Opuscolo, Madrid, Novembre 1984
“…Ma al tempo stesso proprio la grande sconfitta è per i partiti rivoluzionari e per la classe rivoluzionaria una lezione effettiva e molto utile, una lezione di dialettica storica, una lezione che fa loro capire ed apprendere l’arte di condurre la lotta politica”.
A due anni e mezzo dalla sconfitta dell’82, si dà non più solo come necessario ma anche possibile un bilancio autocritico della nostra esperienza al fine di rilanciare una teoria-prassi rivoluzionaria che, nel vivo dello scontro, è maturata grazie anche agli errori commessi. Una spietata riflessione su questi errori è richiesta non solo dalla portata della sconfitta ma dalla consapevolezza che una seconda prova d’appello ci è preclusa, perché non sarebbe altro che la riproposizione farsesca di quella esperienza. Per questo, nel definire i termini dell’autocritica, vanno evitati due errori: 1) riproporre sotto altre forme la sostanza di un impianto già verificatosi fallimentare; 2) ricercare un impianto corretto sotto forma di esercizio di purismo teorico astratto, non vincolato all’adeguatezza di una verifica storica. In questo senso, stanare gli errori e i vizi di ragionamenti antidialettici, antimaterialisti, quindi idealisti, va perseguito col massimo rigore a partire dai principi del marxismo leninismo e dall’esperienza storica teorico-pratica fin qui acquisita dal marxismo rivoluzionario.
Le Brigate Rosse nascono in Italia dopo 20 anni di relativa pace sociale caratterizzati dal ciclo espansivo del capitale dopo il secondo conflitto mondiale e dalla gestione revisionista dell’antagonismo proletario, tesa a perpetuare una condizione di conciliabilità tra interessi di classe che gli permettesse la legittimazione della sua stessa collocazione quale forza politica “democratica” progressivamente inseribile nell’arco delle forze di governo. Al di là di pure enunciazioni propagandistiche, la “via nazionale al socialismo” costituisce l’elaborazione teorica del tentativo storico del revisionismo di smantellare una volta per tutte ogni “velleità” di trasformazione rivoluzionaria della società. La rivoluzione proletaria per i partiti revisionisti che avevano rotto col marxismo rivoluzionario e portato a degenerazione reazionaria le contraddizioni della politica dei “due tempi” della Terza Internazionale, non solo non era più possibile, ma neanche necessaria. Le “acute” riflessioni di Berlinguer all’indomani del colpo di stato in Cile e l’accelerazione della politica di alleanza con la DC, sono degne figlie della rottura operata dal Pci sotto la guida di Togliatti, in cui inizia un processo di sproletarizzazione di questo partito che costituisce la base materiale di tutta la successiva maturazione e collocazione in termini filoccidentali e socialdemocratici.
Alla fine degli anni ’60 si vive una situazione politico-sociale di grande trasformazione, una composizione di classe drasticamente mutata, un relativo benessere, una notevole stratificazione di classe. Ma si assiste anche al coagularsi di diverse contraddizioni: uno scenario internazionale violentemente scosso da conflitti locali che assumevano il carattere di liberazione nazionale antimperialista; il consolidamento della dittatura del proletariato in Cina con la “rivoluzione culturale”; la ricerca conflittuale di un nuovo equilibrio nella spartizione del mondo tra i due blocchi imperialisti principali e la entrata in crisi della “coesistenza pacifica”; la fine dell’ondata espansiva del ciclo capitalistico; il congiungersi di un’ondata di antagonismo operaio e proletario nelle metropoli occidentali con i preesistenti conflitti che caratterizzavano il difficile rapporto centro imperialista – periferia. Nei paesi capitalisti un modello di sviluppo comincia ad entrare in crisi e si apre una congiuntura favorevole alla lotta di classe alle cui caratteristiche anticapitalistiche si aggiunge un profondo “sentimento” antiamericano, suscitato soprattutto dall’eroica guerra di liberazione del Vietnam.
Nel nostro paese, l’estensione, la maturità, la durata e il carattere fortemente proletario espressi in quel ciclo di lotte, costituiscono la condizione per il costituirsi di un ampio movimento rivoluzionario. La sostanza politica della mobilitazione del fronte proletario in quegli anni, affermava la profonda consapevolezza della critica al modo di produzione capitalistico e al revisionismo, dando prova concreta di una riaffermata capacità di espressione di autentica autonomia di classe. Tra le avanguardie più coscienti, il dibattito verte intorno alla questione dell’organizzazione rivoluzionaria e di una teoria-prassi della rivoluzione proletaria nei paesi imperialisti. L’antiparlamentarismo ne costituisce il comune denominatore; il marxismo leninismo rivoluzionario la discriminante di fondo.
In questa situazione le Br compiono l’effettiva rottura storica tanto col pacifismo quanto con il velleitarismo gruppettaro che coll’”emmellismo” impotente, mettendo in pratica la sostanza dell’alternativa proletaria rivoluzionaria al sistema politico borghese dei partiti sul piano del marxismo leninismo, pur negli evidenti limiti di un’esperienza neonata. E lo fanno con la proposta strategica della Lotta Armata per il Comunismo come unica condizione per fare politica rivoluzionaria in quest’epoca storica e dare prospettiva e sbocco alla lotta delle masse. Le Br propongono quindi uno sviluppo del processo rivoluzionario proletario, necessariamente originale, dato che ritengono possibile e necessario, in una situazione non rivoluzionaria, dare inizio a un processo di “guerra di lunga durata” caratterizzata dalla lotta armata nella forma della guerriglia metropolitana. Le Br, cioè, non solo rompono con la concezione insurrezionale terzointernazionalista, ma ritengono impossibile in ogni caso la riproposizione di un lavoro di accumulo di coscienza e di organizzazione rivoluzionaria prima, per impiegarla poi anche in termini militari in un ristretto arco di tempo.
La lotta armata viene concepita come una strategia rivoluzionaria perché la sola che mette in grado di muoversi sul terreno rivoluzionario, di potere, sfruttando le contraddizioni che apre nei confronti dello Stato, costringendolo a liberarsi di ogni velo di neutralità e a materializzare la sua natura di classe; a rompere il gioco paralizzante (per il proletariato) dell’altalena repressione-riforme, funzionale al rafforzamento del potere della borghesia. L’agire politico-militare dei comunisti apre la fase rivoluzionaria a partire da una progettualità rivolta, inizialmente, alle avanguardie in stretta dialettica con i contenuti di potere espressi dalle lotte oggettivamente e dai settori più avanzati della classe anche soggettivamente, per rappresentarne gli interessi generali e dare prospettiva concreta all’interesse storico di alternativa rivoluzionaria di potere. In questo senso le Br applicano uno dei presupposti fondamentali del marxismo rivoluzionario, consapevoli che “il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate ma al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione potente, serrata, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario”.
Il problema centrale per dei marxisti non è dunque la propaganda del carattere borghese e di classe dello Stato, bensì l’attrezzarsi teoricamente-organizzativamente e militarmente a dirigere lo scontro col nemico di classe, in condizioni favorevoli affinché questo scontro possa essere iniziato e sostenuto. Ossia che si dia un livello tale della lotta di classe che generi avanguardie comuniste rivoluzionarie organizzate che si rendano disponibili ad agire come rivoluzionari di professione, come reparti d’avanguardia del proletariato. Per quanto ci è dato constatare dalla nostra stessa esperienza, l’estensione e il radicamento della lotta armata per il comunismo sono dati dal livello di coscienza complessiva espressa dal proletariato metropolitano che rende possibile e sostiene una forza rivoluzionaria clandestina, che pratica il combattimento contro lo Stato. E questo sia in presenza che in assenza di forti movimenti di massa, perché una strategia rivoluzionaria trova legittimità, non come prolungamento naturale della lotta spontanea, ma come risoluzione teorico-pratica della questione del potere, come sedimentazione organizzativa del livello di coscienza di classe che punta alla trasformazione rivoluzionaria dello stato di cose presenti. E’ ovvio che questo è un processo che si svolge secondo tappe precise, che determinano i compiti congiunturali dei comunisti nel perseguimento del primo obiettivo del processo rivoluzionario: la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato. In questo senso il grado d’incidenza dell’agire del partito nella dinamica dello scontro di classe vive dentro condizioni oggettive e soggettive molto precise da cui è impossibile sfuggire, pena il cadere nel pantano del soggettivismo e quindi nella sconfitta.
E’ necessario chiarire dunque che le Br non concepiscono la lotta armata come “uso delle armi” in termini propagandistici come strumento politico dell’educazione delle masse circa la necessità della rivoluzione violenta, come strumento più efficace di alcuni perché è impossibile che lo si ignori, sia da parte dello Stato che da parte del proletariato. E questo perché se si pensa ad uno scontro militare ristretto nel tempo in condizioni eccezionali, non ha nessuna legittimità e senso politico iniziare a combattere quando queste condizioni non ci sono. Sia chiaro che qui non si sta parlando dello scontro, ma della strategia politico militare che può permettere di conquistare rapporti di forza generali favorevoli, tali da mettere il proletariato rivoluzionario in posizione dominante rispetto alla borghesia e allo Stato. L’offensiva finale, presumibilmente, è necessariamente ristretta nel tempo, perché questa può essere sferrata solo in condizioni di particolare debolezza e di crisi economica, politica e militare dello Stato molto acuta, nonché di una congiuntura internazionale favorevole. E tutto questo non si presenta certo tutti i giorni.
Ma se la lotta armata acquista valore di strumento propagandistico o dobbiamo dire che essa deve essere praticata esclusivamente a “legittima difesa” in particolarissime condizioni o bisogna pensare possibile attaccare lo Stato, facendo finta di non attaccarlo, evitando “furbescamente” ogni rispetto delle leggi che una guerra ha, per quanto “particolare” essa sia. Perché se si ritiene che la conquista del potere politico possa avvenire in una versione, se pur aggiornata, dell’insurrezione, non si tiene conto di condizioni mutate che la rendono oggi improponibile. E questo per una serie di motivi:
- Il sistema democratico borghese giunto a livello maturo di consolidamento (forma istituzionale adeguata alla estensione e penetrazione raggiunta dal modo di produzione capitalistico a livello sociale e mondiale) è in grado di assorbire le spinte più antagoniste della lotta di classe in un ambito complesso e sofisticato di mediazioni politiche-economiche e militari da cui risulta la capacità della classe al potere di “istituzionalizzare” il conflitto di classe, pur tra lacerazioni e sussulti di un equilibrio sempre precario.
- La controrivoluzione preventiva come politica costante, come dato strutturale tesa a impedire ogni convergenza tra interessi proletari e progetto rivoluzionario. Questa non è materializzabile semplicemente nell’agire della magistratura o nella repressione poliziesca, ma è capacità da parte dello Stato di dosare mediazione e annientamento, distruggendo sul nascere, in forma politica-ideologica-militare, la legittimità stessa della rivoluzione proletaria.
- L’integrazione a tutti i livelli, pur nelle reciproche autonomie e interessi che la rendono sempre contraddittoria e sempre alla ricerca di nuovi equilibri, della catena imperialista in cui il nostro paese è collocato ed il carattere stesso dell’imperialismo che considera vitale per la sua sopravvivenza ogni angolo del mondo. Questa integrazione, per le caratteristiche strutturali dello stadio raggiunto dal capitale monopolistico multinazionale, fa sì che ogni Stato-membro ne interiorizza gli interessi comuni, o meglio colloca i suoi all’interno del rafforzamento di tutta la catena; e non ultimi sono quelli della difesa comune contro il proletariato e contro i popoli dei paesi dipendenti.
Queste caratteristiche fanno sì che il problema principale non sia tanto quello di propagandare nelle masse il carattere classista della società ed educarle alla necessità della rivoluzione violenta quanto quello di dimostrare la validità e la praticabilità di un progetto rivoluzionario che punta ad una alternativa di potere, mettendo al centro gli interessi del proletariato metropolitano e di quello internazionale. E questo principalmente perché, nonostante l’uso della mediazione politica, del relativo benessere, e della democraticità delle libertà costituzionali, i contrattacchi dello Stato sono comunque indirizzati all’annientamento di ogni tentativo proletario di trasformare l’antagonismo in movimento rivoluzionario per il potere.
