Autointervista

  1. Un’organizzazione comunista combattente che nasce a quindici anni di distanza da quando, nel 1970, le Brigate Rosse iniziarono la lotta armata in Italia: volete spiegare sinteticamente i motivi che vi hanno indotto a fondare l’Unione dei Comunisti Combattenti?

Come tutti sanno dall’inizio degli anni ’80 la lotta armata ha conosciuto in Italia non poche difficoltà. Specialmente dal 1982 le circostanze si sono fatte innegabilmente critiche; ai molti arresti si sono assommate le dissociazioni ed i cosiddetti “pentimenti”; anche esperienze politiche del tutto negative,come quella del Partito Guerriglia, hanno contribuito a deteriorare la situazione. Insomma, si è delineata sempre più chiaramente la realtà della crisi politica del movimento rivoluzionario. Ad un brusco ridimensionamento della forza politica ed organizzativa della lotta armata ha corrisposto, ad un dato momento, una diffusa consapevolezza dell’insostenibilità delle tesi politiche difese fino a quella data dalle organizzazioni rivoluzionarie. In questo contesto si è resa necessaria per evidenti motivi una riflessione complessiva sul significato, sui limiti e sui meriti dell’attività svolta negli anni trascorsi.

Orbene, per un verso noi riteniamo che questa crisi sia, per cosi dire, una crisi di “crescita” della rivoluzione italiana, una crisi che non mette assolutamente in discussione la lotta armata come scelta fondamentale da compiere per i rivoluzionari oggigiorno; per l’altro, tuttavia, siamo persuasi che per rilanciare veramente questa lotta, per mettere a frutto il cospicuo patrimonio di esperienze accumulate nel corso di questi anni, sia necessaria una visione organica e solida dei compiti dell’avanguardia comunista nella nostra rivoluzione, una visione che superi definitivamente le deficienze dell’impostazione politica passata. In sostanza, noi pensiamo che l’esigenza prioritaria sia oggi quella di una lotta d’avanguardia, di una lotta armata, fondata veramente sul socialismo scientifico. E questo, in breve, è il motivo che ci ha condotto a costituirci in Unione dei Comunisti Combattenti.

 

  1. Molti però, e non si tratta sempre di “dissociati” ritengono definitivamente chiusa l’esperienza della lotta armata, molti considerano impraticabile questo terreno di lotta stanti gli errori commessi e le attuali condizioni generali presenti nel nostro paese. Cosa dite a questo riguardo?

Conosciamo queste posizioni, naturalmente, non siamo affatto d’accordo. Ciò nondimeno non ci stupiamo della loro esistenza: si tratta di tendenze che riflettono in modo del tutto speculare lo stato di disorientamento e l’assenza di prospettive pesanti oggigiorno in svariati ambienti che si dicono rivoluzionari: la lotta armata viene rifiutata più per il timore d’incorrere nuovamente nelle difficoltà del passato, che per effettivi motivi politici. A ben guardare, infatti, queste posizioni si basano su una equazione stabilita in modo affrettato nonché arbitrario: gli errori passati, si sostiene, sarebbero connaturali alla scelta stessa della lotta armata, l’opzione del combattimento condurrebbe, cioè, necessariamente ad un’azione politica velleitaria e controproducente. Sono punti di vista palesemente deboli, palesemente opportunisti. Non soltanto è assente da tali considerazioni ogni elemento di propensione dialettica nei confronti della storia che viene vista come successione di fasi tra loro giustapposte, incomunicanti ed autoescludentesi reciprocamente; ma molto più significativamente, si tace sul fatto che nessuna rivoluzione è mai progredita veramente se non attraverso esperienze difficili, esperienze costellate talvolta anche da errori. Eppoi, a nostro parere, il bilancio dell’ultimo quindicennio di lotta è largamente positivo; pur tra mille ostacoli un dato fondamentale è comunque emerso: la lotta armata costituisce il metodo decisivo della lotta comunista contemporanea, mediante essa è possibile rappresentare gli interessi generali del proletariato di fronte allo Stato e realizzare una chiara indicazione politica, un’ indicazione rivoluzionaria, nei confronti delle più vaste masse. Ci sembra che, in rapporto a ciò, gli errori innegabilmente commessi dai comunisti nel corso degli ultimi anni si presentino tutto sommato come un dato inevitabile, a suo modo necessario, per un’esperienza politica giovane ed anche originale come quella della lotta armata nei nostri paesi.

Vogliamo poi aggiungere che, nel campo di quanti titubano verso la lotta armata, va operata attualmente una distinzione; un conto sono le perplessità esistenti nei settori più giovani e inesperti del movimento di massa, un altro conto sono le ben precise posizioni politiche sostenute da altrettanto precisi gruppi politici, da sempre contrari all’azione combattente. Se i primi sicuramente si convinceranno col tempo e con l’esperienza della giustezza della lotta armata e vedranno i loro migliori elementi organizzarsi nei ranghi comunisti combattenti; sui secondi ha già indubbiamente giudicato la storia. Sull’autonomia operaia organizzata, sui vari gruppi cosiddetti “emmelle” si confermano una volta di più valutazioni già consolidate tra i rivoluzionari: trasformati dalla storia in piccole corporazioni, in sette assolutamente incapaci di un’azione realmente politica, essi si ostinano a condurre, nel movimento una campagna di demoralizzazione e d’inquinamento.

A sentir costoro, gli anni ’70 avrebbero confermato la giustezza del loro “nullismo”, del loro codismo, della loro estraneità (questa sì “strutturale”) alla vicenda italiana! Nei loro confronti noi non possiamo che ribadire il netto giudizio negativo espresso dalle BR già nel primissimo periodo della loro attività: la scelta della lotta armata divide i rivoluzionari dagli opportunisti; questi gruppetti, arroccandosi su posizioni dogmatiche ed opportuniste, non rappresentano l’interesse storico del movimento proletario: pertanto sono e saranno sorpassati dallo sviluppo inevitabile degli eventi.

 

  1. Potete chiarire meglio cosa intendete quando parlate della lotta armata come metodo decisivo dell’azione di partito?

È importante far precedere, per discutere il problema, la considerazione di almeno due fondamentali caratteristiche attualmente presenti nelle società capitalistiche avanzate. La prima è sicuramente costituita dal fenomeno del revisionismo moderno, quello dei partiti comunisti provenienti dal Komitern. In breve, a questo proposito ci sembra che la parabola compiuta dai partiti citati abbia inequivocabilmente provato che, nelle attuali condizioni storiche la presenza nei parlamenti, l’accettazione dei vincoli istituzionali propri della società borghese, conducono in modo ineluttabile a recedere dalla lotta per la dittatura del proletariato.

