questo genere, che ci fosse una tendenza molecolarmente diffusa tra gli elementi più attivi delle masse proletarie a prendere le armi, a colpire risolutamente i nemici di classe, a far pagare caro a poliziotti e stragisti i loro crimini, questo era un indice della forza, vastità e profondità della mobilitazione.

Ma i liquidatori di oggi riducono l’attività delle BR solo a questo, negano che esse sono nate da un «progetto di potere». Negano cioè che le BR non impugnarono le armi nella foga euforica del momento, in uno slancio di ribellione. Le impugnarono come strumento essenziale, determinante, decisivo, finalmente scoperto, di un partito proletario che vuole guidare, nelle condizioni attuali, le masse proletarie alla conquista del potere politico, all’abbattimento dello stato borghese, all’instaurazione della dittatura del proletariato, verso il comunismo.

Le BR vennero costituite perché tutta l’esperienza della lotta di classe dell’epoca imperialista insegnava che un partito comunista che non padroneggia la lotta armata si ritrova impotente (nonostante le migliori intenzioni e i più grandi eroismi individuali) a dirigere gli avvenimenti anche nelle situazioni rivoluzionarie, perché l’esperienza della lotta di classe nell’epoca imperialista insegna che la lotta armata diretta dal partito comunista è uno strumento indispensabile, anche al di fuori di una situazione rivoluzionaria, come fattore determinante per impedire una concentrazione delle forze politiche dell’avversario tale da soffocare lo sviluppo delle forze rivoluzionarie e quindi che la lotta armata è essenziale all’accumulazione delle forze rivoluzionarie.

Non fu la vastità della mobilitazione di massa a giustificare la linea delle BR, a rendere consapevoli che non si sarebbe fatto un passo avanti se non si imboccava un nuovo sentiero, che non si sarebbe usciti dalle secche in cui si erano arenati tutti i movimenti e partiti comunisti europei in tutto questo secolo: fu invece l’analisi della natura della società borghese nella fase imperialista, dei rapporti politici ed economici di essa, dell’esperienza dei partiti socialisti e comunisti europei dall’inizio del secolo in avanti.

L’ampiezza della mobilitazione di massa, la tendenza diffusa alla lotta armata, non potevano non influire sull’ampiezza delle nostre operazioni militari e delle formazioni militari. L’ampiezza del sostegno di massa influiva sulle modalità operative delle organizzazioni comuniste combattenti. Ma il «progetto di potere» nasceva dal bilancio della lotta proletaria in tutta la fase imperialista nella metropoli imperialista. Questo mostrava e mostra che un partito che non padroneggia la lotta armata, che non usa questo strumento per indebolire le forze politiche della classe dominante e rafforzare le proprie, è condannato all’impotenza e alla sconfitta. Questa è una lezione non tratta dal ciclo di lotte degli anni ’70, ma dalle lotte di classe degli anni ’20 in Europa Occidentale e Centrale, dalla sconfitta del proletariato tedesco degli anni venti e trenta, dalla guerra civile spagnola, dalla resistenza al nazifascismo, dalle lotte proletarie del secondo dopoguerra. È una lezione universale. Un partito che si forma e cresce sul solo terreno delle lotte rivendicative e parlamentari, che si contiene nell’ambito delle espressioni della lotta politica proprie della democrazia borghese, che si limita a cercare di usare le istituzioni della democrazia borghese contro la borghesia, che non adotta conseguentemente la lotta armata (ovviamente in relazione allo stato reale del movimento di massa e all’obiettivo della conquista del potere politico da parte del proletariato), vota se stesso e le masse che dirige alla sconfitta e al massacro.

 

Cosa c’entra con questo l’esaurirsi del ciclo di lotte degli anni settanta?

L’esaurirsi del ciclo di lotte pone per la lotta armata (come per tutte le altre attività di noi comunisti) condizioni diverse da quelle precedenti, di cui i comunisti devono tenere tutto il conto.

Resta però fermo il grande significato storico del fatto che per 15 anni, nonostante gli errori di impostazione e l’inesperienza, la lotta armata si è mantenuta ed è diventata il polo di attrazione, di riferimento e di organizzazione per gli elementi più avanzati del proletariato; del fatto che ancora oggi, nonostante lo scotto pagato ai nostri errori, la sua sola continuità nella esistenza dei prigionieri politici che non si arrendono e nei ridotti organismi che tengono alta, nell’attuale difficile passaggio, la bandiera, basta ad impedire quella ripresa dell’impotente chiacchiericcio rivoluzionario che i liquidatori e i loro padroni governativi auspicano. Resta il fatto significativo che in tutta la metropoli imperialista i comunisti sono andati e si vanno impadronendo dell’arte della lotta armata per il comunismo e sul terreno creato da questa tessono i loro legami con i movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo e ricostruiscono l’organizzazione del movimento proletario della metropoli (ancora tra grandi difficoltà e con risultati ancora modesti, certo, ma non vi è né ci può essere altra strada!). Resta il grande ruolo esercitato nella vita politica del nostro paese dal fatto che, nonostante il riflusso del movimento di massa e nonostante anche le sconfitte da noi subite a causa dei nostri errori, le BR hanno continuato ad esistere, a riprodursi.

È proprio a causa di questo ruolo politico, a causa dell’ipoteca che la resistenza dei prigionieri comunisti esercita contro l’espansione dell’opportunismo, a causa del pericolo incombente dell’incontro tra il crescente malcontento e disagio delle masse e la lotta delle BR, che la DC e i suoi alleati sono disposti a pagare un prezzo pur di liquidare le BR e la resistenza dei prigionieri comunisti.

È questa liquidazione la moneta con cui Curcio e C. intendono pagare la loro liberazione. Lo schieramento dei prigionieri politici contro le BR e la creazione di un movimento culturale movimentista (cioè senza progetto di potere, solo rivendicazioni e proteste) e interclassista (cioè di «soggetti che si battono» anziché di classi) – i «Comitati di Sostegno» – nelle aree e nei gruppi politicamente più attivi, sono le gambe su cui cammina il progetto liquidatorio di Curcio e C.