Pensare che queste condizioni si possano creare di un colpo, senza uno scontro prolungato nel tempo con lo Stato, contraddistinto da una dinamica “a salti” rispetto al mutare delle condizioni soggettive ed oggettive, significa credere possibile che la borghesia possa convivere con una pratica d’avanguardia sul terreno della politica d’avanguardia che incida sempre più profondamente nella dinamica dello scontro tra le classi, senza che le lacerazioni prodotte da questo stato di cose non la costringa ad attaccare direttamente tutte quelle lotte e quegli organismi organizzati della classe che, volenti o nolenti, coscienti o meno, per essere autenticamente fondati sugli interessi proletari, trovano nella politica rivoluzionaria dei comunisti la sola ed unica direzione e prospettiva. E allora se il combattimento dei comunisti non assume la funzione di strategia politica per il processo rivoluzionario del proletariato, le lotte e le mobilitazioni spontanee non possono che arretrare e subire l’inevitabile contrattacco nemico, private della direzione e degli obiettivi necessari. E questo la classe l’ha già sperimentato tutte le volte che ha conosciuto la faccia vera della dittatura democratica della borghesia, sotto forma di carcere, bombe terroristiche di Stato, repressione violenta di manifestazioni di piazza, licenziamenti politici di massa, smantellamento di intere strutture organizzate “d’opposizione”. Tutte queste cose sono servite a sancire nella pratica le regole del gioco per cui gli interessi dello Stato democratico e le conquiste e i “valori” della civiltà occidentale sono la base di un patto sociale che non può essere messo in discussione e con esso nemmeno la legittimità del potere della borghesia. E questo non è stato determinato da una sorta di imposizione ideologica dello Stato e dei revisionisti che hanno reso il proletariato indisponibile alla comprensione e alla accettazione di un livello di scontro “che vada fino in fondo”, per cui basta propagandare la necessità per liberare forze proletarie dal contenimento coatto che ne fanno la borghesia e il revisionismo. Bensì occorre dimostrare che nell’aggravarsi della crisi economica e politica della borghesia, esiste un’alternativa rivoluzionaria e proletaria alla crisi dell’imperialismo che può trasformare i progetti antiproletari e guerrafondai del nemico di classe in processi rivoluzionari per la distruzione dello Stato e la conquista del potere politico. Lo stato di pacificazione che la borghesia s’è assicurata nei paesi più forti della catena è la dimostrazione più chiara di come la risoluzione delle ondate antagoniste e cicli di lotte, anche violenti, sul terreno economico sia possibile dentro un quadro di compatibilità con le esigenze capitalistiche e gli interessi borghesi. E questo nonostante fatti concreti che dimostrano quale futuro l’imperialismo offra al proletariato internazionale: una nuova guerra mondiale. In questo quadro la lotta armata per il comunismo non è lo strumento propagandistico per poi poterla fare, non è l’ultima forma di lotta propria della fase conclusiva dello scontro, ma la strategia che guida dall’inizio alla fine lo scontro necessariamente prolungato con l’apparato statale borghese.
In questo la lotta armata praticata dalle Br si colloca all’interno dell’esperienza del proletariato internazionale e soprattutto del marxismo rivoluzionario che, coll’evolvere delle forme di dominio dello Stato e dell’imperialismo ha trovato e trova all’interno dello scontro di classe le ipotesi rivoluzionarie più adeguate per il raggiungimento dei propri obiettivi.
A questo punto del dibattito è necessario sciogliere un nodo centrale per il futuro della nostra organizzazione. Da più parti si invita a una riflessione critica circa la concezione di “guerra di lunga durata” che l’organizzazione ha assunto all’atto della sua costituzione. Ossia che la sostanza degli errori successivi vada ricercata nell’impianto iniziale di proporsi come Partito Comunista Combattente che sulla lotta armata fonda una strategia per organizzare il proletariato rivoluzionario contro lo Stato. Si dice che la guerriglia sia improponibile in un paese del centro imperialista e che la lotta armata sia uno degli strumenti che il Partito Comunista Combattente usa per educare le masse alla necessità dello scontro militare con lo Stato in condizioni eccezionali. Questo mentre nei paesi più arretrati il condizionamento oggettivo di traumi profondi (quali una guerra imperialista) è meno vincolante, data la condizione di miseria diffusa in cui le classi subalterne sono costrette in ogni caso. A parte lo schematismo facilone con cui la storia dello scontro rivoluzionario viene letta (tanto per dirne una la conquista del potere politico in Cina è avvenuta nel ’49 – ossia nell’immediato dopoguerra – e Mao ha sottolineato e quantificato i risultati della “stupidità” della borghesia imperialista che aiuta oggettivamente con le sue guerre mondiali le rotture rivoluzionarie dove se ne creano le condizioni), va piuttosto incentrata l’attenzione e la critica alle concezioni idealistiche che hanno dominato nella nostra esperienza.
Tutte le esperienze rivoluzionarie basate sul marxismo leninismo concepiscono il problema dell’organizzazione dell’avanguardia come condizione insostituibile per ogni discorso di direzione su milioni di persone. E questo tanto nei paesi industrializzati a forte componente operaia che nei paesi terzi. Tutte le esperienze rivoluzionarie si rivelano possibili perché le condizioni dello scontro generano delle avanguardie rivoluzionarie che operano come reparto d’avanguardia e come rappresentanti dell’interesse generale del proletariato nel rapporto classe-Stato. E non perché la lotta teorica dei comunisti libera avanguardie antirevisioniste. Tutte le esperienze rivoluzionarie si sono trovate di fronte a un passaggio dalla cui risoluzione positiva o meno è derivato il successo stesso del processo rivoluzionario. Questo passaggio è quel delicato salto da propagandisti di una necessità storica (la rivoluzione proletaria) a dirigenti del processo rivoluzionario per la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato. Per quanto ci riguarda è il passaggio dalla propaganda armata al costituirsi di un Partito rivoluzionario sulla base di una strategia e una tattica adeguate alla trasformazione della lotta di potere. Ossia dalla lotta politica rivoluzionaria contro lo Stato, per il suo abbattimento. Per dirla con Lenin, il dovere della costruzione del partito “…ci è imposto dal movimento, perché la lotta spontanea del proletariato diventerà una vera lotta di classe solo quando sarà diretta da una forte organizzazione di rivoluzionari”.
Agli inizi degli anni ’70 non c’erano certo le condizioni oggettive e soggettive per la conquista proletaria del potere politico. C’erano però le condizioni per l’apertura della fase rivoluzionaria nel nostro paese, materializzata dalle avanguardie comuniste e rivoluzionarie e legittimata storicamente e politicamente dalla natura dell’antagonismo di classe e del dominio della borghesia. Le contromosse dello Stato alla maturità e “pericolosità” espressa da quel ciclo di lotte, preparavano ancora una volta una risposta durissima dello Stato in termini di repressione e riforme con cui decapitare il movimento e riconquistare rapporti di forza differenti. Le Br lanciano al proletariato una proposta: o accettare lo scontro imposto dalle condizioni nuove sorte in quella particolare congiuntura o subire l’inevitabile massacro politico-militare del contrattacco borghese. Ossia attrezzarsi a consolidare l’offensiva proletaria e i rapporti di forza conseguiti in una prospettiva certa di scontro più avanzato. A questo punto bisogna chiedersi se dobbiamo o no considerare che è stata una strategia politico-militare che ha dato risposta e prospettiva allo scontro di classe nel nostro paese; che ha contribuito alla “tenuta” del fronte proletario agli attacchi terroristici dello Stato; che ha messo lo Stato sulla difensiva inceppando, più o meno sempre felicemente, i suoi progetti di pacificazione forzata sulla pelle del proletariato; che ha ottenuto tante vittorie da costringere lo Stato democratico al ricorso della tortura e delle innumerevoli “eccezionalità” contro la classe e, in particolar modo contro le avanguardie. Questi fatti sono innegabili e solo un’improvvisa e grave amnesia può imputare la portata della sconfitta, all’esserci, nella teoria e nella pratica, fatti riconoscere come l’unica organizzazione in grado di dare soluzione e prospettiva al processo rivoluzionario nel nostro paese, secondo una strategia politico militare a tutt’oggi non ancora superata da altre. Perché su un punto occorre essere molto chiari: in Italia non è stata sconfitta la lotta armata per il comunismo, bensì le sue concezioni idealiste e immediatiste che hanno prevalso nel movimento rivoluzionario e nelle stesse Br.
Un dato portato a riprova delle tesi della inconsistenza della nostra proposta strategica, è, secondo alcuni compagni, rappresentato dalla scarsa o nulla tenuta di molti ex rivoluzionari, che hanno rinnegato alla prima ondata di vento contrario. E’ innegabile il peso che concezioni idealiste, antimarxiste hanno avuto nel contribuire al fallimento della progettualità rivoluzionaria. E’ altrettanto innegabile che proprio i massimi sostenitori di teorie ultrarivoluzionarie stanno oggi dimostrando la loro reale collocazione di classe a fianco della borghesia e contro il proletariato. Né va sottovalutata la carenza dell’Organizzazione nella battaglia teorica contro le ideologie piccolo-borghesi presenti nel movimento rivoluzionario e al suo stesso interno. Ma tutto ciò non deve portarci a considerazioni liquidazionistiche del tipo: tutto ciò che si è espresso non deve più riproporsi, una mobilitazione di simile portata su una strategia politico-militare è sbagliata e va combattuta. In questo modo non si attaccano gli errori, non si isolano proposte sbagliate che nella pratica vengono sconfitte e smascherate, ma si liquida la sostanza stessa della strategia della lotta armata. Inoltre si dimentica che simili rovesci, a fronte di simili errori, sono una costante nella storia del movimento rivoluzionario, a cui si può e si deve porre solo rimedio, e non già comodamente esorcizzarli, mettendosene al riparo col purismo dell’ortodossia. Questo perché l’economicismo, l’operaismo, il terrorismo, l’idealismo, non nascono per incanto a disturbare l’affermazione di una corretta linea proletaria e rivoluzionaria già data, ma trovano legittimità e consenso nel percorso affatto lineare del processo rivoluzionario, anche se la pratica si incarica puntualmente di rivelarne il carattere piccolo-borghese e controrivoluzionario. Sono proprio questi momenti che permettono più di altri l’affermazione di una linea proletaria che si forgia nella lotta contro le idee errate tanto nel proletariato quanto nelle organizzazioni rivoluzionarie. E questa lotta è caratterizzata dalla contraddizione tra unità di opposti e non tra concezioni reciprocamente escludentesi in quanto appartenenti a mondi completamente separati. Ciò non vuol dire lasciare sguarnito il campo della teoria perché sappiamo che così facendo esso non potrà che essere occupato dalla borghesia. Al contrario vuol dire che l’adeguatezza di un impianto strategico e della stessa costruzione dei quadri del Partito, non può essere misurata sulla purezza teorica astratta, bensì sulla saldezza dei principi marxisti leninisti verificati e verificabili nella pratica concreta del processo rivoluzionario, nella comprensione e capacità di applicazione del criterio proletario e rivoluzionario di critica-autocritica-trasformazione. In questo senso l’eclettismo e il dogmatismo sono concezioni entrambe incapaci d’imparare dagli errori, quindi inesorabilmente votate alla sconfitta.
La concezione leninista del ruolo del Partito non va confusa con la pratica politica o col “modello” adottato dal partito bolscevico per la conquista del potere politico nel ’17.Lo stesso Lenin è stato in grado di sintetizzare solo dopo la rivoluzione gli insegnamenti teorico pratici dell’agire rivoluzionario, in particolare il rapporto masse-partito-masse, sottolineandone gli errori, le ritirate e le controffensive. Il processo rivoluzionario non è però neanche cieco e frutto di improvvisazioni, ma trova nel marxismo leninismo e nella esperienza del proletariato internazionale la sua guida insostituibile. Va altresì capito che gli aspetti concreti e storici dell’esperienza bolscevica (lavoro nei sindacati, partecipazione ai parlamenti borghesi, ecc.) non solo non costituiscono teoria rivoluzionaria, ma sono del tutto secondari rispetto alla concezioni fondamentali e sempre valide, che hanno fatto del Partito bolscevico la direzione del processo rivoluzionario in Russia: ossia il lavoro dell’organizzazione rivoluzionaria di classe contro lo Stato e la concezione autenticamente internazionalista della rivoluzione proletaria. Dirsi leninisti vuol dire capire fino in fondo la sostanza della critica rivoluzionaria all’economicismo e al culto della spontaneità; vuol dire applicazione dei principi del marxismo rivoluzionario secondo un’analisi materialistica della situazione concreta; vuol dire…”subordinare la lotta per le riforme alla lotta per la libertà e il socialismo, come la parte è subordinata al tutto”.
