L’altra metà della lotta armata

Vincenzo Scalia

11 marzo 2015

La sta­gione poli­tica degli anni set­tanta rap­pre­senta ancora oggi il con­vi­tato di pie­tra della poli­tica ita­liana. Per l’area della sini­stra radi­cale, gli errori, i fal­li­menti e le lace­ra­zioni di que­gli anni si con­no­tano come un trauma mai ela­bo­rato, che forse osta­cola più di ogni altro fat­tore lo svi­luppo di un nuovo movi­mento anta­go­ni­sta. Per l’area isti­tu­zio­nale, vice­versa, i cosid­detti «anni di piombo» si pon­gono ancora oggi come vera e pro­pria linfa rige­ne­ra­trice di una classe poli­tica esan­gue. Le recenti ispe­zioni in via Fani, la tre­pida attesa dell’estradizione di Cesare Bat­ti­sti, sono lì a dimo­strarlo.
Il libro di Paola Stac­cioli, Seb­ben che siamo donne (Deri­veap­prodi, pp.250, euro 16), tenta di supe­rare le rigi­dità e le cen­sure che cir­con­dano il tema. Adot­tando una pro­spet­tiva dia­cro­nica, che arriva ad inclu­dere anche vicende recenti, l’autrice si pone su un piano di ori­gi­na­lità, che si arti­cola in una plu­ra­lità di direzioni.

In primo luogo, sce­glie di nar­rare le vicende delle atti­vi­ste di orga­niz­za­zioni rivo­lu­zio­na­rie cadute nel corso della mili­tanza. Una scelta pre­gnante di signi­fi­cati pro­fondi, in quanto emer­gono le loro vicende esi­sten­ziali, che, come sot­to­li­nea l’autrice nelle pagine ini­ziali, scel­gono di sfi­dare gli uomini sul ter­reno della pra­tica rivo­lu­zio­na­ria. Ne emerge una nuova let­tura dell’impegno poli­tico, sce­vra sia dalla cor­re­la­zione tra impe­gno delle donne e movi­mento fem­mi­ni­sta, sia dal car­rie­ri­smo odierno, fil­trato da «Leo­polde» e «bunga bunga» a vario titolo.
La sog­get­ti­vità fem­mi­nile che le pagine ci resti­tui­scono è per­meata da un intrec­cio tra ten­sione indi­vi­duale e sen­si­bi­lità sociale radi­cal­mente diversa dalle logi­che da muc­chio sel­vag­gio che pre­va­le­vano tra la com­po­nente maschile, risul­tando in un agire impli­ci­ta­mente fem­mi­ni­sta, in quanto non subal­terno a logi­che di genere.

In secondo luogo, Paola Stac­cioli mostra di cono­scere e di uti­liz­zare sapien­te­mente le tec­ni­che let­te­ra­rie con­tem­po­ra­nee nella misura in cui ribalta il punto di vista della nar­ra­zione.
La let­tura domi­nante degli anni set­tanta, che riduce la lotta armata e il movi­mento anta­go­ni­sta ad un attacco cri­mi­nale allo Stato demo­cra­tico da parte di un pugno di fana­tici disa­dat­tati, perde ter­reno man mano che la nar­ra­zione incalza. I poli­ziotti spa­rano a san­gue freddo, anche davanti alle mani alzate in segno di resa. I giu­dici adot­tano stra­te­gie di inde­bo­li­mento e di repres­sione basate su un agire ves­sa­to­rio. Lo Stato non è tanto di diritto, ma gronda di legi­sla­zioni pre­miali, car­ceri spe­ciali, reparti spe­ciali, di fronte alle quali i corpi e gli ideali ritro­vano la loro fra­gi­lità e la loro fondatezza.

La scelta di nar­rare la lotta armata attra­verso le sto­rie indi­vi­duali, per­mette di rista­bi­lire i ter­mini della que­stione: si tratta di una vicenda col­let­tiva, che ha riguar­dato per­sone pro­ve­nienti da ogni strato sociale, di diverso grado di istru­zione, ani­mate da rab­bia e spe­ranza, mosse dalla presa di coscienza che le tra­sfor­ma­zioni capi­ta­li­sti­che sta­vano con­du­cendo ad una ristrut­tu­ra­zione col­let­tiva dell’impalcatura sociale, che avrebbe por­tato ad un peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita degli strati subal­terni. Le die­tro­lo­gie e le cacce alle stre­ghe su cui si sor­regge la let­tura domi­nante sul «ter­ro­ri­smo», escono for­te­mente inde­bo­lite da que­sto libro.

Infine, all’autrice va rico­no­sciuto un merito che, a sini­stra, non è del tutto scon­tato. Le sto­rie che emer­gono dal libro non riguar­dano mili­tanti di una spe­ci­fica orga­niz­za­zione piut­to­sto che un’altra. L’elemento fem­mi­nile, il carat­tere col­let­tivo delle vicende, si pon­gono come una pos­si­bi­lità di ricom­porre le frat­ture interne ai movi­menti sociali radi­cali. La repres­sione sta­tale, infatti, non ha eli­mi­nato, anzi, ha accen­tuato, le distin­zioni rela­tive alla pre­sunta purezza di un’organizzazione rispetto ad un altra, tra­smet­ten­dole ai giorni nostri.

Que­sto aspetto rap­pre­senta un nodo fon­da­men­tale per il futuro svi­luppo di movi­menti o gruppi che vogliono met­tere in discus­sione l’ordine sociale e poli­tico esi­stente. Una società divisa in classi, nota l’autrice, non potrà mai avere una memo­ria con­di­visa. Una tesi ovvia­mente con­di­vi­si­bile. Il pro­blema, tut­ta­via, si pone, in tutta la sua gra­vità, quando la memo­ria non viene con­di­visa tra chi ha lot­tato dalla stessa parte della bar­ri­cata e ha patito la stessa scon­fitta e i mede­simi soprusi. È pro­prio tra que­ste ferite che si insi­nuano e attec­chi­scono ras­se­gna­zione e riflusso. Sarebbe ora di comin­ciarlo a capire.

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