Ma anche l’alto valore che la borghesia annette a questa liquidazione comprova una verità. Che le BR e la loro linea sono tutt’altro che fallite. Falliti sono anzitutto il revisionismo e il suo programma di riforme nel capitalismo ed è saltata la cappa di piombo che esso faceva gravare sulle masse annettendo ed isterilendo le potenzialità di sviluppo politico delle lotte rivendicative. In nessuna delle questioni su cui per decine di anni i revisionisti hanno costruito movimenti di massa è stata raggiunta una soluzione stabile: ciò conferma a chiunque vuol vedere che gli operai e i proletari troveranno una soluzione ai loro problemi di lavoro, di pace, di qualità della vita e dell’ambiente, di giustizia e di eguaglianza, solo in una guerra vittoriosa contro i tutori e guardiani dell’attuale sistema economico e politico.

Sono state sconfitte le illusioni di un passaggio senza traumi e discontinuità dal revisionismo alla lotta armata, le illusioni di unire le masse sul terreno della lotta armata solo per virtù della linea e dell’attività del partito, l’esaltazione derivante dalla scoperta dell’efficacia politica della lotta armata e la prostituzione della lotta armata a unico strumento risolutore di tutto (il militarismo dei Franceschini e Curcio che ancora pochi anni fa proclamavano che «la guerra è padre e madre di ogni cosa»), la sopravvalutazione unilaterale della potenza della lotta armata e del ruolo politico dell’avanguardia rispetto al contributo dato alla lotta per il comunismo dallo sviluppo delle condizioni oggettive economiche e politiche e delle condizioni soggettive delle masse. Insomma sono state sconfitte le illusioni di chi pensava che bastasse aver scoperto la lotta armata per arrivare alla vittoria: è stata sconfitta cioè la malattia infantile di un movimento ancora giovane, ai primi passi della sua storia.

Tutti quelli che sono decisi e convinti partigiani della rivoluzione proletaria e del comunismo devono operare in modo che la «battaglia di libertà» lanciata congiuntamente da Piccoli e da Curcio si rovesci contro la borghesia, in un passo avanti della coscienza politica e della forza organizzativa dei comunisti.

Oggi tra noi esistono divergenze serie e profonde sul bilancio della nostra esperienza e sulla linea da seguire. È inevitabile che un’impresa come la nostra, che apre strade nuove, si sviluppi tra contrasti e lotte. Ma il dibattito in cui siamo inevitabilmente coinvolti (e starsene fuori è già venir meno al proprio ruolo di comunista) sarà fecondo se farà emergere una linea ancora più aderente alla realtà delle condizioni delle metropoli imperialiste e un partito ancora più deciso a guidare la lotta del proletariato per il comunismo alla vittoria.

 

Alcuni prigionieri BR di Rebibbia

Quale «ciclo storico» si è chiuso. Carcere di Novara

Da diverse parti sentiamo dire che un «ciclo storico» avrebbe esaurito il suo corso, che occorre riflettere sul recente passato ed infine trovare una «soluzione» al problema dei prigionieri politici per contribuire alla pacificazione della società italiana.

Rispetto a tali «teorizzazioni», visto che non sono per niente «neutrali», diventa sempre più urgente sviluppare una critica di segno rivoluzionario e noi, come compagni prigionieri, con questo breve scritto intendiamo soltanto contribuire ad essa.

Ma è proprio vero che un «ciclo storico» ha esaurito il suo corso?

A cavallo degli anni ’60 e ’70, mentre emergevano i primi sintomi della crisi del «modello di sviluppo» affermatosi dopo la seconda guerra mondiale, i paesi a capitalismo avanzato sono entrati in un periodo storico contraddistinto dalla rivoluzione tecnologico-industriale incentrata su microelettronica, biotecnologie e nuove fonti energetiche. Tutto ciò vale anche nel caso dell’Italia, nel paese a capitalismo avanzato in cui negli anni ’70 abbiamo avuto uno dei più alti livelli di conflittualità sociale e di radicamento della guerriglia. Quest’ultima è nata in un contesto ben determinato, ma i fattori fondamentali che ne hanno favorito l’emergere sono elementi caratteristici del presente periodo storico attraversato dal capitalismo.

Nel quadro di rapide e violente trasformazioni degli aspetti principali della società, si verificano periodiche esplosioni sociali che, mentre risultano antagoniste ai valori della civiltà capitalistica, alimentano una dinamica rivoluzionaria di cui la lotta armata è l’espressione più avanzata e matura. In Italia, insomma, si sono prodotte e si riproducono le precondizioni che rendono possibile, oltre alle periodiche esplosioni sociali, l’esistenza della lotta armata.

Se perfino dopo il pesante ridimensionamento subìto nel 1982 la lotta armata ha potuto continuare ad esprimersi è per due motivi: da un lato perché si accavallano vecchi e nuovi squilibri sociali, nonché vecchie e nuove contraddizioni fra il sistema politico e le masse popolari; dall’altro lato perché esistono forze rivoluzionarie che, ragionando sulla questione della rivoluzione nella società a capitalismo avanzato, ritengono impraticabile la via pacifica per poter superare il capitalismo.

Le forze rivoluzionarie, pur entro impostazioni generali diverse, puntano a rafforzare i legami con il proletariato, con il mondo degli oppressi e degli sfruttati. Al tempo stesso considerano impossibile la rivoluzione senza una lotta prolungata che, di fatto, rompa il monopolio statuale della violenza e della forza e si incammini nella prospettiva di spezzare la macchina burocratico-militare del moderno stato capitalistico, di eliminarne i vincoli politico-militari internazionali e di operare una radicale rottura anticapitalistica.

Lo sbocco di «civiltà» rappresentato dallo stato moderno solo ora tende ad evidenziare il suo limite intrinseco e storico. Con il dipanarsi della presente rivoluzione tecnologico-industriale, la crisi del Welfare-State ed i processi di rafforzamento del complesso militare-industriale e dell’esecutivo, lo stato a «democrazia rappresentativa» del capitalismo avanzato si erge come comunità illusoria di fronte ad un accresciuto bisogno di democrazia sostanziale e diretta; si staglia in modo più nitido come «capitalista collettivo» che legalizza la disumanizzazione del lavoro salariato e della vita, la crescente marginalizzazione e l’alienazione. A tale riguardo le conseguenze socio-politiche della prima ondata dell’attuale rivoluzione tecnologico-industriale, cioè dell’ondata sospinta fortemente dalle crisi economiche del 1974/75 e del 1980/82, danno solo una pallida immagine di quel che attende la società nei paesi a capitalismo avanzato e del neo-autoritarismo di cui si andranno ad ammantare gli stati occidentali.