In questo senso rifiutare la concezione dei “due tempi” (deviazione revisionista) per sostenere la praticabilità di una concezione originale dell’insurrezione continua a non rispondere ai problemi posti da questo dibattito e dalle ragioni che, al loro costituirsi, hanno portato le Br a concepire la lotta armata come necessaria allo sviluppo della rivoluzione proletaria, a questo stadio della lotta di classe e delle politiche di oppressione della borghesia.
Va anche detto che il rigore dei principi se non è misurato dentro l’esperienza concreta dello scontro di classe, non ha salvato e non salva tutta l’esperienza dell’”emmellismo” eternamente risorgente esattamente perché, contando molto poco nello scontro rivoluzionario, non è mai costretto a fare i conti con lo scontro stesso e, in questo modo, si assicura una sopravvivenza ai margini della lotta di classe, riproponendo noiosamente le sue “eterne verità” e di fatto, chiamandosi sempre fuori e contro i problemi spinosi che la rivoluzione proletaria ha posto e pone.
La storia e l’esperienza di questo secolo di rivoluzioni proletarie e di guerre di liberazione nazionali, hanno chiarito il carattere generale che lo scontro rivoluzionario ha assunto relativamente alle forme di dominio dello Stato e dell’imperialismo. Questo carattere è sintetizzabile nella concezione della guerra rivoluzionaria necessariamente prolungata, di lunga durata, contro lo Stato. Le leggi e le forme di questa guerra, dipendono strettamente dalle caratteristiche socio-politico-economiche delle varie Formazioni Economico Sociali nonché dalla forma Stato. E’ infatti molto differente ragionare a seconda se ci ritrovi in un paese del centro imperialista a democrazia parlamentare o in uno del terzo mondo. All’interno degli stessi paesi imperialisti, lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalista determina condizioni diverse di carattere oggettivo. E questo non è che la riprova storica della validità della concezione leninista degli anelli deboli della catena imperialista. Solo in questi punti è possibile materialisticamente pensare si creino le condizioni oggettive e soggettive più favorevoli alla rivoluzione. Il nostro paese è fuori di dubbio uno di questi.
…la guerra rivoluzionaria di classe si differenzia da quelle di conquiste, per le finalità sociali che persegue e per il carattere proletario che assume. E’ quindi sempre e comunque una guerra che è fortemente dominata dalla politica rivoluzionaria perché pronta alla conquista dei suoi obiettivi tramite la partecipazione cosciente del proletariato rivoluzionario organizzato allo scontro con lo Stato. Questo rapporto di guerra vive mettendo la politica al primo posto (anche se con leggi diverse nelle diverse fasi dello scontro) sia nella fase della conquista del potere politico, che in quella della dittatura del proletariato e il successivo rivoluzionamento della società fino al comunismo. Il passaggio dalla fase iniziale della guerra di classe, condotta dalle avanguardie, a quella del dispiegamento della guerra di classe portata avanti dalle masse organizzate e dirette dal Partito, non è schematizzabile in un passaggio improvviso in cui da azioni di propaganda armata si passa alla distruzione delle forze del nemico in un’ipotetica “ora X” in cui vengono a concentrarsi criticamente tutte le contraddizioni del sistema di potere della borghesia. La guerra di classe non è un processo di accumulo lineare di forza e di organizzazione, fino al punto di poter decidere di sferrare l’ultimo attacco. Le sue tappe sono scandite da condizioni oggettive (prima fra tutte l’aggravarsi della crisi economica e politica della borghesia) e soggettive (il costituirsi di un Partito rivoluzionario che sappia dirigere e favorire la trasformazione del movimento antagonista della classe in movimento rivoluzionario contro lo Stato). Questo significa capacità di elaborazione di strategia e tattica adeguate ad affrontare lo scontro le cui caratteristiche sono date dalle necessità imposte alla borghesia dalla sua crisi e dalla capacità dei comunisti di proporre alla classe alternative chiare e praticabili.
Il costituirsi di un movimento rivoluzionario non coincide con la conquista di tutto il proletariato alle ragioni della guerra di classe. Questo semmai è obiettivo della fase di dittatura del proletariato e del consolidarsi dello Stato proletario nel coinvolgimento delle masse, di tutto il proletariato, al perdurare della lotta di classe. Questo perché il movimento proletario si presenta non come un tutt’uno, ma come una risultanza di diversi livelli di coscienza che non vanno appiattiti l’uno sull’altro, né sostituiti l’uno con l’altro. Il criterio generale è che il Partito deve avere una profonda influenza nelle dinamiche della lotta di classe, quindi all’interno di tutto il proletariato, ma rappresentandone l’elemento cosciente e organizzato, non appiattisce le sue proposte alla medierà del livello raggiunto dalle “masse in lotta”, ma pone il livello più maturo come la base reale su cui è necessario e possibile lo sviluppo del processo rivoluzionario della classe. Ossia fa in modo che “la massa operaia non solo avanzi le rivendicazioni concrete, ma generi anche dei rivoluzionari di professione in numero sempre più grande”. E questo perché la coscienza della necessità della rivoluzione sorge accanto e non dalle lotte delle masse, come suo prolungamento naturale tutto dipendente da condizioni oggettive; si costruisce cioè a partire da una dialettica precisa tra attività d’avanguardia e movimento spontaneo; si costruisce come salto dialettico che non trova nello stesso momento disponibili milioni di proletari.
Dall’altro lato l’esistenza di frange, di spezzoni rivoluzionari della classe vanno valutati per la reale incidenza che essi hanno nel più generale conflitto di classe. E questo dipende dalla capacità del Partito di dirigere questo processo a partire non da un punto qualsiasi della realtà di classe, ma dai nodi politici principali tra classe e Stato. E questo perché solo questi possono sintetizzare il livello più maturo dello scontro e la prospettiva di potere delle diverse situazioni di lotte proletarie, all’interno del cui interesse generale sta l’interesse di ogni singolo settore di classe. All’infuori di questa ottica esiste solo il minoritarismo e l’estraneità politica delle avanguardie della classe, oltre alla conseguente confusione tra punto più alto di lotta tra avanguardie e Stato, con il reale e concreto rapporto di forza tra le classi. Le tappe in cui la guerra rivoluzionaria nelle metropoli è scandita dipendono quindi dal complesso delle necessità politiche determinate dalla dinamica attività d’avanguardia – lotta di massa – controrivoluzione dello Stato, e non dalla possibile “potenza di fuoco” esercitatile dalle avanguardie e dalla violenza esercitata dalle masse.
Proprio perché la lotta armata non è uno strumento, è la necessità del raggiungimento di obiettivi generali per tutta la classe che “calibra” e regola l’attività combattente. E questo, nei paesi imperialisti, a causa di caratteristiche strutturali in cui lo scontro di classe si esprime, è ancora più vero. Comunque va detto che anche in situazioni di guerra aperta e dispiegata le leggi militari, pur assumendo un’importanza decisiva, sono sempre regolate dalla strategia politico-militare di un Partito rivoluzionario che elabora programmi ed obiettivi.
Da questo punto di vista la discussione deve vertere sugli errori che la lotta armata per il comunismo ha commesso, che gli ha impedito di capire le caratteristiche strutturali del suo agire, la connotazione tattica su cui incentrare i programmi: perché l’unica cosa ineludibile è il fatto che l’assunzione del terreno della guerra, come terreno strategico, non può in ogni caso essere rimandata a quando “le masse saranno pronte”, perché è chiaro che non lo saranno mai.
Un’altra caratteristica vincolante della guerra di classe nei paesi imperialisti è che essa vive e si sviluppa nel cuore del dominio borghese, cioè nelle metropoli. Essa quindi non si avvale di percorsi politico-militari di accerchiamento del nemico, a partire da “retrovie” da cui parte per portare attacchi e poi retrocedere, fino all’attacco finale. Nelle metropoli cioè non sono possibili “basi rosse”, territori liberati in cui le Forze Rivoluzionarie esercitano, in condizioni di rapporti di forza favorevoli, un contropotere effettivo. La lotta armata nelle metropoli, vivendo continuamente “a stretto contatto” con la controrivoluzione, non può contemplare “suoi territori”, perché date le forze preponderanti del nemico, sarebbe distrutta in men che non si dica. Per le identiche ragioni, non può dirigersi e mettersi alla testa delle lotte proletarie, ma fonda nella clandestinità d’organizzazione e nell’agire politico militare la capacità reale di non mediare sui propri contenuti e di essere offensiva nei confronti dello Stato.
Nell’analisi retrospettiva e necessariamente critica della nostra esperienza, vanno individuati chiaramente gli errori principali. Questo si può fare solo se si distingue il percorso delle Br dal più generale “combattentismo” degli anni ’70, perché le Br sono state nel nostro paese l’unica Organizzazione Comunista Combattente che ha fondato la sua teoria-prassi su concezioni marxiste leniniste. Occorre però anche capire l’ambito politico-ideologico in cui l’Organizzazione si è sviluppata, per cogliere, accanto alle inadeguatezze, anche tutta la ricchezza e il patrimonio di esperienza che stanno alla base del fatto che solo le Br non solo vogliono, ma possono oggi dare soluzione ai problemi di riadeguamento dell’impianto generale. E questa non è autocelebrazione, ma semplice constatazione della realtà.
Se è sbagliato dividere la storia dell’organizzazione in periodi buoni e cattivi, è incontrovertibile che la concentrazione delle contraddizioni politiche e teoriche presenti al suo interno, esplodono nel momento in cui, soprattutto grazie alla “campagna di primavera”, l’Organizzazione acquista nello scontro di classe un peso notevole. Da Organizzazione Comunista Combattente che propaganda un’idea forza (la lotta armata per il comunismo) l’Organizzazione si trova ad essere forza politica rivoluzionaria riconosciuta, asse strategico per la costruzione del Partito e l’elaborazione di una linea politica di direzione del processo rivoluzionario. A questo punto le imprecisioni, le deviazioni e la debolezza complessiva dell’impianto teorico-pratico, unite all’inesperienza e giovinezza politica del suo stesso percorso, impediscono all’organizzazione di superare la sua natura di “forza rivoluzionaria combattente” per conquistare quella di Partito di tutta la classe. Per questo (e solo per comodità di esposizione) si può dire che il concentrarsi critico di tutte le contraddizioni irrisolte dell’Organizzazione, sono esplose nel momento in cui essa ha dimostrato tutta la validità e la maturità di un’esperienza costruita in anni di lotta, che hanno permesso l’ideazione e il successo dell’attacco alla “solidarietà nazionale”. E questo perché le responsabilità complessive determinate dal risultato di quella campagna, avevano di fatto messo l’Organizzazione nella condizione di dover necessariamente dare risposte adeguate al salto di qualità dello scontro che essa stessa aveva perseguito e diretto, che gli aveva permesso di distruggere il progetto cardine con cui la borghesia si attrezzava alla gestione antiproletaria della sua crisi, in modo da evitare eccessivi traumi politici e sociali. Ciò non vuol dire che prima del ’78 il percorso dell’Organizzazione fosse stato esente da contraddizioni, ma che queste materialisticamente, potevano esplodere con tale evidenza solo in quel momento. Di fronte ad esse c’è stata l’incapacità dell’Organizzazione di governarle in senso positivo, o meglio, all’interno del tentativo di farlo, ha dimostrato tutta la sua debolezza, permettendo in una dura battaglia politica il prevalere di una concezione idealista e soggettivista. L’Organizzazione ha dato risposte sbagliate a problemi reali e ineludibili, cioè quelli inerenti all’elaborazione di una strategia rivoluzionaria che ovviamente attiene al problema dell’organizzazione del proletariato rivoluzionario sul terreno dello scontro con lo Stato. Vogliamo dire che in un percorso autocritico come questo, non va eluso il problema di dover comunque rispondere a quella domanda a cui l’Organizzazione ha risposto tanto maldestramente. Dire che l’Organizzazione non poteva che sbagliare vista la sua origine “guerrigliera”, è pura metafisica e porta dritti dritti alla revisione totale della nostra esperienza.