D’altra parte, ed è la seconda caratteristica che volevamo rilevare, questo significativo fatto, ha evidenti ed intimi legami con un processo ben più generale, ben più complicato, consistente in definitiva nel massimo sviluppo e consolidamento, avvenuto, ormai da tempo nei nostri paesi, del contenuto reazionario della democrazia borghese. E’ un processo difficile da schematizzare e che non si presta a facili o ideologizzanti generalizzazioni, ciò nondimeno esiste e vive evolvendo in forma via via più precisa. E’ cosa innegabile, per esempio, che il centro di gravità della vita politica si è spostato nei nostri paesi in modo definitivo oltre i confini del parlamento, nelle lotte e negli accordi tra le oligarchie dei partiti e nei mille vincoli e sollecitazioni che provengono dagli esponenti del grande capitale monopolistico e finanziario. Risulta incontestabile che non è più nell’assemblea elettiva che le singole volontà particolari – riflesso dei diversi interessi di classe – si mediano nella cosiddetta “volontà generale” rappresentata dall’esecutivo, dal governo borghese. E’ facile arguire allora che il parlamento viene sempre più relegato alla funzione meramente reazionaria di vincolo alla legalità ed agli istituti borghesi, di ratifica dell’impossibilità di superare gli angusti limiti della produzione capitalistica. Per un verso questo fatto rende ragione della bancarotta del pacifismo parlamentare del PCI, conferma dell’ inutilizzabilità del parlamento in quanto terreno di possibile svolgimento di una lotta comunista; per l’altro tutto ciò getta nuova luce sull’esigenza – venuta a creare in un determinato momento storico – di metodi di lotta atti ad affermare il socialismo nei nostri paesi e nelle attuali condizioni.

Ed è proprio in questo contesto che si spiega la nostra scelta della lotta armata come metodo decisivo dell’azione di partito.

La lotta per la dittatura del proletariato, in ogni tempo ed in qualsiasi luogo, non può che fondarsi sull’avanguardia politicamente riconosciuta, sull’attività di un’avanguardia capace di lottare per il potere statale e di influire nondimeno sull’andamento politico dei rapporti tra le classi. E ai nostri giorni, nel momento in cui il revisionismo si è trasformato in un’appendice vischiosa della vita politica borghese, quest’attività non può che essere fondata sulla scelta della lotta armata, sulla scelta di contrapporsi a tutti i partiti borghesi e principalmente allo Stato attraverso il combattimento.

Siamo fermamente convinti che solo cosi la classe operaia possa recuperare la sua indipendenza politica, che solo in questa maniera si possano rappresentare in ogni circostanza ed in ogni svolta del conflitto tra le classi gli interessi generali e storici del proletariato di fronte a tutta la società.

Tra l’altro, un dato indicativo a sostegno delle nostre tesi ci sembra proprio quello dell’inconsistenza politica ripetutamente dimostrata dall’opzione “extra-parlamentare”. La storia ha infatti confermato che tutti i gruppi i quali, rifiutata correttamente l’azione parlamentare, non si sono posti il problema della lotta armata, sono rimasti in realtà delle sette impotenti oppure sono stati riassorbiti dai partiti della sinistra borghese. Le BR, al contrario, attraverso la lotta armata sistematicamente condotta giunsero in breve tempo a rappresentare l’unica valida alternativa al sistema politico borghese, non solo di fronte al movimento rivoluzionario ma anche nella coscienza istintiva delle più vaste masse proletarie.

Intendiamoci però bene: dire che la lotta armata costituisce un metodo decisivo dell’azione di partito non significa certo esaurire i compiti d’avanguardia nella sola azione militare. Per quanto essenziale ed in grado di orientare le masse verso il compito della dittatura, senza una visione adeguata alla reale dinamica della lotta di classe nei nostri paesi, senza una linea di massa capace di una direttiva comunista su tutte le grandi questioni politiche al centro della vita del paese, senza una presenza costante nella battaglia che si sviluppa anche sul fronte teorico, la lotta armata rimane un po’ come la testa staccata dal corpo.

Gli anni che ci sono alle spalle ci hanno certamente consegnato questa inestimabile indicazione pratica, la lotta armata come arma della politica rivoluzionaria, ora è bensì necessario perfezionare l’insegnamento, è necessario inserirlo in un concetto di azione rivoluzionaria realmente comunista, realmente marxista.

 

  1. Avete ripetutamente citato le BR: che genere di rapporti intercorrono tra l’Unione dei Comunisti Combattenti e questa organizzazione?

Molti dei nostri militanti sono stati membri delle BR e quasi tutti hanno partecipato alla lotta armata degli anni trascorsi sotto la loro direzione. La stessa costituzione dell’ “Unione” si è resa possibile per mezzo dell’iniziativa e dell’impulso politico impresso da alcuni ex militanti delle BR, fuoriusciti da questa organizzazione in seguito alla loro battaglia per l’adozione delle tesi politiche enunciate della cosiddetta “seconda” posizione. Sicché, va almeno preliminarmente distinto il nostro rapporto con la tradizione delle BR dalle nostre relazioni con le BR attuali, quelle, per così dire, della “prima” posizione.

Si deve infatti subito dire che il nostro rapporto con la tradizione delle BR è estremamente forte ed intenso. Semplicemente, noi giudichiamo l’opera svolta storicamente da questa organizzazione né più né meno alla stessa stregua dei compagni che attualmente militano nelle BR: si tratta di un’opera giusta, di un’azione necessaria ed indispensabile sul piano storico nonché di inestimabile e duraturo significato politico. Forse alcuni potrebbero pensare che essere d’accordo con la «seconda» posizione significhi bene o male rifiutare quanto fatto negli anni passati, «criticare» il lavoro svolto dalle BR. Niente di più sbagliato, niente di più opportunista. Chiunque può constatare che le BR, nella Italia degli anni ’70, concretizzarono in massima misura la storica aspirazione all’indipendenza politica propria del proletariato rivoluzionario; è facile osservare come, in teoria ed in pratica, si riferirono ai cardini, ai principi del marxismo leninismo. L’idea del partito, della lotta politica al governo ed allo stato, della centralità operaia, dell’importanza della centralizzazione e della disciplina nel conflitto di classe, sono tutte cose che nel nostro paese furono riaffermate, come ognuno sa, proprio dalle BR. Ancora loro, nel corso di significative battaglie politiche, difesero la giusta linea da deviazioni movimentistiche ed estremiste, non di rado particolarmente pericolose ed ambigue come quella rappresentata dal tristo «Partito Guerriglia». Infine, la sostanza della formula politico organizzativa atta a condurre la lotta per la dittatura del proletariato nelle attuali condizioni storiche, l’idea del Partito Comunista Combattente che fa politica con le armi, si delineò per merito dell’azione svolta dalle BR. È possibile, diciamo noi, aspirare a dirigere il proletariato verso il socialismo prescindendo da questi fatti incontestabili? Si può far politica oggi senza un preciso riferimento all’organizzazione che fu in grado di organizzare la campagna di primavera nel 1978, che fu in grado di assestare il più duro colpo politico all’insieme della classe dominante italiana dal secondo dopoguerra in poi? L’ «Unione», se cosi si può dire, proviene, «scaturisce» dalle BR ed è senz’altro orgogliosa di questo rapporto di diretta continuità con la maggiore organizzazione comunista italiana degli ultimi anni; nostro dichiarato obbiettivo è proprio quello di valorizzare compiutamente gli insegnamenti politici che derivano dalla lunga lotta e dalla tradizione di militanza delle BR.