Con questa chiave di interpretazione risulta chiaro, allora, il motivo per cui i paesi come l’Italia che negli anni ’70 hanno avuto un duro scontro di classe sono diventati quelli più prolifici nel campo dei sistemi di repressione e prevenzione. Non è un caso, quindi, che nel «laboratorio» italiano venga attualmente dibattuta una proposta di «soluzione» del problema dei prigionieri politici in cambio di contributi alla pacificazione sociale, proposta questa di cui è estremamente importante criticare il significato politico di fondo.

Per comprendere appieno quale sia la «posta in gioco», bisognerebbe prima di tutto essere consapevoli dei ritardi e dei limiti con cui, da parte dell’intera sinistra di classe, è stata affrontata la complessa tematica culturale e politica che la controffensiva della grande borghesia, scatenatasi soprattutto a partire dai primi anni ’80, è andata imponendo nei posti di lavoro e nella società nel suo insieme. Ritardi e limiti resi ancora più gravi dalla contraddittorietà con cui è stata affrontata la critica alla legislazione d’emergenza ed alla giustizia premiale.

In secondo luogo bisognerebbe capire che lo stato, dopo aver usato «pentiti» e «dissociati», ricerca ora nuovi e più sofisticati strumenti per spazzare via qualsiasi progetto rivoluzionario dal nostro paese. Non a caso è stata la DC a sollecitare la discussione del problema dei prigionieri politici esclusi dalle precedenti misure di giustizia premiale e, non per niente, è soprattutto questo partito che, dopo aver lasciato trapelare una precisa proposta di «soluzione politica» (la quale prevede determinate e differenziate riduzioni di pena), strumentalizza apertamente un desiderio di libertà per trasformarlo nella resa ai valori ed alla cultura del blocco sociale dominante egemonizzato dalla grande borghesia.

Oggi le iniziative della DC sono quelle più scaltre all’interno di un più generale indirizzo politico, fatto proprio dall’intero «sistema dei partiti», che persegue l’obiettivo di ingabbiare ogni teoria-prassi di trasformazione sociale nell’ambito dei criteri di compatibilità rispetto alle istituzioni dominanti. Le mosse democristiane, al di là delle cortine fumogene, sono addirittura giunte al punto di ricercare l’avallo dei prigionieri politici ad un processo di pacificazione che lo stato gestirebbe per intensificare l’attacco alle forze rivoluzionarie ed a tutte le forme di autodeterminazione dei movimenti di lotta.

Del resto è già iniziato l’uso strumentale del problema dei prigionieri politici negli scontri interni al «mondo dei partiti» ed agli apparati istituzionali, come è dimostrato senza ombra di dubbio dalle polemiche riguardanti la presunta esistenza di un filmato sulla prigionia di Moro. Inoltre è già incominciata una nuova ed estesa campagna di disinformazione e propaganda controrivoluzionaria che cerca di mettere in contrapposizione le «vecchie» alle «nuove» BR. A tale scopo i mass-media diffondono notizie secondo cui le «vecchie» BR sarebbero rappresentate esclusivamente dagli ex militanti disposti al «dialogo di pacificazione», mentre le «nuove» BR sarebbero, tanto per cambiare, dei mercenari al servizio di potenze oscure, dei trafficanti di droga, degli asociali oppure dei terroristi simili agli stragisti neri.

Di fronte a questa campagna piena di bugie, da un lato è necessario precisare che nessun gruppo di prigionieri è legittimato a «dialogare la pacificazione» a nome di tutti i prigionieri politici, men che meno a nome della sinistra di classe e delle formazioni rivoluzionarie combattenti. Dall’altro lato è necessario riconoscere l’esistenza di un filo rosso che lega tutta la storia delle BR, da quando è nata questa organizzazione fino ad oggi.

Secondo noi bisogna prendere atto che il periodo storico iniziato sul finire degli anni ’60, essendo legato indissolubilmente a quella che si presenta come la seconda grande rivoluzione tecnologico-industriale, è tutt’altro che esaurito. È arrivato il momento, altresì, di ribadire un netto rifiuto nei confronti di ogni forma di avallo alla cosiddetta pacificazione sociale. Quantomeno occorre difendere il diritto al rifiuto dell’ideologia dominante, dell’ideologia borghese nella sua versione «colta» della «post-modernizzazione» o in quella rozza del «post-ciclo storico», e quindi difendere il diritto di tutti coloro che, come noi, non vogliono diventare i consulenti di uno stato desideroso di stabilire il più rigido monopolio della forza e della violenza sulla pelle delle classi sfruttate ed oppresse.

Queste nostre considerazioni intendono forse sottovalutare la questione del carcere? No, non è questo il punto, ma il problema della liberazione dal carcere può essere affrontato correttamente solo all’interno di una ripresa della solidarietà proletaria e della lotta contro i programmi della borghesia imperialista, altrimenti non si farebbe che contribuire al processo di pacificazione auspicato dallo stato ed al corrispondente tentativo di addomesticare, e quindi distruggere, il patrimonio accumulato di esperienza rivoluzionaria.

 

Maggio 1987

Carcere di Novara. Per la ripresa della sinistra di classe. Alcune considerazioni in merito alla «battaglia di libertà» proposta da Bertolazzi, Curcio, Jannelli e Moretti

Da qualche mese quattro prigionieri politici hanno promosso un’iniziativa tesa (apparentemente) ad aprire un dibattito all’interno della sinistra per dare «uno sbocco politico e sociale al ciclo di lotte degli anni ’70».

I quattro sostengono che quel ciclo si è esaurito ma non concluso e che per portarlo a conclusione è necessario sciogliere il problema dei prigionieri politici che di quel ciclo sono stati l’espressione. Secondo loro «lo scontro sociale degli anni ’70 si è storicamente esaurito. Esaurito nei presupposti di classe che lo hanno determinato, nelle condizioni internazionali che lo hanno favorito, nella cultura politica che lo ha caratterizzato, negli specifici progetti di organizzazione rivoluzionaria di cui si è servito».