Non vogliamo qui riprendere tutte le implicazioni delle concezioni analitiche e programmatiche dell’”Ape”, perché esse sono già state oggetto di critica serrata in questi due anni e mezzo, fino alle sue estremizzazioni della “guerra sociale totale” e di “Gocce di sole”. Vogliamo sintetizzare alcuni punti su cui si è concentrata la progressiva perdita di scientificità dell’analisi dell’organizzazione. Va detto che l’impianto complessivo su cui l’Organizzazione ha fondato la sua pratica dall’80 in poi è pesantemente caratterizzato dall’abbandono delle concezioni materialistiche e delle categorie d’analisi marxiste leniniste. Ossia che quell’impianto era assolutamente incapace di individuare il movimento della contraddizione come dominante in ogni aspetto della materia sociale, aprendo la strada a una concezione meccanicistica ed antidialettica della realtà in cui ogni analisi di tendenza diviene realizzazione in atto, dominanza; in cui l’equilibrio idealista sovrasta sullo squilibrio reale. A partire da una simile concezione metafisica, la proposta dell’Organizzazione scade inevitabilmente nell’immediatismo e nel soggettivismo. Al problema del rapporto Partito-masse si risponde coll’economicismo dei programmi immediati settoriali e con l’ideologismo da quattro soldi delle “allusioni” al Comunismo dei programmi generali. Nonostante pure enunciazioni di principio, cadono le discriminanti di fondo che avevano permesso all’Organizzazione di costituire l’unico serio baluardo contro l’operaismo e l’antimarxismo “militante” della progettualità più u meno armata di gran parte del movimento rivoluzionario degli anni ’70. All’analisi corretta di crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale si sostituisce quella idealistica di “crisi irreversibile”; a quella della guerra interimperialista quella tra borghesia imperialista e proletariato internazionale; al concetto di concorrenza monopolistica quello della pianificazione concertata dal “superimperialismo”, dal “capitale unico”. E si potrebbe andare avanti…quello che qui ci interessa sottolineare è la perdita di sostanza di tre discriminanti di fondo: 1) la questione dello Stato; 2) la questione del Partito; 3)la questione della centralità operaia. Queste tre questioni hanno vacillato fino alla loro completa negazione da parte dell’”anima” dell’Organizzazione che maggiormente incarnava queste deviazioni, cioè il Partito Guerriglia, che ha in parte rinvigorito le teorie tanto care a Prima Linea e Company e alle elucubrazioni del professore padovano, e in parte le ha portate alle estreme conseguenze fino alla esaltazione pura e semplice dell’emarginazione sociale e della guerra sociale su tutti i rapporti sociali. Sottolineiamo però che questo processo degenerativo è avvenuto dentro una durissima battaglia politica che si è polarizzata in diversa maniera e dando origine alle spaccature dell’80 (W.Alasia) e dell’81 (Napoli e Fronte Carceri) e alla ridefinizione non ancora conclusa delle Br per la costruzione del Pcc.
La concezione dello Stato
La concezione marxista leninista (e quella delle Br) ha sempre concepito impossibile la trasformazione rivoluzionaria della società, prima di aver distrutto l’apparato di potere statale, conquistato il potere politico e instaurata la dittatura del proletariato. Lo Stato è il regolatore del conflitto di classe, è il prodotto e la manifestazione dell’antagonismo inconciliabile fra le classi, è “organo di oppressione di una classe ai danni di un’altra; è la creazione di un ordine che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi”. Per far sì che la questione del significato e della funzione dello Stato si ponga come “un problema di azione immediata e, per di più di azione di massa”, è necessario che il partito ne faccia il centro della sua azione politica; perché un Partito Comunista rivoluzionario si distingue proprio dal fatto che rappresenta gli interessi del proletariato nel suo rapporto con lo Stato, cioè col rappresentante complessivo degli interessi della borghesia.
Il fatto che una rivoluzione proletaria sia una rivoluzione sociale, ossia tenda ad un ordinamento sociale diverso basato sul principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno”, nulla toglie al carattere necessariamente politico che essa assume nel compiere il primo atto di tutto il processo rivoluzionario, ossia la distruzione dello Stato borghese e l’instaurazione dello Stato proletario, cioè del “proletariato organizzato classe dominante”. Questo perché pensare ad un rivoluzionamento della società, delle forze produttive sociali, alla distruzione dei rapporti sociali capitalistici senza prima distruggere la macchina preposta al mantenimento della divisione subordinata fra le classi, è come iniziare a costruire una casa cominciando dal tetto, ossia…impossibile. Tutte le teorizzazioni sul “contropotere”, sulle tematiche “sociali”, sui bisogni realizzabili, fino alla lotta contro tutti i rapporti sociali contemporaneamente, sulla fine della politica, sono nate come “aggiornamento” raffazzonato che, curiosamente, accomuna l’estremismo soggettivista alla concezione revisionista del primato delle forze produttive. Negli anni ’70 le concezioni che negavano la necessità dell’abbattimento dello Stato e della dittatura del proletariato rivendicavano il proprio antimarxismo, in nome delle “assolute” novità di questa fase storica. In termini molto concreti queste concezioni non hanno nulla di nuovo in quanto questa determinante battaglia politica ha caratterizzato lo scontro del marxismo rivoluzionario con il revisionismo da sempre, trovando nello scontro di classe le varianti “aggiornate” del culto della spontaneità e dell’economicismo e una base “militante” nella piccola borghesia rivoluzionaria e in frange di aristocrazia operaia. All’interno dello stesso movimento proletario queste concezioni trovano spazio data la non linearità del rapporto spontaneità-coscienza e, a volte, non impediscono l’organizzazione e la lotta su di esse di autentiche avanguardie proletarie e rivoluzionarie che, a parole, dicono di lavorare per l’abbattimento dello Stato e, nei fatti, fondano la propria attività sull’economicismo più sfrenato, fino al sindacalismo armato.
Nella riproposizione intransigente del marxismo leninismo, le Br proprio con la concezione dell’attacco al cuore dello Stato hanno, nei fatti, vinto un’importante battaglia politica contro lo spontaneismo armato e determinato l’accelerazione dello smascheramento del revisionismo. E questo per due importanti motivi.
- La campagna di primavera, soprattutto, ha colto uno dei suoi obiettivi, costringendo il “combattentismo” a fare i conti con una situazione politica mutata che lasciava poco spazio ad una pericolosa endemicità della lotta armata, tutto sommato compatibile con l’assetto di dominio della borghesia. Tutto sommato compatibile perché non è certo la violenza in sé che preoccupa la classe al potere, specie se questa violenza è poco interessata a togliergli tutto il potere, ma si accontenta di “dare soluzione” immediata al campo fantasioso dei cosiddetti bisogni proletari. Dentro questa logica è possibile pensare che la cattura di un servo più o meno importante della borghesia, possa costituire un ricatto così potente da costringere lo Stato a distribuire case, bistecche o posti di lavoro. La differente impostazione e serietà dei protagonisti di questa logica e anche le differenti dichiarazioni di intenti, non bastano per non inchiodare queste pratiche al terreno melmoso dell’eclettismo e dell’antimarxismo, come l’esperienza del movimento rivoluzionario anche in Italia ha ampiamente dimostrato. Con l’attacco allo Stato le Br hanno determinato nei fatti un salto dialettico decisivo del movimento rivoluzionario, con cui tutti hanno dovuto fare i conti, perché ribadiva nella pratica la necessità di antagonizzare, sulla base di una strategia politico-militare, il movimento di massa, non contro questo o quell’aspetto della società borghese, ma contro la borghesia tutta intera e contro il suo Stato.
- Il secondo motivo importante è quello di aver costretto il Pci, a velocizzare la sproletarizzazione definitiva della sua politica e liberarsi di un colpo di tutte le demistificazioni e gli ammiccamenti circa la rivoluzione che un giorno si farà, visto il tremendo pericolo del costituirsi di una forza politica rivoluzionaria si simile portata, alla sua sinistra. E’ stata principalmente la politica delle Br (in stretta dialettica con i contenuti antirevisionisti dell’autonomia di classe) a determinare questo passaggio necessario per il proletariato italiano, ossia lo smascheramento nei fatti dei reali interessi che il Pci difende e la sua connotazione politica sia nei confronti del proletariato metropolitano in Italia che del proletariato internazionale. Fiumi di parole e di inchiostro versato dai gruppi e dai partitini m-l circa il problema di “spiegare alle masse” il “tradimento” dei figli e nipoti di Togliatti, non potevano costituire alcun pericolo serio per il Pci, semplicemente perché queste organizzazioni non hanno mai rischiato di diventare un Partito rivoluzionario di tutto il proletariato e quindi non hanno mai contato granché nella dinamica politica dello scontro di classe.
Nella successiva impostazione politica della linea delle Br, vengono accolte tesi che, nella sostanza, ripropongono la stessa deviazione immediatista tanto combattuta nel passato. La concezione dell’attacco allo Stato, come attacco al progetto dominante della borghesia nella congiuntura, si svilisce a causa dell’analisi dello Stato come corpo elettromagnetico, corto circuitabile, composto di varie “funzioni” (le forze politiche, quelle economiche, la controguerriglia, ecc…) ognuna delle quali concorrenti allo stesso disegno controrivoluzionario e antiproletario pianificato e pensato dallo Stato. Lo Stato si dilata così in ogni aspetto della vita sociale, per cui è possibile attaccarlo in ogni dove, basta che esista un proletario organizzato e un bisogno “irriducibilmente” contrapposto alla ristrutturazione imperialista. In questa visione metafisica scompaiono sia le contraddizioni interborghesi sia la necessità di dialettizzarsi con i contenuti politici (contro il governo, contro la guerra) delle mobilitazioni di massa, perché tutto viene ridotto ed appiattito all’allargamento dell’organizzazione di avanguardia che sulla base di programmi economicismi, spianava la strada alle masse “sul punto di armarsi”. Il risultato è stato il ricompattamento delle forze borghesi contro il movimento rivoluzionario e proletario, perché la lotta armata aveva perso ogni capacità di disarticolazione e la progressiva perdita di capacità di influenza e direzione dello scontro di classe, perché non più in grado di rappresentarne gli interessi generali e la prospettiva reale.
Una concezione dello Stato come sommatoria di apparati, ha indotto una ancora più grave deviazione. Quella della non più necessaria periodizzazione delle tappe del processo rivoluzionario. Ossia la concezione idealista della transizione al comunismo, come materializzazione delle cosiddette allusioni del movimento spontaneo. La conquista del potere politico e la dittatura del proletariato, diventano pure enunciazioni di principio, in quanto non più obiettivi perseguiti, ma reminiscenze inoffensive di un passato da mettere nelle anticaglie in modo meno traumatico possibile.
Tutto ciò non è stato un processo privo di contraddizioni, anche se ha indubbiamente egemonizzato la linea politica delle Br dall’80 in poi. Tutto ciò ha trovato nell’Organizzazione degli ostacoli molto seri tanto da caratterizzarne la battaglia politica fino alle scissioni.
Le Br per il Pcc, iniziano proprio con l’attacco alla Nato, con la cattura di Dozier, la risalita della china in cui erano sprofondate, pur non potendo evitare di pagarne per intero lo scotto, visto il ritardo, le ambiguità e la debolezza con cui intendevano rilanciare un progetto di attacco allo Stato.
La questione del Partito
La coscienza politica di classe non è risultato spontaneo del conflitto di interessi tra proletariato e borghesia ma, “può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi”. Questa necessità politica comporta quindi il costituirsi di una organizzazione d’avanguardia, di un Partito che sulla base di cognizioni scientifiche generali sia in grado di dirigere lo scontro di classe verso un obiettivo prefissato.