 

  1. E per quanto concerne le attuali BR?

Ecco, noi crediamo che il punto consista proprio nel come si intenda la questione della valorizzazione dell’esperienza passata.

Ad un dato momento, nelle BR, si sono evidenziate due posizioni differenti sotto questo rispetto: da un lato è emersa una decisa riluttanza a mettere in discussione la validità di certe tesi di fondo (la «strategia» della lotta armata, la «guerra di lunga durata», il ruolo «guerrigliero del partito nella rivoluzione proletaria», ecc..) sorte insieme alla lotta armata, dall’altro si è configurata distintamente l’esigenza di una svolta politica sostanziale, di una vera e propria rifondazione teorica dei presupposti generali posti alla base dell’azione politico militare del nostro paese. Com’è noto, il contrasto è sfociato in una divisione organizzativa: le BR restano così oggi un gruppo che sostiene, per altro con argomenti piuttosto deboli ed inefficaci, la validità di alcuni schemi politici invero logori, assolutamente inadatti a rilanciare il combattimento nelle attuali condizioni. Noi, per parte nostra, non possiamo che trarre le conseguenze dell’accaduto: la nostra battaglia per un concetto marxista di politica rivoluzionaria, per un PCC fermo nei principi e deciso nella politica, realmente in grado di guidare le masse proletarie italiane alla presa del potere, continua altrove, nell’Unione dei Comunisti Combattenti, e non certo con minore determinazione.

 

  1. Cosa intendete quando parlate di rifondazione teorica dei presupposti generali della lotta armata?

Intendiamo una concezione dell’attività politica contemporanea che si basi, sommariamente, sui seguenti assunti di fondo:

  1. a) il partito comunista dei giorni nostri deve essere un partito combattente: tutta l’esperienza storica degli ultimi anni sta a dimostrare che solo attraverso l’azione dell’avanguardia armata il proletariato può riaccedere all’indipendenza politica, affermando al contempo la sua vocazione storica alla conquista del potere statale.
  2. b) il partito comunista combattente, per quanto impegnato nella lotta armata contro lo stato, anche in condizioni non rivoluzionarie, per quanto incontestabilmente «originale» rispetto ai PC del passato, differisce da questi ultimi solo in relazione alla forma che il suo modo di operare prende storicamente: il suo ruolo è e rimane quindi un ruolo politico, un ruolo caratterizzato dal compito di rappresentare gli interessi generali e storici della classe operaia in ogni circostanza del conflitto di classe, nonché di guidare le masse appoggiandosi sulla loro esperienza, tenendo conto della situazione nazionale ed internazionale, non perdendo occasione per affrettare la crisi politica delle classi dominanti – all’abbattimento violento dello stato borghese ed all’instaurazione della dittatura del proletariato.
  3. c) nella sua azione politica, nella sua costante opera di opposizione armata al governo della classe capitalistica, il PCC non può prescindere dal fatto che la nostra rivoluzione, che ha luogo in un paese imperialista, attraversa necessariamente una lunga fase nella quale i rapporti generali tra le classi si svolgono in forma essenzialmente «pacifica», essenzialmente mediata dalla realtà operante negli istituti politici borghesi. Questa fase, per quanto lunga e complicata si presenti, genererà ineluttabilmente, come sua «continuazione», la guerra civile tra proletariato e borghesia: proprio qui diverrà attuale e passerà all’ordine del giorno la parola d’ordine dell’insurrezione armata contro lo stato borghese.

In sintesi, noi consideriamo necessario un PCC realmente capace di far politica con le armi: un partito cioè che avendo presente la reale dinamica ed il reale contesto nei quali si sviluppa il conflitto di classe nel nostro paese, sappia nondimeno esercitare un’effettiva influenza nell’andamento politico del rapporto tra proletariato e borghesia ed una guida energica sul movimento di massa.

Giova allora notare come queste pur scheletriche notazioni implichino rilevanti conseguenze almeno in un duplice senso: per un verso esse conducono ad un’aperta, ragionevole ed inevitabile critica degli ormai logori schemi della «guerra di lunga durata» e della «strategia della lotta armata», costituendone anzi un superamento in positivo. Per l’altro, rimandano all’esigenza di una «resa dei conti» ben più vasta, ben più profonda, con l’intero arco delle suggestioni non materialistiche provenienti dal variegato arcipelago teorico del marxismo «occidentale» e, per meglio dire, del marxismo sedicente «critico»; suggestioni che hanno influenzato più di quanto si voglia generalmente ammettere la «vena» soggettivistica delle stesse BR, e che continuano tutt’oggi ad ipotecare negativamente lo sviluppo di un’azione coscientemente comunista.

In ogni caso, resta fermo che la nostra è una battaglia per la fondazione del PCC: è ognor più chiaro che la dimensione del partito, ad oltre quindici anni di distanza dall’inizio della lotta armata, si palesa nitidamente come l’esigenza prioritaria per tutto il movimento rivoluzionario. Ed un PCC che credesse di poter prescindere da quanto sommariamente accennato poco fa, incontrerebbe sicuramente serie difficoltà nell’adempimento dei suoi già complessi doveri politici. Noi riteniamo che si debba iniziare un confronto serio e serrato su questi temi tra tutte le forze e le correnti che riconoscono nella lotta armata il carattere distintivo ed obbligatorio dell’azione comunista contemporanea; l’«Unione», pur basandosi sulle proprie precise posizioni, pur conducendo un’intransigente battaglia per l’adozione di un punto di vista coerentemente marxista, opera nel senso dell’unità dei comunisti in un unico partito combattente in uno spirito alieno da qualsiasi settarismo o interesse di campanile, tenendo presenti sempre e soltanto gli interessi complessivi del movimento.

 

  1. Una delle questioni più scottanti nell’attuale momento sembra essere quella del rapporto tra l’avanguardia combattente e le masse; si sostiene in effetti da più parti che proprio questo sarebbe il punto ove le BR dimostrarono nel passato i maggiori limiti. Potete chiarire la vostra posizione a questo riguardo?