Questo è il presupposto da cui partono i quattro per promuovere la cosiddetta «battaglia di libertà». Ed è a partire da questo che salta agli occhi una contraddizione tra l’obiettivo reale (la «battaglia di libertà») e il mezzo per raggiungerlo (far leva sulla reale necessità della sinistra di classe di uscire dalla crisi).

Il bisogno di aprire un dibattito nella sinistra di classe per contribuire collettivamente alla sua uscita dalle secche della crisi in cui versa da alcuni anni oramai, è un dato di fatto inconfutabile. Ma allora questo deve essere l’obiettivo e non quello di far leva strumentalmente su una condizione reale esistente al fine di risolvere il problema dei prigionieri. Quest’ultimo, benché sia un problema moralmente e politicamente importante, sicuramente non è uno dei problemi principali a cui la sinistra di classe (e in primo luogo la sua parte più cosciente) deve dare soluzione per uscire dall’angolo in cui il «rullo compressore» della controrivoluzione l’ha cacciata.

L’operazione politica promossa dai quattro prigionieri (a cui successivamente hanno aderito altri gruppi di prigionieri, nonché esiliati e altri individui a vario titolo in libertà) trae forza da una situazione realmente esistente e gioca sul filo sottile delle parole per acquisire (in buona e in mala fede) all’interno della sinistra consensi da usare strumentalmente nella contrattazione corporativa con alcuni esponenti significativi dello stato che da quarant’anni garantisce lo sfruttamento e i peggiori crimini a spese del proletariato, a nome del quale i quattro pretendono di parlare e di cui pretendono di interpretare le aspirazioni di classe.

Essi infatti cercano di vincolare la soluzione dei problemi della sinistra di classe (e più in generale del proletariato) a quelli immediati e soggettivi dei prigionieri politici.

Diventa persino ridicolo pensare che, a fronte dell’offensiva della borghesia di questi ultimi anni, sia sufficiente la liberazione dei prigionieri politici per «concludere questo ciclo di lotte esaurito» ed avviarsi ad un suo superamento (e ad una ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria e proletaria… si suppone!).

Sostenere questo in buona fede significa, quantomeno, peccare della più sfrontata presunzione.

Quest’iniziativa, nei termini in cui è stata posta (e svelata dal suo obiettivo strumentale), non si propone di dare uno sbocco politico e sociale al ciclo di lotte degli anni ’70, ma contribuisce di fatto a creare le condizioni per raggiungere un compromesso con lo stato per risolvere un problema corporativo. Oggettivamente contribuisce a rafforzare la posizione di coloro che (anche nella sinistra) perseguono l’obiettivo della liquidazione dell’esperienza rivoluzionaria in Italia, rivalutando la legittimità dei movimenti di contestazione, ma attaccando, isolando e criminalizzando la componente più cosciente che si è espressa sul terreno della lotta armata. Contribuisce a creare notevole confusione nella sinistra (sugli obiettivi prioritari da perseguire) e a delegittimare coloro che, nelle difficili condizioni presenti, intendono dare continuità (sia pure con le inevitabili rotture) ad un processo rivoluzionario iniziato in quegli anni.

Questa operazione, ovviamente, non è determinante per il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria e di classe, ma questo non vuol dire che non sia influente.

Un altro aspetto che emerge da questa operazione è il tentativo di appiattire (a posteriori) la sinistra, senza distinzioni di sorta tra la parte istituzionalmente legittimata, quella parolaia inconcludente (ma con qualche radice nella classe), quella realmente di classe e la parte più cosciente e conseguente che si è misurata sul terreno della lotta armata contro lo stato come reale necessità per dare uno sbocco strategico alle aspirazioni di classe del proletariato, in alternativa alla bancarotta revisionista.

Sull’onda della sconfitta subìta, l’appiattimento delle responsabilità all’interno della sinistra tutta assume il tono di una manovra furbesca e strumentale, proprio perché non sono paragonabili (sia sul piano politico che su quello storico) le responsabilità che, di fatto, si è assunta la parte comunista e rivoluzionaria, operando una forzatura soggettiva per organizzare e dirigere un processo di contestazione del sistema sociale borghese nella prospettiva della guerra civile per il rovesciamento del regime sociale, con quelle della più vasta area dei movimenti che hanno contraddistinto gli anni ’70-’80.

Le BR non sono nate come necessità contingente e tattica.

Le BR sono sì nate sulla spinta di un movimento espansivo (sorto dall’esplosione e concentrazione di contraddizioni internazionali ed interne), ma fin dai primi anni di attività si sono poste come Organizzazione Comunista Combattente (che aspirava a trasformarsi in Partito di tutta la classe) che interpretava gli interessi generali del blocco sociale che rappresentava (o che si proponeva di rappresentare) e intendeva dirigere questo blocco con una strategia finalizzata al rovesciamento del regime sociale esistente, la conquista del potere politico per l’instaurazione di nuovi rapporti sociali.

Esse non si sono poste (come si tenta di far credere) come supporto armato direttamente vincolato alle dinamiche spontanee di flusso e riflusso dei movimenti, dinamiche queste determinate da cause contingenti. Così come è un falso storico sostenere (come fa un gruppetto di nuovi aggregati alla «battaglia di libertà») che «le BR sono l’espressione di una determinata situazione storica e di un assetto socio-economico ormai superati». Infatti, sebbene sia vero che le BR sono storicamente determinate, il falso sta nel sostenere che l’assetto socio-economico è ormai superato (falso in quanto si trasforma un’opinione strumentale in un dato oggettivo) e nel far ciò si tenta di appiattire interessatamente sui movimenti spontanei e le loro dinamiche l’esistenza dell’avanguardia rivoluzionaria (dotata di un programma strategico autonomo, se pur dialetticamente legata ad essi).