Privata di questa guida, la lotta di classe non potrebbe spontaneamente trasformare l’antagonismo in movimento rivoluzionario che punti alla risoluzione storica degli interessi del proletariato e questo a prescindere dalla radicalità con cui lo stesso movimento lotta e pone i suoi obiettivi. Il costituirsi del partito rivoluzionario è quindi una condizione insostituibile, affinché si possa pensare allo sviluppo positivo di un processo rivoluzionario. Tra Partito e masse, tra coscienza e spontaneità, vive una contraddizione e non una identità. La necessità dell’esistenza del Partito è data dall’esistenza stessa della lotta di classe e scomparirà col venir meno delle classi stesse. Per questo gli obiettivi del Partito non sono la sintesi dei contenuti delle mobilitazioni di massa, ma ne costituiscono il carattere politico generale, ossia le trasformazioni necessarie e possibili misurate dal rapporto di scontro tra il proletariato e lo Stato. La classe organizzata nel Partito, non si dà come prolungamento spontaneo dei comportamenti delle masse in lotta, ma è un salto dialettico che trova nella lotta di classe la legittimità della sua necessità e nella soggettività rivoluzionaria la reale possibilità d’esistenza. Il costituirsi del Partito è una delle condizioni che determinano il carattere rivoluzionario di una situazione. E questo, nonostante gli sforzi del soggettivismo idealista, è una verifica storica di difficile confutazione. Il costituirsi di un Partito non è dunque la celebrazione del riconoscimento di massa alla politica delle avanguardie rivoluzionarie organizzate; ossia non è un processo che avviene parallelamente alla crescita di coscienza e di organizzazione rivoluzionaria delle masse; al contrario ne è una condizione ineliminabile. Non esaurisce la sua funzione di direzione col consolidarsi di un forte movimento rivoluzionario; non si scioglie col riflusso di quest’ultimo; è comunque portatore di un programma (il comunismo) che non è bisogno espresso o esprimibile dalle masse, ma concezione di una necessità storica, scientificamente basata sulla possibilità del superamento dei limiti strutturali di un modo di produzione e di sue contraddizioni che non possono che portare all’abolizione delle classi e alla fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’utopia non c’entra. I rapporti di produzione basati sul profitto, l’impossibilità per la borghesia di sviluppare le forze produttive dentro questi rapporti di produzione sono la condizione oggettiva, materiale della possibilità e necessità del comunismo come soluzione storica e trasformazione evolutiva di un modo di produzione che ha ormai cessato di avere la funzione progressista che ha avuto in origine, trasformandosi nel suo opposto. Per dirla con Lenin… “Marx non inventa, non immagina una società nuova. No, egli studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che esce dall’antica, le forme di transizione dall’una all’altra. Egli si basa sui fatti, sull’esperienza del movimento proletario di massa e cerca di trarne gli insegnamenti pratici”.
Per questo gli interessi dei comunisti sono gli stessi di tutto il proletariato, ma questo dato oggettivo, non è immediatamente appiattibile con l’identico livello di coscienza e di determinazione.
L’attività di un partito è storicamente determinata dagli obiettivi necessari e possibili che esso stesso si pone. Necessari e possibili rispetto al grado di intensità della lotta tra le classi. Al superamento della propaganda armata, le Br concepiscono matura la necessità della costruzione di una tattica rivoluzionaria rivolta alle masse. Nella proposta di “conquistare le masse sul terreno della Lotta Armata” nasce l’assioma idealista “non si dà Partito senza Organismi di Massa Rivoluzionari, non si danno Organismi di Massa Rivoluzionari senza Partito”. La costituzione del Partito si trasforma nella necessità dell’organizzazione contemporanea delle masse sul terreno politico, militare ed organizzativo proprio dell’avanguardia; finendo così per scambiare per organizzazione rivoluzionaria delle masse, quei nuclei di avanguardie più direttamente legati alle Br, che si mobilitavano sulle stesse parole d’ordine e costituivano nelle situazioni operaie e proletarie la tragica sostituzione di compiti tra avanguardie rivoluzionarie e masse organizzate.
Le Br, o perlomeno queste Br, concepivano centrale per ogni discorso rivoluzionario la partecipazione cosciente delle masse nello scontro rivoluzionario; non intendevano cioè sostituire la guerriglia praticata dai comunisti con le lotte e il combattimento proletario. L’essersi sottratti ad ogni tentazione di “sindacalismo armato” non ha però impedito un errore clamoroso: le uniche lotte valide erano quelle che assumevano un carattere armato. Tutta la logica del sabotaggio in fabbrica e il perseguimento degli obiettivi politici immediati, hanno finito per negare impietosamente ogni corretta concezione del rapporto Partito-masse, in una logica lineare e di aumento progressivo di organizzazione rivoluzionaria delle masse, e di perdita di ruoli e funzioni propri di un Partito. Il processo rivoluzionario cessa di avere un andamento a salti e rotture, cessa di essere condizionato da fattori oggettivi ineludibili, solo i quali porteranno le masse ad individuare nella Lotta Armata un’alternativa praticabile, per diventare progressiva e lineare accumulazione di organizzazione rivoluzionaria, basata non su una strategia e tattica che stabilisce rapporti diversi rispetto ai diversi livelli di coscienza del proletariato, che esercita orientamento e direzione sulla classe, ma esclusivamente sulle “appendici” armate del Partito in costruzione.
La centralità operaia
Il modo di produzione capitalista stabilisce il rapporto subordinato tra le classi a partire dalla struttura economica. In ultima istanza è il momento della produzione del plusvalore che determina la collocazione delle classi e la divisione tra la borghesia e il proletariato. La borghesia non trae la sua posizione dominante nella sfera extraeconomica (religiosa, militare, ideologica, …) ma dal fatto che detiene i mezzi e le condizioni della produzione. E’ questo rapporto particolare che nasce nel momento dello scambio tra forza-lavoro e capitale, che dà origine alla (…) nel suo sviluppo, il modo di produzione capitalistico non ha allargato e approfondito questo rapporto originario, conformando alle sue leggi oggettive tutta la società e distruggendo tutte le forme di produzione preesistenti. Questo determina, nella composizione di classe, un ruolo oggettivo delle varie classi e frazioni di classe, che è dato dalla collocazione di ciascuna di queste rispetto ai rapporti di produzione e non dalle determinazioni più o meno soggettive. Non tutti sono nella condizione di distruggere come classe lo stato di cose presenti, solo la classe operaia, per la particolare collocazione che garantisce l’esistenza stessa dei rapporti di produzione capitalistici, può modificare la sua condizione di sfruttamento solo distruggendo la borghesia e con essa la stessa divisione in classi. Solo gli interessi della classe operaia possono rappresentare gli interessi di tutto il proletariato metropolitano. Per questa sua funzione storica la classe operaia è centrale dentro la stratificazione della classe proletaria.
Confermando in pieno le previsioni di Marx, oggi il proletariato comprende la maggioranza degli abitanti della metropoli. Il termine Proletariato Metropolitano indica tutte le figure sociali sfruttate ed emarginate dal capitale ma, tra tutti questi gruppi sociali, la classe operaia, in quanto l’unica a produrre plusvalore è la sola indispensabile per la sopravvivenza e la riproduzione allargata nel modo di produzione capitalistico.
Rispetto alle modificazioni operate dallo sviluppo capitalistico si può affermare la “centralità del proletariato metropolitano a dominanza operaia”. A questa analisi scientifica la stragrande maggioranza del movimento rivoluzionario degli anni ’70 ha contrapposto tesi movimentiste, inventandosi varie “centralità” a seconda della combattività di questa o quella componente più o meno proletaria (le donne, gli studenti, i lavoratori dei servizi, gli extralegali, …) oppure ha teorizzato la “univocità” operaia assolutizzando la lotta di fabbrica, con l’illusione di poter rivoluzionare le forze produttive dentro il movimento produttivo prima della conquista del potere politico. Dentro le fumose e fascinose teorizzazioni del post industriale, della fine della vigenza della legge del valore-lavoro, dell’operaio sociale, riposa tutta l’ideologia soggettivista del rifiuto della funzione storica del proletariato metropolitano di dirigere il processo rivoluzionario per la distruzione dello Stato e del modo di produzione capitalistico, sognando possibili trasformazioni ultrarivoluzionarie all’interno dei vigenti rapporti di produzione, dando per scontata la loro obsolescenza in virtù della trasgressione violenta delle varie componenti o soggettività. In questa logica il modo di produzione capitalistico semplicemente… si estingue e con esso tutto il marciume dei rapporti sociali che ha determinato. Il rapporto tra struttura e sovrastruttura si capovolge e con esso scompare anche la periodizzazione necessaria del processo rivoluzionario. In una parola d’un colpo, basta volerlo, dentro una presunta obsolescenza del modo di produzione capitalistico, nasce per incanto il comunismo, che più di un nuovo ordine sociale basato sulla distruzione della divisione tra le classi, che nasce da trasformazioni storicamente determinate, assomiglia molto a un paradiso terrestre variamente dipinto ed immaginato. L’ultima produzione allucinata dei padri spirituali del defunto Partito Guerriglia si spinge fino a descrivere processi rivoluzionari nella sfera delle rappresentazioni sceniche e dei rapporti interpersonali, mettendo definitivamente fine ai tentativi di mascheramento di posizioni reazionarie e intimiste.
Per centralità operaia si deve intendere la sostanza della parola d’ordine “dentro e contro i rapporti di produzione, fuori e contro lo Stato” contro ogni velleitarismo libertario di sottrarsi soggettivisticamente alle leggi che regolano il modo di produzione capitalistico, alla concezione materialistica che é l’essere sociale che crea la coscienza e non il contrario, per finire nel culto piccolo-borghese dell’emarginazione sociale ed elitario di una minoranza di trasgressivi “rifiutanti”.
Anche nelle Br, queste deviazioni riescono a prendere il sopravvento, nella forma dei programmi immediati per settori di classe. La dominanza della classe operaia cede il posto alla dominanza di quei settori che in virtù della radicalità delle proprie lotte, determinano il punto più alto di coscienza di tutto il proletariato metropolitano, le cui indicazioni, forme di lotta, strumenti organizzativi ed obiettivi andavano generalizzati e resi possibili in tutta la classe fino ad identificare nei comunisti imprigionati la componente principale del processo rivoluzionario. Alla fin fine, visto che non di rivoluzione proletaria si trattava ma di rivoluzione comunista; non di conquista del potere politico ma di comunismo qui e subito, la centralità nel processo rivoluzionario… l’assegnavamo a noi stessi! L’estremizzazione della centralità delle componenti extralegali e del carcere, delle frange (…) ideologico fosse penetrato nell’Organizzazione, e allo stesso tempo della risolutezza, pur nei profondi limiti con cui l’Organizzazione l’ha combattuto e sulla cui critica-autocritica ha ricostruito la capacità di mantenere la propria identità politica rivoluzionaria, basata sul marxismo leninismo.
Congiuntura politica e programma
Abbiamo più volte definito con “ristrutturazione per la guerra imperialista” il complesso attuale delle politiche con cui la borghesia imperialista risponde alla crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali che caratterizza tutto il mondo occidentale, con una gravità mai raggiunta dalla fine del secondo conflitto mondiale. Questa definizione può peccare di meccanicismo, se venisse interpretata come progetto di risoluzione della crisi, soggettivamente pianificato e “pensato” dall’inizio alla fine.
Va quindi precisato che le misure di ristrutturazione produttiva e le varie politiche economiche tendono nell’immediato a rendere più concorrenziali alcuni capitali nel complesso dei capitali operanti. Le scelte recessive, la riduzione dei tassi d’inflazione, manovre finanziarie e monetarie, in una situazione di ricorso a nuove tecnologie tanto da parlare di terza rivoluzione industriale, sono gli aspetti più eclatanti, le misure economiche più incisive adottate da tutti gli Stati capitalistici avanzati per contenere gli effetti di una crisi che per anni li ha condannati a tassi di crescita intorno allo zero.