Non nascondiamo di nutrire una certa diffidenza nei confronti di quanti, con tragica insistenza, intonano il ritornello del «ci siamo staccati dalle masse», credendo così di fornire una risposta a problemi che, invero, si pongono in forma estremamente più complessa. Non di rado, infatti, dietro simili affermazioni si celano, nemmeno troppo nascoste, precise tendenze il cui contrassegno consiste proprio nel voler l’avanguardia al medesimo livello di coscienza e di organizzazione delle masse, nel voler annullare la funzione specifica dei comunisti, in altri termini: nel rifiuto della lotta armata. No, questo modo di ragionare ci vede profondamente distanti almeno per due motivi: in primo luogo, in questo caso il problema del «rapporto con le masse» viene chiaramente trattato in termini capziosi e strumentali, con l’unico e deliberato fine di azzerare quindici anni di politica rivoluzionaria, di lotta armata, nel nostro paese. Si vuole qui furbescamente dimenticare che ogni partito riconosciuto come tale deve essere, in un certo senso «staccato» dalle masse, capace cioè di condurre la sua lotta in indipendenza dal sostegno mutevole del movimento di massa e dalle più svariate sollecitazioni che provengono dal corso, sovente estremamente fluido, degli eventi immediati e contingenti.

Ci si scorda volontariamente che spesso la storia ha richiesto ai comunisti di andare controcorrente e di assumere posizioni che li isolavano dai sentimenti prevalenti nella classe operaia. Che partito sarebbe quello disposto a mutare i propri orientamenti di fondo alla prima soffiata di vento contraria? E quanto dimostrerebbe di valere la lotta armata se alla prima vera prova del nove, laddove la storia concede davvero di far intravedere la «meccanica» della rivoluzione, gettasse vigliaccamente la spugna? Gli eserciti sconfitti imparano molto, si è detto. Bisogna aggiungere: a patto che non sciolgano i propri ranghi.

In secondo luogo, chiunque abbia partecipato alla lotta degli anni trascorsi sa bene che le BR «staccate» dalle masse non lo sono state mai: al contrario, esse hanno incontestabilmente dimostrato che si può condurre la lotta armata per lunghi anni anche in un paese come il nostro, senza per questo rinunciare ad estendere costantemente il numero dei militanti e dei simpatizzanti, senza per questo impedire la penetrazione nella classe operaia e nei settori più combattivi del proletariato urbano, senza per questo precludersi il radicamento nelle maggiori città e nei principali poli industriali. Citeremo a nostro sostegno soltanto due esempi: il numero, elevatissimo, di prigionieri politici esistenti attualmente in Italia, la loro composizione sociale prevalentemente operaia e proletaria, il fatto che provengano praticamente da tutte le regioni del nostro paese, non stanno forse a dimostrare palesemente il carattere di massa, la rilevante diffusione sociale dell’azione iniziata e diretta dalle BR? E per quale motivo la stampa di regime, i grandi giornali borghesi, filistei, “opinion-makers” ma anche qualche retorico identificano ormai correntemente gli anni ’70 ( due lustri interi, si noti) con i cosiddetti “anni di piombo”? Forse perché, alla distanza, si può cominciare a dire pudicamente la verità? A dire che la lotta armata in Italia è stata il fatto politico più rilevante e gravido di conseguenze dell’ultimo periodo storico? Persino la borghesia, nelle aule dei suoi tribunali e sulle colonne dei suoi prezzolati giornali, è costretta ad ammettere la verità: le BR non erano “staccate” dalle masse … dovremo noi batterla sul terreno della codardia?

 

  1. Dunque, per voi la questione non riveste interesse alcuno?

Tutt’al contrario. Ma si tratta di discuterla correttamente, da marxisti leninisti coerenti.

Gli è che nelle BR, intorno al ’79-80, quando ormai il periodo della propaganda armata si era giustamente dichiarato concluso ed il combattimento si era bensì imposto nel movimento come la discriminante essenziale fra rivoluzionari ed opportunisti, prevalse una visione del possibile sviluppo della lotta improntata ad una sorta di illusione “gradualista”. Credemmo cioè che il ritmo, sufficientemente rapido, con il quale le avanguardie proletarie, gli elementi avanzati, si erano stretti intorno alla lotta armata organizzandosi in cellule clandestine disposte al combattimento, potesse valere tale e quale anche per le grandi masse. Non si capiva allora, influenzati dalla cospicua e progressiva diffusione della azioni militari un po’ ovunque, che gli strati massicci del proletariato, i milioni di persone, ancorché disposti a giudicare positivamente l’azione delle BR, non erano per questo in grado di seguirla sul terreno dello scontro diretto per il potere. È noto che la parola d’ordine della “conquista delle masse sul terreno della lotta armata” si dimostrò in breve tempo inconsistente ed anzi, foriera di numerose ambiguità, di suggestioni movimentistiche, di speranze e di progetti ingannevoli molti dei quali ritortisi amaramente contro coloro che improvvidamente li adombravano.

È d’uopo allora rilevare come le BR, lungi dall’essere “staccate” dalla classe operaia, lungi dall’aver difettato di addentellati con i settori determinanti del proletariato urbano, il rapporto con le masse l’avevano eccome: ma sbagliarono ad un dato momento nell’impostarne lo sviluppo. Non già quindi, mancanza di contatto con le masse in quanto organizzazione clandestina, ma contatto sbagliato, impostato su valutazioni affrettate e tragicamente ideologizzanti!

Allo stato attuale, nel momento in cui gli eventi citati acquistano – col passar del tempo – una dimensione ed un significato via via più nitidi, è possibile a nostro parere arrischiare qualche elementare considerazione. La prima è che si trattò di errori gravi e lordi di implicazioni negative: molte delle ragioni che conducono alla sonora battuta d’arresto dell’82 si originano inequivocabilmente dalla visione politica alquanto miope invalsa nelle BR intorno al ’79-80 e compendiata nello slogan della conquista delle masse alla lotta armata. Tuttavia, ciò detto, va sensatamente aggiunto che questi errori si collocano chiaramente in un contesto teorico pratico di superficie più vasto, ben illustrato dal libro “l’Ape e il comunista” e le cui fondamenta vanno rintracciate molto innanzi il 1979; per l’altro gravi che siano stati, simili sbagli, non costituiscono certo novità nella storia del movimento comunista. È ben noto che la tendenza a sopravalutare il grado di disponibilità delle masse alla proposta rivoluzionaria si è presentata non di rado, ad esempio, nella storia del Komintern: si pensi alle polemiche suscitate nell’Internazionale fra il ’20 e il ’21 dalla cosiddetta “teoria dell’offensiva”, oppure al fatto che il partito comunista tedesco, ancora negli ultimi mesi del 1932 (a poche settimane dall’avvento del nazismo) si conduceva come se la rivoluzione fosse imminente in Germania. Esiste o meno una relazione tra certe vicende tutt’affatto interne alla storia del movimento comunista internazionale e la linea sostenuta tra il ’79 e l’82 dalla BR? E si può dimenticare che i marxisti leninisti hanno sempre preso atto dei loro errori in uno spirito costruttivo, senza mai rinnegare il significato e l’importanza di esperienze che comunque si andavano ad assommare, come altrettanti tasselli, al patrimonio di conoscenza e di lotta del movimento proletario? Non è dunque il caso di impressionarsi più di tanto: i comunisti, che si appoggiano sul socialismo scientifico, non per questo possono limitarsi ad una semplicistica applicazione di qualche principio pedissequamente mandato a memoria poiché la pratica, per definizione, contiene nel suo svolgersi un elemento di originalità irriducibile anche alla più precisa formula teorica. E proprio sulla comprensione dell’esperienza pratica secondo un metodo scientifico si basa la politica marxista, che non a caso oggi ci consente di considerare le difficoltà incontrate dalle BR nel loro rapporto con le grandi masse a mò di elemento istruttivo per una più matura concezione dei compiti politici del partito combattente.