Il ruolo dei comunisti (di cui le BR sono un’organizzazione) è quello di organizzare e dirigere la classe nelle condizioni concrete in cui si manifesta la contraddizione principale che la oppone alla borghesia ed al suo stato, ponendosi al punto più alto della contraddizione con una pratica che contribuisca ad acutizzarla attraverso l’intervento soggettivo diretto, smascherando ed indebolendo politicamente (nel contempo) la bancarotta revisionista e ponendosi come sua reale alternativa.

Con il riflusso dei movimenti degli anni ’70-’80 non si è verificata una corrispettiva attenuazione delle contraddizioni di classe (che poteva derivare solo dalla ripresa della funzione progressista del modo di produzione capitalistico). Al contrario, con l’attuazione dispiegata dei progetti di ristrutturazione economica, politica e militare (favorita dalla sconfitta subìta dall’avanguardia comunista rivoluzionaria e dalla classe) le contraddizioni si sono ulteriormente acutizzate, moltiplicate, estese ed investono ben più ampi settori sociali, travalicando il campo specificamente economico. Proprio in presenza di questa realtà non si esaurisce la necessità di una politica rivoluzionaria strategicamente finalizzata, stante il carattere inarrestabile della crisi generale-storica del modo di produzione capitalistico (crisi economica e dei valori ad esso corrispondenti).

Sostenere oggi che le condizioni sono mutate, che il capitalismo è in ripresa, che la crescita economica avanza è fare l’apologia di questo sistema sociale e fare il verso al governo Craxi, il cui interesse in questo senso è politicamente mirato.

Basta osservare alcuni dati di carattere generale per rendersi conto che lo stato complessivo dell’economia nonché la ripartizione del valore creato non danno adito ad ottimismo alcuno: il disavanzo pubblico aumenta paurosamente, la bilancia commerciale è in pesante passivo, le esportazioni diminuiscono, le importazioni sono in aumento (escludendo i prodotti energetici), l’inflazione è in aumento (sta esaurendosi l’effetto del basso costo del petrolio), la disoccupazione è in continua crescita.

Questo in estrema sintesi e senza valutare le condizioni degli altri paesi che, per quel che concerne l’Europa e gli USA, non sono molto diverse.

È senz’altro vero che queste non sono condizioni sufficienti per determinare un rivolgimento sociale rivoluzionario, però sono il punto di partenza per l’innesto dell’intervento soggettivo dell’avanguardia comunista che contribuisce a divaricare le contraddizioni esistenti intervenendo sui nodi politici centrali che oppongono il proletariato alla borghesia.

I problemi da risolvere oggi per un rilancio dell’attività rivoluzionaria e di classe si giocano su altri e ben più importanti terreni che non quello della liberazione dei prigionieri. Quest’ultimo, pur essendo reale ed importante, è vincolato alla soluzione dei principali nodi che la sinistra di classe (e principalmente l’avanguardia comunista) ha di fronte.

Questo deve essere necessariamente il filo conduttore del dibattito all’interno della sinistra di classe. Porre al centro del dibattito la liberazione dei prigionieri è un terreno fuorviante e, alla fine, inconcludente e porta ad un risultato opposto al rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria e proletaria.

La liberazione dei prigionieri politici non può che essere il risultato o di una pacificazione sociale generale determinata dalla soluzione delle contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico, o di un rovesciamento dei rapporti di forza tra le classi, o di un inevitabile compromesso con la propria identità e di una manipolazione e svendita dell’esperienza storica del processo rivoluzionario italiano.

Al di fuori di ciò rimane un tentativo di raggiro che lo stato, ben lungi dall’essere composto da sprovveduti, non subirà di certo.

 

Novara, giugno 1987

Cuneo: La lotta armata e gli sciacalli. Documento di Pasquale De Laurentis, Maurizio Ferrari, Aleramo Virgili