La sovrapposizione di capitali é una costante nel modo di produzione capitalistico, data dal carattere concorrenziale dei capitali operanti, che spinge il singolo capitalista ad aumentare la quota di macchinari, tecnologie, ecc., rendendo più produttivo un ciclo con minor forza-lavoro occupata; cioè abbassando i costi di produzione per unità di prodotto. Fino a che la forza-lavoro occupata, unica in grado di valorizzare il capitale anticipato, é troppo ristretta per poter valorizzare l’intera quota di capitale esistente, ad un tasso di profitto che permetta la riproduzione allargata e l’ulteriore salto di composizione organica. I capitali eccedenti devono trovare “impiego” altrove, in altri settori produttivi o fuori dai confini nazionali. Quando tutti i settori produttivi non sono più in grado di rispondere positivamente a richieste espansive, la crisi da ciclica diviene strutturale. A questa situazione per il capitale occidentale, si é aggiunta la rottura della “valvola” dei paesi terzi, in cui la quota dei capitali esportati aveva determinato dei profitti colossali grazie al meccanismo dello scambio ineguale e la detenzione delle tecnologie, saldamente in mano ai paesi imperialisti. Il meccanismo si é rotto e le economie e le risorse dei paesi dipendenti non sono più sfruttabili come nel passato; anzi i problemi di insolvibilità stanno minacciando la stabilità della finanza internazionale.
In queste condizioni le misure ristrutturative di ogni singola impresa, non fanno che produrre ulteriori contraddizioni perché le quote di mercato conquistato grazie alla maggior concorrenzialità dell’una non sono altro che quelle sottratte all’altra; ossia non c’è allargamento dei mercati, ma maggiore concorrenza tra capitali e spinta maggiore alla concentrazione e centralizzazione in mano ai colossi economici e finanziari multinazionali. La tendenza alla guerra si pone quindi come necessità oggettiva, come controtendenza principale alla crisi di sovrapproduzione; perché solo la distruzione di capitali, forza-lavoro, merci e forze produttive sovraprodotte, può permettere ai vincitori una ripresa “in grande stile”; può garantire quote di mercato; accesso alle materie prime; in definitiva una nuova divisione dei mercati e del lavoro sulla base di un nuovo ordine economico mondiale nettamente più favorevole ai capitali più forti. Questo tipo di analisi fa giustizia di ogni idiozia circa il carattere di crisi “irreversibile”, “ultima” del capitale; va detto che la tendenza a zero del valore, la tendenza al crollo, come ragionamento astratto per definire come limite del capitale sia il capitale stesso, serve solo a dimostrare il carattere storico “transeunte” del modo di produzione capitalista, non certo la sua distruzione ed estinzione per morte naturale.
La definizione “ristrutturazione per la guerra imperialista” va quindi immessa in un complesso di analisi per cui oggettivamente i movimenti ristrutturativi non fanno che determinare ulteriori contraddizioni laceranti e il susseguirsi delle crisi in modo sempre più ravvicinato, che necessariamente spingono alla guerra mondiale. E questo deve servire per smascherare ogni impostazione pacifista e revisionista, basate su improponibili richieste di “ragionevolezza” soggettiva dei concorrenti, sostenendo quella parte di borghesia nazionale per il momento poco interessata al conflitto. Il movimento oggettivo verso la guerra é ovviamente sostenuto da ben più individuabili forze economiche politiche e militari che trovano in esso soluzione al potenziamento e rafforzamento del proprio potere e che costituiscono il personale imperialista maggiormente legato alle scelte degli Usa, componente fondamentale delle politiche guerrafondaie.
Nel nostro paese gli aspetti della crisi sono tutti di maggior gravità, sia perché l’Italia occupa un posto gerarchicamente basso nella catena imperialistica occidentale, sia per il carattere dell’antagonismo proletario e delle potenzialità rivoluzionarie che fanno dell’Italia il paese in cui il ventaglio possibile delle scelte é per la borghesia maggiormente ristretto e, contemporaneamente, quello in cui queste scelte trovano più che altrove maggiori ostacoli politici e sociali. Pur adottando politiche recessive di abbassamento dei costi di produzione, di contenimento delle spese sociali, l’Italia non riesce comunque ad entrare in concorrenza con i paesi più forti in settori qualitativamente avanzati in campo tecnologico. Non é un caso l’attenzione ancora più forte che la classe politica e le forze economiche nel nostro paese, rivolgono verso i paesi del terzo mondo e verso i paesi dell'”Est”, a cui é destinata la gran parte delle “nostre” esportazioni sia di capitali che di merci; e soprattutto di una merce particolare, ossia i prodotti dell’industria bellica che fanno assegnare all’Italia il quarto posto nella graduatoria del settore. Il frenetico lavorio dei vari “messaggeri di pace” italiani nei paesi arabi e nel centro e sud America, ha anche questo carattere di mediazione di grossi affari, in cui cannoni, elicotteri e carri armati fanno la parte del leone. La sostanza della crisi economica dell’Italia, nonostante le politiche adottate in campo economico e sociale e le brutte intenzioni per l’immediato futuro, é racchiusa in pochi e significativi dati: la ripresa tanto decantata fa prevedere ai tromboni di Stato una crescita intorno al 2% ossia molto semplicemente… stagnazione.
A lato del proletariato, i costi sociali a tutt’oggi sono molto salati. Attacco ai salari reali e riduzione delle spese sociali; maggior sfruttamento per gli occupati, mobilità e nessuna garanzia della stabilità del posto di lavoro. Forse per la prima volta i politici, gli industriali, gli esperti, i sindacalisti annunciano con candore che la ripresa c’è, si consolida…accanto e insieme al dilagare della disoccupazione per i prossimi dieci anni. Tutti uniti ci dicono che bisogna superare la logica degli anni ’70: assistenzialismo, egualitarismo, automatismi e rigidità allo sfruttamento. Per bocca dell’illustre professore Giugni apprendiamo che é finita l’era dei contratti collettivi: ogni operaio, ogni proletario dovrà vendere la propria forza-lavoro in concorrenza con tutti gli altri, quindi alle condizioni migliori per l’acquirente. Per bocca dell’illustre signor Garavini, apprendiamo che tutte le colpe del disastro economico vanno attribuite all’egualitarismo e agli automatismi; secondo lui quindi la riforma strutturale del salario deve soprattutto significare premio alla produttività, alla professionalità, alla presenza, all’attaccamento al lavoro.
Il governo sostiene che la ripresa economica non grava sulle spalle e sulle tasche dei lavoratori, mentre bastano poche cifre (di fonte Istat quindi “insospettabili”!) per sbugiardare questo novello grassatore: in tre anni la forza lavoro nella grande industria é diminuita del 15% mentre la CIG é raddoppiata, come dire che essa funziona realmente come “anticamera” del licenziamento. I livelli occupazionali non calano parallelamente alla riduzione produttiva. Come dire che chi resta occupato produce di più… All’Italia spetta inoltre il primato della disoccupazione effettiva rispetto agli altri paesi della Comunità Economica Europea; le spese sociali per la previdenza (dati dell’81) sono pari al 24,7% del prodotto interno lordo contro il 27,1% della media Cee; il costo medio orario del lavoro nell’industria manifatturiera (sempre nell’81) era pari al 7,34%, il più basso dell’Europa comunitaria.
L’affannarsi delle forze borghesi in campo per contribuire al massimo alla ristrutturazione, é sicuramente caratterizzato dalla contraddittorietà degli interessi diversi che ognuno difende, e le politiche adottate sono il risultato dell’equilibrio possibile dello scontro tra questi interessi. Grande borghesia, piccola borghesia, “ceti medi”, “quadri”, intellettuali, parassiti e speculatori, mafiosi e faccendieri, tutti trovano rappresentati i loro interessi nelle varie forze politiche che si scontrano, “si sgambettano” con scandali e scandaletti, tornano ad incontrarsi su equilibri di forza diversi… Solo il proletariato non ha propri rappresentanti data la debolezza delle forze rivoluzionarie e dell’autonomia di classe, dopo le sconfitte subite in questi anni. La borghesia, per attaccare politicamente ed economicamente il proletariato ha dovuto prima fare i conti con ogni espressione di organizzazione autonoma della classe e, soprattutto con le Organizzazioni Comuniste Combattenti. I successi riportati sono solo una prima tappa di un lungo cammino in cui per la borghesia, per lo Stato, l’ostacolo più grosso alla ripresa “in tempo utile” é costituito dalla capacità del proletariato di rintuzzare l’attacco subito ed imporre rapporti di forza generali tali da pesare sulle determinazioni delle scelte capitalistiche, fino al loro rovesciamento. La sconfitta politica della classe é uno dei principali obiettivi della borghesia in questa congiuntura e ad essa lavorano e concorrono tutte le forze politiche borghesi in campo. Questo obiettivo é perseguito cercando di ottenere in pari tempo, il massimo di pace sociale conseguibile, il massimo di divisione e accettazione del proletariato metropolitano del patto sociale e neocorporativo proposto ed imposto. É attacco frontale e diretto, teso alla ridefinizione dei ruoli delle stesse rappresentanze istituzionali del proletariato i cui interessi debbono piegarsi a quelli della grande borghesia imperialista, ritagliandovi all’interno lo spazio di potere possibile.
L’attacco politico e materiale al proletariato metropolitano, fa prevedere scontri sociali di notevole portata. La classe si trova sulla difensiva, schierata spontaneamente a difesa dei propri interessi. Il ciclo che si é appena concluso dimostra, accanto alla enorme volontà e determinazione alla lotta della stragrande maggioranza del proletariato, anche tutta la relativa debolezza di un antagonismo che non riesce a riconquistare la propria autonomia d’interessi da quelli revisionisti e borghesi. La mobilitazione di massa espressa negli ultimi mesi contro il governo e il nuovo protagonismo imperialista dell’Italia, non é riuscita né a costringere il sindacato, o meglio la Cgil, né il Pci a indire uno sciopero generale, né a difendere l’organizzazione delle lotte dall’egemonia sindacale ed opportunistica, né a far cadere il governo e il suo programma. Diciamo questo non perché valutiamo la forza del movimento sulla base degli obiettivi raggiunti, ma per porre l’attenzione sui problemi reali che vivono nel movimento antagonista. Che sono problemi riconducibili alla debolezza politica delle sue avanguardie di lotta e rivoluzionarie che hanno lasciato nelle mani del Pci e degli opportunisti vecchi e nuovi, la gestione politica della forza di un antagonismo che, spontaneamente, decine di migliaia di proletari hanno manifestato in tutte le strade d’Italia, in ogni assemblea, in ogni singolo momento di lotta.