In ogni caso, pare a noi assodato che una visione del rapporto da stabilirsi tra l’avanguardia combattente ed il proletariato nel suo insieme, non possa oramai prescindere dalle seguenti considerazioni:

  1. a) tutta l’esperienza storica della lotta di classe svoltasi nei paesi imperialisti, ed anche la nostra di BR, attesta inequivocabilmente che l’organizzazione delle masse sul terreno della lotta armata è un compito storico obbiettivamente assolvibile solo in condizioni insurrezionali. Prima di quel momento, la lotta di massa del proletariato, i conflitti che necessariamente scaturiscono dalle contraddizioni economiche presenti nella società borghese, non si presentano, salvo rare occasioni e spazi molto brevi di tempo, sotto la forma risolutiva della lotta armata.
  2. b) il partito rivoluzionario, che è un partito combattente e che non fa dipendere punto la sua scelta di combattere dal fatto che le masse siano già armate o in procinto di farlo, non può comunque limitarsi alla sola propaganda nella presa del potere o lotta per il socialismo. Esso deve bensì collegare quest’opera costante, che si esprime attraverso il combattimento contro il governo e lo Stato, con la partecipazione ai movimenti generali del proletariato, con la loro guida secondo una direttiva comunista. Ponendosi alla testa di tali movimenti, combattendo e prendendo posizione su questioni non già astratte ma realmente centrali e perciò stesso comprensibili da ogni singolo lavoratore, indirizzando puntualmente la lotta contro il governo, mettendo sempre in rilievo l’elemento che lega l’aspetto e il tema parziale alla questione del potere politico (che è e rimane in ogni caso la questione centrale e distintiva per il partito), l’avanguardia combattente saprà dunque collegarsi alla vita politica ed alle esigenze reali delle masse senza per questo recedere dal proprio compito specifico, che è quello di elevarle alla coscienza comunista, di guidarle all’abbattimento dello stato borghese.
  3. c) eccezionalmente importante si presenta allora la consapevolezza della distinzione che esiste tra il lavoro del partito verso le avanguardie politiche e la sua linea di massa. Se il primo ha per obbiettivo l’organizzazione degli elementi avanzati del proletariato nei ranghi disciplinati e clandestini del partito combattente, e non può che basarsi perciò sulla piena accettazione del programma del partito e del suo metodo di lotta distintivo, la lotta armata; la seconda si prefigge lo scopo di conquistare (tendenzialmente – si capisce) un’influenza predominante del partito nelle masse, di farlo da loro riconoscere come l’unico reale difensore degli interessi vitali nonché storici del proletariato. Di conseguenza, entro il secondo contesto si dovrà tener conto di numerosi e molteplici fattori sinora alquanto negletti, primi dei quali la pesante influenza revisionistica ed il carattere, pubblico e “legale”, che le forme di organizzazione politica e sindacale delle masse prendono nella fase che precede la conquista del potere.

In conclusione è nostra profonda convinzione che un rapporto proficuo tra partito combattente e masse proletarie non solo non si presenti a priori impossibile, ma sia anzi doverosamente costruibile proprio partendo dalle numerose indicazioni che ci provengono dall’esperienza e dalla storia delle BR. In questo lavoro, che trova la sua prima ragion d’essere nella persuasione, propria dei marxisti, dell’impossibilità della rivoluzione proletaria senza un’adeguata opera di conquista delle masse alla linea comunista, sarà sempre comunque necessario guardarsi da un duplice pericolo: da un lato bisognerà evitare ogni schematismo superfluo, ogni tentazione precostituita nell’esame dell’andamento della lotta proletaria (troppo spesso, infatti, si è creduto di poter giudicare in questo campo partendo dal grossolano criterio “clandestino e combattente uguale positivo, pubblico e legale uguale negativo”); dall’altro non si dovrà con ciò, per la errata preoccupazione di stare “attaccati alle masse”, rinunciare a svolgere il proprio ruolo specifico: quello di avanguardia politico militare che agita i propri temi, consolida ed estende i propri ranghi in ogni realtà sociale e con la propria azione spinge avanti la situazione politica generale, modificandone gli equilibri a favore della rivoluzione e rappresentando l’interesse storico del proletariato alla dittatura in ogni circostanza del conflitto di classe.

 

  1. Come vedete la situazione politica?

La situazione politica attuale ci sembra caratterizzata dal prevalere di una spiccata tendenza reazionaria e conservatrice nella classe politica governativa, nelle oligarchie dei partiti della maggioranza e, in generale, in tutta la grande borghesia monopolista e finanziaria. Il fatto saliente degli ultimi anni consiste certamente nel progressivo profilarsi di un indirizzo conservatore ed autoritario via via più netto sia in materia di politica economica che nel campo della politica estera. Due anni e mezzo di governo Craxi hanno ben illustrato quali siano gli interessi e le esigenze attuali della grande borghesia italiana: compressione del salario operaio e taglio dell’occupazione in economia, rafforzamento dell’esecutivo sul parlamento e degli apparati dirigenti dei partiti sull’insieme dei corpi sociali in politica interna, filo atlantismo esasperato e servile in politica estera.