  1. Da qualche anno nel proletariato metropolitano, tra i comunisti, è in corso un acceso e complesso dibattito sulla ricerca delle cause, delle condizioni, che hanno determinato la parziale vittoria della borghesia imperialista nei primi anni ’80 sull’intero proletariato.
    In quegli anni ci fu anche un crollo delle organizzazioni della lotta armata, dei loro progetti politici, dei loro modelli organizzativi, ecc. Crollo o, se si vuole, sbaragliamento che a sua volta ebbe ed ha delle ripercussioni sull’intera classe proletaria, sui comunisti.
    Queste ripercussioni hanno determinato lunghe battute di arresto, mai totali, nei processi di lotta e di organizzazione del proletariato metropolitano. In essi si è incuneata ulteriormente, come vedremo, la borghesia imperialista con pratiche disgregative, di guerra.
    Da qui hanno avuto altresì origine le lacerazioni della solidarietà e dei vincoli proletari, che hanno, fra l’altro, condotto allo smarrimento un gran numero di comunisti.
    Uno dei momenti del dibattito attuale è rivolto all’analisi, alla comprensione di quanto avvenne in quegli anni. Noi pensiamo che esso sia unilaterale e riduttivo se lo si separa dal lavoro politico che deve ricostruire la strategia della lotta armata oggi.
    In altre parole, sosteniamo che tale comprensione è possibile, è cosa viva, soltanto se viene svolta assieme al dibattito sulla ricostruzione, sulla ridefinizione – in base alle attuali condizioni politiche, economiche, militari – della pratica strategica della lotta armata.
    Tale dibattito, confronto, anche lotta politica, fra posizioni divergenti, nei più recenti mesi è divenuto oltremodo centrale. Questo, dato l’attacco portato anche contro di esso, dall’idea e dalla pratica controrivoluzionaria di dare – come dicono alcuni ex-comunisti militanti delle BR, oggi chiari collaboratori dello stato – “…sbocco sociale e politico al ciclo di lotte degli anni ’70…” attraverso “… la soluzione politica del problema della liberazione dei prigionieri politici”.
    Noi siamo fuori e contro tale logica e pratica, mentre, invece, lavoriamo alla ricostruzione della strategia della lotta armata e della solidarietà, dei rapporti, del dibattito, che essa presuppone.
    Sono questi i problemi che affrontiamo nella circolazione del dibattito, della comunicazione proletaria, con lo scritto che segue.
  1. Siamo giunti al punto di discutere, un’altra volta, della natura e possibilità della lotta armata e quindi dello sviluppo della rivoluzione politica e sociale in Italia, in quanto ciò che venne creato nel decennio precedente è parzialmente crollato, ridimensionato.
    La fase è mutata: si potrebbe dire che, ad una fase percorsa da grandi tensioni rivoluzionarie, sia sopravvenuta una fase di dominio dell’imperialismo, attraverso la controrivoluzione preventiva, affinata sino al punto da consentirgli di tentare di impedire la fecondazione dei processi di lotta, organizzazione, presa di coscienza rivoluzionaria, ancorché di colpire i parti della rivoluzione.
    Tale attività, del resto, è ben conosciuta dai proletari che lottano, che combattono contro l’imperialismo, il nucleare, la guerra, la ristrutturazione della produzione, l’avanzare della «nuova povertà», l’industria della morte; che lottano per la casa, gli spazi di socialità…
    Il fondamento dell’attuale lotta politica, di cui dicevamo all’inizio, la sua stessa esistenza, noi lo intravvediamo nella modificazione di fase. Cioè, nella necessità di trovare orientamenti, ideali, punti di riferimento … caduti o smarriti, in ogni caso da ridefinire, appunto sulla base dei mutamenti avvenuti, operanti e sulla base dell’esperienza rivoluzionaria del proletariato mondiale. Nella necessità, inoltre, da parte della classe proletaria, di uscire dall’impasse e dall’ininfluenza politica che conosce da quegli anni.
    Infatti, la lotta armata è oggi ridimensionata complessivamente, rispetto all’influenza da essa esercitata nel fuoco della lotta di classe nel decennio precedente. Tale suo ridimensionamento ha accelerato l’affermazione non tanto del mutamento di fase, piuttosto del conseguimento da parte della borghesia imperialista, degli obiettivi politici, economici e militari, presupposti a quel mutamento.
    Vediamo meglio.
    La nuova fase venne aperta dalla borghesia imperialista italiana – in armonia con quella di altri paesi imperialisti – sotto l’incalzare della crisi economico-politico-militare… che attanagliava l’intero sistema imperialista e in misura maggiore l’Italia.
    Questo «salto» ha condotto tale borghesia a divenire uno dei pilastri dell’imperialismo. Ha comportato l’assunzione, da parte dell’Italia, nello scacchiere di guerra imperialista ed in particolare nella NATO, del ruolo di gendarme dell’area mediterranea, in guerra con quei paesi che mettono in crisi il sistema di dominio imperialista.
    Questo, sia per adeguarsi alle direttive politico-militari dell’imperialismo USA, che per portare avanti concorrenzialmente i propri interessi specifici.
    Sul piano interno, la ristrutturazione, l’informatizzazione e l’internazionalizzazione del capitale – inteso soprattutto come rapporto sociale – hanno determinato una maggiore frammentazione della classe operaia e dell’intero proletariato metropolitano. Questo ha favorito il decollo di politiche miranti a concretizzare l’individualismo, la meritocrazia, l’istituzionalizzazione dei conflitti sociali…
    La controffensiva imperialista aggredisce l’intera classe. Essa si manifesta in un più intenso sfruttamento, in una ripartizione della ricchezza più sfavorevole ai proletari, nella controguerriglia psicologica che tenta di compatibilizzare pensieri, comportamenti, lotta, aspirazioni dei proletari, ai riferimenti ideali della borghesia imperialista e del suo stato.
    Insomma, a cavallo degli anni ’70-’80 la borghesia imperialista, notevolmente ricompattata a livello internazionale, si è coalizzata anche contro il proletariato che negli stessi paesi metropolitani aveva messo in crisi il suo potere e la sua autorità nei decenni precedenti. Crisi ben espressasi anche in Italia come tutti sanno (anche chi ha vent’anni oggi) ed acuita dalla pratica della lotta armata.
    Sia chiaro che questo ricompattamento e questi nuovi rapporti di forza favorevoli alla borghesia imperialista non significano affatto – come dicono alcuni ex rivoluzionari – risoluzione della crisi storica del capitalismo e sua vittoria epocale. Anzi, essi sono – paradossalmente – proprio il portato della crisi, che costringe il capitale all’accentrazione, all’integrazione e alla ristrutturazione continua.
    Del mutamento di fase, cui accennavamo prima, vogliamo sottolineare un aspetto: quello della modificazione dei rapporti di forza fra le classi, avvenuta in Italia e nello stesso tempo negli altri paesi europei. Schematizzando (rispetto all’Italia): il proletariato metropolitano passa dall’offensiva ad una prolungata condizione d’inferiorità; la borghesia e lo stato, dalla difensiva al dispiegamento del loro potere in ogni ambito sociale (“rinacquero” – come ebbe a dire un giudice).