L’attenzione con cui il “galantuomo” Scalfaro ha seguito gli avvenimenti; le riunioni in prefettura tra responsabili dell'”ordine pubblico” e i vari Lama; le espressioni di “preoccupazione” con cui il governo ha guardato il montare delle mobilitazioni, stanno a dimostrare una sola cosa: le varie “emergenze” a cui siamo abituati da molti anni a questa parte non sono la risposta “proporzionata” dello Stato ad avvenimenti concreti; sono l’esigenza di reprimere e contenere preventivamente l’esplosione di un conflitto sociale provocato dalle politiche necessarie alla borghesia per far fronte alla crisi. É la ristrettezza delle scelte che la borghesia si trova di fronte che gli impone, pur nelle oscillazioni, di imboccare la strada di dover governare senza consenso. Il problema é solo quello di limitarne i danni. Per questo la classe deve essere necessariamente sconfitta, perché alla crisi economica non se ne aggiunga anche una politica, questa sì di difficile superamento. E allora la logica delle “emergenze” coniata per il “terrorismo” con buona pace di tutti gli opportunisti, si rivela per quella che é: ridefinizione complessiva dei rapporti di mediazione politica tra classe e Stato, tale da consolidare a favore della borghesia i rapporti di forza e sancire la sconfitta della classe. L’antagonismo proletario si trova ancora una volta di fronte a un bivio: o trasformare la resistenza in offensiva o subire per intero i costi di una politica che, a passi accelerati, sta costruendo le condizioni politiche e militari per una nuova guerra imperialista. Ai comunisti si impone il compito di serrare le fila di un difficile dibattito e programmare un’attività politico militare adeguata ad affrontare i compiti di direzione dello scontro e a proporre l’alternativa proletaria e rivoluzionaria alla crisi e alla guerra. Su un’analisi materialistica dell’attuale fase di scontro, occorre porre mano al problema del rapporto Partito-Masse, ossia del programma. Una concezione fondamentale del nostro patrimonio é già stata riacquistata nel dibattito e nella pratica, ossia quella dell’attacco allo Stato, come attacco al progetto dominante della borghesia nella congiuntura, materializzato nelle forze che concorrono alla sua ideazione e direzione. Questo non può mettere l’Organizzazione in grado di concepire correttamente la tattica, ossia le tappe per il raggiungimento del “programma massimo”: la conquista del potere politico. Per programma politico si deve intendere il complesso di obiettivi politici che riguardano, nella sostanza, il rapporto di forza tra le classi. O meglio i nodi politici intorno ai quali questo rapporto si determina. Il programma vive cioè dentro e contro i rapporti di forza congiunturali. Il superamento positivo o meno delle singole tappe deve essere misurabile dall’arretramento, consolidamento o avanzamento delle posizioni del proletariato metropolitano nei confronti della borghesia. L’antagonismo di classe non assume di per sé carattere rivoluzionario, ma può svilupparsi attorno a parole d’ordine generali e unificanti. Ossia tende, sotto l’attacco della borghesia, a muoversi spontaneamente verso obiettivi che, in quanto realizzabili solo con la modificazione dei rapporti di forza e la conquista del potere politico, esprimono “bisogno di potere”. Sta al Partito concretizzare i vari “No a …” in programma per tutta la classe. Sintetizzare senza alcuna discriminante politica l’attività generale delle masse e i contenuti delle mobilitazioni non é operazione da Partito. Oltre ad appiattire la battaglia politica che nel movimento vive attorno a contenuti diversi, determinati dalla diversità dei livelli di coscienza esistenti; oltre a condannare l’avanguardia a funzioni di megafonaggio dell’esistente alla coda degli stessi movimenti; oltre a confondere i problemi dell’unità di classe (su contenuti ed obiettivi di classe) con la mobilitazione spontanea delle masse, a prescindere dalla direzione politica che si stabilisce di volta in volta e dell’interesse prevalente. L’unica cosa chiara é il perché e contro chi i movimenti di lotta sorgono. Le funzioni politiche di un Partito non sono di “didattica” politica, bensì quelle di fornire al proletariato, dichiarando chiaramente gli obiettivi dell’agire politico-militare, un quadro d’analisi che tenga conto della prospettiva dello scontro all’interno della quale dare soluzione alternativa al sistema di potere dei partiti e dello Stato. Quindi é un problema di direzione rivoluzionaria che dà soluzione agli obiettivi storici e strategici di tutto il proletariato, che dà sbocco possibile e necessario alla crisi e alla guerra. Altro da questo è pensare di dirigere la lotta delle masse, proponendo obiettivi forme di lotta e d’organizzazione di per sé già dati, esaltando piattamente l’esistente e, in definitiva, proponendo di continuare a lottare. In questo senso la Lotta Armata non può che diventare mero strumento di propaganda e di sostegno alle lotte, fino a scoprirne l’intima inutilità. Il Partito, al contrario, non sintetizza i contenuti e gli obiettivi della lotta spontanea, ma li analizza, li discrimina, li elabora. Pur essendo tattico, il carattere del programma é necessariamente generale, ossia si costruisce sulla contraddizione politica dominante che il Partito seleziona nella molteplicità di obiettivi e parole d’ordine che caratterizzano la mobilitazione spontanea.
L’attività di un Partito rivoluzionario deve proporsi lo spostamento dei rapporti di forza, la disarticolazione dei progetti dominanti della borghesia, l’organizzazione delle avanguardie rivoluzionarie sulla strategia del Partito, la conquista dell’antagonismo al programma rivoluzionario; questo attraverso una pratica che si misuri in successi concreti, che tenda a creare rapporti di forza momentaneamente favorevoli che consentano di vincere e assestarsi su posizioni più avanzate.
L’attacco alla classe, costringe l’antagonismo a superare il settorialismo e produce spontaneamente cicli di lotte contro le politiche governative. Questi cicli sono gli unici in grado di esprimere unità di classe, critica alla gestione sindacale e riformista, incidenza sulle scelte della borghesia. Questa tendenza alla crescita della coscienza di classe non é però un fatto scontato e lineare. Al contrario la portata dell’attacco, le difficoltà crescenti per organizzarsi e lottare autonomamente, le sconfitte, la mancanza di credibili alternative, possono far arretrare il movimento, dividerlo e porlo sempre di più sulla difensiva. Si tratta di impedire questo, consolidare e rafforzare l’autonomia e l’unità di classe, su contenuti proletari e rivoluzionari, in un contesto di crisi economica e politica della borghesia che mai come oggi e sempre di più, costituisce la condizione oggettiva favorevole alla ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria e dell’offensiva di classe.
Da leninisti dobbiamo combattere ogni tendenza a considerare il lavoro di organizzazione nei movimenti di massa come “un fattore che ci esime dall’attività rivoluzionaria e non come un fattore destinato a incoraggiare e a stimolare tale attività”. In questo senso combattere l’economicismo e ogni tentazione del culto della spontaneità, significa che il nostro obiettivo non é la ricerca del consenso tramite parole d’ordine tangibili e immediate su cui il movimento sia mobilitato, ma la direzione effettiva sul terreno rivoluzionario dello strato di avanguardie del Proletariato Metropolitano e la crescita di influenza e orientamento sulle dinamiche della lotta delle masse. Le avanguardie che si organizzano sulla strategia del Partito non sono il punto più alto che piano piano le masse (…), ma frutto di un lavoro preciso che il Partito fa sul piano di massa; al contrario il modo d’organizzarsi delle lotte é comunque frutto del movimento spontaneo e solo una logica pacifista e codista può far credere che esso, per condizioni oggettive, compia il salto necessario. Questo perché, al di là della rappresentazione fenomenica del presente, nel movimento antagonista si scontrano politiche contrapposte ed escludentesi: quelle borghesi e quelle rivoluzionarie. Il nostro compito é un’attività di direzione e orientamento per far prevalere l’interesse generale di tutto il proletariato, secondo uno scopo da raggiungere, nella varietà di obiettivi e contenuti delle “masse in lotta”. L’antagonismo va conquistato al programma rivoluzionario e non al contrario, il programma rivoluzionario e generalizzazione e sostegno a quanto nel proletariato é già generalizzato e praticato. Questo perché la lotta per il miglioramento delle condizioni di vita, pur diventando nei fatti politica, non é ancora rivoluzionaria e non é detto che lo diventi. Rafforzare le forze rivoluzionarie e renderle sempre più capaci di affrontare lo scontro é l’unica possibilità di conquistare autorevolezza nel proletariato, costruendo nella lotta rivoluzionaria l’alternativa di massa alla crisi e alla guerra. Capendo che un Partito rivoluzionario non può essere “maggioritario” in una situazione rivoluzionaria tramite proposte di masse accettabili ed immediate, pena lo scadere, coscienti o no, a variante dell’arco delle forze politiche borghesi che tentano di accaparrarsi consenso e riconoscimento.
Internazionalismo proletario e Internazionale Comunista
La sostanza dell’imperialismo, dalla definizione data da Lenin, non é mutata. L’imperialismo é “lo stadio monopolistico del capitale, l’epoca delle guerre tra le grandi potenze per l’intensificazione e lo sfruttamento dei popoli e delle nazioni”. Anche il rapporto concorrenziale fra capitali, continua a costruirne la fondamentale legge di mercato, pur se si tratta di concorrenza intermonopolistica e questo, di per sé, esclude ogni possibile definizione di imperialismo unico, in quanto il capitale unico non esiste. Le forme con cui oggi l’imperialismo attua le sue funzioni, non sono altro che lo sviluppo storico del dominio del capitale finanziario, dell’esportazione di capitali come esportazione di un modo di produzione; nonché della ripartizione mondiale tra le più grandi potenze capitalistiche, dei monopoli multiproduttivi multinazionali. Queste forme non sono affatto indifferenti per un’analisi concreta di una situazione concreta che, passando dal campo speculativo teorico a quello politico e storico, ci metta in grado di comprendere i compiti dell’avanguardia rivoluzionaria. Ci riferiamo in particolare alla costituzione dei blocchi o catene imperialiste (occidentale a dominanza Usa, e orientale a dominanza Urss); al rapporto gerarchico e di interdipendenza tra i paesi appartenenti allo stesso blocco; alla dominanza delle imprese multinazionali e multiproduttive (espressione del concentrarsi del capitale finanziario); nonché quella del capitalismo monopolistico di Stato teso ad assicurare l’ambiente adatto alla riproduzione capitalistica di fronte alla crisi. Le scelte di politica economica e monetaria operate dai singoli paesi, pur essendo omogenee con gli indirizzi generali e le prospettive di fondo, sviluppano grosse contraddizioni tra i paesi dello stesso blocco. Da questo punto di vista l’esigenza del rafforzamento dei vincoli politici-militari, non é riconducibile ad esigenze specifiche dei singoli paesi, ma alla necessità del sistema imperialista nel suo complesso di superare la crisi avviandosi al confronto col blocco avversario. Il capitalismo, allo stadio dell’imperialismo delle multinazionali, ha creato un sistema di rapporti talmente integrato che il suo sviluppo può avvenire solo accrescendo tanto le dimensioni, quanto la forza di coesione dell’interdipendenza.
Questo sistema di relazioni, non elimina certo le contraddizioni e i motivi conflittuali, ma impedisce ad ogni Stato-membro una sua collocazione all’esterno della catena d’appartenenza, e una diversa politica di alleanze. E questo perché il carattere unitario della catena non riposa su accordi politici o diplomatici, ma su caratteristiche strutturali e su una divisione internazionale del lavoro e dei mercati determinate dallo sviluppo che il capitale ha raggiunto. Basti vedere come in sede Cee sono state risolte questioni di assegnazione di quote di produzione e di mercato di siderurgia con la piena accettazione di capitalisti italiani, pur se penalizzati; basti vedere come la Germania che non é certo una repubblica delle banane, affronta il problema della guerra dollaro marco in cui agli svantaggi per la propria economia si affiancano motivi di convenienza visto che un’uscita “morbida” dalla recessione la garantisce dalla ripresa inflazionistica. Questi esempi servono per capire che gli interessi contraddittori dei singoli partners, non arrivano al punto di rottura in quanto la possibilità di continuare ad esistere come paesi a capitalismo avanzato riposa dentro il rafforzamento politico-economico-militare di tutta la catena, pur se le regole di un rapporto subordinato contribuiscono allo sviluppo di sempre maggiori e più profondi motivi di conflittualità. Ne esce fuori un quadro perennemente instabile e alla ricerca di un difficile equilibrio interno, che i margini della crisi corrode costantemente, riproponendo più acute contraddizioni e squilibri. Altro che superimperialismo! Si deve parlare di un sistema di relazioni ad interdipendenza gerarchica, a dominanza Usa.
É la crisi che acuisce e chiarisce in questa fase la crescente difficoltà per il modo di produzione capitalistico di dominare le sue stesse contraddizioni e che, contemporaneamente, spinge verso vincoli politico-militari di “difesa” comune, perfezionati dopo il secondo conflitto mondiale e indirizzati contro il proletariato internazionale e contro i popoli in lotta contro l’imperialismo. Gli interventi diretti Usa in Europa (per es. Grecia e Turchia); la proposta dell’entrata del Giappone nella Nato; il riarmo e il protagonismo atlantico di europei e americani insieme, con le forze di intervento in ogni zona “calda”; la messa in discussione americana delle ripartizione Est-Ovest delle zone d’influenza dopo la seconda guerra mondiale, sono solo degli esempi di come l’imperialismo occidentale, Usa in testa, ritenga vitale per la sua “sicurezza”, tutto il mondo e soprattutto di come si prepari a modificare i rapporti di forza col blocco avversario in modo diretto, tramite una nuova guerra mondiale.