Naturalmente, si tratta di un quadro niente affatto isolato dal contesto generale dei paesi capitalistici avanzati; ormai da parecchi anni, infatti, si è delineata la “via capitalistica” all’uscita della recessione: licenziamenti di massa, taglio delle spese sociali, accentuata competizione tra grandi monopoli, aggressività e sciovinismo su scala internazionale, sono solo i principali ingredienti della ricetta reaganiana, accolta febbrilmente un po’ ovunque come il nuovo vangelo del capitalismo. Gli è che non sono percorribili altre strade: la crisi economica spinge per una sua soluzione, i grandi gruppi finanziari e monopolistici, bisognosi di nuovi mercati ove esportare capitali e merci, divengono i migliori alleati della reazione e delle caste militari, sicché la realtà della produzione mondiale, lo sviluppo del conflitto di classe, si inseriscono in un quadro generale più caratterizzato da un’accentuata aggressività dei paesi imperialisti. L’eventualità di una terza guerra mondiale, di un immenso macello di energie umane causato ancora una volta da un sistema sociale anarchico e classista, dal gruppo delle ipotesi passa a quello delle probabilità reali. Ecco fuori da ogni catastrofismo, distanti da qualsiasi indebita visione che vorrebbe gli eventi attuali altrettanti momenti di un disegno complesso premente in modo cosciente e predeterminato verso la guerra, pare a noi chiaro che la posta in gioco sia comunque alta, sostanziale. Pur nella specificità nel nostro paese, pur entro i defatiganti giuochi di partito ineliminabilmente propri della classe politica italiana, in questo scorcio di secolo una tendenza di fondo, un orientamento segnatamente reazionario si va ormai delineando: si è diffusa in numerosi ed influenti ambienti capitalistici l’idea che l’Italia, al pari di altri paesi, vada “bonificata” dalla lotta di classe; in campo politico nonché economico, nelle opzioni cruciali di governo e di “management” (come si dice), le posizioni conservatrici hanno l’ultima parola; nelle relazioni internazionali il nostro paese viene sistematicamente coinvolto nelle scelte scopertamente guerrafondaie ed imperialistiche del “grande fratello americano”. No, non si tratta di fatti incidentali, di vicende prive di un nesso reciproco, ma di un movimento che, quantunque di natura impersonale ed obbiettiva, prende forma generale, di un attacco su tutti i fronti, da quello ideologico (ove i più vieti luoghi comuni reazionari trionfano con clamore certamente inopinato sino a poco tempo addietro) a quello economico (con l’infatuazione collettiva per la “deregulation” e per il “vento del Lingotto”), da quello politico (riforma istituzionale) a quello militare (ove si sta preparando in sordina la sporca adesione alle “guerre stellari” di Reagan). Si dovrà continuare a chiudere gli occhi? O si preferirà riporre le speranze nel “governo di programma” untuosamente proposto dagli eterni orfani del compromesso storico? Noi dell’“Unione” intendiamo lottare con intransigenza contro questa vera e propria ridefinizione reazionaria della società italiana, noi intendiamo organizzare la mobilitazione d’avanguardia e di massa contro il governo della borghesia. In questa critica situazione, nel momento in cui si preparano battaglie decisive, la lotta armata dimostrerà con dovuta chiarezza quale sia la forza politica in grado di opporsi fermamente alla mene della classe dominante e con la sua giusta azione diverrà un chiaro punto di riferimento per le più vaste masse italiane.

 

  1. Il 21 di questo mese, la vostra organizzazione è apparsa pubblicamente con l’azione da Empoli, ma nel corso dell’operazione la vostra militante Wilma Monaco è rimasta uccisa. Considerate ciò come un fallimento?

Abbiamo già dichiarato che il nostro nucleo armato in Via della Farnesina aveva consegne precise: invalidare, e non già uccidere Da Empoli, lasciare in vita l’agente di scorta. Questa decisione derivava da una precisa e consapevole valutazione politica: tenuto conto della carica occupata dal Da Empoli e del momento politico generale, si trattava di dimostrare la necessità di saper diversificare il grado di intervento militare a seconda delle circostanze. “Far politica con le armi”, infatti, significava anche calcolare precisamente le forze e gli elementi in campo: significava tener conto dell’andamento generale dei rapporti politici tra le classi, dello stato del movimento operaio, del grado di prestigio conseguito dall’avanguardia nelle masse. Un partito combattente che afferma la sua linea politica, tramite il combattimento contro lo stato, nella sua azione non può prescindere da tali valutazioni, pena il decadere in un orientamento indistinto, inefficace, strutturalmente incapace di “dosare” l’iniziativa in modo proficuo per l’avanzamento della causa. E in questo senso s’inseriva l’azione Da Empoli. Ma questa nostra scelta è stata pagata ad un duro prezzo: Wilma è rimasta uccisa, mentre quasi inutile è il sottolineare che l’annientamento del Da Empoli e del lurido sbirro sarebbe stato, al confronto, un gioco da ragazzi. È proprio in questi momenti che va fatto il massimo sforzo di razionalità: nonostante il peso immenso della morte di Wilma, dirigente della nostra organizzazione e comunista impegnata da anni nella lotta armata, nonostante la rabbia per l’indegna sceneggiata di regime orchestrata dal suo sacrificio, sull’azione Da Empoli s’impongono, a nostro parere, almeno tre considerazioni. In primo luogo, la diversificazione dell’intervento, la capacità di scegliere diverse forme di attacco militare a seconda dell’obbiettivo e delle condizioni generali, non è per noi criterio revocabile in dubbio a causa della morte di Wilma. Tutto il corso degli ultimi anni dimostra inequivocabilmente la necessità politica di questo atteggiamento: il partito combattente non può banalizzare l’annientamento, gravi conseguenze sono derivate dal passato e deriveranno dal futuro da una mancanza di sensibilità verso questo problema. Quel che è certo, però, è che tale volontà di “diversificare” l’intervento non potrà non appoggiarsi nel futuro su una più ferma determinazione ad eliminare eventuali resistenze: il bilancio dell’azione del 21 Febbraio è per noi chiaro, per gli agenti di scorta che vorranno reagire non vi sarà esitazione alcuna: verranno annientati.

In secondo luogo, l’azione non può non considerarsi “fallita” proprio poiché il suo significato politico è risultato oltremodo chiaro. L’attacco a Palazzo Chigi, al governo ed alla sua politica economica, è questione quanto mai attuale nell’odierna realtà italiana; inoltre, ci sembra che il problema del giusto indirizzo da dare alla lotta armata – la lotta armata come lotta politica comunista contro il governo borghese – sia stato ben evocato dall’azione Da Empoli. Invero, si può parlare di fallimento quando un’ iniziativa non corrisponde ai fini prefissati: l’azione di Via della Farnesina ha invece corrisposto esattamente alle esigenze poste sia dal contesto politico generale, che dalla situazione interna al movimento rivoluzionario. È il prezzo pagato che è immenso, non l’azione che è “fallita”.

In terzo luogo noi non abbiamo paura di riconoscere che facendo la lotta armata si può morire. È importante ricordare questo a quanti si avvicinano oggi alla militanza comunista combattente. La lotta armata implica numerosi sacrifici: tra questi vi è sovente quello estremo, quello della vita. Non si tratta qui di conclamare fatalmente inevitabile la morte dei compagni; si tratta di mettere in guardia il movimento dall’illusione di poter non pagare un costo che invece è e rimarrà salato, altissimo sul piano umano e politico. La lotta si farà sempre più dura, molti altri di noi morranno con le armi in pugno lottando per la libertà; ma quale vera impresa, quale lotta per l’emancipazione, son realmente progredite senza pesanti sacrifici? Noi pensiamo che il sacrificio di Wilma Monaco “Roberta” debba servire a tutto il movimento rivoluzionario per rinsaldare le fila e avanzare più speditamente sulla via di una lotta armata realmente marxista. Questo sacrificio serve innanzitutto a noi, della “Unione” che, nel ricordo dell’indimenticabile figura di “Roberta” della sua umanità e della sua determinazione, procederemo senza esitazione pel nostro cammino.