    Questo dispiegamento, in Italia, prese avvio sul finire del 1979 alla FIAT. Agnelli, sostenuto dal Fondo Monetario Internazionale, dalla CEE, dai maggiori finanzieri dei paesi imperialisti e, ovviamente, dallo stato italiano, portò con i licenziamenti delle avanguardie operaie (i 61) un primo attacco alla classe operaia. Attacco che poi si estese a tutto il proletariato metropolitano, ma – fatto più grave – trovò spiazzati i progetti politici, le linee delle organizzazioni comuniste combattenti che, nella storia reale, rimasero mute.
    Intenzionalmente evitiamo di addentrarci nell’analisi specifica della «rinascita» borghese di quegli anni. È questo un lavoro da fare, soprattutto lo si deve fare – come altri aspetti di cui diremo – in un confronto, in un dibattito, secondo noi generale, in cui dovrà pure essere riavviata la circolazione delle idee, delle esperienze, del sapere rivoluzionario, per esempio tra i prigionieri e i militanti che agiscono nelle metropoli.
    Appunto, non vogliamo scrivere libri, piuttosto dare il nostro contributo al progredire della rivoluzione e questo si può dare solo in un rapporto sociale aperto, reciproco, tra situazioni diverse.
    L’individuazione e la chiarificazione di ciò che deve essere fatto può scaturire solo da questo dibattito dialettico; questo non è certo soltanto compito nostro o di qualsiasi altro compagno o entità di gruppo separata dalle dinamiche reali dello scontro di classe.
  1. È secondo noi necessario tornare sulle origini delle vicende di quegli anni vissute dal proletariato italiano, dalle organizzazioni comuniste combattenti, non fosse altro che per riaffermare, con serenità e decisione consapevoli, che nel 1982 sono crollate le organizzazioni comuniste combattenti con i loro progetti politici.
    Tuttavia, non fu certamente la fine della lotta di classe, per altro impossibile poiché non è venuto meno il rapporto di sfruttamento con tutti i suoi molteplici corollari… Piuttosto si è visto, in diverse situazioni, i proletari lottare, seppure in condizioni difficilissime.
    Pensiamo che da questi avvenimenti ci sia senz’altro da trarre degli insegnamenti. I principali, per noi, consistono nel darsi nel presente e nel futuro una teoria/prassi che consenta alla lotta armata di prevedere e sostenere i passaggi seguiti dalla guerra, senza farci sorprendere da essa; nel mantenere in tali passaggi il radicamento nel proletariato metropolitano, al fine di creare le condizioni politiche, organizzative, della sua estesa pratica nella guerra di classe; nel combattere l’inevitabile ristrutturazione complessiva e particolare che incessantemente la borghesia imperialista scaglia contro la crescita del proletariato metropolitano; nel combattere la guerra imperialista, nello stimolare e rafforzare la coscienza e la pratica internazionalista della lotta armata, del proletariato metropolitano, nelle stesse lotte di massa; nel sapere sviluppare il dibattito sulle questioni del superamento dei rapporti sociali borghesi e sulla distruzione dell’imperialismo.
    Di tutto questo, secondo noi, bisogna pur discutere, in modo aperto, senza dotti e allievi in nessun ambito, senza deleghe, compiacimenti e simili. Senza un minimo di chiarezza intorno a questi problemi, intorno allo scopo sociale del superamento della società borghese, nessuna forza rivoluzionaria può uscire dai limiti in cui dall’inizio degli anni ’80 il proletariato metropolitano si trova.
    Secondo noi, infine, senza affrontare e sciogliere questi nodi, non ci può essere una ricostruzione della lotta armata adeguata alla fase attuale.
    Peraltro, questo nostro punto di vista consente, altresì, di dare al combattimento sostenuto dalle organizzazioni comuniste combattenti dopo il 1982, ciò che gli appartiene: avere tenuta aperta la prospettiva della lotta armata ed il dibattito intorno ad essa.
    Questo è importantissimo, seppure fosse tutto.
    E con questa ultima considerazione entriamo nel particolare di uno dei problemi dibattuti oggi.
  1. Ci pare che la lotta politica apertasi recentemente chiami prepotentemente alla ribalta la natura, la necessità e la possibilità della lotta armata.
    Essa nasce, a nostro parere, dalla condizione di subordinazione politica vissuta in questi anni dal proletariato metropolitano. In particolare nasce dalla consapevolezza dei proletari coscienti di lavorare per uscire da quella condizione e, conseguentemente, dalla necessità di combattere anche i più recenti aspiranti affossatori della lotta armata.
    Questi anni mostrano molto bene quale situazione subordinata e oppressiva comporti, per i proletari, l’assenza politica della strategia della lotta armata dalla lotta di classe. La borghesia imperialista, come abbiamo precedentemente scritto, ha instaurato con il proletariato un rapporto basato sul terrorismo, sul ricatto, sulla forza oggi ad essa favorevole.
    Non ci soffermiamo su singoli episodi interni a tale rapporto, ripetiamo soltanto che l’attuale fase della lotta di classe deve venire analizzata per essere affrontata con più sicure prospettive che la modifichino in senso favorevole al proletariato. Certamente ci riferiamo al rapporto di classe non tanto per invertirne il segno, ma soprattutto per riprendere, insieme a quel compito, la lotta per il comunismo, per la soppressione della borghesia imperialista, dello stato, del lavoro salariato, delle carceri…
    Non solo la vita reale di questi ultimi cinque anni conferma la necessità da parte del proletariato di praticare la lotta armata, al fine di esistere politicamente, per essere unito e offensivo, e anche per vivere in condizioni più ricche e meno oppressive; ci conferma anche che senza la lotta armata il proletariato rimane privo di aspirazioni concrete e autonome, la società borghese pare diventare il migliore dei mondi.
    Per lotta armata indubbiamente intendiamo il concreto modo di essere, di agire, della pratica rivoluzionaria che discrimina fra rivoluzione e revisionismo, tra indipendenza del proletariato e sua integrazione – naturalmente subordinata – nelle istituzioni borghesi. La nostra posizione, inoltre, su questo è chiara: abbiamo sempre lavorato e lavoreremo per una lotta armata che sappia esprimere l’unità tra il politico e il militare. Poiché se questi due aspetti operano separati si ha, come l’esperienza di questi anni recenti insegna, la scomparsa o quantomeno la subordinazione degli interessi politici del proletariato metropolitano; si hanno azioni militari, appunto, solo e sempre tali, cioè episodi a sé, incomunicanti in modo quasi completo con gli interessi, i bisogni, le lotte, le aspirazioni del proletariato.
    Lotta armata, inoltre, che non può prescindere dalla dimensione internazionale dello scontro.
    Infine, siamo certi che così come non c’è rivoluzione comunista senza lotta armata, allo stesso modo non ci sono comunisti posti al di fuori di essa. La sua pratica è il modo concreto, a nostro avviso, per riconoscersi fra comunisti, nonostante le divergenze che ci possono caratterizzare.