Il sistema imperialista orientale a dominanza Urss
La sconfitta della dittatura del proletariato e la riconquista del potere da parte della borghesia in Urss, non é avvenuta in campo sovrastrutturale. La borghesia, per definizione, é quella classe che detiene i mezzi e le condizioni della produzione; quindi se di borghesia va parlato, non ha alcun senso aggiungere delle aggettivazioni fuorvianti quali “burocratica” o “socialista” perché queste non determinano collocazione alcuna in termini d’analisi marxista delle classi, ma spostano il discorso in termini sociologici o politici. La riconquista del potere della borghesia in Urss é avvenuta nell’ambito strutturale, produttivo riproduttivo, che ha poi sancito anche in termini politici con la vittoria al XX Congresso. Il socialimperialismo é un sistema di relazioni imperialiste antagonista al sistema occidentale. Non considerarlo tale, significa concepire l’imperialismo mondiale come un imperialismo unico, permeato da contraddizioni tra singoli paesi imperialisti, anziché da quella dominante tra due sistemi di relazioni. Il termine socialimperialismo, usato da Mao per indicare il comportamento sovietico di “socialismo a parole e imperialismo nei fatti” é inadeguato almeno per due aspetti: 1) questa definizione lascia intendere che l’imperialismo sia una politica, un comportamento. Non é un caso che la critica al modello sovietico abbia finito per diventare una critica alla politica estera dell’Urss e alla sua aggressività. 2) Inoltre indica come contraddizione principale della formazione sovietica, quella tra struttura economica capitalistica e una sovrastruttura ideologica socialista, contribuendo alla propaganda revisionista della transizione al comunismo tramite la definitiva rivoluzione tecnico-scientifica e l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Le cose in realtà sono molto più complesse. Lo sviluppo capitalistico in Urss ha dovuto fare i conti con l’assetto economico-produttivo ereditato dal periodo rivoluzionario che, essendo basato sulla statalizzazione dei mezzi di produzione e sulla pianificazione, ha impedito il raggiungimento, come negli altri paesi capitalistici e quindi dal punto di vista capitalistico, il livello produttivo e tecnologico dei paesi occidentali. Questo, da un certo punto di vista condanna le masse proletarie russe e dei paesi “satelliti” ad un tenore di vita relativamente basso e, da un altro, sviluppa contraddizioni e livelli di crisi meno acute, sia di carattere politico-sociale, sia di carattere economico. Il sistema economico sovietico é dunque basato sulla concentrazione statale di tutte le attività economiche e commerciali. Questo vuol dire che non esistono proprietà privata e libero mercato (sia dei capitali che della forza-lavoro), si potrebbe dire che non esiste più la divisione in classi. Questo se considerassimo i rapporti di produzione riducendoli a rapporti di proprietà e di scambio. Se prendessimo in considerazione cioè un modo di produzione a partire dalla circolazione e non dalla produzione. In Urss la produzione di plusvalore avviene e quindi anche la subordinazione della forza-lavoro al processo di valorizzazione, e questo nonostante le enunciazioni del revisionismo che fa coincidere il socialismo con la proprietà dello Stato associata alla pianificazione. Il carattere capitalista della produzione (produzione di valori di scambio, estrazione di plusvalore, ecc.) mostra che nella realtà, quella sovietica é un’economia capitalistica con un livello ancora “basso” qualitativamente e quantitativamente della produzione a causa di uno sviluppo “sui generis” del capitale sottoposta a periodiche crisi di sovrapproduzione. A livello politico ed economico queste crisi hanno trovato in parte terreno di risoluzione nel rapporto preferenziale con i paesi del terzo mondo, rapporto che fa di determinate aree, territorio di penetrazione dell’imperialismo sovietico, data la natura di questo modello più confacente alle esigenze dei paesi “in via di sviluppo”, rispetto a quello occidentale; pur condannandoli al sottosviluppo e alla dipendenza economica-politica.
Anche la politica sociale interna, subisce le stesse logiche restrittive dei paesi occidentali e la ristrutturazione dell’apparato produttivo non può che seguire le logiche di massimizzazione del profitto e della produttività, nonché la riconversione privatistica ed efficientistica dell’intera economia. I riflessi di queste “misure” sono più evidenti nei paesi “satelliti” e nonostante in alcuni di questi le manovre destabilizzanti dell’occidente siano altrettanto evidenti, ciò non può esimerci da un giudizio molto chiaro circa il modo in cui l’Urss applica le sue politiche di dominio sui paesi del Patto di Varsavia. I fatti di Polonia e i segnali evidenti di sfilacciamento dell’alleanza in Europa orientale non possono essere visti semplicemente ributtando all’esterno della formazione sovietica le contraddizioni politiche e sociali, pur tenendo in estremo conto il ruolo che vi gioca l’altro blocco.
Nella definizione di socialimperialismo dobbiamo tener conto di una questione principale: tutto ciò avviene all’interno di una formazione che nulla ha a che fare con la dittatura del proletariato, in quanto la lotta di classe in Urss non é più il motore per il rivoluzionamento delle forze produttive e dell’intera società. Lo “Stato socialista” con la “destalinizzazione” di Krusciov é lo Stato di tutto il popolo sovietico e non più il non-Stato operaio e proletario che lavora alla sua estinzione con l’avvenuta distruzione delle classi tramite la lotta di classe. Il non riconoscimento del carattere classista della società sovietica é il supporto teorico dell’ultrarevisionismo, che sposta la contraddizione insanabile tra le classi all’esterno della società, che identifica i nemici del socialismo esclusivamente nell’imperialismo occidentale e nella sua aggressività e la difesa delle “conquiste della rivoluzione bolscevica” nell’aumento dell’area di influenza e della coesione degli alleati.
Il ruolo dell’Urss in campo mondiale e la sua politica di alleanze non possono in nessun modo essere scambiati per una sorta di Internazionalismo proletario imperfetto a causa delle minacce dell’occidente; rinunciano in tal modo a lavorare per il rafforzamento e l’unità delle forze antimperialiste e rivoluzionarie e rassegnandosi a perpetuare la logica dei blocchi.
Pur nel rispetto del principio della diversità delle contraddizioni, l’Internazionalismo é problema di unità e di alleanze in campo proletario e rivoluzionario e non va confuso con la politica estera dell’Urss.
In questa sede non possiamo occuparci dei complessi problemi teorici e di speculazione rivoluzionaria marxista leninista, circa la mancata transizione al Comunismo in Urss, come in Cina.
Problemi questi, che se da un lato rafforzano il principio “il comunismo o é per tutti o per nessuno”, dall’altro sono una severa lezione storica circa idealistiche esaltazioni e opportunistici purismi di maniera, su cui il revisionismo e l’ultracriticismo piccolo-borghese trovano sempre spazio materiale per sofisticate discettazioni controrivoluzionarie.
Per quanto ci riguarda, rimandando in altra sede l’opportuno approfondimento, dobbiamo difendere e rafforzare il principio marxista che solo la concezione della necessità della dittatura del proletariato distingue realmente una politica proletaria, dalle mistificatorie e contorte elucubrazioni della borghesia e dei suoi alleati.
Il mondo é diviso in due grandi sistemi di relazioni imperialiste, che la crisi spinge al confronto diretto. La tendenza alla guerra imperialista é oggi la contraddizione dominante. E proprio la presenza di questi fattori pone all’ordine del giorno la possibilità della rivoluzione proletaria e il rinsaldarsi dei motivi di alleanza del proletariato internazionale con i popoli in lotta contro la schiavitù imperialista.
Lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalista, condiziona il carattere e la natura dei processi rivoluzionari. Nel senso che l’avvenuta esportazione in tutto il mondo del modo di produzione capitalistico, non conferisce di per sé carattere proletario dominante a tutti i processi rivoluzionari esistenti. Vogliamo dire, schematizzando, che la forma che essi assumono nei paesi industrializzati a forte componente proletaria e operaia é quella della rivoluzione per la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato; nei paesi dipendenti, la lotta rivoluzionaria si esprime soprattutto come rivoluzione democratica antimperialista, interessando anche componenti di borghesia progressista.
Generalizzazioni astratte, nel passato ci avevano portato ad affermare una già avvenuta polarizzazione dello scontro proletariato borghesia in tutto il pianeta come contraddizione dominante. Che questo in linea teorica sia già vero, dalla Comune di Parigi in poi, nulla toglie alla diversità di periodizzazione che, nelle diverse condizioni economiche e sociali, rendono ancora necessari, in gran parte del mondo, percorsi rivoluzionari che come prima tappa hanno la liberazione nazionale e la rivoluzione democratica.
L’ideologismo soggettivista, impedisce sia un’analisi corretta dell’imperialismo che un approfondimento delle tematiche dell’internazionalismo proletario; e questo ha portato la nostra Organizzazione a proposte politiche che finivano per rivolgersi esclusivamente a quelle forze combattenti che, in virtù del loro collocarsi nei paesi del centro imperialista, costituivano il nostro referente privilegiato. I principi di unità e di alleanza non debbono essere determinati geograficamente bensì su discriminanti politiche, che fanno di un progetto di fronte antimperialista cosa diversa dalla concezione dell’Internazionale Comunista.
Le Br per il Pcc lavorano oggi per contribuire a rinsaldare quel tessuto di solidarietà militante, confronto politico, unità e alleanza, contando sul fatto che la crisi della borghesia e la tendenza alla guerra, favoriscono come non mai la convergenza di interessi e l’alleanza del proletariato internazionale con i popoli, e le forze progressiste che in tutto il mondo lottano contro l’imperialismo.
Nel rispetto delle diversità ideologiche e nell’appoggio incondizionato a tutte le lotte progressiste d’emancipazione dei popoli, le Br puntano all’unità internazionale dei comunisti, componente d’avanguardia sia nei paesi del centro che in quelli della periferia, privilegiando, ovunque esistano, le forze rivoluzionarie organizzate sulla base del marxismo leninismo e che combattono per il socialismo.
La rivoluzione proletaria ha necessariamente carattere internazionalista. Ciò vuol dire che, se il dovere principale di ogni rivoluzionario é “fare la rivoluzione nel proprio paese” e “contare sulle proprie forze”, é altrettanto vero che la condizione per poter fare una rivoluzione é legata allo stato generale dei rapporti di forza tra borghesia imperialista e proletariato internazionale; all’acutizzarsi della crisi economica e politica dell’imperialismo dominante; nonché alle modificazioni che questo subisce in campo mondiale.
In questo senso va detto che, per l’acutezza delle sue contraddizioni e della crisi di sovrapproduzione della catena occidentale a dominanza Usa, é il nemico principale del proletariato internazionale e dei popoli del terzo mondo, perché più “vitali” sono i motivi che lo spingono al riarmo e ad una politica aggressiva in ogni parte del mondo. Ciò non deve portare a sottovalutare né il carattere né la natura del suo avversario, pensando di poter in qualche modo, furbescamente “usarlo” ai fini degli interessi della rivoluzione proletaria. La flessibilità dei comportamenti tattici o, per dirla con Lenin, dei compromessi, deve essere garantita dalla rigidità dei principi strategici, come unica garanzia per il raggiungimento dei nostri obiettivi. In politica le posizioni astratte di principio e le pregiudiziali ideologiche vanno bene per chi si accontenta dell’autogratificazione e sono tanto ridicole quanto inutili. In politica é necessario porsi degli obiettivi, perseguirli al massimo delle possibilità, tenendo conto “l’analisi concreta della situazione concreta” e i compiti strategici che quegli obiettivi rendono possibili.
Proponiamo una traccia di lavoro e di dibattito basato su:
1. Collocazione autenticamente internazionalista dell’attività dell’Organizzazione, costruita sull’alleanza e la solidarietà militante con tutti i popoli e le forze progressiste che nel mondo combattono contro l’imperialismo.
2. Lavorare alla costruzione dell’Internazionale Comunista sulla base di precise discriminanti:
- formazione marxista leninista della base ideologica e teorica;
- riconoscimento del carattere strategico della lotta armata per il comunismo, nella diversità di applicazione nelle diverse condizioni socio-politico-ideologiche;
c) ridefinizione, in base alle trasformazioni avvenute, del campo dei Partiti comunisti rivoluzionari, sia al potere che no.
Fonti: “Le parole scritte”
Un pensiero su “Un’importante battaglia politica nell’avanguardia rivoluzionaria italiana. Sviluppo della Prima posizione del settembre 1984”
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