 

  1. Se non sbagliamo avete citato il PCI: vi sembra che negli ultimi anni la posizione generale di questo partito sia in qualche modo cambiata?

È mutabile a livello sostanziale un orientamento di fondo che riconosce esplicitamente l’insuperabilità degli angusti confini della società borghese? È mutabile una politica che da anni persegue sistematicamente la conciliazione di interessi tra lavoro salariato e capitale? No, la posizione del PCI non è cambiata e non è bensì cambiato il giudizio dei veri comunisti su questo partito: si tratta dell’ala sinistra della borghesia, di una componente ormai organica del sistema politico che si erge sui rapporti sociali capitalistici. Piuttosto, proprio le ultime vicende che hanno coinvolto il partito di Natta ci paiono quanto mai indicative della totale subordinazione di questi uomini alla logica dell’attuale sistema sociale: dalla rinunciataria e remissiva gestione del referendum sul Decreto di San Valentino alle ineffabili discussioni precongressuali su “migliorismo” e dintorni, dalla servile proposta del “governo di programma” alla orgogliosa rivendicazione di internità al campo puzzolente delle socialdemocrazie europee, è tutto un susseguirsi di “iniziative” che mettono scopertamente a nudo l’anima profondamente “occidentale” e borghese degli eredi di Berlinguer. Con la sua ferma determinazione a distruggere quanto rimasto al suo interno delle tradizioni di lotta della classe operaia italiana, con il suo cadaverico pacifismo parlamentare, il PCI contribuisce oggi in modo determinante ad illudere le masse sulla reale natura della democrazia borghese e costituisce in definitiva uno dei principali puntelli del sistema capitalistico. È vero, infatti, che l’influenza del revisionismo sulla classe proletaria rimane pesante. A tutt’oggi gli uomini di Botteghe Oscure detengono forti posizioni nel movimento operaio e con i loro potenti apparati politici e sindacali, rigidamente in mano ad una filistea burocrazia di partito, sono in grado di decidere tempi e modi della mobilitazione di massa. Certamente in questa circostanza pesa la realtà dei paesi imperialisti, ove cospicui settori di proletariato possono beneficiare in una minima ma non sottovalutabile misura dei sovraprofitti che il monopolio multinazionale realizza nel mercato mondiale; ma pesano anche i nostri ritardi, ritardi del movimento rivoluzionario italiano che troppo spesso ha creduto di surrogare la necessità della battaglia antirevisionista con l’esaltazione acritica di un ipotetico “altro” movimento operaio, ponendosi con ciò fuori dai reali dibattiti e dagli effettivi problemi vissuti dai settori massicci e determinanti della classe operaia.

Ciononostante, nonostante si debba registrare un certo ritardo in quell’importante capitolo del lavoro comunista costituito dalla battaglia antirevisionista, esistono a nostro parere ragionevoli motivi per essere ottimisti. Nemmeno due anni fa in effetti, con l’esplosione della lotta di massa contro il decreto “truffa” del governo Craxi, si è avuto un chiaro sintomo del potenziale di autonomia dal revisionismo insito nella classe operaia. Senza cedere a facili quanto errati trionfalismi, sembra comunque a noi innegabile che nel corso di quella massiccia e prolungata mobilitazione, lo strapotere delle burocrazie politiche e sindacali ha forse incontrato per la prima volta da svariati anni serie difficoltà nell’imporsi sulla determinazione alla lotta dei lavoratori. L’esperienza dei cosiddetti “autoconvocati”, per quanto apparentemente sopita, ha lasciato significative tracce nella coscienza collettiva dell’odierno movimento operaio: sicuramente si tratta di indicazioni che la lotta di massa saprà nel futuro sviluppare. D’altra parte, man mano che cresce ed evolve nel movimento rivoluzionario una più precisa consapevolezza dei compiti politici del partito combattente, non può non presentarsi in primo piano la questione del revisionismo e dei modi più adatti a contrastarne l’influenza da un’angolatura realmente maggioritaria, realmente rivolta alle esigenze di milioni di lavoratori. Intendiamoci: si tratta soltanto di sintomi, di fatti che, per quanto significativi, rimangono tuttavia ancora allo stato di indizi di una possibile piega delle cose; ma è quanto basta per far intravedere distintamente un’ampia direzione di lavoro che a nostro parere, se affrontata con la sistematicità e la preparazione adeguata, si rivelerà certamente gravida di implicazioni positive in quanto faciliterà la penetrazione dei temi rivoluzionari nella coscienza della classe operaia.

Insomma, la lotta contro i traditori della classe operaia, contro coloro che hanno insozzato la bandiera del proletariato, rimane per noi una condizione primaria ed essenziale del lavoro rivoluzionario: l’“Unione” ribadisce che l’indifferenza sotto questo rispetto non soltanto arreca grave nocumento alla causa comunista, ma è oltre a ciò chiaro indice di infantilismo politico, di una mentalità minoritaria, settaria ed in ultima analisi perdente.

 

  1. Potete sinteticamente indicare i compiti fondamentali che secondo voi si pongono attualmente per i comunisti italiani?

Abbiamo già parlato della questione partito. Quando si discute dei compiti fondamentali all’ordine del giorno per i rivoluzionari italiani non si può menzionare innanzitutto questo problema, che si staglia all’orizzonte come il principale e più importante fra i numerosi doveri del momento. Per parte nostra, sottolineiamo ancora una volta l’importanza del fatto che l’unità dei comunisti nel partito si basi sulla chiarezza di vedute: da questo punto di vista, per quanto sia giustamente avvertita l’esigenza di un unico centro politico militare realmente in grado di dirigere il lavoro rivoluzionario su scala nazionale, alcune fasi non potranno essere artificialmente saltate. Si tratta cioè di aprire fra le forze realmente rivoluzionarie un serio dibattito intorno alle questioni principali che l’esperienza pratica degli ultimi anni ha posto all’ordine del giorno nel nostro paese; si tratta altresì di alimentare il confronto con l’iniziativa pratica, con un contributo politico organizzativo quanto mai prezioso in questo momento di obiettive difficoltà per la lotta armata. In definitiva, noi siamo convinti che quanto più la tendenza realmente marxista, non soggettivista, rafforzerà i suoi ranghi organizzati e la sua autorità politico militare, tanto più la questione del PCC sarà realmente accostabile in guisa non effimera.