    Questo ci pare decisivo dire non certo per settarismo, estremismo e simili ma perché c’è troppa confusione oggi, troppo parlare e denigrare su quanto appartiene al proletariato, ai comunisti.
    Altri aspetti andrebbero considerati in questo dibattito, per esempio le forme organizzative, il rapporto con le masse, la questione ormai matura di agire, pensare, lottare, costruire rapporti secondo i principi dell’internazionalismo proletario… Scegliamo di sviluppare questo dibattito con i criteri che più volte abbiamo descritto, così da affrontarne gli argomenti secondo la loro effettiva portata politica – certamente insieme ad altri – e quindi con quella compiutezza che meritano.
  1. A questo punto vogliamo invece affrontare due questioni: quella relativa alla «soluzione politica» del problema dei prigionieri politici e quella della memoria della lotta armata degli anni passati, in particolare quella delle BR.
    Della prima parliamo perché siamo tuttora prigionieri.
    Secondo noi non ci troviamo di fronte a nessuna «battaglia di libertà» ma piuttosto ad un rinnovato intervento dello stato.
    Ci troviamo cioè di fronte ad un’operazione condotta dallo stato assieme ai suoi collaboratori, a traditori che, approfittando della debolezza attuale del proletariato metropolitano, credono possibile mascherare con le parole delle scelte assolutamente di resa e collaborazione attiva. Lo stato dà loro spazio, non li presenta neppure per quello che sono in quanto attraverso loro – tenuto presente che un tempo furono dirigenti delle BR – è maggiormente possibile pensare di far passare ancora una volta nel proletariato, i germi dell’accettazione del parlamentarismo, con tutto il suo squallido seguito di subordinazione. C’è dunque una convenienza reciproca tra lo stato e questi suoi neo-collaboratori.
    Quella dello stato l’abbiamo accennata, quella dei nostri ex compagni consiste nel guadagnare al più presto la soglia esterna del carcere.
    Noi pensiamo che lo sciacallaggio, la miseria di questi traditori, possano anche portare confusione tra i proletari, tuttavia siamo certi che chiamandoli per quello che sono, isolandoli ed espellendoli dalla classe insieme ai loro chierici, emerga lampante un aspetto decisivo. Questo: la costruzione politico-sociale della lotta armata trova anche oggi tra i suoi nemici i propugnatori del rapporto politico subordinato, senza principi proletari, per «risolvere» l’antagonismo di classe, affinché la borghesia possa, senza alcun ostacolo, imporre i propri interessi ininterrottamente sul proletariato e sulla società tutta. Questo «risolvere» vale tanto per i prigionieri come per chi lotta nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, contro la guerra, il nucleare…
    Infine, il «problema dei prigionieri politici» e più in generale del carcere, va posto nel contesto della continuità della lotta di classe, nello sviluppo delle relazioni per realizzare compiti comuni (fra cui anche quello della liberazione da conquistare con la lotta) fra comunisti e proletari che lottano fuori dal carcere in dialettica con i comunisti e i proletari prigionieri. Esso va posto inoltre, in relazione al confronto fra i prigionieri comunisti (per intensificare la nostra militanza in rapporto ai fini rivoluzionari comuni, nel rispetto reciproco…) e tutto il corpo prigioniero per la distruzione del carcere imperialista.
    Solo in un contesto in cui la lotta armata sia riuscita a suscitare e ad organizzare un movimento rivoluzionario che sappia strappare i propri militanti prigionieri dal carcere, la liberazione dei comunisti e dei proletari può essere tolta dalle mani della borghesia, può essere separata dai ricatti, può essere leva di liberazione effettiva. Sul come affrontare il carcere, mentre anche noi lavoriamo affinché si concretizzi quel contesto, altro c’è da dire e da fare, però data la delicatezza del tema valutiamo sia più giusto tornarvi sopra in modo organico, seguendo il criterio più volte enunciato.
  1. Sull’aspetto della memoria delle BR il nostro punto di vista è semplice da esprimere.
    A nostro parere il passato non è mai un tesoro, un capitale, un oracolo, in quanto non può essere «usato», non è proprietà di nessuno.
    È memoria viva che come ogni altra memoria rivoluzionaria appartiene ai proletari che lottano, che combattono.
    L’incastonatura dell’esperienza delle BR è buona per chi vuole limitare e rinchiudere tale esperienza e storia negli anni in cui le BR erano forza politica e sociale dispiegata; non vogliono che vivano oggi in quanto mirano ad usarle in funzione delle proprie scelte di tradimento e resa.
    C’è anche chi considera la storia delle BR come uno scettro, impugnando il quale si ha il potere di guidare le masse, consolidando se stessi nella direzione della lotta armata, del movimento rivoluzionario. Queste concezioni, pur se tra loro molto diverse, non ci appartengono, perché secondo noi il solo aspetto che il passato deve rafforzare è la pratica rivoluzionaria di chi lotta nel presente. Il passato non deve incutere in essi né religiosità né timori.
    I proletari e i comunisti, quindi anche noi, debbono poter instaurare con il passato un rapporto aperto, in cui lo si possa liberamente conoscere, appropriarsene, e così sia possibile favorire la pratica rivoluzionaria presente a futura.
    Pratica che, per altro, è il presupposto a tale rapporto; non ci interessa chiudere il passato in un libro di storia, ma farlo vivere nell’affrontamento dei compiti rivoluzionari del presente.
    Con la volontà, con la consapevole scelta che fra passato e presente, fra comunisti e proletari, compresi quelli prigionieri, vada instaurato un rapporto sociale aperto, chiudiamo questo nostro intervento.
    Sappiamo di avere altro da dire, da capire, ci mancherebbe! Ma se riusciamo ad esprimerci in tale rapporto vivificato dalla circolazione della comunicazione delle lotte, del dibattito che attraversa il proletariato, tutto diverrà meno formale, maggiormente costruttivo in ogni senso. Anche la stessa comprensione di quanto qui abbiamo voluto comunicare.
  1. Ci sta davanti un autunno caratterizzato dalla partecipazione dell’Italia al pattugliamento dei mari in cui si trovano le rotte del petrolio; dai tagli finanziari sui bisogni dei proletari, dai licenziamenti; dalle lotte degli operai coreani e sudafricani la cui influenza si farà sentire sulla produzione e sul commercio internazionali; dalle prossime scelte strategiche sulla produzione di morte…
    Quest’autunno, quindi, è secondo noi un momento eccezionale con valide condizioni per rilanciare la lotta armata, per sviluppare lotte proletarie offensive.
    Inoltre, affrontando queste contraddizioni di classe, si dimostrerà una volta di più quanto è disarmante, disgregante, controrivoluzionaria, l’operazione di pacificazione sociale propugnata dallo stato attraverso la «soluzione politica» sostenuta dai più recenti traditori del proletariato.

 

Per il comunismo

Pasquale De Laurentis, Maurizio Ferrari, Aleramo Virgili

Carcere di Cuneo, agosto 1987