Detto questo, per determinare esattamente i compiti principali del momento bisogna almeno aver presente la situazione generale in cui ci troviamo: da un lato non siamo in una situazione rivoluzionaria, né se ne intravedono i sintomi a breve scadenza e le forze comuniste sono deboli, ancora sotto il peso della battuta d’arresto dell’ 82; dall’altro, le numerose e diverse contraddizioni presenti nell’odierna realtà italiana, la disponibilità alla lotta esistente in consistenti settori operai e proletari costituiscono altrettanti favorevoli punti di partenza per il rilancio di una lotta armata che abbia imparato quel che doveva dall’esperienza passata. Ecco noi pensiamo che da questo pur schematico quadro, si possano far discendere con esattezza, e ragionevolmente, aggiungiamo, i doveri dell’oggi. Il primo ed il più importante è quello di ricostituire quel tessuto di solidarietà, di sostegno e di organizzazione militante che è stato indubbiamente lacerato dalla crisi politica che la lotta armata ha conosciuto. Non si sfugge a questo compito rifugiandosi “nelle masse” , non si può fare orecchie da mercante di fronte al fatto, noto a chiunque si dichiari comunista, che l’esistenza di una forte e solida lotta d’avanguardia è il primo presupposto di qualsiasi rivoluzione. Sì, si tratta di riorganizzare la lotta armata e si tratta di farlo concentrandovi tutte le energie possibili proprio perché la fase che viviamo (che non è rivoluzionaria) impone innanzitutto di rafforzare l’avanguardia, di dotarla di prestigio e di simpatia nelle masse, di inserirla come forza politica riconosciuta nella vita sociale del paese.

Secondariamente, bisogna far si che questa avanguardia sia realmente in grado di prendere posizione costantemente, lottando intransigentemente per affermarla contro il governo ed i partiti borghesi, su tutte le questioni centrali che di volta in volta interessano la nazione nel suo insieme. È tempo infatti di finirla con l’idea che la rivoluzione si compie “ai margini” della società, per l’iniziativa di quei soliti accesi “ribelli” che in tanto si oppongono ad ogni cosa, in quanto sono poi disposti ad accomodarsi in un ghetto dorato, magari “di sinistra”, sapientemente disposto all’uopo dalla borghesia stessa. Un partito politico, un centro dirigente della rivoluzione, dovrà davvero guidare milioni di persone, dovrà davvero saper interpretare le loro più vitali aspirazioni, concrete epperò generali, fuori da ogni schematismo precostituito. Bisogna perciò impostare il lavoro fin da subito cosicché la lotta armata divenga realmente “un modo di far politica”; bisogna sfruttare tutte le opportunità di intervento e di lotta salvaguardando al contempo la natura combattente, politico militare di ogni struttura del partito; bisogna infine saper opporre alla borghesia in tutti i campi fondamentali della società, posizioni nette e precise, posizioni capaci di fornire un orientamento sicuro per il movimento di massa e di interpretarne bensì da un punto di vista rivoluzionario le reali aspirazioni.

In terzo ed ultimo luogo, compito dell’oggi è quello di iniziare a gettare le basi per il lungo e nondimeno irrinunciabile lavoro politico che condurrà il partito rivoluzionario su posizioni di forza nel movimento operaio e proletario; compito dell’oggi è proprio quello di creare le condizioni per la futura guida comunista dei settori determinanti del proletariato italiano. È questo un dovere incondizionato, un incarico storico che pur quanto complicato si presenti, non può certo esser disatteso da quanti si vogliano richiamare coerentemente al marxismo leninismo. Abbiamo appena parlato dell’importanza fondamentale di intervenire su tutte le più rilevanti questioni politiche del paese; bisogna ora aggiungere che, questo essendo il primo presupposto di una reale linea di massa, il secondo è costituito senz’altro dalla realizzazione di una costante presenza politica nelle più significative realtà produttive e proletarie della nazione. Inutile eludere il problema: bisogna esser la dove le masse sono, dove vivono e lottano e dove quotidianamente subiscono la mortificante tutela del revisionismo. È certo un compito difficile, poiché si tratta di far progredire la coscienza di massa, di far riconoscere i nostri militanti come vere avanguardie della lotta comune all’insieme della classe, e si tratta di farlo, beninteso, senza poter proclamare la propria appartenenza al partito combattente nelle ostiche condizioni che il militante legale incontra ogni giorno nei posti di lavoro, nelle fabbriche, nelle scuole e nei quartieri. Cionondimeno è un dovere incondizionato. E già da oggi, con il senso delle proporzioni e delle priorità, in uno spirito comunista che non cada alle lusinghe del codismo e dell’economismo, è un lavoro che a nostro parere va avviato e sul quale le forze rivoluzionarie dovranno compiere la propria esperienza.

Tre compiti dunque per le avanguardie comuniste: riorganizzare la lotta armata anzitutto, riorganizzarla come fattore politico reale della vita del paese ed iniziare a stabilire solidi legami con le realtà più significative del movimento operaio e proletariato italiano. Questi, in sintesi, ci sembrano i doveri del momento.

  1. In conclusione: quali per voi le prospettive della rivoluzione italiana?

Nella storia di questo paese, il proletariato ha saputo affermare numerose e difficili prove: ha saputo reagire energicamente alla tutela del riformismo socialista fondando nel 1921 un forte e compatto partito comunista, e ha saputo affrontare con coraggio la sfida del fascismo nella durezza dell’illegalità e della lotta clandestina; è stata la forza dirigente della lotta di liberazione nazionale dal nazi-fascismo, e si è opposto alla violenta volontà di restaurazione “bianca” della borghesia negli anni ’50 e ‘ 60. Nel 1970 di fronte all’ormai scoperto tradimento del PCI, il proletariato italiano (di nuovo come nel ’21) ha saputo riconquistare la propria indipendenza politica attraverso la lotta armata. Le BR lo fecero intendere bene a tutta la società. Oggi si profila una nuova sfida: le classi dominanti sono animate di rinnovata protervia, i grandi capitalismi premono su già ben disposti ambienti politici, su oligarchie di partito autoritarie e tracotanti, per una svolta apertamente conservatrice: la direzione è già stata presa e, come si vuol dire, l’appetito vien mangiando. D’altra parte, la lotta armata è sensibilmente indebolita, numerosi problemi la investono dall’interno, si avverte chiaramente l’esigenza di un suo rinnovamento, oltreché nei presupposti politici anche nell’azione pratica. Saprà allora il proletariato italiano, sapranno le sue avanguardie politiche, affrontare l’ennesima battaglia trasformandola a favore delle classi oppresse? Noi diciamo di si. E a ragion veduta. Le riserve di energie nelle classi sfruttate sono davvero molto profonde, perché sono continuamente alimentate dalle contraddizioni che inevitabilmente scuotono la società borghese. Ed inoltre il nostro movimento sta velocemente mettendosi al passo: gli eserciti sconfitti, bisogna ricordare, imparano molto. Il parere dell’Unione dei Comunisti Combattenti, all’indomani della morte eroica della sua dirigente Wilma Monaco-“Roberta” è dunque assai preciso: le prospettive della rivoluzione italiana, nonostante le numerose difficoltà attuali e gli immensi sacrifici che si dovranno compiere, restano eccellenti.

Febbraio 1986

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